IL TRIBUNALE PER I MINORENNI
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  di remissione degli atti alla
 Corte costituzionale.
    Letti gli atti del procedimento penale n.  7/1994  g.  riguardante
 Stankovic  Beta,  nata  in  Zagabria  nell'anno  1975, domiciliata in
 Pescara  (zona   Stadio),   senza   fissa   dimora   imputata   della
 contravvenzione   di   cui  all'art.  707  del  c.p.,  poiche',  gia'
 condannata per delitti contro il  patrimonio,  veniva  colta  con  il
 possesso  di  strumenti  atti allo scasso. In Giulianova il 21 giugno
 1993.
                            FATTO E DIRITTO
    Con verbale di sequestro datato 21 giugno 1993, il comandante  del
 nucleo  operativo  della  compagnia  dei  carabinieri  di  Giulianova
 comunicava al procuratore della Repubblica  presso  questo  tribunale
 che  verso  le  ore 16 del 21 giugno 1993 alcuni carabinieri si erano
 recati presso la via G. Di Vittorio  di  Giulianova,  perche'  alcuni
 cittadini  avevano  segnalato la presenza di due ragazze dall'aspetto
 zigano  che  si  aggiravano nella zona, con atteggiamento sospetto. I
 carabinieri avevano rintracciato le due ragazze ed esse  erano  state
 invitate  a mostrare e consegnare tutti gli aspetti in loro possesso.
 Nell'occasione, una  delle  ragazze,  risultata  chiamarsi  Stankovic
 Beta, estrasse da sotto la gonna un cacciavite della lunghezza di cm.
 38, mentre l'altra ragazza un cacciavite di marca diversa. Poiche' le
 imputate  annoveravano,  fra  i  loro  precedenti,  reati  contro  il
 patrimonio, entrambe venivano  denunciate  all'autorita'  giudiziaria
 per il reato ascritto in rubrica.
    Con  decreto  datato  10  febbraio  1994,  il giudice dell'udienza
 preliminare disponeva il rinvio a giudizio di Stankovic Beta, innanzi
 a questo tribunale.
    Ritiene  il  collegio  che  debba  essere  sollevata  ex   officio
 eccezione  di  legittimita' costituzionale in ordine all'art. 707 del
 c.p., per il quale la Stankovic e' imputata, in quanto tale  articolo
 presenta  aspetti che appaiono contrastare con diversi articoli della
 Costituzione.
    La questione appare rilevante e non manifestamente  infondata:  la
 rilevanza  risiede  nella  considerazione  che dalla qualificazione o
 meno dell'art. 707 del c.p.,  come  costituzionale  o  meno,  dipende
 l'esito del processo nei confronti della Stankovic.
    Circa  la  non  manifesta  infondatezza della questione si osserva
 quanto segue.
    Il citato articlo e' stato sottoposto piu' volte al giudizio della
 Corte costituzionale, nel corso degli anni.
    Con la sentenza del 2 febbraio 1971, n. 14, la  Corte  decise  che
 esso  articolo doveva essere considerato incostituzionale nella parte
 in cui faceva richiamo alle condizioni personali  di  mendicita',  di
 ammonito,  di sottoposto a misure di sicurezza personale o a cauzione
 di buona condotta, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Con
 la medesima sentenza erano state  dichiarate  infondate  anche  altre
 questioni, come quella riguardante il rapporto dell'art. 707 del c.p.
 con  l'art.  3  della  Costituzione,  nel senso che la predetta norma
 ordinaria incriminava uno status e non una  condotta  in  riferimento
 all'art.  13  della  Costituzione. Essa, a dire dei giudici a quibus,
 avrebbe  violato,  invece,  i  principi  fondamentali   di   liberta'
 personale;  in  riferimento  agli  artt.  25  e 27 della Costituzione
 veniva disattesa la  teoria  di  coloro  che  vedevano  in  tal  caso
 frustrata  la  capacita'  rieducativa  della  pena, in quanto sarebbe
 stata prevista una pena per la semplice possibilita' di un  reato,  a
 prescindere  dall'accertamento  di  una  condotta  colpevole; infine,
 veniva disattesa l'opinione di chi  vedeva  ribaltato  l'onere  della
 prova  riguardo  alla  destinazione  o alla provenienza degli oggetti
 posseduti.
    Con la sentenza del 30 ottobre 1975, n. 236  la  Corte  dichiarava
 l'infondatezza  della questione di costituzionalita' dell'articolo de
 quo sollevata in riferimento agli artt. 25, comma secondo;  3,  comma
 primo,  24, comma secondo, 27, comma secondo, della Costituzione. Con
 la citata eccezione veniva lamentato, in sostanza, il  contrasto  con
 il  principio di necessaria tassativita' della fattispecie penale. La
 Corte stabili' che la norma conteneva  una  nozione  sufficientemente
 delimitata   della   fattispecie   e   rispondeva   a  ragionevolezza
 l'eventualita'  che  il  soggetto  contemplato  dalla  legge  potesse
 commettere  reato; la giustificazione del possesso era essa stessa un
 mezzo  di  difesa  cui  l'interessato  poteva  rinunciare serbando il
 silenzio, in ossequio alla facolta',  accordatagli  dalla  legge,  di
 tacere.
    Con le ordinanze 6 dicembre 1977, n. 146, 6 dicembre 1984, n. 270,
 26   gennaio   1990,   n.   36,  la  Corte  dichiarava  la  manifesta
 inammissibilita' o la manifesta infondatezza delle questioni proposte
 anche  perche'  queste  ultime  non  introducevano  nuovi   argomenti
 riguardo alla costituzionalita' o meno della norma.
    Questo  collegio  intende  sottoporre alla Corte costituzionale il
 giudizio di costituzionalita' dell'art. 707 del c.p. sotto un diverso
 e nuovo profilo: quello del contrasto con il principio di  necessaria
 offensivita' del reato.
    La  storia  del  diritto  penale  e'  stata  sempre dominata dalla
 dialettica fra due principi: il "principio di offensivita' del reato"
 e la concezione del reato come "mera violazione del dovere": l'uno di
 stampo  prettamente  oggettivo,   l'altro   di   schietto   carattere
 soggettivo.  Il primo e' stato il principio che nella sua assolutezza
 ha regolato, e spesso regola ancora, il  diritto  penale  dei  popoli
 barbarici  o  comunque  meno  evoluti:  in  base ad esso viene punita
 l'offesa al  bene  protetto  a  prescindere  dall'intenzione  o  meno
 dell'agente;  il secondo, invece, nella sua estremizzazione, e' stato
 posto    alla     base     di     diritti     penali     a     sfondo
 soggettivistico-sintomatici,   per   cui   il  reato  e'  soprattutto
 violazione delle  norme  morali,  a  prescindere  dal  fatto  che  il
 bene-interesse protetto dalla norma abbia subito o meno una lesione o
 quantomeno  un  pericolo  di  lesione:  esso e' stato posto alla base
 dell'Inquisizione, che identificava il reato con il peccato,  che  si
 puo' commettere anche con il pensiero.
    Fra  questi due opposti poli concettuali un diritto penale moderno
 deve ricercare  una  sintesi:  infatti,  tutte  le  legislazioni  dei
 diritti  penali  dei  paesi  piu'  evoluti cercano di contemperare la
 migliori esigenze di cui si fanno portatori  i  sostenitori  dei  due
 principi.
    Per  il  principio  di  offensivita',  il reato deve estrinsecarsi
 anche nell'offesa o quantomeno nella messa in  pericolo  di  un  bene
 giuridico, in quanto non e' concepibile un reato senza offesa: nullum
 crimen sine iniuria.
    Esso presuppone ed integra il principio di materialita' del fatto:
 mentre   questo   garantisce   contro   le   incriminazioni  di  meri
 atteggiamenti interni, il principio di offensivita' garantisce contro
 la incriminazione  di  fatti  materiali  non  offensivi  e  funge  da
 ulteriore  delimitazione  dell'illecito  penale.  Secondo le dottrine
 piu' avanzate il principio di offensivita' trova  il  suo  fondamento
 nella  Costituzione.    Quest'ultima, accogliendo il citato principio
 accanto  a  quello  di  legalita'  formale,  ha  cosi'   dato   rango
 costituzionale ad una nozione di reato come illecito tipico, alla cui
 tipicita'  appartiene,  assieme  agli  altri  requisiti  di struttura
 (condotta, evento, nesso di causalita'),  anche  il  requisito  della
 "offesa  del  bene  tutelato".  Se in difetto anche di uno solo degli
 altri elementi di struttura il reato non  viene  in  essere,  pur  se
 offensivo del bene protetto, senza l'offesa il fatto non e' reato pur
 in  presenza dei citati elementi oggettivi e soggettivi, in quanto in
 tali ipotesi manca la tipicita'.
    La   categoria   del  bene  giuridico  e'  sorta  nel  secolo  XIX
 nell'ambito delle ideologie di stampo  liberale  e  come  ampliamento
 della  originaria  concezione  garantista  del  reato  come offesa al
 "diritto soggettivo". Muovendo da premesse giusnaturalistiche di tipo
 contrattualistico,  essa  si  pose  come  limite  alla  liberta'  del
 legislatore, circoscrivendo la cerchia dei fatti meritevoli di pena a
 quelli  effettivamente  dannosi  per  la  coesistenza  sociale, cioe'
 offensivi, in senso generale, di entita' "reali"  (empirico-naturali)
 del  mondo  esterno.  Solo  in quanto assunto come entita' materiale,
 preesistente al diritto positivo (che la norma  penale  trova  e  non
 crea),  il  bene giuridico puo' costituire un vincolo all'attivita' e
 all'arbitrio del potere legislativo.
    La costituzionalizzazione del principio nullum crimen sine iniuria
 viene desunta innanzitutto da vari argomenti. Da un  punto  di  vista
 generale,  si  osserva che in una Costituzione a base personalistica,
 come quella italiana, dove l'intenzione del Costituente e' incentrata
 sui diritti fondamentali del cittadino (sia pur temperati dai diversi
 doveri di socialita',  di  volta  in  volta  imposti:  art.  2  della
 Costituzione,  art.  4, secondo comma, della Costituzione, ecc.) ogni
 diritto costituzionalmente garantito puo' subire limitazioni solo  in
 presenza    della   necessita'   di   tutela   di   un   altro   bene
 costituzionalmente  garantito:  quindi  il  principio   generale   di
 liberta',  garantito in via generale dall'art. 13 della Costituzione,
 non puo' essere limitato dalla sanzione penale che  non  sia  imposta
 dall'esigenza  di tutela di un concreto interesse, anch'esso di rango
 costituzionale (es.: l'integrita' fisica, la proprieta', ecc.).  Ogni
 vulnus al citato principio si trasforma in una violazione dell'art. 3
 della Costituzione.
    Da  un  punto  di  vista formale, la costituzionalizzazione emerge
 dagli artt. 25 e 27 della Costituzione, che  distinguono,  assegnando
 funzioni diverse, la pena dalle misure di sicurezza: tale distinzione
 sarebbe  logicamente  incompatibile  con  l'incrinazione dei fatti di
 mera disubbidienza, in  quanto  in  tal  caso  ci  si  troverebbe  in
 presenza  di  una  semplice funzione preventiva della pena, diretta a
 colpire la mera  pericolosita'  dell'agente  e  che  frustrerebbe  le
 funzioni  proprie  delle misure di sicurezza. Inoltre, poiche' l'art.
 27 della Costituzione prevede una sia pur  tendenziale  rieducazione,
 in  quanto  si  applichi la sanzione ad un intero "fatto criminoso" e
 non ad una mera disubbidienza, attraverso  la  punizione  della  sola
 condotta  nel  suo  valore  sintomatico,  si  rischierebbe  di punire
 l'autore soltanto per il suo comportamento antidoveroso.
    Altro argomento che e' possibile portare  a  sostegno  della  tesi
 della  ricorrenza del principio de quo e' quello di ordine letterale,
 relativo  all'uso  del  termine  "fatto",  operato  dal   costituente
 nell'art. 25 della Costituzione: la presenza di tale termine e' stata
 invocata  per  la  ricorrenza  del principio di materialita', ma puo'
 essere riferita anche al principio di offensivita',  per  le  ragioni
 appena esposte.
    Il  principio  di  offensivita', oltre che corollario del generale
 principio del neminem laedere (e quindi del principio  di  necessaria
 materialita'  del  reato), costituisce il fulcro di un diritto penale
 non totalitario: esso puo' subire deroghe per  la  prevenzione  della
 lesione  a  beni  primari,  individuali e istituzionali, dovendosi la
 "razionalita'" dei principi contemperarsi  con  la  necessita'  della
 prevenzione  generale,  principio questo che trova anch'esso tutela a
 livello  costituzionale. Pertanto, il problema non e' tanto negare le
 deroghe, quanto stabilirne la misura: con la  consapevolezza,  ad  un
 tempo,  della  loro  tendenziale  eccezionalita',  ma anche della non
 necessaria  incostituzionalita'  di  quei  reati  (di  pericolo   non
 concreto,  ostantivi, a tutela di funzioni) che irrinunciabili per la
 tutela di beni primari individuali ed istituzionali.
    Il diritto penale moderno, a differenza di quanto avveniva in  una
 visione  rozzamente  oggettivistica  del  diritto  penale,  prende in
 considerazione non solo i risultati lesivi  della  condotta,  che  si
 sono  verificati, ma anche i risultati lesivi che potevano derivarne.
 La conservazione dei beni giuridici  rende,  infatti,  opportuna  una
 tutela  piu'  avanzata, anche contro cioe' la loro messa in pericolo,
 con conseguente spostamento in avanti della  soglia  di  punibilita'.
 L'offesa  al  bene  giuridico  puo',  percio', considerare: 1) in una
 "lesione", che  si  concreta  in  un  nocumento  effettivo  del  bene
 protetto,   che   viene  distrutto  o  diminuito  (ad  es.:  la  vita
 nell'omicidio, etc); 2) in una "messa in pericolo", che  si  concreta
 in  un  nocumento  potenziale del bene, che viene soltanto minacciato
 (ad es.: la  vita  del  Presidente  della  Repubblica  nel  reato  di
 attentato allo stesso, etc).
   I reati di offesa abbracciano pertanto: a) i reati di danno, per la
 sussistenza  dei  quali  e'  necessario  che  il  bene  tutelato  sia
 distrutto o diminuito; b) i reati di pericolo,  per  i  quali  basta,
 invece,  che  il  bene sia stato minacciato. Nell'ambito dei reati di
 pericolo  bisogna  ancora  distinguere  fra:  1)  reati  di  pericolo
 concreto,  per  l'esistenza  dei  quali  e'  necessario accertare, in
 ciascun caso, se il bene protetto sia stato effettivamente minacciato
 (ad es.: strage art. 422 del c.p.); 2) reati  di  pericolo  presunto,
 che   consistono   semplicemente   in   fatti  che,  a  giudizio  del
 legislatore,  sono  pericolosi  juris  et  de  jure,  per  la  stessa
 realizzazione  del  fatto  (ad  es.: incendio, art. 423 del c.p.): in
 tali casi, il pericolo non assurge ad elemento costitutivo del  reato
 e non e' ammessa la prova contraria della sua effettiva esistenza; il
 reato sussiste anche se il pericolo non si e' verificato in concreto.
 Per comprendere la funzione garantistico-politica dell'offesa occorre
 ancora  distinguere  fra  reati  di  offesa a reati senza offesa o di
 scopo: nei primi l'offesa e' elemento costitutivo (ad es.: artt. 594,
 595, 341 ss, 640 del c.p., etc.); con  i  secondi  non  si  incrimina
 l'offesa   ad  un  bene  giuridico,  ma  la  realizzazione  di  certe
 situazioni che lo Stato ha interesse a che non si realizzano:  mentre
 nei  reati della prima categoria vi e' sempre l'offesa, anche se allo
 stadio della sola messa in pericolo dell'oggetto giuridico, nei reati
 della seconda specie manca proprio l'oggetto giuridico; in tali casi,
 vi e'  l'interesse  dello  Stato  alla  non  realizzazione  di  certe
 condotte   criminose;  tuttavia,  esso  interesse  non  e'  l'oggetto
 giuridico del reato, ma lo scopo dell'incriminazione. La lesione  del
 citato  interesse  protetto dalla norma coincide con la realizzazione
 della condotta criminosa.
    L'interpretazione sub specie  del  principio  nullum  crimen  sine
 iniuria delle fattispecie penali importa una rivisitazione, a livello
 costituzionale,  di molte norme: la rivalutazione del reato alla luce
 del principio  di  offensivita'  offre  la  situazione  corretta  per
 valutare  quei  reati  che per loro natura non sono interpretabili in
 chiave di offesa e restano pertanto reati senza offese.  Fra  questi,
 alla  luce  delle  considerazioni svolte, possono essere annoverati i
 citati reati di pericolo presunto: punire per  un  pericolo  presunto
 la'  dove nessun pericolo manifestamente non esiste, come nel caso di
 incendio di cosa altrui non pericoloso per l'incolumita' pubblica, si
 giustifica solo in una visione formalistica del  reato,  inteso  come
 violazione di puro dovere di disobbedienza alle norme statali.
    Il  pericolo  concreto  o  al  piu'  presunto, ma in comportamenti
 generalmente  pericolosi,  come  nel  caso  dei  c.d.  delitti  senza
 vittime,  segna  il  limite  estremo  del diritto penale dell'offesa:
 oltre,  si  apre  la  strada  ad  un  diritto  penale  sintomatico  o
 preventivo,  su  cui  si  collocano  i c.d. reati di sospetto. Questi
 ultimi consistono in comportamenti, in se' ne' lesivi ne'  pericolosi
 di  alcun interesse, ma che lasciano presumere l'avvenuta commissione
 non accertata o la futura commissione di  reati.  Fra  di  essi  deve
 essere  annoverato  l'articolo  de  quo  agitur, come affermato ormai
 dalla quasi totalita' della dottrina.
    Esso  articolo  non  contrasta,  a  rigore  con  il  principio  di
 materialita',  in quanto non e' privo di una condotta esteriore e non
 colpisce un mero stato personale o una mera intenzione, come e' stato
 in sostanza affermato dalla Corte costituzionale nella giurisprudenza
 innanzi citata, bensi' un fatto materiale, come il possesso di chiavi
 false o grimaldelli. Questa condotta  pero'  non  viene  punita  come
 tale,  bensi'  soltanto  come  "indiziante", anche in connessione con
 determinate  condizioni  personali  di  reati  non  accertati  o   da
 compiere,  come  il  furto  con  scasso:  in mancanza di una probatio
 liberatoria piena, per  ragioni  anche  da  lei  non  dipendenti,  la
 Stankovic  verrebbe punita, in definitiva, per un supposto piu' grave
 reato anche  se  non  lo  ha  commesso  o  non  aveva  intenzione  di
 commetterlo.  La Stankovic potrebbe essere condannata anche se avesse
 avuto soltanto intenzione di servirsi dei cacciavite sequestrati  per
 riparare  un  ciclomotore  e pur in presenza nel legittimo diritto di
 avvalersi della facolta' di non rispondere  alle  domande,  circa  la
 destinazione degli arnesi stessi.
    Fra  l'altro,  in sede di progetto di riforma del codice penale e'
 stata proposta l'abrogazione dell'art. 707  del  c.p.  (v.  Documenti
 Giustizia n. 3/1993, 461).
    Per  i sopraesposti motivi, questo Collegio ritiene che l'art. 707
 del c.p. contrasti con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione e  con
 tutti  quegli  articoli  ritenuti  illegittimi,  a  parere di codesta
 Corte, nel corso del giudizio di costituzionalita'.