ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2, commi 1 e  2,
 e   dell'art.  1,  comma  6,  della  legge  8  agosto  1991,  n.  265
 (Disposizioni in materia di trattamento economico e di quiescenza del
 personale  di  magistratura  ed  equiparato),  promossi  con  quattro
 ordinanze  emesse il 2 febbraio 1994 e il 21 ottobre 1993 dalla Corte
 dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione  Siciliana,  il  14
 febbraio  1994  dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la
 Regione Lazio e il 27 aprile 1994  dalla  Corte  dei  conti,  Sezione
 giurisdizionale per la Regione Siciliana, iscritte rispettivamente ai
 nn.  359,  360,  710  e  722 del registro ordinanze 1994 e pubblicate
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.  26,  49  e  50,  prima
 serie speciale, dell'anno 1994;
    Visti  gli atti di costituzione di Sergio Pochettino e di Vincenzo
 Biagini, nonche' gli atti di intervento del Presidente del  Consiglio
 dei ministri;
    Udito  nell'udienza pubblica del 2 maggio 1995 il Giudice relatore
 Massimo Vari;
    Uditi gli avvocati Giovanni Vanin per Sergio  Pochettino,  Tommaso
 Palermo per Vincenzo Biagini e l'avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro
 per il Presidente del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  La  Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione
 Siciliana, con ordinanza 2 febbraio 1994 (r.o. n. 359 del  1994),  ha
 sollevato,  in riferimento all'art. 136 della Costituzione, questione
 di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 1,  della  legge  8
 agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento economico
 e di quiescenza del personale di magistratura ed equiparato).
    L'ordinanza  e'  stata emessa nel corso di un giudizio promosso da
 Matteo Ferrante, magistrato in pensione e Maria Manganaro, vedova del
 dott. Calabro', anch'egli magistrato in pensione, che  chiedevano  il
 riconoscimento   del   trattamento  pensionistico  sulla  base  della
 retribuzione spettante a magistrati, procuratori  ed  avvocati  dello
 Stato  in  servizio,  assumendo  come parametro non gia' lo stipendio
 vigente nel 1983, ma lo stipendio tabellare con tutti gli adeguamenti
 intervenuti sino al 1› gennaio 1988, data della riliquidazione  della
 loro   pensione;  con  richiesta,  altresi',  da  parte  di  uno  dei
 ricorrenti, dell'adeguamento anche per gli anni successivi al 1988.
    Il remittente rammenta, anzitutto, che  la  Corte  costituzionale,
 con  sentenza  n.  501 del 1988, ha dichiarato l'illegittimita' degli
 artt. 1, 3, primo comma, e 6 della legge  17  aprile  1985,  n.  141,
 nella  parte  in  cui  non  veniva  disposta, a favore dei magistrati
 collocati a riposo anteriormente al 1› luglio 1983, la riliquidazione
 della  pensione  sulla  base  del  trattamento  economico   derivante
 dall'applicazione  degli  artt.  3  e 4 della legge 6 agosto 1984, n.
 425, con decorrenza dal 1› gennaio 1988.
    Rileva, altresi', che, in applicazione della sentenza  stessa,  la
 Corte  dei conti, con molteplici pronunzie, ha riconosciuto in favore
 dei ricorrenti il diritto alla riliquidazione delle pensioni, con  la
 detta  decorrenza  dal  1›  gennaio  1988, sulla base del trattamento
 stipendiale conseguente all'applicazione delle tabelle della legge n.
 27 del 1981 e degli adeguamenti periodici di  cui  all'art.  2  della
 stessa legge, con i benefici degli artt. 3 e 4 della legge n. 425 del
 1984  e  con  il  diritto  alle successive riliquidazioni automatiche
 (c.d. "proiezione nel futuro" del  meccanismo  di  adeguamento  delle
 pensioni).
    Nel  frattempo,  tuttavia,  e' entrata in vigore la legge 8 agosto
 1991,  n.  265,  la  quale,  all'art.  2,  comma  1,  esclude   dalla
 riliquidazione,  al  1›  gennaio  1988,  delle  pensioni spettanti ai
 magistrati collocati a riposo anteriormente al 1›  luglio  1983,  gli
 adeguamenti  periodici  di cui all'art. 2 della legge n. 27 del 1981.
 Rilevata la discriminazione che ne consegue fra quei ricorrenti per i
 quali  il  giudice  di  merito si era gia' pronunciato e quelli per i
 quali la causa non era ancora stata posta in  decisione,  l'ordinanza
 rammenta  che  la  Corte,  con  sentenza  n.  42  del  1993,  ha gia'
 dichiarato inammissibile la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art.  2, commi 1 e 2, della legge n.  265 del 1991, sollevata in
 relazione agli artt. 3, 36, 38 e 136 della Costituzione.
    Cio' nonostante, il remittente ritiene di riproporre la  questione
 di  costituzionalita'  del predetto comma 1 dell'art. 2, segnatamente
 sotto il profilo della violazione dell'art. 136  della  Costituzione,
 "non  avendo  la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 42 del
 1993 trattato direttamente detto profilo  ritenendolo  verosimilmente
 assorbito   nella  piu'  generale  affermazione  di  esercizio  della
 discrezionalita' da parte del legislatore nella materia de qua".
    Secondo il giudice a quo, l'applicazione al  caso  concreto  della
 sentenza  n.  501 del 1988 della Corte costituzionale consegue ad una
 attivita'  interpretativa   che   l'ordinamento   giuridico   demanda
 esclusivamente al giudice di merito, non consentendo l'art. 136 della
 Costituzione   un   qualsiasi  intervento  del  legislatore,  la  cui
 attivita'  sarebbe  viziata  da  carenza   assoluta   di   competenza
 legislativa.
    Il  contrasto  della  norma  denunciata  con  l'art.  136  sarebbe
 maggiormente significativo nel caso di specie,  dal  momento  che  la
 stessa   norma  "si  pone  in  conflitto  sia  con  la  pronuncia  di
 incostituzionalita', sia con la costante interpretazione del  giudice
 di  merito  attraverso  una sostanziale riproduzione della disciplina
 dichiarata costituzionalmente illegittima, avente  efficacia  per  il
 periodo gia' trascorso".
    2.  - La stessa Sezione giurisdizionale - nel corso di un giudizio
 instaurato da Giuseppe Tristano, magistrato della  Corte  dei  conti,
 che  aveva  impugnato  l'atto  amministrativo  con  il  quale  si era
 proceduto alla riliquidazione del suo trattamento pensionistico - ha,
 con ordinanza 21 ottobre 1993 (r.o. n. 360 del 1994),  sollevato,  in
 riferimento, rispettivamente, agli artt. 136 e 24 della Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2, comma 1, e 1,
 comma 6, della legge n. 265 del 1991.
    Il  giudice remittente premette che, con precedenti pronunce della
 Corte dei conti, era stato riconosciuto all'interessato, cessato  dal
 servizio  in  data 13 gennaio 1985, il diritto al computo, nella base
 pensionabile,  degli  importi  per  classi  di  stipendio  e  aumenti
 biennali  comunque  maturati nella posizione di provenienza, ai sensi
 dell'art.  5  della  legge  n.  425  del  1984  e  il  diritto   alla
 riliquidazione  della  pensione,  a  decorrere  dal  1› gennaio 1988,
 secondo le misure stipendiali vigenti a tale data per il personale in
 servizio, nonche' il diritto a conseguire in futuro  gli  adeguamenti
 triennali  previsti  per tale personale dall'art. 2 della legge n. 27
 del 1981.  Per  effetto  delle  disposizioni  censurate  il  predetto
 trattamento  viene  trasformato  in  assegno  personale,  destinato a
 precludere al  pensionato  l'attribuzione  dei  futuri  miglioramenti
 economici fino al riassorbimento.
    Il remittente e', peraltro, dell'avviso che le disposizioni di cui
 all'art.  2,  comma  1,  e  all'art. 1, comma 6, della legge 8 agosto
 1991, n. 265, siano in contrasto, rispettivamente, con gli artt.  136
 e 24 della Costituzione.
    Quanto  alla  prima  disposizione,  rilevato che essa e' diretta a
 disciplinare  soltanto  gli  effetti  gia'  prodottisi  nella   sfera
 giuridica  degli  interessati  (tant'e' che e' destinata al personale
 cessato prima del 1› luglio 1983)  a  seguito  della  sentenza  della
 Corte  costituzionale  n.  501  del  1988,  l'ordinanza rileva che la
 stessa Sezione aveva posto nel corso di altro  giudizio  la  medesima
 questione  "in  relazione, pero', anche all'assetto futuro e non solo
 passato del rapporto pensionistico" e che la Corte non ha  affrontato
 "direttamente"   quest'ultima   questione  ritenendola  probabilmente
 assorbita nell'ambito dell'affermazione di carattere  generale  circa
 la  sussistenza nella materia della discrezionalita' del legislatore.
 Il remittente ritiene che, se  rientra  nel  potere  del  legislatore
 dettare  una  diversa disciplina per il tempo posteriore a quello cui
 fa riferimento la sentenza della Corte costituzionale, non spetta "al
 legislatore  interpretare  o  comunque  disporre,  anche  con   norme
 formalmente  autonome  e indipendenti dalla pronuncia costituzionale,
 in ordine agli effetti che derivano direttamente dalle decisioni  del
 giudice delle leggi", dal momento che questo compito e' "riservato al
 giudice di merito".
    Percio',   "la  norma  denunciata,  anche  quando  dovesse  essere
 perfettamente in linea con il contenuto della sentenza" che  pretende
 di  interpretare o applicare, sarebbe "viziata da assoluta carenza di
 competenza legislativa".
    A proposito, poi, dell'art. 1,  comma  6,  il  giudice  remittente
 premette  che  la  legge n. 265 del 1991 e' intervenuta quando si era
 ormai formata sulla materia una serie di pronunce giudiziali  passate
 in  giudicato  e  quando la norma autenticamente interpretata - ci si
 riferisce, in particolare, all'art. 5 della legge n.  425  del  1984,
 ma,  precisa  l'ordinanza,  lo  stesso  discorso  vale  anche  per la
 sentenza n. 501 del 1988 - aveva ricevuto attuazione da  parte  delle
 competenti amministrazioni.
    Sarebbe  percio'  evidente  che  il legislatore ha inteso togliere
 effetti,  almeno  parziali,  ed   efficacia   alle   decisioni   gia'
 definitivamente assunte tanto in sede giudiziaria che amministrativa,
 impedendo   al   ricorrente,   in   violazione   dell'art.  24  della
 Costituzione, di fruire a titolo di trattamento di  quiescenza  delle
 maggiori  somme  attribuitegli  con  decisione della stessa Corte dei
 conti, passata in giudicato.
    3. - Nel corso di un giudizio, promosso da  Sergio  Pochettino  ed
 altri  -  tutti  magistrati  che  richiedevano  la  "perequazione del
 trattamento di quiescenza in godimento  sulla  base  del  trattamento
 economico  dei  magistrati  di pari qualifica in servizio" - la Corte
 dei  conti,  Sezione  giurisdizionale  per  la  Regione  Lazio,   con
 ordinanza  del  14 febbraio 1994 (r.o. n. 710 del 1994), ha anch'essa
 sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38  della  Costituzione,
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 2 della legge n.
 265 del 1991.
    La Corte remittente - nel rammentare che la  sentenza  n.  42  del
 1993 non ha escluso un nuovo intervento del giudice costituzionale in
 caso  di  rinnovata  divergenza  fra  le  pensioni  dei  magistrati e
 l'andamento delle retribuzioni, che superasse un ragionevole rapporto
 di corrispondenza, sia pure tendenziale ed imperfetto -  ritiene  che
 la  attuale  situazione delle posizioni pensionistiche dei magistrati
 ricorrenti   debba   essere   sottoposta   al   vaglio   della  Corte
 costituzionale, "proprio per il pesante divario" che ormai separa  il
 trattamento  oggi fruito dai magistrati in servizio di pari qualifica
 dalle pensioni di quelli collocati in quiescenza da  alcuni  anni  ed
 anche  per  la  rilevante disparita' di situazioni che si e' venuta a
 creare tra magistrati in posizioni analoghe.
    Nel riportare i dati quantitativi che comproverebbero la lamentata
 divaricazione, dovuta al piu' rapido dinamismo economico,  in  favore
 del  solo  personale  in servizio, provocato dalle disposizioni della
 legge n. 425 del 1984, che, peraltro, non hanno introdotto  modifiche
 negli  elementi  del  rapporto di impiego dei magistrati, l'ordinanza
 osserva che, avendo la legge n.  265  del  1991  escluso  che,  nella
 riliquidazione  delle  pensioni al primo gennaio 1988, si possa tener
 conto degli aumenti conseguiti fino a  tale  data  dal  personale  in
 servizio,   "i   magistrati   in  pensione  sono  oggi  privi  di  un
 qualsivoglia meccanismo di adeguamento delle pensioni nel  corso  del
 tempo",  essendo stati travolti "i principi dell'adeguamento costante
 delle pensioni al trattamento di  attivita'  e  dell'eguaglianza  del
 trattamento  di  quiescenza  a parita' di servizi prestati e funzioni
 esercitate". Nella presente situazione delle pensioni dei magistrati,
 non  sarebbe  dato  percio'  "individuare  piu'  l'esercizio  di  una
 discrezionalita'  legislativa  nell'attuare  -  sia  pur variamente -
 l'adeguamento  costante  tra   i   due   tronconi   del   trattamento
 retributivo",  bensi'  "una completa negazione di quel principio e di
 quella 'solidarieta''  tra  lavoratori  e  pensionati,  cui  si  deve
 affiancare una solidarieta' piu' ampia dell'intera collettivita'".
   Il  notevole  divario attualmente sussistente tra il trattamento di
 attivita' e il trattamento di pensione, quest'ultimo  cosi'  come  e'
 regolato  dalla legge n. 265 del 1991, renderebbe percio', rilevante,
 secondo il giudice a quo, la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 2 della legge 8 agosto 1991, n. 265,  in  riferimento  agli
 artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.
    4.  -  Infine,  con un'altra ordinanza del 27 aprile 1994 (r.o. n.
 722 del 1994), emessa nel corso di un giudizio instaurato da Vincenzo
 Faraci, magistrato collocato in quiescenza dal  23  agosto  1985  che
 richiedeva  la  riliquidazione  del  suo  trattamento  pensionistico,
 assumendo come parametro non gia' lo stipendio vigente nel  1983,  ma
 quello  tabellare  con tutti gli adeguamenti fino al 1› gennaio 1988,
 come pure per gli  anni  successivi,  la  Corte  dei  conti,  Sezione
 giurisdizionale per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento
 all'art.  136  della  Costituzione,  questione  di  costituzionalita'
 dell'art. 2, comma 2, della legge n. 265 del  1991,  riproponendo  le
 argomentazioni esposte nella precedente ordinanza del 2 febbraio 1994
 (r.o. n. 359 del 1994).
    5. - In tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
 Stato,  chiedendo  che  le  questioni  sollevate   siano   dichiarate
 infondate.
    Negli   atti   di  intervento,  aventi  tutti  analogo  contenuto,
 depositati  per  i  giudizi  di  cui  alle  ordinanze  della  Sezione
 giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Siciliana del 25
 febbraio  1994  (r.o. n. 359 del 1994) e del 21 ottobre 1993 (r.o. n.
 360 del 1994) nonche'  all'ordinanza  della  Sezione  giurisdizionale
 della stessa Corte per la Regione Lazio del 14 febbraio 1994 (r.o. n.
 710  del 1994), l'Avvocatura, richiamata la sentenza n. 501 del 1988,
 osserva che la Corte costituzionale, se, da un lato, ha affermato  la
 garanzia    dell'adeguamento   del   trattamento   pensionistico   al
 trattamento  economico  del  personale  in  servizio,  dall'altro  ha
 riconosciuto  il  potere  del  legislatore  di  graduare le misure di
 adeguamento secondo propri parametri di ragionevolezza  e  quindi  di
 discrezionalita'.  Richiamando  anche l'ordinanza n. 95 del 1991 e la
 sentenza n. 42 del 1993, l'Avvocatura sostiene che da  tali  pronunce
 deriva  la  infondatezza  della questione di legittimita' dell'art. 2
 della legge n. 265 del 1991, che puo' ben  ritenersi  una  misura  di
 parziale  implementazione del trattamento nei sensi sopra illustrati,
 da parte del legislatore "in capo al quale  sussisterebbe,  in  forza
 della sentenza n. 501 del 1988 un mero vincolo 'di principio'".
    Nell'atto   di  intervento  depositato  per  il  giudizio  di  cui
 all'ordinanza della Sezione giurisdizionale per la Regione  Siciliana
 del  27  aprile  1994  (r.o.  n.  722 del 1994), nonche' in altre due
 memorie del 7 luglio del 1994 e dell'8 luglio 1994 (depositate per  i
 gia'  richiamati  giudizi di cui al r.o. n. 359 del 1994 e al r.o. n.
 360 del 1994), l'Avvocatura ribadisce la tesi dell'infondatezza della
 questione  di  legittimita'  del  predetto  art.  2,  in  riferimento
 all'art. 136 della Costituzione, non essendo dato, infatti, ravvisare
 "eccesso  di  potere  legislativo la' dove si dettino norme meramente
 esecutive o comunque in  linea  con  l'orientamento  manifestato  dal
 giudice  costituzionale".  Quanto  all'art.  24  della  Costituzione,
 invocato in rapporto alla disposizione di cui all'art.  1,  comma  6,
 della  legge n. 265 del 1991, si rammenta che la giurisprudenza della
 Corte ha  affermato  la  legittimita'  di  norme  retroattive,  anche
 indipendentemente  dal  loro  eventuale carattere interpretativo, nei
 limiti del rispetto del principio di ragionevolezza e purche' non  si
 pongano   in   contrasto   con   principi   o  valori  costituzionali
 specificamente protetti ovvero con precedenti giudicati.
    6. - Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite  le  parti
 private Vincenzo Biagini e Sergio Pochettino, ricorrenti nel giudizio
 pendente  innanzi  alla  Sezione  giurisdizionale  per il Lazio della
 Corte dei conti.
    Nella  memoria  depositata,  la  difesa  del  Biagini,  dopo  aver
 sottolineato  il divario sussistente tra il trattamento economico dei
 magistrati in servizio e di quelli collocati in  quiescenza,  osserva
 che  la  sentenza  n.  42  del  1993  della  Corte costituzionale "ha
 ritenuto censurabile il  potere  discrezionale  del  legislatore,  in
 presenza   di  una  non  ragionevole  divaricazione  tra  pensione  e
 retribuzione, contrastante con gli artt. 3 e 36 della Costituzione".
    La parte rammenta anche che, in sede di approvazione  della  legge
 n.   265   del  1991,  le  Commissioni  riunite  giustizia  e  affari
 costituzionali della Camera rilevarono  l'insufficienza  della  legge
 medesima,  ai  fini  della  risoluzione  delle  questioni poste dalla
 disparita' di trattamento tra i magistrati in servizio  e  quelli  in
 pensione.
    Infine,  nel  ribadire  le  censure  prospettate nell'ordinanza di
 rimessione,  afferma  che   la   disposizione   impugnata   impedisce
 l'applicazione   della   sentenza   n.   501  del  1988  della  Corte
 costituzionale,  "ripristinando  una  normativa   con   cui   vengono
 perseguiti  esiti  corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della
 Costituzione",  atteso  che,  con  detta   decisione,   fu   espressa
 l'esigenza,  in conformita' agli artt. 3 e 36 della Costituzione, del
 "costante adeguamento del trattamento di quiescenza dei magistrati  e
 categorie  assimilate alle retribuzioni del personale in attivita' di
 servizio".
    Rilevato, poi, che "la mancata inclusione dell'art. 2 della  legge
 n.  27  del  1981,  nel  meccanismo  di  riliquidazione,  nonche'  la
 limitazione della sua applicazione ai magistrati collocati  a  riposo
 anteriormente   al   1›  luglio  1983"  ostacola  ogni  raccordo  tra
 evoluzione degli stipendi ed evoluzione  delle  pensioni,  si  assume
 che,  a parita' di qualifica ed anzianita' tra magistrati e categorie
 assimilate,   deve   essere   corrisposta   la    stessa    pensione,
 indipendentemente dall'anno di collocamento in pensione.
    Nella  memoria  depositata  dalla difesa di Sergio Pochettino, pur
 riconoscendosi che la questione sollevata e' la medesima che e' stata
 gia' decisa dalla Corte con la sentenza n. 42 del  1993,  si  insiste
 sul  rilevante  aggravamento  della  divaricazione  tra i trattamenti
 economici dei magistrati in servizio e in quiescenza e si ribadiscono
 le censure prospettate nell'ordinanza.
                        Considerato in diritto
    1. - Le ordinanze in epigrafe  investono  sotto  vari  profili  la
 legge  8  agosto 1991, n. 265 (Disposizioni in materia di trattamento
 economico  e  di  quiescenza  del  personale   di   magistratura   ed
 equiparato), chiamando la Corte a stabilire:
       a) se l'art. 2, commi 1 e 2, della legge stessa, nell'escludere
 dalla  riliquidazione  delle  pensioni  dei  magistrati  e  categorie
 equiparate gli adeguamenti previsti  per  il  personale  in  servizio
 dall'art.  2  della  legge  19 febbraio 1981, n. 27, violi l'art. 136
 della Costituzione, per aver  disatteso  il  giudicato  di  cui  alla
 sentenza  della Corte costituzionale n. 501 del 1988 (ordinanze della
 Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, di
 cui al r.o. nn. 359, 360 e 722 del 1994);
       b) se l'art. 1, comma 6, della medesima legge, nel  trasformare
 in   assegno   personale   riassorbibile   i  benefici  pensionistici
 conseguiti in applicazione dell'art. 5 della legge n. 425 del 1984  e
 dell'art. 2 della legge n. 27 del 1981, contrasti con l'art. 24 della
 Costituzione,   togliendo   effetti,  almeno  parziali,  a  decisioni
 definitivamente assunte tanto in sede giudiziaria che  amministrativa
 e  vanificando persino il giudicato (ordinanza della Corte dei conti,
 Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana di cui  al  r.o.  n.
 360 del 1994);
       c)  se  il  predetto  art. 2 contrasti con gli artt. 3, 36 e 38
 della  Costituzione,  per  il  divario  che  si  riscontra   fra   il
 trattamento  di  attivita' fruito dai magistrati in servizio e quello
 di pensione dei magistrati collocati in  quiescenza  da  alcuni  anni
 (ordinanza  della  Corte  dei  conti,  Sezione giurisdizionale per la
 Regione Lazio, di cui al r.o. n. 710 del 1994).
    2. - Poiche' le questioni  sollevate  dalle  varie  ordinanze,  in
 ordine  al  medesimo  testo  di  legge,  sono  identiche o quantomeno
 connesse, i giudizi possono essere riuniti e  decisi  con  una  unica
 sentenza.
    3.  - La prima di esse concerne l'art. 2, commi 1 e 2, della legge
 n. 265 del 1991, il quale esclude le pensioni spettanti a magistrati,
 procuratori ed avvocati dello Stato dagli  adeguamenti  periodici  di
 cui all'art. 2 della legge n. 27 del 1981.
    I  giudici remittenti, nell'assumere che tale esclusione contrasta
 con il decisum della precedente sentenza della  Corte  costituzionale
 n.  501  del  1988, rammentano, essi stessi, che la questione ha gia'
 formato oggetto di esame  da  parte  della  Corte  medesima,  con  la
 sentenza n. 42 del 1993. Ritengono, nondimeno, di poterla riproporre,
 non  avendo,  a  loro  avviso,  la  Corte affrontato, in quest'ultima
 pronunzia, "direttamente  detto  profilo  ritenendolo  verosimilmente
 assorbito   nella  piu'  generale  affermazione  di  esercizio  della
 discrezionalita' del legislatore nella materia de qua".
    Una delle ordinanze in particolare (r.o. n. 360 del 1994)  adombra
 una  lettura  di  detta ultima pronunzia, nel senso che la questione,
 sia  pur  concernendo  l'assetto  futuro  e  passato   del   rapporto
 pensionistico,   non  sarebbe  stata  "direttamente"  affrontata  con
 riguardo a questo secondo profilo.
    Osserva  al  riguardo  la  Corte  che  la  questione,  cosi'  come
 prospettata,  fa  leva  non  tanto sui risultati ai quali la predetta
 sentenza e' pervenuta, quanto sulla linea argomentativa seguita dalla
 medesima  per  affrontare  la  tematica  della  presunta   violazione
 dell'art. 136 della Costituzione. Ma non pare che questo possa essere
 elemento  idoneo  a far ritenere che la Corte non abbia affrontato il
 problema oggi  riproposto.  Infatti,  al  di  la'  delle  distinzioni
 adombrate  dal  remittente,  la  richiamata  sentenza n. 42 del 1993,
 nell'evidenziare l'impossibilita' di far  derivare  dalla  precedente
 sentenza  n. 501 del 1988 "un'immediata e completa estensione - anche
 per il futuro - dell'adeguamento a tutti i pensionati", non manca  di
 richiamare  anche  l'ordinanza  n.  95 del 1991, alle cui motivazioni
 mostra chiaramente di aderire la' dove rileva, con  affermazione  del
 tutto    generale,   che   il   legislatore,   nell'escludere   dalla
 riliquidazione delle pensioni il  meccanismo  di  adeguamento,  aveva
 esercitato  una discrezionalita' sua propria, onde esulava dai limiti
 del controllo di legittimita'  costituzionale  l'operazione  additiva
 consistente  in una mera trasposizione dell'istituto dell'adeguamento
 automatico nel settore pensionistico.
    I passaggi della motivazione della sentenza n. 42 del 1993  teste'
 ricordati   confermano,   dunque,   che   il  profilo  della  dedotta
 illegittimita', ai sensi  dell'art.  136  della  Costituzione,  della
 disposizione  censurata  forma parte integrante della ratio decidendi
 allora adottata. Le stesse ragioni  di  allora  portano,  percio',  a
 ritenere  la  questione,  cosi'  come oggi riproposta, manifestamente
 infondata.
    4. - Del pari infondata e' la seconda  questione,  concernente  la
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  6, della medesima
 legge n. 265 del 1991, che, ad avviso del giudice  a  quo,  togliendo
 effetti,  almeno  parziali, a decisioni definitivamente assunte tanto
 nella sede giudiziaria che amministrativa e vanificando i  giudicati,
 confliggerebbe con l'art. 24 della Costituzione.
    Occorre  considerare che il predetto art. 1 della legge n. 265 del
 1991, nel fornire, al  comma  4,  l'interpretazione  autentica  della
 precedente  normativa  sull'inquadramento  economico  dei  magistrati
 contenuta nell'art. 5 della legge n. 425 del 1984, ha stabilito,  con
 la  disposizione  censurata  (comma  6),  che  i maggiori trattamenti
 spettanti o in godimento per  effetto  di  interpretazioni  difformi,
 sono conservati ad personam e riassorbiti con la normale progressione
 economica  di  carriera  o  con  i  futuri  miglioramenti  dovuti sul
 trattamento di quiescenza.
    A  parte  l'improprieta'  del  parametro  invocato   dal   giudice
 remittente, vale a dire l'art. 24 della Costituzione, che concerne il
 diritto  alla tutela giurisdizionale, ma non i rapporti fra esercizio
 della   funzione   legislativa   ed    esercizio    della    funzione
 giurisdizionale  o  amministrativa,  e'  evidente  che,  con la norma
 denunciata, il legislatore dispone solo per l'avvenire, prevedendo un
 riassorbimento di quanto conseguito, senza incidere  su  quanto  gia'
 corrisposto  per  effetto  della  sentenza, bensi' eliminando, con il
 meccanismo della gradualita'  temporale  proprio  del  riassorbimento
 nella  progressione  economica,  esiti  privilegiati  di  trattamento
 economico. In questi limiti, come la Corte ha gia' avuto occasione di
 affermare in consimili fattispecie (sentenza n. 413 del 1988), non e'
 configurabile nella norma impugnata  -  a  meno  che  non  si  voglia
 ipotizzare  una  intangibilita'  de  futuro  ed in perpetuo di quanto
 conseguito per effetto del giudicato stesso - ne' lo svuotamento  del
 contenuto  del giudicato ne' l'impiego della funzione legislativa per
 invadere l'ambito riservato dalla Costituzione alle altre funzioni.
    E questo tanto piu' che, nel nostro sistema costituzionale, non e'
 interdetta,  nei  limiti  della   ragionevolezza,   l'emanazione   di
 disposizioni   che  modifichino  sfavorevolmente  la  disciplina  dei
 rapporti di durata, anche  se  il  loro  oggetto  sia  costituito  da
 diritti soggettivi perfetti.
    5.  -  Resta  da  esaminare la questione sollevata dalla Corte dei
 conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio (r.o. n. 710  del
 1994),  che  denuncia  l'art.  2  della  legge  n.  265  del 1991, in
 riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione,  lamentando  il
 divario   cui  la  disposizione  darebbe  luogo  fra  trattamento  in
 attivita' di servizio e trattamento di pensione.
    Anche quest'ultima questione va ritenuta non fondata.
    Lo svolgimento della legislazione in materia consente, infatti, di
 rilevare  che  i  modi  attraverso  i  quali  perseguire  l'obiettivo
 dell'aggiornamento  delle  pensioni  dei  pubblici dipendenti possono
 essere, in via di principio, due  e  cioe'  la  c.d.  riliquidazione,
 consistente nell'allineare le pensioni al trattamento di attivita' di
 servizio  di  volta  in  volta disposto con apposita legge, e la c.d.
 perequazione automatica, consistente in un meccanismo  normativamente
 predeterminato, che adegui periodicamente i trattamenti di quiescenza
 agli  aumenti  retributivi  intervenuti  mediamente nell'ambito delle
 categorie del lavoro dipendente.
    E questo e' tanto  vero  che  il  trattamento  di  quiescenza  dei
 dipendenti  civili  dello  Stato, mentre e' sempre stato ancorato, al
 momento della cessazione dal servizio, al  trattamento  economico  di
 attivita'  (art.  43  del  d.P.R.  n.  1092  del  1973  e  successive
 modificazioni ed integrazioni), ha  avuto  invece  diverse  soluzioni
 quanto  al  problema dell'adeguamento nel tempo. Il legislatore, dopo
 aver, in un  primo  momento,  seguito  il  criterio  di  estendere  i
 miglioramenti  economici  concessi  al  personale in servizio anche a
 quello in quiescenza, attraverso il meccanismo  della  riliquidazione
 della  pensione,  operata  con apposito provvedimento legislativo, ha
 ritenuto, poi, di dover  individuare,  per  ragioni  alle  quali  non
 risultano estranei anche i ritardi con i quali intervenivano le leggi
 di  riliquidazione, un meccanismo di perequazione volto ad agganciare
 in via permanente, senza deroghe e ritardi, le pensioni alla dinamica
 salariale.
    Pertanto,  la  legge  29  aprile  1976, n. 177 ha istituito per le
 pensioni dei dipendenti statali  e  delle  altre  categorie  indicate
 dalla legge stessa (art. 1) un collegamento annuale fra le pensioni e
 la  dinamica  delle retribuzioni, per la cui realizzazione - dopo una
 breve fase transitoria (non oltre il 1978) durante la  quale  sarebbe
 stato  utilizzato  l'indice  valevole  per  l'aggancio  alla dinamica
 salariale  del  settore  privato  -  era  prevista   (art.   2)   una
 determinazione   concordata  fra  Governo  e  parti  sindacali  degli
 incrementi medi dei trattamenti economici fondamentali ed  accessori,
 fissi  e  continuativi, dovuti con carattere di generalita' per tutte
 le categorie del personale in attivita' di  servizio,  incrementi  da
 quantificarsi  in  un  indice  utilizzabile  per  la perequazione dei
 trattamenti di quiescenza.
    Sia pure attraverso alterne vicende che hanno indotto, talora,  il
 legislatore  a  fare ancora ricorso al sistema della riliquidazione e
 sia pure attraverso modalita' che sono venute a risultare diverse  da
 quelle   come  sopra  previste,  il  sistema  della  perequazione  ha
 funzionato in questi anni, ponendo cosi'  in  atto,  nell'ordinamento
 delle  pensioni  dei pubblici dipendenti, meccanismi di rivalutazione
 secondo regole che, anche per effetto della norma  interpretativa  di
 cui all'art. 3 della legge 17 aprile 1985, n. 141, hanno, come questa
 Corte  ha avuto occasione di rilevare nella sentenza n. 501 del 1988,
 per destinatari anche i magistrati.
    E' certo, comunque, che solo in casi particolari  il  legislatore,
 per  tener conto delle esigenze di determinate categorie, ha ritenuto
 invece di  agganciare  automaticamente  la  pensione  allo  stipendio
 dettando apposite disposizioni (art. 2, secondo comma, della legge 27
 ottobre  1973,  n.  629,  recante "Nuove disposizioni per le pensioni
 privilegiate  ordinarie  in  favore   dei   superstiti   dei   caduti
 nell'adempimento  del  dovere  appartenenti ai corpi di polizia") che
 rappresentano vere e proprie norme speciali.
    Aggiungasi, inoltre, che a garantire il mantenimento,  nel  tempo,
 del  potere  d'acquisto  delle  pensioni  dello  Stato,  il regime di
 adeguamento delle pensioni stesse  e'  stato  perfezionato  (art.  21
 della  legge  27  dicembre  1983,  n.  730  e  art. 24 della legge 28
 febbraio 1986, n. 41), attraverso l'aggancio  agli  indici  reali  di
 svalutazione.
    Tale  disciplina  ha  fatto  si',  pertanto, che i magistrati e le
 categorie  ad  essi  assimilate,  cosi'  come  altri  dipendenti   di
 pubbliche amministrazioni, abbiano goduto, nella misura e nelle forme
 stabilite  dal  legislatore,  dell'aggancio  delle loro pensioni alla
 dinamica  salariale  e  della  rivalutazione  delle  pensioni  stesse
 secondo   gli   appositi   indici   determinati  dall'ISTAT,  fruendo
 periodicamente, attraverso  detti  istituti,  della  possibilita'  di
 mantenere  sostanzialmente fermo il potere di acquisto della pensione
 originariamente liquidata,  e  di  garantire  cosi'  alla  stessa  la
 proporzione   rispetto   alla   retribuzione   esistente  al  momento
 dell'originaria liquidazione.
    6. - Il giudice remittente, attraverso  la  denuncia  dell'art.  2
 della  legge  n. 265 del 1991 - il quale ha escluso che alle pensioni
 dei magistrati, riliquidate in conformita' alla sentenza della  Corte
 n. 501 del 1988, accedano anche gli adeguamenti periodici di cui alla
 legge  19  febbraio 1981, n. 27 - tende ad ottenere una pronunzia che
 prenda  in  considerazione  "il  pesante  divario"  che,  ad   avviso
 dell'ordinanza,  ormai separa il trattamento di attivita' oggi fruito
 dai magistrati in servizio di pari qualifica dalle pensioni di quelli
 collocati in quiescenza da alcuni anni, all'uopo invocando i precetti
 degli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione.
    Va,  anzitutto,  ricordato  che  questa  Corte,   pur   affermando
 (sentenza  n.  26  del  1980) che la proporzionalita' e l'adeguatezza
 della pensione devono essere assicurate anche in  prosieguo  rispetto
 all'epoca  del  collocamento  a riposo, in relazione ai mutamenti del
 potere d'acquisto della  moneta,  ha  ripetutamente  escluso  che  la
 Costituzione  garantisca  al  pensionato un'automatica estensione dei
 miglioramenti retributivi riconosciuti al personale in servizio.
    Vero e' che la sentenza n.  501  del  1988  si  mostra  incline  a
 collocare  il  problema  dell'aggiornamento delle pensioni nel filone
 della riliquidazione, anziche' in quello della perequazione; ma cio',
 lungi dal consentire di desumere, dalla via seguita, l'indicazione di
 una regola inderogabile, si spiega, a rettamente intendere la portata
 di detta pronunzia, con la peculiare contingente  situazione  che  la
 stessa ha preso in considerazione e cioe' la modifica della struttura
 delle  retribuzioni  dei  magistrati  con effetto retroattivo, vale a
 dire dal 1› luglio 1983, a seguito della legge n. 425 del  1984,  che
 veniva  a  porre  la  necessita'  di un corrispondente riallineamento
 delle pensioni in essere alla stessa data. E, del  resto,  la  stessa
 sentenza  non  manca di sottolineare che "appartiene alle valutazioni
 del legislatore ordinario" disporre i mezzi per attuare il  principio
 dell'adeguamento  delle  pensioni,  cosi'  confermando che le diverse
 leggi che, nel tempo e con riferimento alle  varie  categorie,  hanno
 proceduto   alla   riliquidazione,   sono   espressione   di   scelte
 discrezionali motivate sempre in ragione della peculiarita' dei  casi
 e delle situazioni, ma non certo adempimento satisfattivo, di per se'
 e   a   prescindere   dalle   specifiche   esigenze,  di  aspettative
 costituzionalmente rilevanti. In sostanza, come questa Corte ha  gia'
 avuto  occasione  di  osservare  (sentenza  n.  226  del  1993),  non
 rappresenta vulnerazione di alcun canone costituzionale il fatto  che
 il  legislatore,  nel  prevedere  un  meccanismo di adeguamento delle
 retribuzioni del personale  in  servizio,  non  abbia  parallelamente
 esteso   analogo   adeguamento  ai  trattamenti  pensionistici  della
 medesima categoria.
    E  questo  tanto  piu'  quando  tale  meccanismo  appaia  elemento
 intrinseco  della struttura delle retribuzioni dei magistrati, con la
 peculiare   ratio   di    attuare    il    precetto    costituzionale
 dell'indipendenza  e  di evitare che essi siano soggetti a periodiche
 rivendicazioni nei confronti di altri  poteri  (sentenza  n.  42  del
 1993).   Un   elemento,  dunque,  di  cui  non  si  puo'  considerare
 necessitata  la  trasposizione  anche   al   settore   pensionistico,
 trattandosi  di scelta rimessa alla discrezionalita' del legislatore,
 non  piu'  sussistendo  in  tale  momento  l'esigenza  che  ne  aveva
 giustificato l'attribuzione nella vigenza del rapporto di servizio.
    7.  -  In  conclusione, riaffermato il principio costituzionale di
 proporzionalita' e adeguatezza della pensione, da garantirsi non solo
 con riferimento al momento del collocamento a  riposo,  ma  anche  in
 prosieguo,  in relazione alle variazioni del potere di acquisto della
 moneta,  e rilevato che, all'attualita', tutto cio' appare assicurato
 dai meccanismi perequativi e rivalutativi esistenti, puo'  dirsi  che
 spetta  al  legislatore  ragionevolmente  soddisfare  nel tempo detta
 esigenza,    escludendo,    peraltro,    che     questo     comporti,
 inderogabilmente, un costante e periodico allineamento delle pensioni
 al corrispondente trattamento di attivita' di servizio.
    Naturalmente,  e soltanto in mancanza di modificazioni strutturali
 e funzionali della  prestazione  lavorativa,  il  verificarsi  di  un
 irrazionale   discostamento  fra  i  due  dati  di  riferimento  puo'
 costituire uno degli  indici  sintomatici  della  non  idoneita'  del
 meccanismo in concreto prescelto a preservare la costante sufficienza
 della  pensione,  in  modo  da  assicurare  al  lavoratore e alla sua
 famiglia mezzi adeguati alle  esigenze  di  vita  per  una  esistenza
 libera e dignitosa (sentenza n. 226 del 1993 gia' citata).
    Peraltro,  la situazione per il momento esistente, sul cui livello
 hanno nel tempo inciso vari interventi perequativi  e  riliquidativi,
 non  e'  tale  da  concretare  violazione  degli  invocati  parametri
 costituzionali e il problema puo' soltanto porsi per  l'avvenire  nel
 caso  di  variazioni  significative  della proporzionalita', nel piu'
 ampio contesto della generale politica  economica  e  avuto  riguardo
 soprattutto  alle  risorse  disponibili,  come  elemento  di prudente
 attenzione affidata alla discrezionalita' del legislatore.