Ricorso per conflitto di attribuzione della regione Puglia, in persona del vice presidente pro-tempore della Giunta, dott. Raffaele Fitto, ai sensi della delibera di Giunta n. 1368 dell'8 aprile 1997, rappresentato e difeso dagli avv.ti prof. Beniamino Caravita di Toritto e prof. Aldo Loiodice, e presso lo studio del primo elettivamente domiciliato, in Roma, via Torquato Taramelli, 22, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro-tempore, per l'annullamento della decisione della Corte costituzionale n. 18 del 30 gennaio/10 febbraio 1997 che ha dichiarato inammissibile la proposta di referendum popolare in materia di funzioni statali di indirizzo e coordinamento. F a t t o I Consigli regionali della Calabria, della Lombardia, del Piemonte, della Puglia, della Toscana, della Valle d'Aosta e del Veneto hanno presentato richiesta di referendum popolare abrogativo - pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 230 del 1 ottobre 1996 - sul seguente quesito: "Volete voi che siano abrogati: l'art. 3 della legge 22 luglio 1975, n. 382, ("Norme sull'ordinamento regionale e sulla organizzazione della pubblica amministrazione"); l'art. 4, comma 1, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 ("Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382"), limitatamente alle parole "la funzione di indirizzo e coordinamento nei limiti, nelle forme e nelle modalita' previste dall'art. 3 della legge 22 luglio 1975, n. 382"; l'art. 2, comma 3, lettera d), della legge 23 agsto 1988, n. 400 ("Disciplina dell'attivita' di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri"), limitatamente alle parole "gli atti di indirizzo e coordinamento dell'attivita' amministrativa delle regione, nel rispetto delle disposizioni statutarie, delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano"; l'art. 13, comma 1, lett. e), della legge 23 agosto 1988, n. 400, limitatamente alle parole: "anche per quanto concerne le funzioni statali di indirizzo e coordinamento"; l'art. 1, comma 1, lett. hh), della legge 12 gennaio 1991, n. 13 ("Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica"), limitatamente alla parole: "atti di indirizzo e coordinamento dell'attivita' amministrativa delle regioni e, nel rispetto delle disposizioni statutarie, delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano, previsti dall'art. 2, comma 3, lett. d) della legge 23 agosto 1988, n. 400". Con ordinanza del 26-27 novembre 1996 l'ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione, ha dichiarato tale richiesta legittima. Successivamente, in seguito alla comunicazione della suddetta ordinanza, il presidente della Corte costituzionale ha fissato per la deliberazione la camera di consiglio dell'8 gennaio 1997. Ai sensi dell'art. 33, terzo comma della legge n. 352 del 1970, i delegati dei Consigli regionali si sono avvalsi della facolta' di presentare memorie. La Corte costituzionale, con decisione n. 18, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 12 febbraio 1997, 1 serie speciale, n. 7, ha dichiarato l'inammissibilita' della richiesta. Tale decisione risulta essere lesiva della collocazione costituzionale delle regioni per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Circa la posizione della Corte costituzionale nel conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni originato da un atto lesivo della stessa Corte costituzionale. Il principio di legittimita' costituzionale che regge il nostro ordinamento, siccome ordinamento dotato di Costituzione rigida e di controllo di costituzionalita', impone che contro ogni atto posto in essere da un organo facente riferimento all'ordinamento statuale, che leda presuntivamente la sfera di attribuzione regionale, sia ammissibile il rimedio del conflitto di attribuzione. Mentre la legittimazione processuale attiva, per lo Stato, spetta per legge al Presidente del Consiglio dei Ministri, ed al presidente della Giunta regionale per la regione (v. art. 39, comma primo, legge n. 87 del 1953), nulla e' disposto dalla legge in ordine all'esercizio della legittimazione passiva: rimane cosi' affidato alla sensibilita' istituzionale del Governo decidere se costituirsi in giudizio, assumendo il ruolo di resistente e facendosi cosi' carico degli atti di un potere statuale pur disomogeneo. Nel caso in questione, trattandosi di atto lesivo della sfera di attribuzioni garantita alle Regioni posto in essere dalla Corte costituzionale nell'esercizio della sua funzione statale di controllo di ammissibilita' della richiesta referendaria di iniziativa regionale, il conflitto proposto dalla regione avverso l'atto della Corte costituzionale, quale organo appartenente all'ordinamento statuale, risulta chiaramente ammissibile. La Corte costituzionale ha gia' espressamente riconosciuto la sua appartenenza alla categoria degli organi legittimati ad essere parti nei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato (v. Corte costituzionale n. 77/1981). Contro tale riconoscimento non varrebbe opporre quelle vetuste obiezioni, connesse a superate interpretazioni del concetto di "potere dello Stato", che non hanno mai trovato e non trovano riscontro ne' nella giurisprudenza costituzionale, ne' nella dottrina piu' autorevole. In particolare, a chi volesse continuare a sostenere che il concetto di "potere dello Stato" e' riferibile da un lato alla tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato, dall'altro lato alla ristretta sfera dello "Stato-persona", va risposto, in primo luogo, che "l'organizzazione dello Stato appare in realta' articolata secondo esigenze di collegamento e coordinamento nonche' di bilanciamento e contrappeso, assai piu' complesse di quelle individuate dai padri del costituzionalismo", e che da cio' discende che la "presenza di poteri incardinati in organi come la Corte costituzionale, che non fa parte del potere giudiziario; come il Presidente della Repubblica, che oggi non puo' piu' considerarsi parte del potere esecutivo, ecc.: organi che godono di posizione costituzionale analoga a quella che spetta ai titolari delle tre classiche funzioni pubbliche e pertanto da considerare certamente, alla pari di questi ultimi, poteri dello Stato" (cosi', G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, 368). Dunque, anche a voler concordare con quelle posizioni secondo cui la Corte costituzionale e' estranea al "potere giudiziario" (cosi' Corte costituzionale n. 13/1960), cio' non toglie che la Corte, proprio per le funzioni esercitate sia come giudice di legittimita' costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, sia come giudice delle accuse contro il Capo dello Stato, sia in sede di valutazione dell'ammissibilita' delle richieste di referendum abrogativo, sia come giudice dei conflitti di attribuzione, rivesta la posizione di supremo organo costituzionale dell'ordinamento statuale. La qualita' di "potere dello Stato" implica, all'evidenza, che dello Stato si faccia parte o che, comunque, a tale persona giuridica si faccia riferimento: di talche' la Corte costituzionale, sicuramente facente parte dello Stato nel caso di conflitti infrasoggettivi, non potrebbe poi paradossalmente negare la propria appartenenza - o comunque la propria riferibilita' allo Stato - nell'ambito dei conflitti intersoggettivi. In questo quadro non sono sicuramente condivisibili quelle obiezioni talvolta mosse in passato alla configurazione della Corte costituzionale come organo costituzionale dello Stato, fondate sulla considerazione che la Corte sia un potere di particolare rango posto "al di fuori e al sopra" degli altri poteri dello Stato (Cheli), ovvero, che essa vada considerata come un "interpotere" destinato all'esecuzione in via giurisdizionale della Costituzione, concepita come ordinamento superiore, comprendente in se' quello statale e quelli regionali (Pergolesi). Infatti, e' evidente che la titolarita' di decisive funzioni di controllo in via definitiva nei confronti delle leggi e delle attivita' di organi statuali e regionali non implica che la Corte vada isolata dall'ordinamento statuale e collocata in un immaginario luogo extra-statuale, ma, al contrario, che la Corte sia considerata titolare di funzioni pubbliche statuali, le quali, proprio per la loro rilevanza ed esclusivita', sono per un verso costituzionalmente garantite e protette dalle norme costituzionali, per altro verso da queste stesse determinate e delimitate. Ne' sarebbe scientificamente sostenibile la tesi che volesse ritenere che gli atti della Corte non possono essere impugnati in sede di conflitto di attribuzione tra Stato e regioni, giacche' la Corte costituzionale e' organo non gia' dello Stato-persona, bensi' dello Stato-comunita': allo Stato-comunita' fa riferimento - cosi' si afferma - anche la giurisdizione ordinaria, amministrativa e contabile; eppure, mai si e' negato che atti giurisdizionali possano essere impugnati dalle Regioni con il rimedio del conflitto di attribuzione. D'altra parte, e' noto che, in via generalissima, la Corte ha ricompreso tra i "poteri dello Stato", ai sensi dell'art. 134 della Costituzione, anche "figure soggettive esterne allo Stato-apparato, quanto meno allorche' ad esse l'ordinamento conferisca la titolarita' e l'esercizio di funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite, concorrenti con quelle attribuite a poteri ed organi statuali in senso proprio" (v. Corte costistuzione n. 69/1978, e la successiva giurisprudenza confermativa). Anche a voler ammettere, allora, che la Corte costituzionale possa ritenersi un centro di imputazione di poteri dello Stato-comunita', l'impostazione citata non puo' essere limitata ai soli conflitti tra poteri dello Stato, ma deve essere necessariamente estesa ai conflitti intersoggettivi: anche gli atti di soggetti comunque titolari di funzioni riferibili allo Stato-comunita', possono essere impugnati con il rimedio del conflitto di attribuzione qualora vi sia una lesione di competenze costituzionalmente garantite alle regioni. 2. - Circa la menomazione determinata dalla motivazione della sentenza di inammissibilita' della richiesta referendaria. La Corte nella sua giurisprudenza ha sempre riconosciuto il fondamento costituzionale della c.d. funzione di indirizzo e coordinamento e nel far cio' ha avuto modo di individuare alcuni requisiti minimi, formali e sostanziali, al di sotto dei quali non si poteva scendere per poter riconoscere la legittimita' costituzionale della disciplina dettata dalla legislazione ordinaria vigente in materia (il rispetto del principio di legalita' in senso sostanziale; la necessaria deliberazione del Consiglio dei Ministri; ecc.). Mai pero' aveva fin qui affermato, come in questa occasione, che queste norme di legislazione ordinaria fossero da considerare a contenuto non discrezionale e disponibile dal legislatore ordinario ma vincolato dalla Costituzione nel loro contenuto essenziale. La regione Puglia, contrariamente da quanto sostenuto dallo Stato, non ha in verita' mai intenso negare l'esistenza di quelle esigenze di carettere unitario (riconducibili ai principi costituzionali di cui all'art. 5 della Costituzione) che giustificano e coprono la necessita' di una qualche attivita' di indirizzo e coordinamento (ma non vincolano certo ne' alla previgente ne' all'attuale insoddisfacente nuova disciplina legislativa contenuta nell'art. 8 delle legge n. 59 del 1997), ma solo che tali esigenze e tale attivita' debbano costituire l'oggetto di un'autonoma funzione che possa tenersi distinta, di volta in volta, dalla funzione legislativa o da quella amministrativa. A prescindere da ogni altra valutazione su detta decisione, cio' che in particolare si contesta in questa sede, e' che lo Stato, con la sentenza n. 18/1997 della Corte costituzionale, si sia spinto ad affermare addirittura, piu' restrittivamente da quanto disposto dall'art. 3 della legge n. 382 del 1975, che "si configura un vero potere di indirizzo e coordinamento... solo quando se ne preveda - da parte del legislatore - l'esercizio in via non legislativa, e cioe' con atti del Governo", in quanto "in ogni caso, cio' che trova fondamento nella Costituzione e' proprio il riconoscimento in via di principio della possibilita' che la legge attribuisca al Governo il potere di indirizzare e coordinare l'attivita' amministrativa delle regioni in forza di esigenze unitarie, non frazionabili e non localizzabili territorialmente". L'esercizio in via amministrativa della c.d. funzione di indirizzo e coordinamento, che, in tutta evidenza, e' una scelta discrezionale del legislatore ordinario - in quanto nella disposizione richiamata veniva autorizzata come alternativa secondaria all'ipotesi in cui veniva esercitata in via principale con legge o con atti aventi valore di legge - e che in quanto tale si intendeva sottoporre al vaglio di un giudizio di opportunita', e' stata impropriamente trasformata, in tal modo, in una disciplina costituzionalmente vincolata e, dunque, non solo sottratta al referendum abrogativo, ma addirittura resa immodificabile nel suo contenuto essenziale dal legislatore ordinario e costituzionale. La motivazione della sentenza n. 18 del 1997 della Corte costituzionale comporta pertanto il disconoscimento della sfera di attribuzioni che la Costituzione riconosce e garantisce alle regioni ai sensi degli artt. 5, 71, 75, 121 e 138 della Costituzione, nella partecipazione delle regioni alla determinazione della volonta' normativa statuale, non solo nella forma referendaria, quanto soprattutto in quella legislativa, ordinaria e costituzionale: ne deriva una contrazione ed una menomazione della posizione che la Costituzione garantisce alle regioni nei confronti dello Stato. La Corte costituzionale, esorbitando dall'ambito dell'esercizio del potere attribuitole di controllare l'ammissibilita' della richiesta referendaria di iniziativa regionale, ha manifestato - in nome dell'ordinamento statuale - un'intenzione lesiva, attuale e non meramente congetturale, volta al disconoscimento ed alla conseguente compressione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite circa il potere di partecipazione regionale alla determinazione della volonta' statuale. Tale potere e' costituzionalmente garantito entro i limiti di legittimita' previsti, e si fonda sulla piena liberta' regionale di determinare nella propria autonomia politica il contenuto della "ipotesi" normativa che si voglia introdurre nell'ordinamento giuridico statuale. E' noto che la Corte costituzionale richiede, per l'ammissibilita' del conflitto tra Stato e regioni, che l'attivita' statuale abbia prodotto una lesione della sfera di competenza regionale costituzionalmente garantita in una delle seguenti forme: invasione, compressione o disconoscimento. Dunque anche il solo disconoscimento delle attribuzioni costituzionalmente garantite, puo' essere impugnato in sede di conflitto qualora si traduca in un'illegittima interferenza nella sfera regionale (v. sentenza n. 153 del 1986). Perche' vi sia l'illegittima interferenza nella sfera regionale, la stessa giurisprudenza costituzionale richiede una "manifestazione chiara di volonta'" da parte dell'organo statuale che "neghi (la competenza) regionale ovvero sia intesa a sottrarre alle regioni competenze ad esse costituzionalmente garantite" (v. da ultimo sentenza n. 174 del 1996): in quanto la sola affermazione della valutazione negativa implica di per se' la volonta' di disconoscere l'esistenza di attribuzioni regionali costituzionalmente garantite. In una recente pronuncia della Corte in tema di conflitti tra Stato e regioni, si e' ben precisato che la stessa fondatezza - e quindi non soltanto l'ammissibilita' - delle censure avanzate dalla regione ricorrente si puo' accertare anche "con riferimento agli effetti riflessi" che l'atto statale presuntivamente lesivo "e' in grado di determinare (...) ai fini dell'esercizio dei poteri regionali connessi" alla materia oggetto del conflitto (sentenza n. 534 del 1995). In altri termini, il conflitto tra Stato e regione puo' ben sorgere in relazione ad un atto statale in cui il disconoscimento manifestato esplicitamente circa specifiche attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni, risulti anche idoneo a produrre "effetti riflessi" sull'esistenza delle competenze costituzionali delle regioni, implichi cioe' un inevitabile impedimento ad un loro esercizio in senso difforme rispetto alla volonta' dichiarata in Costituzione. Non e' il caso in questa sede di ripercorrere le valutazioni che la dottrina costituzionalistica italiana ha svolto sulla "funzione di indirizzo e coordinamento" e sui numerosi dubbi sollevati circa la legittimita' costituzionale dell'esercizio di detta funzione in via amministrativa. Cio' che viene in considerazione nel presente conflitto e' che la Corte costituzionale, dichiarando inammissibile il quesito referendario in questione in ragione del fatto che "in ogni caso, cio' che trova fondamento nella Costituzione e' proprio il riconoscimento in via di principio della possibilita' che la legge attribuisca al Governo il potere di indirizzare e coordinare l'attivita' amministrativa delle regioni in forza di esigenze unitarie, non frazionabili e non localizzabili territorialmente", e' giunta a configurare un inammissibile irrigidimento dell'assetto costituzionale italiano, individuando limiti in via preventiva e qualificatoria che non potrebbero essere oltrepassati, non solo dall'iniziativa referendaria o legislativa regionale, bensi' anche dallo stesso legislatore statale ordinario e costituzionale. Con siffatta decisione la Corte costituzionale - sviando dall'ambito di controllo dell'ammissibilita' del referendum, ad essa commesso non gia' dalla Costituzione, ma dalla legge cost. n. 1 del 1953 - rischia di incidere la stessa attivita' di revisione costituzionale in corso di svolgimento da parte della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, la quale, ai sensi dell'art. 1, comma 4, della legge 24 gennaio 1997, n. 1, "elabora progetti di revisione della parte II della Costituzione, in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie". In occasione di un processo riformatore, che - per scelta del legislatore costituzionale della legge cost. n. 1 del 1997 - incontra come limite operativo il rispetto dei principi costituzionali fondamentali e dei loro corollari impliciti, la Corte, promuovendo una scelta discrezionale del legislatore ordinario al rango di principio costituzionale fondamentale, irrigidisce in modo e con strumenti inammissibili il modello del regionalismo italiano, vincolando ad esso lo stesso legislatore costituzionale. A tal proposito, basta aggiungere che nelle proposte di legge costituzionale presentate dai Consigli regionali, volte a conferire al nostro ordinamento un assetto federale, ed attualmente all'esame della predetta Commissione bicamerale, si fa riferimento a strumenti affatto diversi di coordinamento orizzontale che prescindono completamente da una presunta necessita' che "la legge attribuisca al Governo il potere di indirizzare e coordinare l'attivita' amministrativa delle regioni" (v., ad esempio, l'art. 33 della proposta di legge costituzionale del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna, in Atti Camera n. 2900). In definitiva, la decisione della Corte rende oramai immodificabile, anche con legge di rango costituzionale, la scelta di autorizzare l'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento in via amministrativa che era stata prevista dal solo legislatore ordinario e come semplice alternativa all'ipotesi in cui detta funzione doveva generalmente esercitarsi con legge o con atti con forza di legge. Si obiettera' che tra i compiti della Corte rientra anche quello di individuare i principi costituzionali immodificabili e si citera' al proposito la notissima sentenza n. 1146 del 1988. Non dopo aver ricordato che parti autorevoli della dottrina hanno contestato che alla Corte spetti la declaratoria di incostituzionalita' di verfassungswidrige Verfassungsnormen, va comunque sottolineato come la sede in cui e' stata operata la contestata lesione della collocazione costituzionale della regione appaia affatto impropria. L'individuazione di principi costituzionali e di loro corollari nel giudizio di ammissibilita' del referendum rischia infatti di trasformare quello che dovrebbe essere nient'altro che un subprocedimento di controllo tutto interno al procedimento referendario - la cui attribuzione o sottrazione alla Corte costituzionale certo non modificherebbe la natura della giurisdizione costituzionale - in un autonomo procedimento dichiarativo, in via generale ed astratta, dell'esistenza di principi costituzionali impliciti, inespressi o reperibili in fonti legislative ordinarie. Il rischio e' che la Corte la' dove giudichi dell'ammissibilita' delle richieste referendarie, finisca in tal modo - qualora non si attenga al piu' rigoroso self restraint - non piu' per dichiarare la conformita'/non conformita' dell'iniziativa referendaria alle fonti di rango costituzionale, nei limiti dei parametri ivi indicati, ma per dichiarare l'esistenza/non esistenza di norme e principi costituzionali impliciti da ricercare a tutto campo, senza alcuna preventiva delimitazione dei parametri del giudizio. Invero, se l'oggetto del giudizio di ammissibilita' e' predefinito dall'atto di iniziativa referendaria, il parametro del giudizio e' delimitato dalla legge costituzionale n. 1 del 1953 nell'art. 75 Cost.; e' noto che tale limitazione si sia rivelata del tutto insufficiente e sia stata superata, rendendo la stessa Corte libera nel cercare, nel complesso sistematico della costituzione e dei suoi principi, il parametro di volta in volta piu' adeguato. Cosi' facendo tuttavia, essa, non piu' strettamente tenuta dall'oggetto e dai parametri del caso di specie, corre il rischio di abbandonare il suo ruolo di giudice, ancorche' costituzionale, e di trasformarsi da organo iuris-dicente (da mihi factum dabo tibi ius) in incarnazione vivente della Costituzione: il sovrano tecnocratico o, se si preferisce, l'antisovrano (quod principi placuit legis habet vigorem). Nel campo piu' tradizionale della garanzia dei diritti, il rischio di sconfinamento e' tuttavia bilanciato da un sistema di contropoteri politici e istituzionali, nonche' da una ormai diffusa adesione allo spirito democratico del sistema costituzionale che rendono improponibile un siffatto rischio. Nel rapporto tra Stato e regioni, invece, la tradizione centralistica del nostro sistema politico e amministrativo, appena scalfita dalla regionalizzazione avvenuta negli anni settanta, e le fortissime resistenze burocratiche e localistiche ad ogni serio processo di piu' forte regionalizzazione, rendono assai piu' probabile il rischio di questo sconfinamento in mancanza di adeguati "contrappesi regionali". Significativo a riguardo e' il fatto che i referendum di iniziativa regionale - a prescindere dalla loro effettiva ammissibilita' - siano stati definiti da taluni addirittura come "eversivi dell'ordinamento costituzionale".