LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento per misura di prevenzione contro: 1) Riina Salvatore nato a Corleone il 6 novembre 1930, difeso dagli avv.ti Cristoforo Fileccia e Mario Grillo, proposto appellante; 2) Simonetti Giovanni, difeso dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio Campo, interveniente appellante/ appellato; 3) Todaro Giuseppa, difesa dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio Campo, interveniente appellante/appellata; 4) Simonetti Giovanna, difesa dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio Campo, interveniente appellante/ appellata; 5) Simonetti Giovanni e F.lli s.n.c., difesa dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio Campo, interveniente appellante; 6) Simonetti Giuseppe, difeso dagli avv.ti Vito Ganci e Orazio Campo, interveniente appellante; 7) Miceli Giuseppe, difeso dagli avv.ti Guido Geraci e Salvatore Riela, interveniente appellato; 8) Caiola Vincenza, difesa dagli avv.ti Guido Geraci e Salvatore Riela, interveniente appellata; 9) Miceli Elisabetta, difesa dagli avv.ti Guido Geraci e Salvatore Riela, interveniente appellata; 10) Grizzaffi Giovanni, interveniente appellato; 11) Provenzano Giovanna Maria, interveniente appellata; 12) Scamardo Salvatore, difeso dagli avv.ti Roberto Tricoli e Vincenzo Giambruno, interveniente appellato; 13) Scannaliato Palma, difesa dagli avv.ti Roberto Tricoli e Vincenzo Giambruno, interveniente appellata; 14) Grippi Elisabetta, difesa dagli avv.ti Roberto Tricoli e Vincenzo Giambruno, interveniente appellata; 15) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Salvatore; 16) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Pioggia Giovanni; 17) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Giovia Gioacchino; 18) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Salvatore; 19) associazione temporanea di imprese Miceli Giuseppe e Marzia s.a.s.; difese dall'avv. Guido Geraci, cointeressati; 20) Riina Arcangela, difesa dagli avv.ti Cristoforo Fileccia e Mario Grillo interveniente appellante; 21) Rizzo Maria Concetta, difesa dagli avv.ti Cristoforo Fileccia e Mario Grillo, interveniente appellante; 22) Barbaro Salvatore, difeso dall'avv. Alberto Polizzi, intervenien te appellante; 23) Calo' Lorenza, difesa dall'avv. Alberto Polizzi, interveniente appellante; 24) Banco di Sicilia, difeso dall'avv. Francesco Punzo, intervenient e. Letti gli atti e sentite le parti in camera di consiglio, la Corte, O s s e r v a: Salvatore Riina e stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno con decreto del 7 luglio 1969, non eseguita per il lungo periodo di latitanza del Riina durato fino al 1993. Nei confronti del Riina, risultato impossidente all'esito delle indagini patrimoniali espletate, sono state avanzate due distinte proposte di adozione di provvedimenti patrimoniali ai sensi della legge n. 575/1965 in relazione a beni formalmente intestati a terzi, ma di cui si assume la disponibilita' in capo al proposto: 1) una dal questore, riguardante beni intestati a suoi familiari o stretti parenti, fondata sul presupposto del divario fra redditi disponibili in capo al presunto fittizio intestatario e valore dei beni acquistati; 2) una dal procuratore della Repubblica, riguardante terze persone, fondata sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio in merito a situazioni di fittizia intestazione di beni appartenenti al proposto, calate in un quadro di sproporzione fra redditi dei presunti prestanome ed acquisti. In questi casi il proponente non si e' limitato a chiedere la confisca dei beni indicati dal collaborante, ma la richiesta e' stata estesa all'intero patrimonio del terzo, sul presupposto della frammentaria cognizione della situazione da parte del collaborante e della disponibilita' del terzo all'assunzione della veste di prestanome. Con due distinti decreti resi in data 13 gennaio e 20 giugno 1995 nel procedimento n. 135/1993 m.p. il tribunale di Palermo, vagliata l'attendibilita' piena del collaboratore Di Maggio, per quel che in questa sede rileva, disponeva la confisca di alcuni beni e revocava il sequestro di altri. Avverso tali decreti hanno proposto impugnazione il procuratore della Repubblica ed i difensori degli intervenienti, articolando una ampia serie di censure. Una rilevante parte delle censure mosse dagli appellanti riguardava l'attendibilita' delle fonti di prova utilizzate e la loro conducenza. La Corte, in accoglimento delle istanze di rinnovazione dell'istruzione formulate dal p.g. e dai difensori, acquisiti diversi documenti, ha disposto l'audizione per teleconferenza dei collaboratori di giustizia Di Maggio, La Barbera, Di Matteo e Monticciolo, la cui audizione era assolutamente indispensabile per la verifica delle dichiarazioni contenute nei verbali acquisiti e per necessari chiarimenti in fatto. Se l'acquisizione documentale ha in qualche modo contribuito alla ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento, del tutto inutile e' stato il ricorso all'audizione degli imputati di reato connesso, i quali hanno sistematicamente fatto ricorso alla facolta' di astenersi dal deporre prevista dall' art. 210.4 c.p.p. (l'audizione riguardava fatti che i collaboratori potevano (conoscere e quindi) rivelare solamente ammettendo la loro partecipazione a "Cosa Nostra"), cosi' precludendo ogni possibilita' di approfondimento. Cio' posto dubita la Corte della legittimita' costituzionale della facolta' esercitata - per violazione delle norme di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione - allorche' sia chiamata a deporre una persona ammessa a programma di protezione ai sensi della legge n. 82/1991, specie se gia' condannata con sentenza passata in giudicato. Ed invero, il principio nemo tenetur se detegere costituisce uno dei principi fondamentali su cui e' fondato il nostro sistema processuale, che, ispirandosi al modello accusatorio, tende all'accertamento della verita' prescindendo dalle eventuali conoscenze dell'imputato. Il principio trova tutela nell'art. 24, secondo comma, della Costituzione laddove garantisce il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento e, quindi, anche quel particolare aspetto costituito dalla facolta' di non fornire elementi in proprio danno ed e' esplicitamente consacrato dall'art. 14 n. 3 lett. g) del patto internazionale sui diritti civili e politic. Esso, secondo la definizione della migliore dottrina, si estrinseca nel diritto a non essere interrogato dal giudice (right not to be questioned), il diritto a non autoincriminarsi (privilege against self incrimination) ed il diritto al silenzio. Nel vigente sistema processuale, prima dell'esercizio dell'azione penale, l'indagato puo' esercitare il solo diritto al silenzio, mentre nelle fasi processuali, in aggiunta ad esso, viene riconosciuto all'imputato anche il diritto a non essere interrogato. A seguito dell'esercizio dell'azione penale, "l'imputato gode dunque di una garanzia piu' ampia rispetto al diritto di stare in silenzio che implica pur sempre l'obbligo di presentarsi di fronte al giudice: egli ha il diritto di non sedersi la' dove si siedono i testimoni". Diversamente si atteggia la disciplina del codice di rito rispetto alla posizione dell'imputato di reato connesso, chiamato a deporre sulle altrui responsabilita'; due distinte esigenze meritevoli di tutela i contrappongono: da una parte il diritto dell'imputato di reato connesso a non rivelare le proprie responsabilita', con dichiarazioni che potrebbero negativamente refluire nel procedimento a suo carico; dall'altra il diritto dell'imputato alla verifica scrupolosa ed attenta della fonte tradizionalmente considerata sospetta. Nel sistema delineato nell'originario codice di rito le due esigenze erano state contemperate con l'adozione di un sistema accusatorio puro, attribuendosi all'imputato di reato connesso la facolta' di non rispondere e vietandosi l'ingresso dibattimentale di dichiarazioni rese nella precedente fase del procedimento o in altri procedimenti. La rinuncia alla utilizzazione dibattimentale delle dichiarazioni in precedenza rese si e' rivelata, pero', presto come un costo troppo alto per il nostro ordinamento, afflitto dalla piaga della criminalita' organizzata. La Corte costituzionale, quindi, dando prevalenza al principio della non dispersione degli elementi raccolti, con la storica sentenza del 18 maggio 1992, n. 254, ha dichiarato la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma secondo c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, disponga la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo articolo, rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste ultime si avvalgano della facolta' di non rispondere. A questa sentenza e' seguita una legislazione che ha recepito le istanze di "non dispersione"; si segnalano in tal senso le norme di cui agli artt. 238 e 190-bis c.p.p., che hanno avuto effetti dirompenti nel sistema del codice di rito, tanto da indurre i commentatori a parlare di "svuotamento di contenuto e funzioni dell'esame ex art. 210 c.p.p.". In particolare si e' rilevato come nel sistema delineato a seguito della riforma "bastera' che il narrante, pur comparendo al dibattimento, si rifiuti di rispondere per consentire a dichiarazioni rese nel segreto delle indagini di confluire fra le fonti decisorie senza neppure il vaglio del contraddittorio delle parti", evidenziandosi la "materializzazione dello spettro dell'antica prassi delle conferme". Ed ancora si e' rilevato che solo in apparenza il nuovo assetto procedimentale salvaguarda il diritto al contraddittorio, essendo "la scelta circa i modi di assunzione della prova rimessa alla volonta' dell'accusatore, il quale di volta in volta decidera' se sia piu' proficuo esporre il coimputato alle domande delle parti oppure indurlo a tacere". E si e' sottolineato come una simile possibilita' di influire sulle scelte del collaboratore scaturisca dalla disciplina posta dall'art. 11, terzo comma, della legge 15 marzo 1991, n. 82, che, richiedendo il parere procuratore della Repubblica sull'importanza del contributo offerto o che puo' essere offerto dall'interessato per lo sviluppo delle indagini o per il giudizio penale, implica uno status di inevitabile dipendenza del collaboratore, che lo porta ad un naturale "adeguamento forzoso alle aspettative dell'investigatore". In definitiva si e' sostenuto che "il diritto al silenzio previsto a salvaguardia dei soggetti di cui all'art. 210 si trasforma in un ostacolo per la difesa ed in un serio intralcio alla ricostruzione del fatto. Lo svuotamento dello jus tacendi, piegato a strumento di recupero degli atti investigativi non solo rende inutile, ma, addirittura, nociva l'estensione ai coimputati in diverso procedimento delle garanzie dettate per l'imputato". Di fronte a simili costi, appare legittimo riflettere sulla necessita' di contemperamento fra il diritto al silenzio, quando si controverta sulla altrui responsabilita', e le esigenze dell' assicurazione del contraddittorio e della completa verifica delle fonti di prova. Si e', pero' rilevato che e' estremamente difficile, se non impossibile, nella deposizione sull'altrui responsabilita', scindere in maniera netta i fatti oggetto di accertamento, facendo in modo di non investire la responsabilita' del narrante. Di talche' si pone un problema di bilanciamento degli interessi in gioco, all'esito del quale, senza dubbio, il principio nemo tenetur se detegere si pone come diritto costituzionale di maggior rilevanza di fronte al quale gli altri debbono soccombere; anche se il giudice nella formazione del suo convincimento dovra' tener conto del fatto che la prova si e' formata al di fuori del contraddittorio. Tuttavia, possono in pratica prospettarsi situazioni in cui il diritto al silenzio perde ogni sua concreta giustificazione, per debordare nel campo dell'irrazionale privilegio: e' il caso in cui la responsabilita' del soggetto chiamato a deporre a norma dell'art. 210 c.p.p. sia stata accertata con sentenza passata in giudicato. In questa ipotesi svanisce l'esigenza di tutelare lo jus tacendi secondo l'ampiezza che esigono i principi costituzionali, sottomettendosi la salvaguardia della persona sottoposta al procedimento penale alle prospettive del collaborante in una improbabile eventualita' di richiesta di revisione del procedimento. Allo stesso modo ritiene la Corte che accordare lo jus tacendi anche ai collaboratori di giustizia su argomenti in ordine a i quali essi hanno ammesso le proprie responsabilita' equivale ad assicurare l'interesse, solamente teorico, a non veder ritorcere contro di se' le proprie dichiarazioni, sacrificandosi, invece, il concreto interesse dell'imputato alla verifica delle dichiarazioni utilizzate nei suoi confronti. La categoria di "coloro che collaborano con la giustizia", alla luce della legislazione premiale piu' recente (cfr. artt. 7 e 8 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152; artt. 9 e 16 d.-l. 15 gennaio 1991, n. 8; d. lgs. 29 marzo 1993 e d.m. 24 novembre 1994, n. 687) e' un concetto giuridico facilmente enucleabile. Le persone esposte a grave e attuale pericolo per effetto della loro collaborazione o delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio su fatti di criminalita' organizzata, in forza del riconoscimento di speciale commissione emesso sulla scorta di parere del procuratore della Repubblica competente acquisiscono uno speciale status giuridico in base al quale: essi ed i loro familiari possono fruire di misure e programmi di protezione (artt. 9 e 16 d.-l. 15 gennaio 191, n. 8); possono usufruire in forza di tali programmi (la cui definizione e' preceduta da una valutazione dell'importanza del contributo offerto dal "pentito") di aiuti economici, del cambiamento delle generalita' d. lgs. 29 marzo 1993, n. 119), del trasferimento in luoghi protetti e qualsiasi altra misura anche in deroga alle vigenti disposizioni in materia carceraria; possono usufruire di benefici penitenziari (permessi premio, assegnazione al lavoro esterno, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, semiliberta' ...) in deroga a qualsiasi limite anche temporale per essi ordinariamente fissato (artt. 4-bis, 58-ter e 58-quater legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificato dagli artt. 14 e 15 d.-l. 8 giugno 1992. n. 306); possono essere custoditi in luoghi diversi da quelli penitenziari (artt. 13 e 13-bis d.-l. 8 gennaio 1991) quando ricorrono motivi di sicurezza e per il tempo necessario alla definizione del programma; possono essere esaminati a dibattimento con apposite cautele volte alla tutela del collaboratore medesimo ovvero, quando e' possibile, mediante ricorso a strumenti tecnici idonei a consentire il collegamento audiovisivo (art. 147-bis disp. att. al c.p.p.); possono ottenere un notevole abbattimento della pena usufruendo di speciali attenuanti (art. 8 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152). Questo oneroso trattamento che si addossa la comunita' e' giustificato dal notevole contributo alle investigazioni ed all'accertamento della verita' fornito dai collaboranti. Orbene, per quella inscindibilita' fattuale della narrazione di fatti attinenti la responsabilita' dei correi rispetto alla propria sopra evidenziata, il contributo offerto dal collaboratore deve necessariamente passare per la confessione di specifiche responsabilita' in ordine a gravi reati. In questi casi facilmente delimitabili sulla scorta del dato formale dell'ammissione al programma di protezione (come accade per l'accesso ai benefici penitenziari), ed in relazione ai fatti gia' oggetto di specifica confessione, l'assicurazione dello jus tacendi e' un formale riconoscimento di un vuoto principio a fronte del quale si sacrifica il diritto dell'imputato a processo giusto, che implica il diritto a "difendersi provando" costituzionalmente tutelato dall'art. 24, secondo comma della Costituzione, e che trova completamento, con espresso riguardo alla testimonianza, negli artt. 6, terzo comma, lett. d) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e 14, terzo comma, lett. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Per altro e' bene a questo punto evidenziare che l'attuale procedimento assicura degli strumenti per evitare l'"usura delle fonti di prova, limitando l'introduzione della prova orale ai soli casi di effettiva necessita'". L'art. 190-bis c.p.p. infatti consente di limitare l'audizione dei collaboranti ai soli casi di assoluta necessita'; al di fuori da tali ipotesi e' consentita la lettura dei verbali di dichiarazioni rese in altri procedimenti. E' pero' evidente che in una razionale sistemazione della materia una siffatta valutazione di necessita' dovrebbe essere rimessa al prudente apprezzamento del giudice e non al capriccio del collaboratore o a calcoli processuali delle parti. Quanto fin qui esposto con riferimento alle norme che riguardano il giudizio vale anche nel procedimento di prevenzione, nel quale - per pacifica giurisprudenza, che trae spunto dall'art. 185 disp. att. al c.p.p. - possono essere assunti i mezzi di prova previsti dal III libro della prima parte del c.p.p. Anzi la mancanza di un fascicolo del p.m. aggrava ulteriormente la posizione del proposto e rende comunque piu' difficoltoso l'accertamento del fatto, essendo rimessa all'iniziativa del proponente o del p.m. l'individuazione delle dichiarazioni da utilizzare, puntualmente ricche di omississ. Si e' obiettato che l'eliminazione della facolta' di non rispondere costituisce un modesto passo di fronte alla mancanza di sanzioni a presidio del precetto. E' pero' facile rilevare che nel sistema attuale la mancata risposta costituisce l'esercizio di facolta' legittima non censurabile dall'organismo preposto al controllo dell'attuazione del programma di protezione. Diverso sarebbe, invece, il caso di arbitrario diniego, che esporrebbe il collaborante al pericolo della revoca del programma di protezione. E', quindi, evidente come l'attuale norma posta dall'art. 210.4 c.p.p. violi il principio di razionalita' previsto dall'art. 3 della Costituzione, nonche' il diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione, sacrificato senza alcuna valida ragione allorche' siano chiamati a deporre, quali soggetti indicati nell'art. 210 c.p.p., persone condannate con sentenza passata in giudicato o ammesse a programma di protezione, rispettivamente per la ricostruzione di fatti in ordine ai quali la loro responsabilita' e' accertata con sentenza passata in giudicato o e' stata ammessa nell'ambito della collaborazione e positivamente valutata con l'ammissione al programma. Speculare, ma non sovrapponibile al profilo di illegittimita' sopra rassegnato, e' la manifesta irrazionalita' del sistema - e quindi la violazione del principio di buon andamento della ammninistrazione posto dall'art. 97 della Costituzione - anche in relazione alle esigenze dell'ordinamento dello Stato, che, dopo avere provveduto alla assicurazione di tutte le cautele sopra dettagliatamente rassegnate, volte a consentire al collaborante di fornire il proprio apporto conoscitivo, vede frustrate le legittime aspettative di un adeguato contributo alla formazione della prova. Anche in questo caso valgono le considerazioni sulla natura formale e non sostanziale della facolta' di non rispondere esercitata dal collaboratore di giustizia. La questione, che si solleva di ufficio, oltre che non manifestamente infondata, e', poi, di tutta evidenza, rilevante per la decisione, ricollegandosi con la necessita' rilevata da questa Corte di approfondire la ricostruzione del fatto con l'esame dei collaboranti ammessi a programma di protezione.