IL TRIBUNALE Ha pronunziato la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 2420 del ruolo generale degli affari contenziosi dell'anno 1993 avente ad oggetto: disconoscimento di paternita', e vertente tra Abate Walter elettivamente domiciliato in Napoli alla via Luca da Penne, 1, presso l'avv. Carlo Penta dal quale e' rappresentato e difeso in virtu' di procura a margine dell'atto di citazione, attore; e Abate Teresa elettivamente domiciliata in Napoli alla via S. Elia, 18 presso la dr.ssa Marina Miranda, rappresentata e difesa dagli avv.ti Vincenzo Miranda e Elena Coccia, in virtu' di procura in calce alla citazione, convenuta; e avv. Campus Bruno, quale curatore speciale del minore A. M. domiciliato in Napoli, convenuto; nonche' il p.m. presso il tribunale di Napoli interventore ex lege. Conclusioni All'udienza del 2 maggio 1996, i procuratori delle parti hanno concluso riportandosi a quanto gia' dedotto nei rispettivi atti difensivi. Il p.m. ha chiesto accogliersi la domanda di disconoscimento della paternita' ex art. 235, n. 2, c.c. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 28 gennaio 1993, Abate Walter esponeva di aver contratto matrimonio il 7 settembre 1986 con Abate Teresa la quale aveva partorito due figli: C. A. il 3 marzo 1990 e M. il 3 agosto 1992, nati a seguito di inseminazione artificiale, essendo egli impotente alla procreazione. Assumeva che, per il secondo dei figli, essendo in grave crisi il rapprto matrimoniale, si era opposto a tale pratica e, una volta separato dalla moglie, aveva invitato quest'ultima a non dichiarare come suo il bambino che stava per nascere; poiche' pero' Abate Teresa aveva dichiarato il predetto come figlio di entrambi, doveva allora provvedersi al disconoscimento del bambino. Avendo poi ottenuto la nomina del curatore speciale del minore con decreto del 22 dicembre 1992, conveniva in giudizio, davanti al tribunale di Napoli, Abate Teresa e Campus Bruno, quale curatore speciale del minore A. M. per sentire dichiarare che quest'ultimo non e' figlio di Walter Abate, con ogni provvedimento consequenziale. Si costituiva in giudizio il curatore speciale del minore chiedendo il rigetto della domanda, con vittoria di spese. Resisteva alla domanda anche Abate Teresa la quale assumeva che anche la seconda inseminazione eterologa, come la prima, era stata decisa di comune accordo e che il bambino nato a seguito della stessa, non era stato quindi denunciato come figlio adulterino, come richiesto invece dall'istante, il quale aveva depositato il 27 marzo 1992 ricorso per separazione personale. Deduceva quindi che il consenso prestato dall'attore alla procreazione non poteva essere revocato ed impediva l'applicabilita' dell'art. 235, n. 2), c.c. In via subordinata rilevata l'illegittimita' costituzionale della norma citata in quanto applicabile all'ipotesi in esame, per contrasto con gli artt. 3, 29 e 31, ed ancora, in via gradata, nell'ipotesi di accoglimento del disconoscimento del minore, spiegava domanda riconvenzionale sia per se medesima che per il minore M., diretta ad ottenere la condanna dell'attore al risarcimento dei danni causati dal suo comportamento illegittimo consistito nell'aver disconosciuto il figlio alla cui procreazione aveva dato il consenso. All'udienza del 31 gennaio 1995, il g.i. disponeva riunirsi alla presente causa quella avente ad oggetto la contestazione di legittimita' proposta da A. C. nei confronti del nipote omonimo. Veniva quindi disposta la comparizione personale delle parti ed espletata prova testimoniale; dopodiche', all'esito dell'istruzione, sulle conclusioni in epigrafe trascritte, la causa veniva rimessa al collegio che si riservava la decisione all'udienza del 28 febbraio 1997. Con sentenza depositata contestualmente alla presente ordinanza, il Tribunale ha disposto la separazione delle due cause riunite ed ha dichiarato l'inammissibilita' dell'azione di contestazione della legittimita' sopra indicata. Motivi della decisione 1. - Risulta innanzitutto univocamente dalla documentazione medica acquisita ad e' altresi' pacifico tra le parti, che il ricorso alla procreazione artificiale per la nascita di entrambi i figli dei coniugi Abate (C. nato il 3 marzo 1990 e M. nato il 3 agosto 1992), fu determinato dall'accertato stato di impotenza dell'Abate Walter. Controverso invece e' se quest'ultimo avesse prestato o meno il consenso anche alla fecondazione artificiale per la nascita del secondo figlio, per il quale e' stata proposta l'azione di disconoscimento in esame. Infatti, nel corso della comparizione personale delle parti, da un lato l'istante ha dichiarato di essere stato all'oscuro di tale inseminazione e di averne avuto conoscenza solo all'esito di un litigio avuto con la moglie nel novembre 1991 (ovvero nel dicembre 1991, secondo quanto affermato invece nel ricorso per separazione giudiziale); dall'altro Abate Teresa ha decisamente contestato tale circostanza ed ha riferito che era stato invece il marito ad averle comunicato telefonicamente in data 7 dicembre 1991 l'esito positivo della seconda inseminazione, per averla appresa dal dr. Claudio Marotta, amico e collega del predetto. Una prima conferma della versione dei fatti rappresentata dalla Abate si ricava dalla deposizione del dr. Marotta il quale ha riferito di aver visionato casualmente - nel dicembre 1991 - il test positivo di gravidanza dell'Abate e di avere informato di cio' l'amico Walter, rimproverandolo anzi di non avergli detto nulla prima. Ha aggiunto poi che, essendosi incontrato con il predetto dopo qualche ora, avevano telefonato all'Abate Teresa comunicandole la notizia, e che, nell'occasione, l'atteggiamento dell'Abate Walter era "alquanto distaccato", senza particolare reazione emotiva. Anche tale atteggiamento, in realta', pur non essendo di per se' indicativo del consenso dell'Abate, contrasta decisamente con l'ipotesi che lo stesso fosse stato all'oscuro di tutto, posto che in tal caso la reazione dell'Abate sarebbe stata ben diversa e certamente piu' violenta del semplice contegno di "distacco". Di particolare rilievo e' poi la testimonianza di Sorrentino Maria, amica di famiglia, la quale aveva accompagnato l'Abate in occasione di entrambe le inseminazioni effettuate da quest'ultima. La teste ha riferito che il desiderio dell'Abate Walter di avere anche un altro bambino tramite la stessa pratica di inseminazione artificiale, le era stato confidato dall'Abate Teresa e che soprattutto "in occasioni di incontro se ne parlava ed egli apertamente dichiarava di aspirare ad avere un secondo bambino". Anche l'Oliva Anna ha riferito che i coniugi erano entrambi d'accordo a seguire l'iter dell'inseminazione artificiale per avere un secondo bambino ed ha precisato di aver appreso tale circostanza sia dalla Abate sia nel corso di varie discussioni in cui era presente l'Abate Walter, aggiungendo anzi che era stato proprio quest'ultimo ad insistere per "dare una compagnia a C." ed a comunicarle poi - "con gioia" - l'esito positivo della seconda inseminazione. Dello stesso tenore e' anche la deposizione di Prisco Antonietta la quale ha confermato (come del resto anche l'altro testo Abate Raffaele) che Abate Walter aveva manifestato l'intenzione di avere un secondo bambino per "dare una compagnia" al piccolo primogenito, incontrando inizialmente le resistenze della moglie, e che successivamente il predetto si era mostrato felice di questa nuova gravidanza. In definitiva, il comportamento tenuto dall'Abate Walter, sia prima che immediatamente dopo la gravidanza, e' stato oggetto di percezione diretta da parte dei testi suindicati, sulla cui attendibilita' non vi e' motivo di dubitare, e risulta quindi univocamente indicativo della piena adesione dell'Abate all'idea di ricorrere all'inseminazione artificiale per la nascita di un altro bambino. Ne' sono idonee ad inficiare l'affidabilita' di tali concordi desposizioni, quelle rese da Russo Antonio ed Abate Diego (fratello dell'istante) i quali sono stati solo in grado di riferire generiche circostanze contrarie apprese dall'istante stesso dopo l'inizio del giudizio di separazione, ed in particolare la sua opposizione ad avere un secondo bambino, stante la tensione esistente nei rapporti coniugali. D'altra parte, la ricostruzione dei fatti offerta dalla convenuta risulta maggiormente convincente anche sotto il profilo logico; infatti, mentre l'ipotesi di una decisione dell'Abate Teresa di intraprendere una gravidanza in costanza di matrimonio con l'opposizione del marito appare priva di una ragionevole motivazione, viceversa la decisione dell'Abate di negare il consenso prestato per la nascita del secondogenito si inserisce - e quindi ben si giustifica - nell'ambito del clima di esasperata conflittualita' tra i coniugi che e' alla base del giudizio di separazione intrapreso dall'Abate Walter. E che tale clima abbia inciso gravemente nei rapporti con i figli e' dimostrato dal fatto che l'Abate, dall'inizio della separazione, ha smesso di frequentare anche il primo figlio ed ha aderito alla iniziativa dell'A. C. di impugnare lo status di legittimita' del figlio stesso, benche' avesse certamente acconsentito in tale occasione alla fecondazione artificiale e lo avesse poi amorevolmente trattato nei primi anni di vita (cfr. dichiarazioni rese dall'Abate Walter in sede di comparizione personale nonche' la comparsa di costituzione del predetto nel giudizio di contestazione della legittimita'). 2. - Cio' posto, si tratta allora di verificare, in linea di diritto, l'incidenza che tale consenso assume sull'esperibilita' dell'azione di disconoscimento. In proposito, il collegio ritiene di condividere le conclusioni cui sono pervenuti gli unici precedenti giurisprudenziali rinvenuti in materia (tribunale Cremona 17 febbraio 1994, in Foro it. 1994, p. 1576, confermata dalla Corte di appello di Brescia 10 maggio 1995 in dir. fam. 1996, 116, nonche' tribunale Roma 30 aprile 1956, in Foro it. 1956, p. 1612). Nel nostro ordinamento, infatti, il consenso prestato dal marito all'inseminazione eterologa della moglie, non puo' ritenersi idoneo ad escludere l'azione di disconoscimento della paternita', legittimata dall'impotentia generandi ex art. 235, n. 2, c.c., vuoi per l'inensistenza di una specifica norma che attribuisca a detto consenso l'efficacia di escludere l'azione di disconoscimento, vuoi per l'insussistenza di quel rapporto biologico di sangue che costituisce l'imprenscindibile presupposto di ogni rapporto giuridico di filiazione (v. ad es. artt. 231, 263, 269 e 271 c.c.), per la cui sussistenza e' irrilevante ogni altro elemento di natura soggettiva o psicologica (come ad esempio lo stato di ubriachezza o di demenza all'atto della fecondazione). Pertanto, anche per i figli nati da fecondazione artificiale in costanza di matrimonio, non puo' non operare la presunzione di legge fissata dall'art. 231 c.c., presunzione che puo' essere rimossa nei casi e nei modi previsti dall'art. 235 c.c. Ne' del resto potrebbe riconoscersi nel consenso del padre una implicita preventiva rinuncia all'azione di disconoscimento. Se e' vero infatti che la rinuncia ad un diritto puo' anche essere implicita e ricavarsi da manifestazione tacite di volonta', non vi e' dubbio pero' che essa deve desumersi da fatti concludenti ed univoci e deve essere altresi' incompatibile con la volonta' di conservare il diritto. Nel caso concreto, invece, una simile intenzione non puo' certo ricavarsi dal solo consenso alla fecondazione eterologa, poiche' tale manifestazione di volonta', collocandosi sia temporalmente che teleologicamente su di un piano completamente diverso dall'azione di disconoscimento poi esercitata, non implica necessariamente la rinuncia ad una futura ed eventuale contestazione del rapporto di filiazione. In ogni caso, come rilevato esattamente nei precedenti giurisprudenziali sopra citati, la rinuncia presuppone la libera disponibilita' dei diritti mentre nelle azioni di stato, come quella in esame, si verte in materia sottratta alla disponibilita' dei privati, con la conseguenza che, anche a volerla ritenere sussistente nella fattispecie, la rinuncia all'azione di disconoscimento sarebbe comunque inefficace. 3. - Le conclusioni sopra esposte sono state criticate da parte della dottrina la quale ha proposto invece una diversa impostazione del problema, che puo' cosi' sintetizzarsi. Il consenso del padre non viene in rilievo come atto dispositivo dello status di figlio o dell'azione di disconoscimento bensi' come un "aspetto di un comportamento piu' complesso che muove dalla decisione di avere un figlio e si completa nell'accoglienza del figlio nella propria famiglia, nel trattato come proprio ... insomma in una condotta socialmente rilevante di assunzione di responsabilita' verso una nuova vita, verso la quale la propria condotta e' determinata sia per farla nascere sia per attribuirle diritti di status. Se e' vero che la riforma e' ispirata ad una tendenziale corrispondenza tra verita' naturale e verita' formale, e' vero anche che la ricerca della verita' biologica non e' un valore in se', assoluto e senza limiti, come si ricava ad es. dai termini di decadenza per l'esercizio dell'azione di disconoscimento di paternita', dalla necessita' del consenso del figlio per il suo riconoscimento o dall'inammissibilita' della dichiarazione giudiziale di paternita' quando contrasti con l'interesse del figlio. Il concetto giuridico di paternita' viene ad essere cosi' collegato non esclusivamente al dato biologico, ma anche al principio di responsabilita' della procreazione e di conseguenza all'aspetto sociale ed affettivo. L'art. 235 c.c. e' formulato sul presupposto che, nell'ipotesti di impotenza del marito, la nascita del figlio dovesse essere necessariamente collegata, ad un adulterio della madre mentre la possibilita' di fecondazione senza la partecipazione all'atto generativo spezza questo rigido automatismo. Il marito che ha invece scelto consapevolmente la via della fecondazione artificiale eterogenea per avere un figlio dalla moglie, a compiuto legittimamente un atto responsabile e decisivo per la nascita del figlio e non puo' quindi essere ammesso successivamente ad esercitare l'azione di disconoscimento. Le argomentazioni dottrinali fin qui esposte non risultano pero' idonee, ad avviso del Collegio, a pervenire de iure condito alla soluzione propugnata. E' certamente innegabile l'assoluta mancanza di una idonea regolamentazione legislativa in materia, posto che l'attuale ordinamento giuridico e' basato, in effetti, sulla procreazione con metodi naturali, senza alcuna previsione delle varie ipotesi di fecondazione assistita che hanno comportato una vera e propria rivoluzione degli schemi giuridici tradizionali di paternita' e maternita'. Ne' ancora puo' sottacersi che, come emerso anche nella vicenda giudiziaria in esame, l'attuale vuoto normativo in materia si appalesa alquanto allarmante, specie per l'assenza di qualsiasi disciplina dell'attivita' dei centri privati presso cui tali interventi vengono liberamente praticati, essendo tale attivita' rimessa alla sola autoregolamentazione dei centri stessi, senza alcun controllo da parte dello Stato (cfr. le dichiarazioni rese dal dr. Schetter secondo cui, all'epoca dei fatti per cui e' causa, le uniche notizie richieste alla donna che, come l'Abate Teresa, ricorrevano alla fecondazione artificiale riguardavano "il suo gruppo sanguigno e le caratteristiche fenotipiche del marito in modo da poter selezionare il seme del donatore che dia anche una certa somiglianza"). Occorre pero' verificare se la normativa esistente consenta, sul piano interpretativo, la soluzione suggerita dalla dottrina. Al riguardo, occorre ricordare che, secondo il fondamentale canone di ermeneutica sancito dall'art. 12 delle preleggi, la norma giuridica deve essere interpreta innanzitutto dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", di poi, solo se tale significato non sia chiaro ed univoco, si deve ricorrere al criterio logico, al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa "intenzione del legislatore", avendo cura pero' di individuare quale risulta dal singolo testo che e' oggetto di specifico esame e non gia' quale puo' desumersi dalle finalita' ispiratrici del complesso normativo in cui si inserisce quel testo. Infine, solo "se la controversia non puo' essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe". Il riferimento ad elementi extratestuali e' quindi consentito per ricercare elementi interpretativi quando la norma sia oscura o si presti ad interpretazioni contrastanti, ma non per dare un senso diverso da quello fatto palese dal significato chiaro ed inequivoco desumubile dalla sua dizione letterale. Secondo l'insegnamento della suprema Corte, quando dalla lettera della legge appare chiara la volonta' del legislatore, non e' consentito al giudice che interpreta la norma sostituire a quella volonta' altra contraria o diversa, "solo perche' la ritenga meglio rispondente alla finalita' della legge stessa, posto che la ricerca della ratio legis costituisce solo un criterio sussidiario di interpretazione in presenza di norma di dubbio contenuto ma non puo' valere a disattendere la portata della norma stessa anche qualora questa, sia pure contro l'intenzione del legislatore, abbia un inequivocabile significato" (Cass. 7 aprile 1983, n. 2454; 23 settembre 1983, n. 4711; 6 agosto1984, n. 4631). In definitiva, non e' consentito all'interprete far prevalere l'interpretazione teleologica su quella letterale e correggere cosi' la norma nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, neppure nell'ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia inadatto alla finalita' pratica cui la norma e' intesa (Cass. 96/3495). Applicando tali principi alla fattispecie, deve escludersi l'ammissibilita' di un'interpretazione diversa da quella sopra seguita. Nel caso in esame non siamo in presenza di una vera e propria lacuna legislativa da regolare sulla base dei principi espressi in casi simili o in materie analoghe, posto che l'ipotesi concreta in esame integra perfettamente i presupposti della fattispecie giustificativa dell'azione di disconoscimento della paternita' ex art. 235, n. 2, c.c. (status di figlio legittimo e impotenza del marito). Manca quindi qualsiasi supporto normativo in base al quale fondare l'esclusione dell'azione di disconoscimento dell'azione di paternita' nel caso di consenso prestato dal padre, perche' cosi' si introdurrebbe un ulteriore requisito negativo dell'azione non previsto dalla legge. La possibilita' di sostituire alla paternita' biologica il consenso, che e' un atto negoziale proveniente da un terzo rispetto al rapporto biologico, non trova fondamento nel mero diritto positivo. Ne' del resto potrebbe ritenersi del tutto scontato, anche sulla base dei principi del diritto vigente, l'esito della comparazione che si verrebbe in tal modo a regolare, se si considera ad esempio che l'azione di impugnazione per difetto di veridicita' e' concessa sulla base della sola inesistenza del rapporto biologico, anche all'autore del riconoscimento, ossia al soggetto che ha acconsentito, pure formalmente, all'iniziale rapporto giuridico di procreazione, in applicazione del principio di ordine superiore - espresso nella relazione al Re n. 126 - secondo cui la realta' giuridica deve adeguarsi nella maniera piu' larga possibile alla realta' naturale, indipendentemente dal comportamento soggettivo dell'autore del riconoscimento. In tal senso peraltro e' la decisione della suprema Corte n. 12350 del 18 novembre 1992 secondo cui nell'ipotesi di fecondazione natuale la paternita' va attribuita come conseguenza giuridica della procreazione e non rilevando di conseguenza un disvolere del concepimento da parte del presunto padre, ne' e' fondata l'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 269 c.c. nella parte in cui attribuisce la paternita' naturale in base al mero dato biologico senza alcun riguardo alla componente volitiva, costituita dal fine della procreazione che deve accompagnare l'atto sessuale. Dibattuta inoltre e' la possibilita' di poter agire per il disconoscimento quando, pur mancando il rapporto biologico, sia assente ogni violazione del dovere di fedelta', come nei casi di concepimento involontario o di violenza sessuale. Il sistema normativo vigente, quindi, non e' nel senso di riconoscere - sempre ed in modo univoco - ai presupposti di volonta' e responsabilita' che abbiano influito sul fatto della generazione, un carattere prevalente rispetto al normale presupposto della derivazione biologica. E' significativo del resto che in numerosi ordinamenti stranieri, come quello tedesco ed anglosassone, oltre che nei disegni di legge presentati nel nostro Paese, il problema e' stato risolto nel senso di impedire espressamente che il consenso del coniuge all'inseminazione artificiale possa essere successivamente revocato, ma che, prima di tali innovazioni legislative, la giurisprudenza francese, ad esempio, era pervenuta alle stesse conclusioni accolte da questo tribunale. In definitiva, deve pertanto ritenersi de iure condito che in mancanza sia di una normativa ambigua ed equivoca sul punto, sia di principi generali univoci e precisi in materia, la soluzione contraria suggerita dalla dottrina rappresenterebbe un'operazione ermeneutica di tipo creativo, come tale vietata all'interprete, specie in una materia cosi' delicata come quella in esame. 4. - Ad avviso del Collegio, le istanze e le ragioni di carattere etico e sociale sottese alla posizione dottrinale sopra illustrata, possono trovare la loro esatta collocazione, oltre che de iure condendo, soltanto sotto il profilo dell'incostituzionalita' della normativa in esame. Infatti, la soluzione del caso concreto desumibile dall'attuale disciplina legislativa non garantisce una effettiva tutela delle posizioni contrastanti, quella cioe' della madre e della famiglia legittima, e soprattutto quella del generato che e' senza dubbio il soggetto meno tutelato nei suoi diritti inviolabili di uomo in quella particolare formazione sociale che e' la famiglia. L'art. 30 Cost., nell'enunciare che e' dovere e diritto dei genitori, di mantenere, istruire ed educare i figli, individua in capo ai genitori il principio di responsabilita' per la procreazione, escludendo qualsiasi possibilita' di esonero. Cio' significa che ogni bambino ha diritto ad essere mantenuto, istruito ed educato dai propri genitori, cioe' di essere messo nelle condizioni ottimali per poter sopravvivere e sviluppare la propria personalita', e che tale diritto puo' essere eliminato solo se il padre legittimo dimostri di non essere responsabile della nascita del figlio nato in costanza di matrimonio; ed anche l'adozione dei minori e' un esempio della rilevanza di tale assunzione di responsabilita'. La potesta' dei genitori e' un potere attribuito non gia' nel loro interesse personale ne' di quello della famiglia bensi' nell'interesse dei figli, che lo Stato promuove e garantisce anche attraverso molteplici interventi correttivi o sanzionatori sull'esercizio di detta potesta' (v. artt. 570 ss. c.p. e 155, 330 ss., c.c.). Il legislatore costituzionale ha elevato l'interesse del minore a rango di interesse preminente, intorno al quale essere aromonizzate tutte le altre componenti familiari; la famiglia cioe' rappresenta lo strumento per l'armonico sviluppo della personalita' dell'individuo e di conseguenza l'interesse familiare non deve essere inteso come interesse superindividuale in se' contrapposto a quello dei singoli che ne fanno parte ma come complesso degli interessi degli individui che vivono nella comunita' familiare, anche in posizione conflittuale che deve essere mediata con riferimento alle esigenze di ciascun membro. In tale contesto, l'interesse del generato assume rilievo prevalente anche verso chi ha determinato la sua nascita dal punto di vista biologico e/o morale: del resto, se si e' riconosciuta la necessita' di tutelare l'interesse del figlio anche ai fini dell'ammissibilita' dell'azione dichiarativa della paternita' o maternita' naturale (Corte cost. n. 341/1990), la valutazione del medesimo interesse non puo' non essere parimenti garantita anche nel caso di disconoscimento della paternita' proposto dal padre legittimo dopo aver prestato il proprio consenso all'inseminazione eterologa della moglie. Rafforza tale opinione la decisione della Corte costituzionale del 27 novembre 1991, n. 429 secondo cui, nel caso di minore di eta' inferiore ai sedici anni, la ricerca della paternita' "pur quando concorrono specifiche circostanze che la fanno apparire giustificata ai sensi degli artt. 235 o 274 c.c., non e' ammessa ove risulti un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo...; l'interesse dovra' essere apprezzato dal giudice soprattutto in funzione dell'esigenza di evitare che l'eventuale mutamento dello status familiare del minore possa pregiudicarne gli equilibri affettivi". L'infondatezza della questione di costituzionalita' sottoposta alla Corte e' stata affermata sul presupposto che il provvedimento del tribunale di nomina di un curatore speciale al fine di proporre l'azione di disconoscimento su istanza del p.m., deve giustificare congruamente la valutazione dell'interesse del minore ed il giudice deve quindi "allargare il campo delle acquisizioni delle sommarie informazioni, includendovi tutti gli elementi necessari o utili per valutare la sussistenza dell'interesse del minore all'esperimento di un'azione che lo spoglierebbe dello stato di figlio legittimo senza garantirgli l'acquisto dello stato di filiazione nei confronti del padre naturale". Di talche' risulta confermata l'imprescindibile necessita' di valutare l'interesse del minore come pregiudiziale all'accoglimento dell'azione di disconoscimento; tale valutazione, nel caso sottoposto alla Corte, e' ricompresa nel giudizio preliminare di nomina del curatore speciale del minore da parte del tribunale, ma non vi e' invece possibilita' di una sua rilevanza giuridica nel caso in cui l'azione stessa sia introdotta da uno dei soggetti privati a cio' legittimato. Inoltre, va considerato che il semplice fatto dell'inseminazione artificiale non offre elementi sufficienti per la costituzione di un rapporto giuridico di paternita' nei confronti del donatore del seme per cui il figlio disconosciuto finirebbe per assumere una posizione analoga a quella dei figli nati ad opera di ignoti, determinandosi cosi' gravi disciminazioni tra le varie categorie di figli, specie con riguardo al fenomeno dell'azione in cui e' espressamente esclusa la possibilita' di revocare il consenso prestato e di far venir meno quindi il rapporto di filiazione, sorto anch'esso a prescindere da un legame di tipo biologico. In conclusione, l'accoglimento dell'imputazione da parte del padre legittimo che abbia acconsentito all'inseminazione artificiale eterologa della moglie, si risolverebbe nella mera "certificazione" della corrispondenza tra il dato naturale e la situazione formale con conseguente privazione giuridica della figura paterna e lesione irreversibile dei diritti del minore alla propria identita' ed al proprio nome che trovano invece un solido fondamento a livello costituzionale nei principi stabiliti dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31. Neppure potrebbe ovviarsi a cio', assumendo che alla disconoscibilita' del figlio nato da fecondazione artificiale con il consenso del marito della madre, consegua la risarcibilita' dei danni derivanti da tale irresponsabile comportamento del soggetto divenuto padre legittimo. Invero, pur a prescindere dall'ammissibilita' di una simile domanda risarcitoria, non vi e' dubbio che la mancanza del rapporto di paternita' che si verrebbe in tal modo a determinare comporterebbe per il figlio disconosciuto la perdita di diritti e di valori personali non suscettibili di completa restitutio in integrum attraverso la semplice monetarizzazione degli stessi, peraltro di ardua quantificazione, dovendosi certamente escludere che tale utilita' economica sia idonea a sostituire quelle esigenze di vita irreversibilmente compromesse dall'accoglimento dell'azione di disconoscimento. Stante quindi la rilevanza e la non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalita' sopra illustrato, si impone la sospensione del presente processo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, con gli adempimenti di rito indicati di dispositivo.