IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa di lavoro promossa dai ricorrenti Parrino Vincenzo, De Lavigne Maria Teresa e Stallone Roberto, contro il Ministero di grazia e giustizia (n. 292/97); Rilevato che i ricorrenti, giudici di pace nel circondario di Fermo, domandano la condanna del ministero convenuto al pagamento della indennita' speciale prevista dall'art. 3 della legge 19 febbraio 1981 n. 27 come spettante ai magistrati ordinari, tra i quali, secondo l'assunto dei ricorrenti, devono essere annoverati i giudici di pace; Rilevato che la difesa erariale oppone che il compenso spettante ai giudici di pace e' regolato e determinato dall'art. 11 della legge 21 novembre 1991 n. 374, che lo denomina indennita' e ne quantifica l'ammontare, sicche' nessun altro compenso ad essi compete; Ritenuto che tale tesi appare fondata, essendo evidente che l'art. 11 citato esprime l'intenzione del legislatore di corrispondere un compenso nella misura determinata dalla norma stessa, senza lasciare spazio ad ulteriori pretese, meno che mai con riferimento a voci della retribuzione dei pubblici dipendenti magistrati; Ritenuto che peraltro deve dubitarsi della costituzionalita' della norma poiche' essa prevede un compenso inadeguato, siccome insufficiente ed incongruo; Ritenuto che tale dubbio insorge alla stregua della considerazione: 1) della rilevanza, ed addirittura della preminenza costituzionale della funzione giudiziaria; 2) della specifica, effettiva rilevanza che l'opera dei giudici di pace assume nella amministrazione della giustizia; 3) della inadeguatezza del compenso che la legge prevede per i giudici di pace, in misura sicuramente insufficiente ad assicurare ad essi una esistenza dignitosa; 4) della conseguente impossibilita' di concorrere alla funzione giudiziaria del cittadino che pur in possesso di tutti gli altri requisiti, non fruisca di reddito diverso ed ulteriore rispetto alla denominata indennita' che gli verrebbe corrisposta siccome giudice di pace; Ritenuto che, per quanto attiene al primo punto, tutto il sistema costituzionale attribuisce preminenza alla funzione giudiziaria, poiche' "la giustizia e' amministrata in nome del popolo" e "i giudici sono soggetti soltanto alla legge" (art. 101 della Carta costituzionale), in un contesto di liberta', e di legalita'; Ritenuto che, per quanto concerne il secondo punto, e' di tutta evidenza che la legge conferisce al giudice di pace una competenza vasta ed importante, nella quale rientrano controversie di valore che deve essere ritenuto piu' che rilevante con riferimento al reddito medio del cittadino, ed al livello di vita generale, quale esso e' desumibile anche dalle retribuzioni previste dalla contrattazione collettiva, ed e' altresi' desumibile dal livello delle prestazioni previdenziali e assistenziali; sicche' la qualificazione della giustizia amministrata dai giudici di pace come "giustizia bagatellare" e' mera espressione di insensibilita' di soggetti privilegiati nei confronti della grande maggioranza della popolazione, i cui problemi, ed i conseguenti conflitti economici, meritano rispetto e considerazione; quando l'atteggiamento di chi sminuisca la cosi' detta "giustizia minore" non costituisca alibi per un disimpegno nei confronti della reale, effettiva amministrazione della giustizia, da erogarsi come servizio a tutti i cittadini, con tempi e costi accettabili, mentre si vorrebbe gabellare come "giustizia superiore" una sorta di palestra riservata al dibattito dei massimi problemi, per cui tempi e costi non rappresentarebbero intralcio; Ritenuto che, per quanto riguarda il terzo punto, l'inadeguatezza del compenso previsto dall'art. 11 cit. e' di tutta evidenza, poiche' una semplice, elementare operazione aritmetica, quale e' la moltiplicazione del compenso unitario previsto per alcune attivita' per il numero delle attivita' possibili nell'unita' di tempo considerata porta ad un risultato assolutamente inferiore alle esigenze di vita del cittadino, alla stregua del notorio (art. 115, comma secondo c.p.c.), e del parametro costituzionale di adeguatezza (cfr. l'art. 36 della Carta); Ritenuto che, di tale inadeguatezza il legislatore era ben consapevole, come e' desumibile dalla esclusione di qualsiasi connotato di corrispettivita', laddove si afferma che "l'ufficio del giudice di pace e' onorario" (comma primo dell'art. 11 cit.), si qualifica il compenso come "indennita'", e si prevede la cumulabilita' della indennita' "con i trattamenti pensionistici e di quiescenza comunque denominati" (comma quarto-bis, aggiunto dall'art. 15 del d.-l. 7 ottobre 1994 convertito in legge 6 dicembre 1994 n. 673); Ritenuto che seppure il legislatore e' sovrano nel denominare come piu' gli aggrada compensi come indennita', ed uffici come onorari, egli non puo' attribuire ad essi natura diversa da quella che essi nella realta' assumono, e caratteri difformi dalla verita'; sicche' a nessuno, e neppure al legislatore e' dato disconoscere che il giudice di pace svolge (o dovrebbe svolgere) con competenza ampia, ed impegno pieno, una funzione vasta, ed insostituibile, di amministrazione della giustizia; sicche' nel vigente sistema, come esso e' regolato, la maggior parte delle controversie civili sono attribuite alla competenza del giudice di pace, e sino ad un valore che la gran parte degli interessati puo' a ragione considerare ragguardevole; e laddove il numero delle controversie e' modesto, cio' deve certamente attribuirsi a disfunzioni ed inefficienza, ed a scoramento e rinuncia dei potenziali utenti, e non ad una scarsa rilevanza del servizio pubblico-amministrazione della giustizia che i giudici di pace dovrebbero assicurare; Ritenuto pertanto che l'amministrazione della giustizia e' funzione primaria, che essa e' attribuita in parte importante ai giudici di pace, che essi possono e debbono svolgerla con un impegno che e' (o dovrebbe essere) di assoluta rilevanza, rimane da valutare se l'inadeguatezza dell'indennita', prevista dall'art. 11 cit., costituisca violazione di norma costituzionale; Ritenuto che l'insufficienza del compenso inficia certamente il prestigio del giudice, e pregiudica l'efficienza del servizio, ma non costituisce ostacolo assoluto alla amministrazione della giustizia, sicche' non puo' ipotizzarsi una violazione delle norme costituzionali che prevedono ed assicurano la tutela giurisdizionale; Ritenuto che tale insufficienza costituisce peraltro impedimento di fatto all'esercizio della funzione giurisdizionale, come giudice di pace, da parte dei soggetti che non fruiscano di reddito aggiuntivo, con violazione del principio di uguaglianza dei cittadini, sicche' si costituiscono due categorie: gli abbienti, che possono concorrere alla funzione giurisdizionale come giudici di pace, e tutti gli altri, che da tale funzione sono estromessi, solo perche' non hanno altro reddito, e non potrebbero procurarselo svolgendo attivita' lavorativa, poiche' l'ufficio del giudice di pace richiede impegno costante e gravoso; Ritenuto che tale discriminazione appare addirittura prevista e voluta dal legislatore, che sembra aver prescelto un modello di giudice di pace ispirato da antiche esperienze, per cui si riservava l'amministrazione della giustizia ai maggiorenti, volenterosi ed omologati al comune sentire dei ceti dominanti; Ritenuto che un giudice che abbia tale carattere non puo' trovare ingresso nel nostro sistema costituzionale, e poco importa che il ricorso al modello del giudice onorario inadeguatamente retribuito sia stato dettato da mere finalita' di risparmio; vero e' che se il giudice di pace deve svolgere attivita' ampia ed impegnativa, l'insufficienza della sua retribuzione esclude, automaticamente, dall'ufficio i cittadini non abbienti, che non potrebbero ad esso dedicare il tempo e l'impegno necessario se sprovvisti di redditi non di lavoro (poiche' eventuali redditi da lavoro non possono, ovviamente, essere presi in considerazione, non potendosi ipotizzare una attivita' lavorativa ampia e redditizia, da parte di un cittadino incaricato di un ufficio tanto impegnativo); Ritenuto che il sistema, cosi' come configurato dall'art. 11 cit., pone innanzi due alternative; la prima, ovviamente da escludere, e' che l'amministrazione della giustizia venga resa dai giudici di pace come attivita' ulteriore rispetto ad altra attivita' lavorativa, con pregiudizio evidente ed irreparabile per un servizio pubblico primario; e la seconda e' che alla attivita' di amministrazione della giustizia si dedichino soltanto i soggetti che fruiscano di redditi ulteriori, con esclusione di tutti gli altri soggetti; Ritenuto quindi che possa dubitarsi che sia conforme al principio costituzionale di eguaglianza soltanto la previsione di un compenso adeguato, che consenta a ciascun cittadino, che ne abbia i requisiti, di concorrere all'ufficio del giudice di pace, nella consapevolezza che ad esso potra' dedicarsi, essendogli assicurato un sostentamento, mentre appare lesivo del principio di eguaglianza il riservare, di fatto, l'ufficio a quei cittadini soltanto che abbiano un livello economico tale da consentire loro di amministrare la giustizia senza preoccuparsi se ad essi verra' corrisposto un compenso adeguato; Ritenuto inoltre che l'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 11 non e' preclusa dalla insuperabile difficolta' rappresentata da un vuoto normativo, che non consentirebbe di sostituire alla norma costituzionalmente illegittima una altra norma, desumibile dal sistema, e della cui costituzionalita' non sia dato dubitare; e' infatti evidente che troverebbe applicazione, quantomeno in via analogica, l'art. 2225 c.c., e che i parametri per la determinazione equitativa di un adeguato corrispettivo sarebbero di agevole reperimento; Ritenuto infine che la questione appare rilevante e decisiva, poiche' da essa dipende l'esito del processo, nel quale si controverte della pretesa dei ricorrenti ad un compenso superiore alla indennita' prevista dalla norma della cui costituzionalita' si dubita.