Ricorso per conflitto di attribuzioni della regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della giunta regionale pro-tempore Antonio La Forgia, autorizzato con deliberazione della giunta regionale n. 2443 del 16 dicembre 1997 (doc. 1), rappresentata e difesa - come da procura rogata dal notaio dott. Claudio Vipiana di Bologna del 19 dicembre 1997 (rep. n. 17348) - dagli avvocati Giandomenico Falcon di Padova e Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell'avv. Manzi, via Confalonieri n. 5, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri per la dichiarazione che non spetta allo Stato di dettare con il d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonche' della flora e della fauna selvatiche (in Gazzetta Ufficiale n. 248 del 23 ottobre 1997), una disciplina vincolante ed istitutiva di riserve di competenza statale e poteri sovraordinati di autorita' centrali dello Stato, nonche' per il conseguente annullamento del predetto regolamento nella parte in cui contiene tale disciplina, e segnatamente negli artt. 3, commi 1, 2 e 3; 5, commi 2, 3, 4 (ivi compreso il richiamato allegato G) 6; 6, 7, comma 2; 8, comma 5; 10, commi 1, 2 e 3; 11; 12; 15, 16, per violazione: dell'art. 117, comma 1, della Costituzione; dell'art. 118, comma 1, della Costituzione; degli artt. 4 e 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86; dell'art. 8 della legge n. 59 del 1997; della legislazione statale ordinaria nei settori della caccia e della protezione della natura; dei principi e regole costituzionali attinenti al rapporto tra Stato e regioni e in particolare del principio di leale collaborazione, per i profili e nei modi di seguito illustrati. Fatto e diritto 1. - Premessa e quadro generale. Il presente ricorso e' rivolto avverso un atto statale di recepimento della direttiva comunitaria 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonche' della flora e della fauna selvatiche, ma in nessun modo ed in nessuna parte esso e' rivolto a contestare il contenuto di tale direttiva, ne' la necessita' che ad essa si dia piena e completa attuazione. Cio' posto, non si puo' tuttavia evitare di inserire la vicenda di tale attuazione nel contesto costituzionale dei rapporti tra lo Stato e le regioni. Posto che non e' dubbia - ed e' del resto presupposta dallo stesso regolamento impugnato - la titolarita' costituzionale delle regioni in materia di ambiente, il quadro dei possibili rapporti tra fonti statali e fonti locali nell'attuazione delle direttive comunitarie e' disciplinato dall'art. 9 della legge n. 86/1989. Il comma 3 dispone che la legge statale attuativa indichi "quali disposizioni di principio non sono derogabili dalla legge regionale sopravvenuta e prevalgono sulle contrarie disposizioni eventualmente gia' emanate dagli organi regionali", precisando poi (comma 4) che in mancanza di norme regionali di attuazione si applichino tutte le "disposizioni dettate per l'adempimento degli obblighi comunitari dalla legge dello Stato" ovvero dal regolamento autorizzato in base agli artt. 3 e 4 della stessa legge. Da tale sistema deriva che il regolamento con cui si dia eventualmente attuazione alle direttive comunitarie trova applicazione soltanto in via suppletiva, onde assicurare in via provvisoria l'adempimento degli obblighi comunitari, ma non opera mai sul piano dei vincoli tra legge statale e legge regionale, e puo' essere sostituito integralmente dalla normativa locale, senza poter esercitare su di essa alcun condizionamento sul predetto piano. In definitiva, se e' vero che l'attuazione di direttive comunitarie in via regolamentare, prevista in termini generali dall'art. 4 della legge n. 86/1989, non e' a priori esclusa neppure nelle materie di potesta' legislativa regionale, e' altrettanto vero che essa in tali materie non puo' svolgere il ruolo tipico della legge nel definire il quadro delle rispettive potesta' e vincoli tra Stato e regioni, ma puo' svolgere un ruolo puramente sussidiario nel porre una normativa suppletiva, pur se si tratti di un ruolo importante nel corrispondere alle esigenze della responsabilita' comunitaria della comunita' nazionale. Infatti, secondo le accennate disposizioni di norme di attuazione e di legge ordinaria, a definire il quadro delle rispettive potesta' e vincoli tra Stato e regioni non puo' essere (nel rispetto delle prerogative costituzionali degli enti interessati) che la legge statale. La prescrizione dell'art. 4, comma 3, della legge n. 86 del 1989, secondo la quale, "se le direttive consentono scelte in ordine alle modalita' della loro attuazione, o se si rende necessario introdurre sanzioni penali o amministrative od individuare le autorita' pubbliche cui affidare le funzioni amministrative inerenti alla applicazione della nuova disciplina", tocca alla legge comunitaria di dettare le "relative disposizioni" trova una ancora piu' pregnante specificazione quando si tratti di stabilire i rapporti e le potesta' reciproche tra Stato e regioni, secondo la apposita disciplina dell'art. 9. Il regolamento non puo' innovare le competenze reciprocamente stabilite tra Stato e regioni, ma deve limitarsi, recependo la normativa posta dalla direttiva, a statuire le regole sostanziali, procedurali ed organizzative in base alle quali tali preesistenti competenze reciproche possano esercitarsi. La regola ora illustrata circa la funzione e i limiti del regolamento ha una sua ragione profonda, che sta ovviamente nella necessita' che i rapporti tra le istituzioni della comunita' nazionale e delle comunita' regionali siano tracciate dagli organi assembleari rappresentativi, e non dal Governo. E' percio' che il regolamento non puo' operare alterazioni del rapporto Stato-regioni, e che lo stesso regolamento attuativo di direttiva comunitaria in materia regionale e' ammissibile proprio in quanto non si propone e non puo' proporsi lo scopo di alterare o disciplinare tali rapporti, ma soltanto quello urgente e preminente di dare attuazione alla direttiva evitando l'inadempimento dello Stato italiano nel suo complesso. Va' sottolineato come l'assetto dei rapporti tra Stato e regioni qui illustrato sia anche perfettamente coerente con la cornice elaborata - con riferimento alle stesse problematiche ed alle stesse normative - da codesta ecc.ma Corte costituzionale con la sentenza n. 126 del 1996. In tale sentenza si enucleano distintamente le ipotesi in cui le norme comunitarie "possono legittimamente prevedere, per esigenze organizzative proprie dell'Unione europea, forme attuative di se' medesime, e quindi normative statali derogatrici" rispetto al "quadro della normale distribuzione costituzionale delle competenze" (punto 5 in diritto, lett. c). Tuttavia tali ipotesi devono risultare direttamente dalla normativa comunitaria, e sono eccezionali rispetto alla regola generale secondo la quale "l'attuazione negli Stati membri delle norme comunitarie deve tenere conto della struttura (accentrata, decentrata, federale) di ciascuno di essi", e secondo la quale, dunque, "l'Italia e' abilitata, oltre che tenuta dal suo stesso diritto costituzionale, a rispettare il suo fondamentale impianto regionale" (lett. a). Ma l'ipotesi di deroga al riparto costituzionale di competenze ad avviso della ricorrente regione non ricorre affatto nel caso di specie; e dunque ci troviamo nell'ambito nel quale a ciascun soggetto dotato di autonomia costituzionale spetta di "agire in attuazione o in esecuzione", mantenendosi "entro l'ambito dei consueti rapporti con lo Stato e dei limiti costituzionalmente previsti" (ivi). Entro tali rapporti e limiti "lo Stato e' abilitato all'uso di tutti gli strumenti consentitigli, a seconda della natura della competenza regionale (e provinciale), per fare valere gli interessi di cui e' portatore" (ivi), tra i quali anche, in particolare, l'interesse ad evitare la responsabilita' comunitaria derivante da inattuazione, in particolare mediante i poteri "di legislazione di principio e di dettaglio suppletiva e cedevole e quelli di indirizzo e coordinamento riconosciuti dall'art. 9 della legge 9 marzo 1989, n. 86". Ed e' chiaro altresi', in questo contesto, che a ciascuno degli strumenti a disposizione dello Stato corrisponde un effetto proprio e distinto, nell'ambito dei rapporti costituzionali tra i soggetti di autonomia; in particolare, l'attuazione regolamentare di una direttiva non puo' disporre - come sopra esposto - che le norme strettamente necessarie ad introdurre la direttiva nell'ordinamento interno, mettendo in condizione i soggetti titolari di competenze nella materia di utilizzarle nell'ambito della cornice normativa europea. A questo criterio non si attiene affatto il regolamento qui impugnato, il quale da una parte illegittimamente assume il ruolo della legge nel definire i rapporti tra Stato e regioni, dall'altra ancor piu' illegittimamente configura tali rapporti attribuendo alle autorita' centrali dello Stato una serie di compiti e poteri sovraordinati o comunque interferenti con le competenze della ricorrente regione, la cui intestazione al Ministero non trova in nessun modo giustificazione e copertura nella normativa comunitaria, e che sono percio' illegittimamente invasivi delle autonomie costituzionalmente garantite. Di qui la necessita' che i poteri che determinano una sovraordinazione dello Stato siano fatti cadere, e che quelli che sono in quanto tali necessari per attuare la direttiva vengano riportati alla loro naturale sede costituzionale e statutaria, cioe' al livello locale. 2. - Illegittimita' dell'art. 3 commi 1 e 2. Come detto in premessa, la ricorrente regione non contesta in se' l'uso del regolamento quale modo per dare attuazione a normativa comunitaria ed evitare cosi' la responsabilita' comunitaria dello Stato, ma cio' in quanto il regolamento si limiti a produrre tale attuazione nel quadro costituzionale delle competenze, senza alterare i poteri rispettivi di Stato e autonomie. L'art. 3 dispone al comma 1 che le regioni e province autonome individuano "i siti in cui si trovano i tipi di habitat elencati nell'allegato A ed habitat delle specie di cui all'allegato B" ai fini "della formulazione della proposta del Ministero dell'ambiente alla Commissione europea, dei siti di importanza comunitaria, per costituire la rete ecologica europea coerente di zone speciali di conservazione comunitaria denominata "Natura 2000"". Il comma 2 precisa poi che il Ministro dell'ambiente, in attuazione del programma triennale per le aree naturali protette, "designa con proprio decreto i siti di cui al comma 1 quali "Zone speciali di conservazione", entro il termine massimo di sei anni, dalla definizione, da parte della Commissione europea dell'elenco dei siti". Il senso di tali disposizioni e' complessivamente poco chiaro nell'individuazione delle responsabilita' rispettive delle autonomie e del Ministero. In ogni modo, essendo escluso che la direttiva 92/43/CEE di per se' esiga o suggerisca l'imputazione ai Ministero o comunque ad autorita' centrali di un ruolo di decisione sostanziale, il regolamento volto a recepire tale normativa non puo' introdurre poteri ministeriali che non trovino gia' oggi fondamento e copertura legislativa, e che nei termini indicati invadono le competenze regionali con le quali interferiscono. In altri termini, tali compiti ministeriali potrebbero essere salvati soltanto se dovessero essere intesi come meri compiti di formalizzazione e trasmissione di determinazioni sostanziali assunte in sede locale. 3. - Illegittimita' dell'art. 3, comma 3. Il comma 3 dell'art. 3 stabilisce che "al fine di assicurare la coerenza ecologica della rete "Natura 2000", il Ministro dell'ambiente, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le provincie (sic) autonome di Trento e di Bolzano, definisce nell'ambito delle linee fondamentali di assetto del territorio, di cui all'art. 3 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, le direttive per la gestione delle aree di collegamento ecologico funzionale, che rivestono primaria importanza per la fauna e la flora selvatiche". Si tratta di un potere ministeriale che non ha il minimo fondamento nella direttiva da attuare, che interferisce in modo atipico ed anomalo con le potesta' legislative ed amministrative delle regioni, e che come tale non potrebbe essere istituito neppure con legge; meno ancora, ovviamente, esso puo' essere previsto da un regolamento, in assenza di qualunque specifico fondamento legislativo. 4. - Illegittimita' dell'art. 5 e dell'allegato G in esso richiamato, nonche' dell'art. 6. L'art. 5 del regolamento, dopo avere disposto al comma 1 che "nella pianificazione e programmazione territoriale si deve tenere conto della valenza naturalistico-ambientale dei siti di importanza comunitaria" (cosa che puo' dirsi gia' insita nel concetto stesso), stabilisce al comma 2 che i "proponenti di piani territoriali, urbanistici e di settore, ivi compresi i piani agricoli e faunistici venatori" devono presentare "nel caso di piani a rilevanza nazionale" una "relazione documentata" di impatto al Ministero dell'ambiente con i contenuti stabiliti nell'allegato G. Uguale onere hanno, secondo il comma 3, i "proponenti di progetti riferibili alle tipologie progettuali" di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 377 del 1988 e quelle di cui agli allegati A e B del d.P.R. 12 aprile 1996, nel caso in cui agli specifici interventi non si applichi la procedura di valutazione di impatto ambientale, qualora questa sia di per se' di competenza statale. Sulla base di tali relazioni, secondo il comma 6, il Ministro per l'ambiente dovrebbe effettuare la "valutazione di incidenza dei piani o progetti sui siti di importanza comunitaria", secondo la procedura ivi descritta. L'autorita' competente all'approvazione del piano o progetto acquisisce tale valutazione di incidenza (comma 7) la quale, se negativa, impedisce la realizzazione degli interventi progettati, a meno che questa non sia imposta, in mancanza di alternative possibili, per "motivi imperativi di interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale ed economica": ed in tale caso dovranno essere adottate misure compensative per garantire la coerenza della rete (comma 8). Regole analoghe ma piu' restrittive valgono, secondo il comma 9, "qualora nei siti ricadono (sic) tipi di habitat naturali e specie prioritari". La necessita' della valutazione di incidenza e le sue conseguenze sulle decisioni da assumere sono disposte dall'art. 6 della Direttiva, ed esse sono al di fuori della contestazione di cui al presente ricorso. Cio' che si contesta invece, e che non e' minimamente imposto ne' soltanto suggerito dalla direttiva, e' che a tale valutazione di incidenza possa essere competente il Ministero dell'ambiente, in deroga all'ordinario riparto delle competenze. Come gia' illustrato, il regolamento puo' soltanto dettare norme idonee ad evitare la responsabilita' comunitaria dello Stato, ma non puo' intervenire a riservare allo Stato potere alcuno, che non sia strettamente necessario per l'attuazione della direttiva, incidendo sul riparto costituzionale delle funzioni. Meno ancora ad esso spetta di individuare una speciale nozione - che fino ad oggi risulta sconosciuta - di "piano di rilevanza nazionale", ne' di affidare alla valutazione statale progetti di opere per le quali non sia prescritta dalla legge la valutazione di impatto ambientale di livello nazionale. Posto dunque che e' assolutamente illegittima la sottrazione di parti di materie alla competenza regionale, e la loro attribuzione alla sede ministeriale, va poi aggiunto che lo stesso art. 5 disciplina la procedura per la valutazione di incidenza anche nei casi in cui il regolamento stesso mantiene la competenza regionale, stabilendo i contenuti della relazione ed ogni regola procedurale necessaria. Va qui ribadito che anche tali disposizioni - che pure mantengono la competenza locale - sono di per se' invasive di potesta' legislative locali, e possono essere fatte salve soltanto se intese quali disposizioni meramente suppletive, intese a consentire l'immediata operativita' della direttiva e destinate a venire meno in seguito alla legislazione locale, senza potere esercitare su di essa alcun vincolo che non discenda gia' dalla direttiva. In particolare va osservato che esse non possono comunque trovare applicazione - neppure in via transitoria - per quelle opere per le quali sia prescritta dalla legislazione regionale la piu' gravosa procedura della valutazione di impatto ambientale, la quale applichera' la direttiva comunitaria assumendo in relazione al sito comunitario anche il significato della valutazione di incidenza. L'art. 6 del regolamento dispone l'applicazione dello stesso regime ora descritto "anche alle zone di cui all'art. 1, comma 5, della legge 11 febbraio 1992, n. 157". Per le stesse ragioni sopra esposte dunque anch'esso e' illegittimo ed invasivo, essendo ogni intervento relativo a tali zone di competenza regionale. 5. - Illegittimita' dell'art 7, comma 2. L'art 7, comma 1, dispone che "le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottano le idonee misure per garantire il monitoraggio dello stato di conservazione delle specie e degli habitat naturali di interesse comunitario, con particolare attenzione a quelli prioritari, dandone comunicazione al Ministero dell'ambiente". Tale disposizione puo' considerarsi corrispondente al ruolo del regolamento di dare attuazione alla direttiva, senza alterare nella materia i ruoli predefiniti delle regioni e dello Stato. Lo stesso non si puo' tuttavia dire per il comma 2, a termini del quale "il Ministero dell'ambiente definisce con proprio decreto, sentiti per quanto di competenza il Ministero per le politiche agricole e l'Istituto nazionale per la fauna selvatica, le linee guida per il monitoraggio". Infatti con tale disposizione governativa il "Ministero" (non e' chiaro neppure per quale ragione si usi qui e in seguito tale espressione anziche' l'indicazione dell'organo "Ministro"; l'arbitrarieta' sarebbe solo aggravata se si intendesse cosi' affidare l'esercizio della competenza ad atti dirigenziali) si arroga un potere di sovraordinazione che corrisponde, di nuovo, ad una ingerenza attuata mediante una anomala e atipica funzione di indirizzo e coordinamento, tuttavia totalmente al di fuori delle relative regole di esistenza e di esercizio. La radicale illegittimita' della disposizione non impedisce di osservare che essa viola anche il principio di leale cooperazione tra Stato e regioni, in quanto, in un procedimento che pure si preoccupa di "acquisire" la voce delle altre amministrazioni statali ritenute interessate al tema, non si preoccupa minimamente di acquisire la partecipazione degli unici soggetti idonei a dare un contributo reale all'elaborazione di eventuali linee guida per il monitoraggio, ovvero le autonomie che ne hanno pratica esperienza e che devono compierlo. Piu' gravemente ancora, la mancata previsione dell'intesa richiesta dall'art. 8 della legge n. 59 del 1997 costituisce una chiara ed illegittima elusione dei vincoli posti dalla legge per gli atti di indirizzo e coordinamento. Con regolamento dunque il Governo si autoassegna poteri sulle regioni e si autoesonera persino dai vincoli e dalle modalita' previste dalla legge per l'esercizio di tali poteri. E' palese che solo una pronuncia di codesta ecc.ma Corte costituzionale radicalmente demolitoria di tali poteri puo' riportare i rapporti Stato-regioni nel giusto binario costituzionale. Destituito di ogni fondamento e l'assunto, contenuto nell'ultimo "considerato" delle premesse dell'impugnato regolamento, che i poteri in questione possano giustificarsi in base alla circostanza che con la sentenza n. 272 del 1996 codesta ecc.ma Corte costituzionale avrebbe riconosciuto che "la tutela della flora e della fauna rappresenta un interesse fondamentale dello Stato", e che "la competenza in tale materia spetta al Ministero dell'ambiente, come stabilito dall'art. 5 della legge 8 luglio 1986, n. 349". E' anche troppo ovvio che tale complessiva e generica rivendicazione di competenza comporterebbe di per se' la completa negazione delle competenze costituzionali delle regioni, e che il tracciamento di quanto e' necessario attribuire allo Stato per la tutela dei profili di interesse nazionale della materia e' compito precipuo del legislatore, al quale non puo' sostituirsi il Governo con il suo potere regolamentare: fermo restando che anche la legge dovrebbe comunque mantenersi nel quadro costituzionale dei rapporti tra Stato e regioni per quanto riguarda le regole di istituzione e di esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento. 6. - Illegittimita' dell'art. 8, comma 5. Nei commi da 1 a 4 l'art. 8 puo' considerarsi attuativo della direttiva comunitaria. Il comma 1, in particolare, riproduce in sostanza i divieti posti dall'art. 12 della direttiva, con riferimento all'allegato IV (corrispondente all'allegato D del regolamento): anche se, per vero, vi sono nel recepimento variazioni delle quali non e' chiaro il significato, quali la soppressione alle lett. a), b) e c) del comma 1 del requisito del carattere "deliberato" dell'azione proibita. Si noti che i divieti non sono nella normativa statale assistiti da sanzioni, e che non in tutti i casi si puo' supporre che sanzioni previste in generale gia' esistano nell'ordinamento. Ma l'impossibilita' di disporre sanzioni e' altra regola codificata per l'attuazione regolamentare delle direttive (art. 4, comma 3, legge n. 86/1989), ed a questo limite il Governo si e' attenuto. Rimane comunque che i primi quattro commi sono annoverabili tra cio' che e' necessario disporre per operare il recepimento della direttiva. Non cosi' per il comma 5, con il quale di nuovo il Governo autoinveste il "Ministero" di un potere di sovraordinazione rispetto alle regioni e alle province autonome. Vi si dispone infatti che il Ministero "in base alle informazioni raccolte" (|) promuova ricerche o addirittura "indichi" le "misure necessarie per assicurare che le catture o uccisioni accidentali non abbiano un significativo impatto negativo sulle specie in questione". Di nuovo, si tratta di un potere ministeriale arbitrario, o di un anomalo ed atipico atto di indirizzo. 7. - Illegittimita' dell'art. 10, commi 1 e 3. Considerazioni simili richiede il comma 1 dell'art. 10, secondo il quale "il Ministero dell'ambiente, sentiti per quanto di competenza il Ministero per le politiche agricole e l'Istituto nazionale per la fauna selvatica, qualora risulti necessario ... con proprio decreto stabilisce adeguate misure affinche' il prelievo, nell'ambiente naturale, degli esemplari delle specie di fauna e flora selvatiche di cui all'allegato E, nonche' il loro sfruttamento, siano compatibili con il mantenimento delle suddette specie in uno stato di conservazione soddisfacente". Si resta stupiti dalla disinvoltura (se non si vogliono usare piu' forti parole) con cui nella sostanza il Ministero attraverso il regolamento governativo si dota di poteri la cui intestazione al Ministero non e' in alcun modo disposta dalla normativa comunitaria, poteri che violano il riparto costituzionale delle competenze, e che per di piu' nel caso specifico sono totalmente generici nei presupposti, nei contenuti e nei fini, violando lo stesso principio di legalita'. Il presupposto infatti e' che l'intervento risulti "necesario", il contenuto sono misure "adeguate", i fini uno stato di conservazione "soddisfacente" della fauna selvatica: tutte clausole indeterminate che alla fine rimettono qualunque intervento alla pura discrezionalita' del "Ministero". L'arbitrarieta' di tutto cio e' palese, e lo diviene ancor piu' quando si esaminino le attribuzioni che tra l'altro il Ministero si e' autoassegnato, descritte dalle lettere da a) ad h). Esse infatti rivelano che in tale modo si vorrebbero espropriare le autonomie regionali delle proprie potesta' di disciplina e gestione amministrativa della materia, nel quadro della direttiva e dei principi della legge statale. Infatti le lettere da a) ad f) consentono al Ministero diretti interventi di regolazione sia generale che locale, mentre le rimanenti lettere attengono alle funzioni amministrative regionali. Naturalmente, quello che qui si contesta non sono i compiti regolativi ed amministrativi in quanto tali - compiti la cui definizione rimonta all'art. 14 della direttiva - ma la loro illegittima intestazione al Ministero: mentre si tratta dei tipici compiti spettanti alle regioni e province autonome. Anche in relazione a tale riserva di potere statale l'ultimo "considerato" delle premesse dell'impugnato regolamento invoca i presunti riconoscimenti di competenza di cui alla sentenza n. 272 del 1996 di codesta ecc.ma Corte costituzionale. Ma sulla totale infondatezza di tale giustificazione si e' gia' detto in relazione al comma 2 dell'art. 7, e qui non resta dunque che ribadire che non puo' il Governo con il suo potere regolamentare individuare aree e materie di presunto interesse nazionale, e che cosi' facendo esso viola la costituzione ed espropria le regioni delle loro competenze costituzionali. Piu' nascosta, ma non meno percepibile, e' la parziale illegittimita' del comma 3 dello stesso art. 10. In parte infatti tale disposizione risulta realmente attuativa di quanto disposto dall'art. 15 della direttiva comunitaria da attuare. In questi limiti, la disposizione risulta dunque legittima. Essa tuttavia diverge dalla disciplina comunitaria da un lato la' dove si riferisce alle specie dell'intero allegato E, mentre la normativa comuntaria si riferisce alla sola lett. a) del corrispondente allegato V, dall'altro la' dove essa pone un divieto incondizionato, mentre la normativa comunitaria fa scattare il divieto solo al verificarsi dell'ipotesi contestualmente prevista. Ne' varrebbe obbiettare che, per principio consolidato e generalmente ammesso, la normativa nazionale puo' disporre forme di tutela piu' severe di quelle disposte dalla normativa comunitaria; perche' cio' vale per il rapporto tra leggi, nell'ambito del limite dei principi, mentre e' del tutto precluso al regolamento statale di dettare limitazioni alla legge regionale futura, o introdurre inesistenti limiti nella legislazione regionale vigente, se tali limitazioni non siano strettamente necessarie al recepimento della normativa comunitaria. 8. - Illegittimita' dell'art. 11. L'art. 11 risulta particolarmente lesivo delle attribuzioni regionali in materia di caccia, ed e' anch'esso, come le precedenti disposizioni, completamente arbitrario. Il comma 1 addirittura riserva al "Ministero dell'ambiente" - sentite le solite connesse amministrazioni statali, e come sempre del tutto ignorate le regioni, titolari delle competenze costituzionali - i poteri di deroga ai divieti generali: poteri di deroga che non solo non possono essere intestati al Ministero per le ragioni piu' volte esposte nel presente ricorso, ma che inoltre evidentemente presuppongono valutazioni da compiersi in concreto ed in sede locale, e la cui spettanza al livello locale viene considerata pacifica e normale anche da parte delle istituzioni comunitarie. Proprio in relazione alle deroghe al divieto di caccia di alcune specie - ad esempio - la relazione dell'avvocato generale Fennelly nella causa C-118/94, conclusa con sentenza del 7 marzo 1996, ricorda che "le condizioni per la trasposizione non devono naturalmente frapporsi alle competenze di attuazione delegate da uno Stato membro ad autorita' regionali o provinciali" e che e' "giurisprudenza costante che ciascuno Stato e' libero di attribuire come meglio crede le competenze sul piano interno ed attuare una direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorita' regionali o locali" (Racc. 1996, I-1236). Libero rimane ovviamente sul piano del diritto comunitario, mentre e' pacifico che sul piano del diritto interno lo Stato e' tenuto ad attenersi al proprio diritto costituzionale, come confermato anche dalla sentenza di codesta ecc.ma Corte costituzionale n. 126 del 1996 citata sopra. D'altronde, la stessa direttiva fa obbligo agli Stati membri di comunicare tra l'altro, nella relazione biennale prevista dall'art. 16, "l'autorita' abilitata a dichiarare e a controllare che le condizioni richieste sono soddisfatte e a decidere quali mezzi, strutture o metodi possono essere utilizzati, entro quali limiti e da quali servizi e quali sono gli addetti all'esecuzione" (comma 3, lett. d)): e il regolamento qui impugnato ripete pedissequamente tale disposizione, con una ripetizione che risulta alquanto strana dal momento che il Ministero non potrebbe che indicare "se stesso". Il comma 2 dell'art. 11 riprende la disciplina di cui all'art. 15 della direttiva, ma la aggrava nella misura in cui la estende alle specie di cui all'allegato F, mentre la direttiva riferisce i divieti alle specie di cui al proprio allegato V, corrispondente all'allegato E del regolamento. Vanno dunque richiamate sul punto le argomentazioni gia' svolte in relazione all'art. 10, comma 3. Il comma 3 dell'art. 11 risulta legittimo se esplicitativo del ruolo comunque spettante al Ministero di tenere i rapporti generali con le istituzioni comunitarie e di trasmettere le informazioni richieste, mentre sarebbe anch'esso illegittimo se inteso come fonte di autonomi poteri decisori. 9. - Illegittimita' dell'art. 12. Anche l'art. 12 prevede ai commi 1 e 2 poteri ministeriali, che risultano illegittimi in quanto eccedano quelli gia' previsti dalla legislazione statale vigente e siano rivolti a creare una subordinazione delle regioni a poteri statali. Va infatti considerato che i poteri ministeriali di autorizzazione di cui all'art. 20, legge n. 157 del 1992 riguardano soltanto le ditte importatrici e soltanto le importazioni dall'estero. In ogni caso il recepimento della direttiva non puo' comportare una subordinazione delle regioni ad un potere di autorizzazione del Ministero. Il comma 3 dello stesso articolo disciplina l'introduzione di specie non locali subordinandola alla stessa autorizzazione di cui al comma 2, e comunque in termini restrittivi rispetto a quanto stabilito dall'art. 22 della direttiva. 10. - Illegittimita' dell'art. 15. L'art. 15 del regolamento impugnato dispone che "il Corpo forestale dello Stato, nell'ambito delle attribuzioni ad esso assegnate dall'art. 8, comma 4, della legge 8 luglio 1986, n. 349, e dall'art. 21 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, esercita le azioni di sorveglianza connesse all'applicazione del presente regolamento". Tale disposizione risulta illegittima in quanto estenda i compiti del Corpo forestale dello Stato oltre quelli gia' disposti dalla legislazione vigente: venendo cosi ad incidere le competenze amministrative della ricorrente regione in relazione alla generalita' delle aree protette, la' dove la sorveglianza non sia gia' riservata (come per i parchi nazionali e per le aree protette di rilievo nazionale ed internazionale) al Corpo forestale dello Stato. Giova ricordare che la Conferenza permanente per i rapporti Stato-regioni aveva chiesto la soppressione dell'art. 15, ed il contestuale riconoscimento della competenza regionale: e che nelle premesse dell'impugnato regolamento si afferma - al penultimo "considerato" - che tale richiesta non ha potuto essere accolta "in quanto, in base all'art. 8, comma 4, della legge 8 luglio 1986, n. 349, ed all'art. 21 della legge 6 dicembre 1991, n. 394, spetta al Corpo forestale dello Stato la sorveglianza nelle zone speciali di conservazione, salvo quanto diversamente disposto per le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano". Sennonche' la tesi cosi' formulata incorre in una palese contraddizione: se infatti la legislazione vigente gia' riservasse al Corpo forestale dello Stato la sorveglianza nelle zone di cui al regolamento impugnato, non vi sarebbe alcun bisogno dell'art. 15. Se invece - come in effetti e' - l'art. 15 estende i compiti e poteri di sorveglianza oltre quelli gia' previsti dalle leggi vigenti, esso e' lesivo e patentemente illegittimo. Sia consentito solo aggiuntivamente osservare che la sorveglianza statale nelle zone protette puo' avere un senso soltanto in quanto eccezione rispetto alla regola generale, e che quanto piu' la tutela si organizza in un sistema generale e complessivo tanto piu' e' necessario riconoscere la competenza locale, pena un completo esproprio della gestione del proprio territorio. 11. - Illegittimita' dell'art. 16. L'art. 16 non e' qui' in contestazione nella parte in cui, recependo la direttiva comunitaria, la trasforma in normativa interna. Non e' percio' qui' contestato il comma 1, relativamente agli allegati da A ad F. L'allegato G non ha invece, a quel che pare, corrispondenza alcuna con gli allegati della direttiva, e costituisce percio' normativa non necessaria alla sua attuazione. Per quanto gia' detto, dunque, e' illegittimo ed e' invasivo delle attribuzioni regionali disporre i relativi vincoli nella forma del regolamento del Governo. Il comma 2 istituisce un potere regolamentare permanente di recepimento di future modifiche agli allegati della direttiva, che ad avviso della ricorrente regione non puo' dirsi compreso nel potere regolamentare disposto dalla legge comunitaria del 1994, n. 146. Si tratta dunque di un potere regolamentare previsto da una fonte regolamentare in materia di competenza regionale, e pertanto di un potere illegittimo ed invasivo. A maggiore ragione esso sarebbe illegittimo ed invasivo in quanto lo si ritenesse comprensivo anche di un potere di modifica indipendente da variazioni nei corrispondenti allegati della direttiva comunitaria: come d'altronde e' inevitabile dal momento che tra gli allegati del regolamento uno non presenta alcun elemento di corrispondenza.