IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale  nei
 confronti di Capone Antonio, meglio generalizzato  in  atti  imputato
 del   reato   militare   di   "Truffa  militare  pluriaggravata",  ha
 pronunciato la seguente ordinanza.
   Considerato che agli atti non risulta che il signor Piccioni Enrico
 sia mai stato imputato presso l'autorita' giudiziaria  ordinaria  per
 reati  comuni  e/o  militari in concorso con il militare imputato nel
 presente procedimento, e cio' a prescindere dalla addotta connessione
 probatoria con altro procedimento per analoga fattispecie  di  truffa
 comune;
   Ordina  che  stralcio degli atti di causa venga trasmesso al signor
 procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma  per  quanto
 di  competenza  in ordine all'eventuale reato di concorso in truffa a
 danno dell'Amministrazione militare ravvisabile a carico del Piccioni
 e per ogni eventuale ulteriore reato comune;
   Vista la richiesta del p. m. di considerare acquisiti al  fascicolo
 dibattimentale  i  verbali dibattimentali delle dichiarazioni rese in
 altro procedimento da Pitzalis, Incani, Sollini e Piccioni Enrico;
   Considerato che all'udienza del 2 ottobre 1996 erano state  ammesse
 le prove documentali e i testimoni richiesti e che l'acquisizione dei
 sopracitati  verbali  avrebbe  potuto  essere  ammessa  solo  dopo la
 citazione anche infruttuosa  dei  testimoni  ex  art.  468  n.  4-bis
 c.p.p.;
   Rigetta la predetta istanza;
   Considerato, inoltre, che sulla base delle circostanze indicate dal
 p.m.  nella  lista  dei  testimoni  appare  fin  d'ora indispensabile
 l'escussione del teste Piccioni Enrico, il quale  ha  comunicato  che
 intende avvalersi della facolta' di non rispondere e che la difesa ha
 gia'  dichiarato  che  non  intende acconsentire all'acquisizione del
 verbale delle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Piccioni Enrico;
   Ritenuto  che  appare  rilevante  e non manifestamente infondata la
 emergente questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  513
 c.p.p.,  nella  formulazione  risultante  dalle modifiche operate con
 l'art. 1 legge 7 agosto 1997, n. 267, sollevata d'ufficio all'udienza
 del 13 novembre 1997; in  piena  adesione  alle  identiche  questioni
 recentemente gia' sollevate.
                             O s s e r v a
   Nel   presente   procedimento   il   p.m.  chiedeva,  fra  l'altro,
 l'escussione del signo Piccioni Enrico, imputato in  reato  connesso,
 il quale non si presentava ed, anzi, a mezzo di una missiva inoltrata
 dal  proprio  difensore  di  fiducia,  dichiarava  di avvalersi della
 facolta' di non rispondere; il difensore, interpellato sul punto, fin
 da  ora  dichiarava  di  non  consentire  all'utilizzo  del   proprio
 assistito, delle dichiarazioni del Piccioni.
   Le  dichiarazioni  rese  dal Piccioni, sono ad avviso del tribunale
 indispensabili per far luce sulle modalita' di rilascio di fatture ad
 appartenenti alle Forze Armate e sul contenuto  della  documentazione
 informatica acquisita presso l'albergo Eton di Roma.
   Stante  il  diniego opposto dalla difesa l'acquisizione del verbale
 dell'interrogatorio in sede di indagini preliminari  appare  comunque
 impossibile.
   Le predette dichiarazioni afferiscono alI'oggetto del processo come
 e' dimostrato dalla lista testi richiesta dal p.m.
   Quanto   alla   rilevanza   della  questione,  tenuto  conto  della
 indicazione delle fonti di prova contenuta nel decreto che dispone il
 giudizlo, dei dati rappresentati dal  pubblico  ministero  nel  corso
 della  relazione  introduttiva nonche' delle richieste di prova dallo
 stesso formulate ai sensi dell'art. 493 c.p.p.,  appare  evidente  la
 rilevanza  della dedotta questione di legittimita' costituzionale nei
 limiti in cui viene riferita  alla  nova  formulazione  del  comma  2
 dell'art.  513  c.p.p.,  trattandosi di processo nel quale l'impianto
 accusatorio poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetto che
 si  trova  nelle  condizioni  descritte  dall'art.  210  c.p.p.  Tali
 dichiarazioni,  in  applicazione  della  impugnata norma, non possono
 trovare ingresso nel dibattimento, stante l'esercizio, da  parte  del
 dichiarante,   della   facolta'   di   non  rispondere,  e  l'assenza
 dell'accordo delle parti in  ordine  alla  acquisizione  dei  verbali
 delle  dichiarazioni  rese  dal  medesimo  nel  corso  delle indagini
 preliminari.
   Quanto alla non manifesta infondatezza, ritiene il tribunale che la
 norma impugnata abbia  sostanzialmente  ripristinato  quel  vizio  di
 manifesta  irragionevolezza  cui la stessa Corte costituzionale aveva
 posto rimedio con  la  sentenza  n.  254  del  1992,  dichiarando  la
 illegittimita'  costituzionale  dell'art.  513,  comma 2 c.p.p. nella
 formulazione in allora vigente "nella parte in cui non prevede che il
 giudice, sentite le parti,  dispone  la  lettura  dei  verbali  delle
 dichiarazioni  ...  rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p.,
 qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere".
   In quella occasione, la  Corte  osservo'  che  il  principio  guida
 dell'oralita'  deve  essere contemperato con l'esigenza di evitare la
 perdita, ai fini della  decisione,  di  quanto  acquisito  prima  del
 dibattimento  e  che in tale sede sia irripetibile; rimarcando che in
 tale  categoria  la   stessa   legge   delega   ricomprendeva   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   E  proseguendo  nella  strada  di  indicare principi costituzionali
 certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova  la
 Corte,   con   una   successiva   sentenza  (n.  255/1992)  attribui'
 esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di  conservazione
 della   prova",   osservando   che   "...   il   sistema  accusatorio
 positivamente   instaurato   ha   prescelto   la    dialettica    del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio  della
 oralita'  e'  presente,  nel  nuovo sistema processuale, il principio
 della non dispersione  degli  elementi  di  prova  non  compiutamente
 acquisibili con il metodo orale...".
   Ancora piu' recentemente, sulla base del principio secondo il quale
 fine  centrale del processo e' la ricerca della verita', la Corte con
 la sentenza n. 179 del 1994 ha  confermato  il  proprio  orientamento
 relativamente  alla ipotesi, in tutto e per tutto analoga a quella in
 esame,  dell'esercizio  della  facolta'  di  astenersi  dal  deporre,
 riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato.
   Muovendo    da    una    questione   di   costituzionalita'   circa
 l'applicabilita'  della  disciplina  prevista  dall'art.  512  c.p.p.
 all'ipotesi  di  prossimo congiunto che, dopo aver reso dichiarazioni
 in sede  di  indagini  preliminari,  si  avvalga  della  facolta'  di
 astenersi  solo  in  sede  dibattimentale,  la Corte ha dichiarato la
 questione non fondata, e, con una pronuncia c.d.  "interpretativa  di
 rigetto", ha concluso nel senso che "la testimonianza cosi' acquisita
 e'  legittimamente,  e  soprattutto,  stabilmente  acquisita"  ed "e'
 certamente  fuori  di   dubbio   che   l'acquisizione   della   prova
 testimoniale  legittimamente  assunta  non  puo'  essere condizionata
 dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste,
 nel caso di un suo tardivo esercizio della  facolta'  di  astensione:
 non  esiste  nell'ordinamento  alcuna  disposizione che autorizzi una
 interpretazione del genere". La conclusione cui  la  citata  sentenza
 perviene (ossia la possibilita' di lettura, ex art. 512 c.p.p., delle
 dichiarazioni  in  precedenza  rese)  si pone in linea con quello che
 deve essere senzaltro definito un caposaldo della elaborazione  della
 giurisprudenza  costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice di
 procedura penale del 1988, tendente a "contemperare il  rispetto  del
 principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare ia perdita, ai fini
 della  decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia
 irripetibile in tale sede".
   Del resto, diversamente  opinando,  l'oralita'  si  atteggerebbe  a
 principio  fine  a  se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale, che - come  il  Collegio  non  reputa
 possa  revocarsi  in  dubbio - consiste nella ricerca della verita' e
 nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare  principio
 di   civilta'  giuridica,  affermato  dalla  Corte  costituzionale  e
 divenuto  patrimonio  comune,  l'impossibilita'  di   consentire   la
 dispersione  della  prova  ha  imposto  al legislatore di prevedere e
 rendere  possibile  la  lettura  di  atti  formati   nelle   indagini
 preliminari,  allorche' per qualsivoglia ragione (che puo' consistere
 anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non  sia  ripetibile  in
 dibattimento.
   E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto
 di  testimoniare,  nell'alternativa  tra il disperdere la prova e non
 fare giustizia e valorizzare invece gli atti  formati  anteriormente,
 il  legislatore  ha  operato  questa  seconda  scelta, consentendo la
 lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese.
   La     disciplina    dell'utilizzabilita'    delle    dichiarazioni
 predibattimentali  dell'imputato  in  procedimento  connesso  che  si
 avvalga  della  facolta'  di  non rispondere, introdotta dalla stessa
 Corte costituzionale con la sentenza  n.  254  del  1992,  tendeva  a
 bilanciare  due  valori diversi:   l'esercizio dell'azione penale, ma
 soprattutto l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da  un
 lato,  e,  dall'altro,  l'esercizio  del  diritto  di difesa, che non
 rimaneva affatto impedito ma  soltanto  limitato  dall'esercizio,  da
 parte  del  coimputato  od imputato in procedimento connesso, del suo
 diritto di difesa, di non rispondere in dibattimento alle domande  di
 chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato.
   Anche nel caso delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. si e' in
 presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si
 sono  avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato
 tale  diritto  in  dibattimento  rendendo  l'atto  "oggettivamente  e
 imprevedibilmente" irripetibile.
   Nemmeno appare logico che le dichiarazioni rese in fase di indagini
 preliminari  possano  essere  utilizzate  qualora  non  sia possibile
 ottenere  la  presenza  della  persona  in  dibattimento  o  non  sia
 possibile escuterlo a domicilio o con altra specifica modalita' (art.
 513,  comma  2,  prima  parte) e invece occorra l'accordo delle parti
 qualora la persona si presenti in udienza  e  rifiuti  di  rispondere
 (art. 513, comma 2, seconda parte).
   In   entrambi  i  casi  l'atto  e'  irripetibile  oggettivamente  e
 imprevedibilmente e  tanto  basta  perche'  in  armonia  ai  principi
 costituzionali  fissati in materia dalla Corte (sentenze n. 254/1992;
 n. 255/1992;  n.  179/1994),  il  giudice  debba  potersene  avvalere
 liberamente  al  fine  di adempiere al precetto costituzionale di cui
 all'art. 101, comma 2, della Costituzione, pervenendo a una  sentenza
 giusta. Anche da questo punto di vista la disciplina introdotta dalla
 legge n. 267/1997 pecca di assoluta irragionevolezza, determinando un
 conflitto  irrazionale  fra  diritto  di  difesa  ed  esercizio della
 funzione giurisprudenziale.
   Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto
 al contraddittorio degli imputati e, per altro verso il loro  diritto
 a  non sottoporsi all'esame dibattimentale - entrambi espressione del
 piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce  per  sacrificare
 l'esercizio   della   giurisdizione:  in  nome  del  suo  diritto  al
 contraddittorio ciascuna  parte  puo'  vietare  l'utilizzabilita'  di
 dichiarazioni   di   un  altro  soggetto  (imputato  in  procedimento
 connesso) il quale, in nome del suo diritto  di  difesa,  abbia  reso
 impossibile il contraddittorio medesimo avvalendosi della facolta' di
 non rispondere.
   Da  tale  pur  sintetica analisi emerge immediatamente per un verso
 l'irragionevolezza del meccanismo (poiche' gli artt. 2, 3,  25  comma
 secondo,  101,  comma secondo, 102, 111 della Costituzione fondano il
 principio di indefettibilita'  di  una  giurisdizione  penale,  ed  i
 particolare  di  un  dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena
 conoscenza da parte  del  giudice  dei  fatti  oggetto  del  processo
 affinche' possa essere emessa una giusta decisione); per altro verso,
 che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa giurisdizione, ma
 tra  i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti; per
 altro  verso  ancora,  che  il  conflitto  in  questione e' stato dal
 legislatore risolto a danno della giurisdizione.
    E' evidente che il diritto al sienzio (e la facolta' di  menzogna)
 possono  esser  indirettamente  tutelati  in quanto non consentano di
 bloccare  ne'   l'esercizio   dell'azione   ne'   l'esercizio   della
 giurisdizione,  ma  solo  come  diritto del soggetto di astenersi dal
 collaborare   con   gli   organi   preposti   alla   verifica   della
 responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il
 problema  del  conflitto  degli interessi contrapposi non possono che
 essere ricercati su altri piani.
   Ed invero,  il  processo  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio  -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine
 quello dell'oralita', della formazione della prova  in  dibattimento,
 cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice che decide
 nel  merito  del  processo.    Cio',  tra  l'altro, in armonia con il
 disposto dell'art. 6, comma 2, lett.  d)  della  Convenzione  per  la
 salvaguardia dei diritti dell'uomo.
   Una  maggiore  salvaguardia  del  contraddittorio  nella formazione
 della prova, del resto, sembra essere uno deli scopi fondamentali che
 hanno mosso l'azione del legislatore del 1997.  Seppure  a  mezzo  di
 meccanismi  processuali i cui effetti paiono irrazionali, e' evidente
 l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie  di  diritto
 all'esame e controesame, come diritto delle parti.
   Tanto  premesso,  e'  evidente  che  una  delle  condizioni  per lo
 sviluppo del contraddittorio,  quando  esso  si  realizza  attraverso
 l'esame  incrociato,  e'  che  il  soggetto  che vi e' sottoposto sia
 gravato dell'obbligo di rispondere  alle  domande  che,  gli  vengono
 rivolte.  Se  tale  condizione  non  sussiste,  invero, si concede al
 soggetto in  questione  il  potere  di  vanificare  l'altrui  diritto
 all'esame e controesame.
   D'altra   parte   e'   scontato,   almeno  nel  nostro  ordinamento
 processuale penale, che  elementi  di  accusa  possano  provenire  da
 coimputati  od  imputati in procedimento connesso, peraltro titolari,
 come tali, della facolta' di non rispondere.
   Ebbene, mentre la concessione alle parti  di  un  diritto  di  veto
 rispetto    all'acquisizione    delle    dichiarazioni   rese   senza
 contraddittorio dagli  imputati  in  procedimento  connesso  divenute
 irripetibili   finisce   per  ledere  irreparabilmente  il  razionale
 esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della  giurisdizione
 e  lo  scopo  stesso  del processo, la acquisizione immediata di tali
 dichiarazioni finisce per ledere il  diritto  di  azione  e/o  difesa
 delle parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame.
   Si  privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte,
 dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito  nelle
 indagini attraverso le contestazioni.
   Cio'   posto  -  considerando  come  fondamento  della  costruzione
 ordinamentale da un lato la stessa prospettiva  del  legislatore  del
 1988   e   del   1997   e   cioe'  l'intangibilita'  del  diritto  al
 contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza,  legalita',
 obbligatorio  esercizio  dell'azione penale, funzione conoscitiva del
 processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione  -,
 diviene  irrazionale  riconoscere,  al  coimputato od all'imputato in
 procedimento  connesso  che  abbiano  reso  al   pubblico   ministero
 dichiarazioni  che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico di
 determinati  soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento
 a carico di quei soggetti.
   In tali limiti non appare manifestamente  infondata,  in  relazione
 agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2,
 c.p.p.
   E'   superfluo   sottolineare   che  un'eventuale  declaratoria  di
 illegittimita' costituzionale  delle  norme  predette  e  nei  limiti
 suindicati  consentirebbe  a  tutte le parti di esercitare il proprio
 diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni  -,
 mentre  non  introdurrebbe  per gli imputati in procedimento connesso
 l'obbligo  di  dire  la  verita',  con   le   correlative   sanzioni.
 Dichiarazioni  rese  in  sede  di  esame  e  contestazioni  sarebbero
 ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione.
   In sostanza,  l'unica  via  razionale  aperta  alla  soluzione  del
 problema    in   questione   -   posti   i   vincoli   di   principio
 dell'indefettibilita'    della    giurisdizione,    dell'obbligatorio
 esercizio   dell'azione   penale,   della  funzione  conoscitiva  del
 processo, del diritto di difesa degli imputati e  degli  imputati  in
 procedimento  connesso  -  e'  quella  di  ritenere  che, a fronte di
 dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di  altri,
 il  diritto  di  difesa  del dichiarante si affievolisca di fronte al
 diritto di difesa dei chiamati in causa, sub  specie  di  diritto  ad
 interrogarlo  sulle  accuse  direttamente  od  indirettamente rivolte
 loro. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza  anche  in
 considerazione  del  fatto  che,  quando  in sede penale - indagini o
 dibattimento - un soggetto  sottoposto  ad  indagine  o  un  imputato
 rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato
 esercita  in  quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i
 benefici  e   gli   inconvenienti   del   caso,   dall'altro   impone
 all'autorita'   giudiziaria   (art.   112   della   Costituzione)  di
 approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini
 sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in  sede
 cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti
 all'accertamento.    Date  le  conseguenze di un tale comportamento -
 universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile  esimere
 il  dichiarante  da  una assunzione di responsabilita' che coinporti,
 quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in  sede
 di esame e controesame.
   Del  resto,  il  diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto
 cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in
 testimone, anche se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.)    -
 la  facolta'  di  dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire,
 facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di
 difesa.  D'altro  canto  proprio  le  virtu'  euristiche   dell'esame
 dibattimentale  -  nelle  quali  il  legislatore mostra di riporre la
 massima fiducia -, oltre che l'intero  sistema  processuale  nel  suo
 complesso  garantiscono  piu'  che  a sufficienza dal pericolo che le
 menzogne dibattimentali vengono recepite in sentenza o, quanto  meno,
 riducono  tale  pericolo  rispetto al livello che esso attinge quando
 vengono  acquisite  dichiarazioni  assunte   da   una   parte   senza
 contraddittorio e divenute irripetibili.
   Al  legislatore  rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione se il
 dichiarante-accusatore debba o no  essere  equiparato  al  testimone,
 sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovvamente
 opportuna  poiche'  costituente una forma di tutela dell'effettivita'
 del contraddittorio - di  un  nuovo  reato  contro  l'amministrazione
 della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a
 domande  rivolte  nel  corso  dell'esame  ad imputati in procedimento
 connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti a carico di  altri
 in loro assenza.
    La  norma  impugnata  appare altresi' in evidente contrasto con il
 disposto dell'art. 102, comma secondo, e 112 della Costituzione nella
 giurisprudenza  costituzionale  ormai  consolidata,  infatti,  i  due
 canoni  finiscono per confondersi l'uno nell'altro laddove portano ad
 affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in
 ordine alla prova.
   Infine, quanto  all'irragionevolezza  dell'ostacolo  frapposto  dal
 nuovo  art.  513,  comma  2,  c.p.p. alla formazione della prova, non
 sembra superfluo sottolineare che il potere concesso  alle  parti  e'
 cosi'  ampio  -  si parla infatti di accordo "delle parti" e non gia'
 delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di
 prove irrilevanti rispetto alla sua posizione - ma rilevanti rispetto
 a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al
 regolare esercizio della giurisdizione.
   Ma  la  situazione  si  aggrava  proprio  quando  la  parte  -   in
 particolare  l'imputato  -  si  oppone  alla lettura di dichiarazioni
 irripetibili rese direttamente a suo carico.
   In tal caso  infatti  -  posto  che  tali  dichiarazioni  non  sono
 considerate   ontologicaniente   inaffidabili  dal  legislatore  che,
 altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e  l'utilizzo
 anche  in fase di indagini preliminari ed anche a fini cautelari - il
 meccanismo  normativo  risulta  semplicemente  paradossale:  i   veti
 incrociati  di  soggetti  privati  -  quali  sono  gli imputati e gli
 imputati in procedimento connesso -  possono  precludere  l'esercizio
 stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale.
   Considerato  che  i soggetti predetti agiscono, come si notava, per
 interessi privatissimi  e  sinanco  meramente  egoistici,  l'ostacolo
 frapposto  all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non essere
 ritenuto irrazionale.
   La stessa Corte  costituzionale  (sentenza  n.  111  del  1993)  ha
 infatti  considerato  illegittimo  il potere riconosciuto al pubblico
 ministero - organo cui pure la  Corte  riconosce  funzioni  pubbliche
 finalizzate  esclusivamente all'applicazione della legge (sentenza n.
 88 del 1991) -  di  disporre  del  processo  disponendo  della  prova
 (potere  riconosciutogli  dai  giudici di merito remittenti grazie ad
 una interpretazione dell'art.  507 c.p.p. ritenuta illegittima).
   A questo punto non si puo' non considerare  illegittimo  a  maggior
 ragione  l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati
 - quali sono gli imputati  e  la  parte  civile  -  che,  come  tali,
 orientano    i   loro   comportamenti   secondo   logiche   meramente
 individualistiche.
   Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare  come  il
 potere  di  decisione  del  giudice  del merito della causa non possa
 essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un  potere
 delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche
 immotivate, di costoro.
   Ebbene,  a  parere  del  tribunale,  la normativa di cui si tratta,
 introducendo il potere delle parti di disporre  della  prova  -  tale
 essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento
 raccolto   in  sede  di  indagini  dal  pubblico  ministero  divenuto
 imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibile  -,  consente  di
 sottrarla  alla  razionale e motivata valutazione del giudice, in tal
 modo impedendogli di formarsi un convincimento  che  si  avvicini  il
 piu'   possibile  alla  reale  verificazione  dei  fatti  e,  quindi,
 impedendo la pronuncia di una giusta decisione.
   Vale anche notare che, almeno  nella  materia  dell'utilizzabilita'
 delle  prove  processuali penali, quando, come nel caso di specie, la
 legge devolve a privati quali sono  gli  imputati,  gli  imputati  in
 procedimento  connesso  e  la  parte  civile,  la  decisione ultima e
 definitiva, oltre che discrezionale,  immotivata  ed  incontrollabile
 (tali  non  sono  le  scelte  effettuate nell'ambito dei procedimenti
 speciali, che hanno sempre come alternativa  il  giudizio  ordinario)
 sull'utilizzabilita'  delle  prove, allora appare violata dalla legge
 stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla  legge:
 per   il  tramite  formale  di  una  norma  giuridica  il  giudice  -
 nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio  -
 viene fatto soggiacere alle decisioni altrui.
   E'  evidente,  infatti, come il precetto di cui all'art. 101, comma
 secondo, della Costituzione precluda una esasperata  ed  estremistica
 applicazione  del  principio  dispositivo  del  processo  penale,  in
 ragione della  indisponibilita'  degli  interessi  pubblici  e  delle
 posizioni  soggettive  che  di  questo  costituiscono  l'oggetto;  la
 disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la
 stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato nella nota  sentenza
 (Corte  costituzionale  n.  111/1993)  relativa  alla definizione del
 potetere istruttorio suppletivo riservato al  giudice  dibattimentale
 dall'art.  507 c.p.p., nel nuovo  codice di rito "il metodo dialogico
 di  formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di
 conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per  quanto
 piu'  possibile  pieno  accertamento,  e  non  come strumento per far
 programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal  mero
 confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne
 sarebbe  risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che
 discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   Se e' vero che un potere dispositivo della prova  nel  processo  e'
 negato  alle  parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come
 le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e per definizione estraneo  al
 processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazione.
   La  norma  impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova
 al  vaglio  dibattimentale,  a   seguito   di   un   atto   meramente
 discrezionale  -  e  dunque potenzialmente immotivato e capriccioso -
 compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte  del
 procedimento,  come  avviene  nel caso in cui la persona esaminata ex
 art. 210 c.p.p.  si avvalga della facolta' di non rispondere. A  cio'
 il  legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore
 sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando  (nel  caso
 in  cui  il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della
 facolta'  di  non  rispondere)  la  possibilita'  di   acquisire   le
 precedenti  dichiarazioni  all'accordo (rectius, al gradimento) delle
 parti.
   Nel  caso di specie, risulta che Piccioni Enrico si e' rifiutato di
 rispondere. Egli, ha dunque, usato la sua condizione  processuale  di
 "fonte  di prova" che nulla ha a che vedere con l'ipotetico esercizio
 di un diritto di difesa.
   Nondimeno  tali  scelte,  alla  stregua  della  norma   della   cui
 legittimita'   in   questa  sede  il  Collegio  dubita,  condizionano
 l'esercizio della giurisdizione,  incidendo  in  misura  determinante
 sulla  liberta'  del  giudice,  nel  significato che tale concetto ha
 assunto nella giurisprudenza costituzionale.
   Il tribunale rimettente si e', quindi, trovato  di  fronte  ad  una
 situazione  in  cui l'assunzione della prova e' stata inibita proprio
 dalla scelta arbitraria (perche' tale e', sul piano  processuale,  la
 condotta del Piccioni) del dichiarante.
   Conseguenze  che  non  vengono  scongiurate  dalla  previsione  del
 meccanismo  dell'incidente  probatorio  -  benche',  in  virtu'   del
 disposto  dell'art.    4  legge n. 267/1997, lo stesso sia esperibile
 indipendentemente dalla sussistenza dei  requisiti  previsti  in  via
 generale,  dall'art. 392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque
 ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio',
 come  l'adozione  di  tale  meccanismo,  lungi   dal   poter   essere
 considerata  alla  stregua  di "valvola di sicurezza" del sistema, si
 riduca alla mera anticipazione dei  tempi  di  assunzione  di  quella
 prova,   senza   tuttavia   garantirne  l'effettiva  acquisizione  al
 processo.
   E' per rimanere al caso di specie, e' ovvio  -  e  comunque  niente
 autorizza  a  ipotizzare  il  contrario - che il Piccioni non avrebbe
 tenuto  un  diverso  attegiamento  se  si  fosse   trovato   non   in
 dibattimento  dinanzi al tribunale ma in sede di incidente probatorio
 dinanzi al giudice per le indagini preliminari.
   L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere
 o meno dichiarazioni e  alla  volonta'  delle  parti  processuali  di
 consentire  alla  lettura  di  dichiarazioni  in  precedenza rese, ha
 finito  per  rimettere  nella  totale  disponibilita'   delle   parti
 l'ingresso  di  una  prova  nel  dibattimento  e,  in  definitiva,  a
 condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale.
   E'  infine  prospettabile,  anche  alla   luce   delle   precedenti
 osservazioni,  una  diretta  violazione  dell'art. 25, comma secondo,
 nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti.  E'
 quanto  mai  evidente  che,  condizionando  l'utilizzo  da  parte del
 giudice  di  elementi  di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le
 indagini  al  consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi
 spiegano la loro efficacia probatoria,  si  consente  che  l'imputato
 stesso,  mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile
 ed eventualmente ispirata  ad  interessi  non  tutelabili,  impedisca
 l'accertamento   del   fatto   e   percio'   delle   sue  (eventuali)
 responsabilita'.
   In sostanza, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo
 carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del  processo,
 in   violazione   -   gia'   riconosciuta   una   volta  dalla  Corte
 costituzio'nale nella  sentenza  n.  111  del  1993  con  riferimento
 all'interpretazione  astrattamente  formalistica dell'art. 507 c.p.p.
 recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25,  comma  secondo,
 27, comma primo, della Costituzione.
   Ne'  puo'  essere  richiamato, in contrario avviso, il principio di
 presunta innocenza dell'imputato, poiche' tale  principio,  se  fosse
 interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del
 potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe
 inutile  l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione,
 annullando il valore dei connessi principi.