IL TRIBUNALE
   Ha   pronunciato   la   seguente   ordinanza   sulla  questione  di
 legittimita' costituzionale (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 62).
   Visti gli atti del procedimento n. 45/1994 reg. gen., a  carico  di
 Agrati  Maurizio e piu', per i delitti di associazione per delinquere
 ed altro;
   Visto in particolare il verbale dell'udienza dibattimentale di oggi
 1 dicembre 1997, e a scioglimento della riserva formulata  in  ordine
 alla  richiesta  del  pubblico  ministero  di  dare lettura, ai sensi
 dell'art. 513, comma 2, c.p.p., delle dichiarazioni  rese  nel  corso
 delle  indagini  preliminari  dall'imputato in procedimento collegato
 Isella Giancarlo;
                             O s s e r v a
   Sono al centro  del  processo  due  vicende  associative  tra  loro
 collegate,  per  il  fatto di vedere coinvolti - in buona parte - gli
 stessi imputati, e di  collocarsi  in  un  contesto  spazio-temporale
 sostanzialmente  omogeneo  (Lecco  e altre localita' del circondario,
 tra la seconda meta' degli  anni  '80  e  l'inizio  del  decennio  in
 corso).
   A   ognuna   delle  due  vicende  corrisponde  una  imputazione  di
 associazione per delinquere, in un caso riferita  alla  perpetrazione
 di   truffe   ed  estorsioni  (capi  1  e  2  dell'imoutazione,  come
 riformulata dal p.m. all'udienza dibattimentale del 16 dicembre 1996)
 e  nell'altro  ad  una  sistematica  attivita'  di  usura,  anch'essa
 accompagnata  da condotte estorsive per il conseguimento dei relativi
 profitti  (capo  32  dell'imputazione).  Sono  poi  contestati   agli
 associati  vari  reati  -  scopo  riconducibili  all'uno  o all'altro
 sodalizio (rispettivamente:  capi da 3 a 31 e da 33 in fine).
   L'originaria  vocatio  in  jus  (risultante  dal   decreto   g.u.p.
 tribunale  Lecco in data 15 dicembre 1993 e dal decreto Corte appello
 Milano 18 dicembre 1995, che ebbe a riformare la  parziale  pronuncia
 di non luogo a procedere emessa dal giudice dell'udienza preliminare)
 comprendeva  altresi'  una  serie  di  reati tributari, connessi alle
 usure di cui si e' detto.
   Infatti, posto che, nella ricostruzione dell'accusa, gran parte  di
 quelle  usure  sarebbe stata realizzata mediante lo schermo di alcune
 societa'  finanziarie  gestite   dagli   imputati,   e   precisamente
 costringendo  le  persone  offese  a stipulare dei finti contratti di
 c.d. sale and lease-back (volti a occultare il carattere giugulatorio
 dei vari prestiti, e ad assicurare maggiori garanzie  rispetto  a  un
 eventuale  inadempimento),  si  era  ritenuto trattarsi di operazioni
 inesistenti anche sul piano tributario, ed era stata quindi elevata a
 carico di entrambe le parti del contratto (i finanziatori - usurai ed
 i  clienti  - usurati) l'imputazione di frode fiscale di cui all'art.
 4, legge n. 516/1982, con  riferimento  alle  fatture  reciprocamente
 emesse e annotate nell'occasione.
   La quasi totalita' di queste imputazioni e' stata peraltro definita
 nelle  more tra l'udienza preliminare e l'inizio del dibattimento:  o
 con declaratoria di estinzione  del  reato  in  virtu'  dell'amnistia
 tributaria  di  cui  al  d.P.R.  20  gennaio  1992, n. 23, o mediante
 applicazione di pena su richiesta delle parti ai  sensi  degli  artt.
 444 ss. c.p.p.
   Da  cio'  e' derivato che, ai fini dell'istruttoria dibattimentale,
 il pubblico ministero interessato a esaminare le vittime delle  usure
 in discorso abbia dovuto citare la gran parte di esse in qualita' non
 di  testimoni,  ma  di  imputati  in  procedimento  collegato a norma
 dell'art. 210 c.p.p.
   All'odierna udienza,  uno  di  questi  soggetti  Isella  Giancarlo,
 chiamato  a  deporre in ordine a un prestito da lui contratto con gli
 imputati Alde' Stefano, Musolino Vincenzo e Ferrari Adelchi (capo  34
 lett.  i) dell'imputazione), in relazione al quale era stato peraltro
 lui  stesso  imputato  di  false  fatturazioni  e  aveva  definito il
 processo con il c.d. "patteggiamento",  ha  dichiarato  di  avvalersi
 della facolta' di non rispondere.
   La richiesta del pubblico ministero, affinche' venisse data lettura
 dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dall'Isella nel corso delle
 indagini preliminari, non ha  ricevuto  il  consenso  degli  imputati
 Alde',  Musolino  e  Ferrari. A mente dell'art. 513, comma 2, c.p.p.,
 come modificato dall'art. 1, legge 7  agosto  1997,  n.  267,  quelle
 dichiarazioni restano pertanto prive di qualsiasi valenza probatoria,
 anche  solo  di  riscontro  rispetto  alle  altre prove eventualmente
 proponibili dall'accusa in merito al fatto di cui si tratta.
   Ad avviso del Collegio, tale situazione normativa e pratica solleva
 delle perplessita' che trascendono il  mero  dissenso  -  inibito  al
 giudicante  -  rispetto  alle  scelte  di  politica  legislativa, per
 investire  rilevanti  profili   di   ordine   costituzionale,   nella
 prospettiva:  del  principio  di ragionevolezza implicito nell'art. 3
 Cost.; del rispetto del diritto di difesa (e in ispecie  del  diritto
 alla prova) di tutte le parti del processo, incluse le parti pubblica
 e  privata  interessate  alla  tutela degli interessi lesi dal reato;
 dell'autonomia  del  pubblico  ministero  nell'esercizio  dell'azione
 penale  e,  infine,  della liberta' della funzione giurisdizionale da
 condizionamenti diversi dall'ovvia subordinazione alla legge.
   Il tema delle prove orali, ed in particolare della mancata conferma
 in dibattimento delle dichiarazioni rese da un  soggetto  nella  fase
 delle  indagini  preliminari,  e' senz'altro uno dei piu' controversi
 dell'odierno sistema accusatorio, per la difficolta' di soddisfare in
 modo  equilibrato  i  contrapposti  valori  costituzionali  che  esso
 coinvolge:  da  un  lato,  il  diritto dell'imputato a contraddire su
 tutti gli  elementi  di  prova  addotti  contro  di  lui;  dall'altro
 l'interesse  pubblico,  impersonato  dal  p.m., al pieno accertamento
 delle responsabilita' penali.
   E' il caso peraltro di osservare che, se quello appena accennato e'
 il profilo piu' significativo della disciplina delle prove orali  sul
 piano  storico-politico,  al punto da identificarsi con le ragioni di
 fondo  che  hanno  fatto   ritenere   piu'   conforme   ai   principi
 costituzionali il sistema della formazione della prova esclusivamente
 in  dibattimento,  tuttavia  -  sul  piano  teorico  e  pratico  - e'
 configurabile anche una prospettiva esattamente inversa. E' possibile
 cioe', sebbene statisticamente non frequentissimo, che sia la  difesa
 dell'imputato  ad  avere interesse all'acquisizione di certi elementi
 emersi in sede di indagine  (per  esempio  un  alibi  fornito  da  un
 testimone  o da un coimputato), e ad essere quindi pregiudicato dalla
 mancata riproduzione dibattimentale di quelle dichiarazioni.
   Tale rilievo vale a sottolineare come la materia  della  formazione
 della   prova  sia,  oltre  una  certa  misura,  neutra  rispetto  ai
 contrapposti  valori  al  centro  del  processo  (per   semplificare:
 rispetto  alla  dialettica  tra "liberta'" e "autorita'"), cosi' come
 neutro e', per  definizione,  l'interesse  dell'ordinamento  rispetto
 all'accertamento della fondatezza della pretesa punitiva.
   Com'e'  noto,  l'impostazione dei compilatori del codice vigente in
 ordine ai temi in esame fu improntata a una rigorosa applicazione del
 metodo orale, funzionale  soprattutto  al  diritto  dell'imputato  al
 contraddittorio.
   Infatti, per le dichiarazioni a piu' frequente contenuto di accusa,
 ossia  quelle dei testimoni e degli imputati in procedimento connesso
 o collegato, fu scelto - salve limitate eccezioni - di negare ad esse
 dignita' di prova qualora venissero  ritrattate  in  dibattimento,  o
 comunque  non  riprodotte  per la reticenza del teste o per la scelta
 del chiamante  in  correita'  di  avvalersi  della  facolta'  di  non
 rispondere  (v.  la  rigorosa  disciplina delle contestazioni e delle
 letture, di cui agli originari artt. 500, comma 3 e 4, e  513,  comma
 2).
   Per gli imputati, invece, fu stabilita una maggiore utilizzabilita'
 delle   dichiarazioni   contenute   nel   fascicolo   delle  indagini
 preliminari e, soprattutto, fu espressamente previsto che, in caso di
 rifiuto di sottoporsi  all'esame,  di  quelle  dichiarazioni  potesse
 darsi  lettura  su  richiesta di parte (artt. 503, comma 3 ss. e 513,
 comma 1, nel testo originario): cio', evidentemente, sul  presupposto
 che  nessuna esigenza di contraddittorio si ponesse rispetto a quanto
 direttamente dichiarato dall'imputato.
   Si trattava peraltro di una disciplina non scevra  da  incongruenze
 logico-sistematiche.
   Anzitutto,  nell'intento  di  garantire l'imputato dalle accuse dei
 testimoni o dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., essa finiva  per
 pregiudicare   l'imputato   stesso  nelle  ipotesi  -  in  precedenza
 accennate - in cui "evaporarare" in dibattimento fossero state  delle
 dichiarazioni favorevoli alla difesa.
   In  secondo  luogo, in assenza di controindicazioni, la facolta' di
 lettura  delle  dichiarazioni  dell'imputato  valeva   sia   per   le
 dichiarazioni  autoindizianti  sia per quelle che contenessero accuse
 nei confronti di altri imputati, con la conseguenza di subordinare  a
 una  circostanza del tutto estemporanea - la simultaneita' o meno del
 processo nei confronti di piu' coimputati -  l'utilizzabilita'  delle
 chiamate di correo ai fini della decisione.
   Infine,   l'assoluto  ossequio  alla  regola  del  contraddittorio,
 contenuto  negli  originari  artt.  500  e   513   c.p.p.,   era   in
 contraddizione  con  altre  norme  pure contenute sin dall'inizio nel
 codice, come l'art.   431, che prevede  l'automatica  inserzione  nel
 fascicolo   dibattimentale  degli  atti  della  polizia  o  del  p.m.
 geneticamente insuscettibili  di  ripetizione  orale,  e  soprattutto
 l'art. 512, che ammette la lettura degli atti di indagine in genere -
 e  quindi anche delle dichiarazioni - la cui ripetizione sia divenuta
 impossibile per cause imprevedibili e oggettive,  piuttosto  che  per
 mera volonta' del soggetto da esaminare.
   Simili  considerazioni  portarono  la  Corte costituzionale, con le
 note  sentenze  nn.  254  e  255   del   1992   (dichiarative   della
 incostituzionalita',   rispettivamente,  dell'art.  513,  comma  2  e
 dell'art. 500 c.p.p., nella loro versione originaria), a  sconfessare
 in  radice  la  "filosofia" del legislatore del 1988 in tema di prove
 orali, e ad affermare:
     1) che la funzione stessa del processo penale, per  la  rilevanza
 costituzionale  degli  interessi  coinvolti  (da un lato l'onore e la
 liberta'  dei  cittadini,  dall'altro  la  tutela  dei  beni  primari
 aggrediti  dal  reato),  implica  l'accertamento  il  piu'  possibile
 completo della verita' dei fatti e  non  tollera,  quindi,  forme  di
 disciplina  della  prova  in  senso  dispositivo,  tanto  piu' quando
 affidate neppure alle parti, ma ai soggetti che  incarnano  la  fonte
 stessa della prova;
     2)  che,  in  questa  prospettiva,  il metodo del contraddittorio
 orale che caratterizza il sistema processuale  accusatorio  non  puo'
 essere  considerato un veicolo esclusivo di formazione della prova in
 dibattimento, giacche', se di  regola  costituisce  l'approccio  piu'
 rispondente  all'esigenza  di  ricerca  della  verita', possono pero'
 darsi casi in cui il risultato al quale  esso  perviene  si  pone  in
 contrasto  con  quella  esigenza,  nel  senso che il raffronto tra le
 risultanze delle indagini e quelle del dibattimento induce a dubitare
 della genuinita'  delle  seconde,  oppure  che  il  raffronto  stesso
 risulta   impossibile  per  via  della  sopraggiunta  irripetibilita'
 dell'atto;
     3) che, in simili situazioni, il  principio  di  non  dispersione
 degli   elementi   di   prova,   insito   nel  complesso  dei  valori
 costituzionali che presiedono al  processo  (legalita',  uguaglianza,
 ragionevolezza,    obbligatorieta'    dell'azione    penale,   libero
 convincimento  del   giudice),   vieta   soluzioni   che   comportino
 irragionevoli ostacoli al processo di accertamento del fatto storico;
     4) che, a maggior ragione, contrasta con la Costituzione il fatto
 che  legislatore  preveda  una  disciplina  differenziata  per talune
 specie di atti, o per talune cause di irripetibilita'  degli  stessi,
 nel  senso  di considerare solo per essi indefettibile la ripetizione
 in dibattimento, senza che tale disparita' di  trattamento  poggi  su
 apprezzabili ragioni sostanziali.
   L'intervento operato dalla Corte costituzionale con le sentenze nn.
 254  e  255  del  1992 - per l'effetto demolitivo proprio di tutte le
 pronunce della Corte -  comportava  un  radicale  capovolgimento  del
 sistema  codicistico,  con  un deciso ridimensionamento del principio
 del contraddittorio a vantaggio delle  altre  istanze  costituzionali
 sacrificate dalla precedente disciplina.
   Cio',   beninteso,   non   impediva,  ed  anzi  postulava,  che  il
 legislatore intervenisse a ricollocare il baricentro del sistema  nel
 rispetto  dei  principi  delineati dalla Corte. Peraltro, in luogo di
 una  globale  rivisitazione  della  materia,  si  sono  avuti   degli
 interventi  novellistici  non solo frammentari ma contraddittori, dai
 quali sono derivate, come la presente vicenda  processuale  dimostra,
 nuove disparita' di trattamento prive di ragionevole giustificazione.
   Per  un  verso,  e'  stata tempestivamente modificata la disciplina
 delle "contestazioni nell'esame  testimoniale",  riformulando  l'art.
 500  c.p.p.  (d.-l.  8  giugno  1992 n. 306, convertito nella legge 7
 agosto 1992 n. 356) in senso conforme alle  indicazioni  delle  Corte
 costituzionale.
   Infatti,    pur   ribadendo   la   tendenziale   prevalenza   delle
 dichiarazioni  rese  dal  teste  nel  contraddittorio  dibattimentale
 rispetto  a  quelle  raccolte  nel  corso  delle  indagini  (comma 3,
 dell'art. 500), si e' pero' stabilito che  queste  ultime,  allorche'
 contestate  nel corso dell'esame (e la contestazione e' espressamente
 consentita anche quando il teste "rifiuta o comunque omette, in tutto
 o in parte, di rispondere" sulle circostanze riferite in  precedenza:
 nuovo comma 2-bis), acquisiscano valore di prova in due casi:
     1)  quando  esse  siano  piu'  coerenti  con  il  restante quadro
 probatorio e quindi piu' attendibili (nuovo comma 4);
     2)  quando  concreti  elementi  inducano  a   ritenere   che   la
 ritrattazione o il silenzio del teste in sede di esame dibattimentale
 siano frutto di minacce o subornazioni o di altre circostanze tali da
 compromettere  la  genuinita'  della  deposizione (nuovo comma 5 art.
 cit.).
   Per  diverso  tempo,  invece,  il  legislatore   si   e'   astenuto
 dall'apportare  modifiche  alla  disciplina  dell'"esame  delle parti
 private",  applicabile  sia  all'imputato  sia  ai  soggetti  di  cui
 all'art.  210  c.p.p.,  e risultante dal combinato disposto dell'art.
 503 (richiamato per gli imputati in procedimento  connesso  dall'art.
 210,  comma  5)  e  dell'art.  513 c.p.p., come integrato dalla Corte
 costituzionale con la  citata  sent.    254/1992.  Ne  risultava  una
 disciplina   quantomai   sbilanciata   in  favore  delle  prerogative
 dell'accusa,  abilitata  a  contestare  nel  modo   piu'   ampio   le
 dichiarazioni  rese  dall'esaminato in sede di indagine e, in caso di
 silenzio del soggetto, a far  dare  integrale  lettura  dei  relativi
 verbali.
   Di  qui,  come  reazione,  il recentissimo intervento operato dalla
 legge 7 agosto 1997 n. 267 su entrambi i commi dell'art. 513  c.p.p.,
 consistito nello stabilire:
     a)  quanto agli imputati, che la lettura delle loro dichiarazioni
 anteriori al dibattimento  -  a  seguito  di  contumacia,  assenza  o
 rifiuto  di  rispondere - possa valere solo nei loro confronti, e non
 anche nei  confronti  di  altri  imputati,  a  meno  che  costoro  vi
 consentano;
     b)  quanto ai soggetti di cui all'art. 210, che l'utilizzabilita'
 delle dichiarazioni precedentemente rese nei confronti dell'imputato,
 ma non confermate in dibattimento  in  nome  della  facolta'  di  non
 rispondere, sia ugualmente subordinata all'accordo delle parti. Resta
 invece   pienamente   consentita   la  lettura  in  caso  di  mancata
 presentazione del dichiarante per impossibilita' sopravvenuta.
   Come  accennato,  questo  tribunale  e'   dell'opinione   che   una
 disciplina  quale quella appena ricapitolata presenti diversi profili
 di  dubbia  costituzionalita',  in  parte  analoghi  a   quelli   che
 condussero   la   Corte   costituzionale  a  censurare  la  normativa
 originaria del codice, in parte inediti.
   Invero,  l'art.  513  novellato  -  nel  far  dipendere  la valenza
 probatoria delle dichiarazioni dei soggetti in esso  indicati  (siano
 essi imputati in procedimento connesso o collegato, come nel presente
 caso,  ovvero  imputati tout court) dalla disponibilita' di costoro a
 sottoporsi  all'esame  dibattimentale  o,  in  caso  contrario,   dal
 consenso di tutte parti del processo - realizza una nuova, immotivata
 violazione di quei precetti della Carta fondamentale che concorrono a
 fondare  il  "principio  di  non  dispersione delle prove" richiamato
 dalla Corte  costituzionale  nelle  sentenze  di  cui  si  e'  detto;
 sentenze  che,  a  Costituzione  invariata,  non  possono  che essere
 riguardate come diritto vivente, e che invece il legislatore del  '97
 ha disatteso in pieno.
   In particolare risultano compromessi, da una regola quale quella in
 esame:
     1)  il  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione penale di cui
 all'art. 112 Cost., visto  come  espressione  di  quel  principio  di
 legalita'  che  non  si trova espressamente enunciato nella Carta del
 '48,   ma   che   si   desume   dal   complesso   delle   norme   che
 "costituzionalizzano"  il  processo  penale  (oltre all'art. 112, gli
 artt. 13, 25, 27, 68 ecc.), e che la giurisprudenza costituzionale ha
 esplicitamente  posto  al  centro  delle  sue  pronunce  sulla   "non
 dispersione  delle prove" (v., in particolare, la sentenza n. 111 del
 1993, interpretativa dell'art. 507 c.p.p.);
     2) il principio  di  subordinazione  del  giudice  soltanto  alla
 legge,  di  cui  all'art.  101, comma secondo, Cost., che risulta nel
 caso di specie  violato  nella  misura  in  cui  l'apprezzamento  del
 materiale   di   prova   da   parte   del  giudice  stesso,  ai  fini
 dell'accertamento della verita', viene limitato  non  in  ossequio  a
 regole  di  legittimita' (come accade nei casi di norme che comminano
 sanzioni  di  nullita'  o  inutilizzabilita'  in  conseguenza   della
 violazione  di  prerogative difensive: v. tra gli innumerevoli esempi
 gli artt. 63, 103, 271 c.p.p.), bensi' in  conseguenza  del  semplice
 arbitrio  del  soggetto  detentore  della  prova e/o di quello la cui
 eventuale responsabilita' penale e' al centro della prova stessa;
     3) il diritto di difesa di cui all'art. 24, comma secondo, Cost.,
 visto nel caso di specie nella prospettiva della  tutela  processuale
 degli  interessi  pubblici  e  privati  lesi dal reato, rappresentati
 rispettivamente dal pubblico ministero e  dalla  persona  offesa.  E'
 evidente  infatti  che queste posizioni processuali vedono il proprio
 diritto alla prova irragionevolmente compresso, per  effetto  di  una
 disciplina che rimette alla controparte o, peggio, ad un soggetto del
 tutto  estraneo al processo (quale l'imputato nei confronti del quale
 si proceda separatamente)  l'utilizzabilita'  di  elementi  probatori
 legittimamente acquisiti nel corso delle indagini.
   Va  sottolineato,  del resto, come l'elemento di novita' introdotto
 dalla riforma del '97  rispetto  alla  versione  dell'art.  513  gia'
 dichiarata incostituzionale - quello rappresentato dalla possibilita'
 di  dare lettura delle dichiarazioni di chi si avvalga del diritto al
 silenzio quando vi sia "l'accordo delle parti" - consacra in  realta'
 una  profonda alterazione della par condicio processuale, presupposta
 daIl'art.  24, comma secondo, della Costituzione.
   Mentre  infatti  il  pubblico  ministero  ha  il  preciso dovere di
 attivarsi  per  l'acquisizione  anche  di   prove   favorevoli   alla
 controparte  (art.    358  c.p.p.,  la cui violazione e' passibile di
 sanzioni  disciplinari  e  finanche  penali),  e'  ovvio  invece  che
 l'imputato  e'  del  tutto  libero  di  non cooperare all'ingresso di
 elementi che dimostrino la sua colpevolezza (l'ipotesi inversa, anzi,
 merita l'attributo di sureale" adoperato dai primi commentatori della
 novella).
   Ed e'  superfluo  rilevare  come  cio'  comprima  oltre  misura  la
 posizione  processuale  della  parte pubblica, su cui gia' incombe il
 maggiore  onere  probatorio  per  il  fatto  di  dover  superare   la
 presunzione  di  non  colpevolezza di cui all'art. 27, comma secondo,
 della Costituzione.
   La lesione che i valori costituzionali ora ricordati subiscono, per
 effetto della  disciplina  che  si  va  esaminando,  appare  vieppiu'
 ingiustificata ove si consideri - ancora una volta - la diversita' di
 trattamento  rispetto  ai  casi,  contemplati  dal sistema, in cui e'
 eccezionalmente consentito il recupero  ai  fini  probatori  di  atti
 anteriori al dibattimento e non piu' ripetibili per ragioni congenite
 o sopravvenute.
   In  aggiunta  alle  ipotesi  generali  degli artt. 431 e 512 c.p.p.
 (gia' citati allorche' sono state  ricordate  le  sentenze  del  1992
 della Corte costituzionale), la stessa riforma del 1997 ha introdotto
 una sperequazione siffatta, tanto piu' vistosa in quanto interna alla
 stessa  disciplina dell'esame dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p.
 Si allude al secondo periodo del nuovo art. 513, comma 2, c.p.p.,  in
 cui  viene  richiamata  la disposizione dell'art. 512 (incondizionata
 possibilita' di lettura delle dichiarazioni  pre-dibattimentali)  per
 l'ipotesi  in  cui  l'esame  risulti irripetibile non per l'esercizio
 della  facolta'  di  non  rispondere  ma  per  una   causa   diversa,
 "imprevedibile   -   come   recita   la  norma  -  al  momento  delle
 dichiarazioni"  (morte,  perdita  irreversibile  della  coscienza  et
 similia).
   Si  ha,  dunque,  che  una  situazione  di fatto del tutto identica
 (impossibilita' di esercitare il contraddittorio sulle  dichiarazioni
 rese  a  suo  tempo dal soggetto) comporta conseguenze diametralmente
 opposte a seconda dell'evento che l'abbia prodotta; e cio':
     a) sia per l'imputato, che  in  un  caso  si  vede  "colpito"  da
 elementi di accusa ineludibili e nell'altro ha invece la possibilita'
 di   sottrarvisi,   a   meno   che   intenda  consentire  -  in  modo
 autolesionistico - al loro utilizzo;
     b) sia per l'organo dell'accusa, che  in  caso  di  silenzio  del
 dichiarante  vede  paralizzato il proprio materiale di prova, per una
 circostanza che esula non solo dalla sua sfera potestativa (singolare
 caso di sanzione processuale comminata a un soggetto diverso da colui
 che ne pone in  essere  la  causa)  ma  dalla  sua  stessa  sfera  di
 previsione,  non diversamente dai casi di impossibilita' sopravvenuta
 della prova per cause esterne alla volonta' dell'esaminando.
   Non e' chi non veda come  una  simile,  irrazionale  disparita'  di
 trattamento  realizzi  una violazione del principio di uguaglianza di
 cui all'art. 3 della Costituzione.
   Ma ulteriori dubbi circa l'ortodossia costituzionale del nuovo art.
 513, comma 2, c.p.p.  emergono  allorche'  Io  si  confronti  con  la
 diversa disciplina attualmente in vigore per l'esame dei testimoni.
   Come  gia' evidenziato, infatti, a mente del combinato disposto dei
 commi 2-bis, 4 e 5 dell'art. 500 c.p.p., l'eventualita' che il  teste
 - sfidando l'incriminazione per reticenza (art. 372 c.p.) - decida di
 sottrarsi  in  tutto  o  in  parte alle domande dell'esaminatore, non
 comporta   inevitabilmente   la   dispersione   delle   dichiarazioni
 precedentemente  rese  dallo  stesso soggetto in qualita' di "persona
 informata sui fatti",  giacche'  queste  possono  essere  pur  sempre
 oggetto  di contestazione e, per tale via, approdare al fascicolo del
 dibattimento; ed una volta acquisite saranno  valutabili  come  prova
 qualora  ricorrano le condizioni di cui pure si e' detto (concorso di
 altri  elementi  che  ne  confermino  l'attendibilita',   ovvero   di
 circostanze tali da far ritenere che il silenzio del teste sia dovuto
 a condizionamenti esterni).
   Si  tratta  di  una  disciplina che, recependo le indicazioni della
 Corte costituzionale, realizza un equo contemperamento delle esigenze
 del contraddittorio e di quelle della salvaguardia del  materiale  di
 prova,  con  il  fatto  di scindere doverosamente i due aspetti della
 acquisizione e della valutazione delle prove stesse. In questo senso:
 che, da un lato, la parte interessata a far valere un  dato  elemento
 emerso  nelle  indagini  (che  di regola sara' il p.m.) vede comunque
 tutelato il proprio diritto a sottoporlo al giudice; dall'altro,  non
 resta  privo  di  rilievo  il  fatto  che  l'altra  parte abbia visto
 menomato il proprio diritto al contraddittorio, in quanto  se  ne  fa
 discendere un maggior rigore nella valutazione di quell'elemento come
 prova.
   Non  si  ravvisano  ragioni degne di rilievo costituzionale perche'
 una identica disciplina non debba valere - trattandosi di  situazione
 sostanziale  del  tutto  analoga  -  nel  caso  di  mancata  conferma
 dibattimentale delle  dichiarazioni  rese  contro  l'imputato  da  un
 soggetto  processato  nello  stesso  contesto  ovvero  imputato in un
 procedimento  connesso  o  collegato.  Tanto   piu'   che,   per   le
 dichiarazioni  di tali soggetti, vale gia' come regola generale (art.
 192, comma 3,  c.p.p.)  quella  che  riguardo  ai  testi  e'  dettata
 soltanto per le contestazioni: ossia che esse hanno dignita' di prova
 solo  se  corroborate  da  "altri  elementi  ...  che  ne  confermano
 l'attendibilita'"  (uno  spunto  in   tal   senso,   si   noti,   era
 esplicitamente  contenuto  nella sentenza costituzionale n. 254/1992,
 che "boccio'" l'originario art. 513, comma 2). E, d'altro canto,  nei
 confronti del chiamante in correita' sussistono a maggior ragione che
 per  il semplice testimone i pericoli di "violenza, minaccia, offerta
 o promessa di denaro o di altra  utilita'  affinche'  non  deponga  o
 deponga  il  falso",  che  hanno  trovato spazio nell'art. 500 c.p.p.
 riformato.
   Si  potrebbe  obiettare  che  il  diverso  effetto  riconnesso   al
 silenzio,  quando  riguardi  i testimoni e quando provenga invece dai
 soggetti  al  centro  dell'art.  513  c.p.p.,  trova  un   plausibile
 fondamento  nel  fatto che per i primi esso costituisce trasgressione
 del precetto penale di cui al citato art. 372 c.p., e per  i  secondi
 l'espressione  di un diritto riconosciuto dall'ordinamento. Ritenere,
 cioe', che  lo  sfavore  manifestato  dal  legislatore  del  '97  nei
 confronti  delle  chiamate  di correo non confermate in dibattimento,
 sia giustificato dal fatto che i soggetti da cui esse provengono sono
 esenti tanto dall'obbligo di rispondere quanto da quello di  dire  la
 verita', e quindi scevri da remore nel sottrarsi al contraddittorio.
   Tale  obiezione  non  appare  pero'  decisiva,  per  due  ordini di
 ragioni.
   Intanto, le riserve che in via  di  principio  si  possono  nutrire
 sulla   credibilita'   dei  c.d.  collaboratori  dell'accusa  valgono
 indifferentemente, sia che essi tacciano  in  dibattimento,  sia  che
 confermino  quanto  dichiarato in precedenza, sia infine che adottino
 la tattica intermedia di non invocare formalmente la facolta' di  non
 rispondere,  e  di  vanificare tuttavia il contraddittorio attraverso
 risposte vaghe e reticenti (si noti che  in  questo  caso,  ai  sensi
 dell'art.  503,  comma  4,  c.p.p.,  il  p.m.  parrebbe legittimato a
 chiedere  l'inserzione   nel   fascicolo   del   dibattimento   delle
 dichiarazioni  non confermate: ennesima disparita' di trattamento tra
 imputati, che il sistema fa dipendere dal mero arbitrio del  soggetto
 sottoposto all'esame).
   Cio'  conferma  quanto  poc'anzi rilevato a proposito dell'art. 500
 c.p.p.: ossia che la maggiore o minore attendibilita' della fonte  e'
 questione  che  dovrebbe riguardare la valutazione della prova, e non
 il suo procedimento di formazione (tema che invece qui interessa).
   Ma soprattutto, ad avviso del Collegio,  occorre  chiedersi  se  la
 diversa   disciplina   del   silenzio  attualmente  stabilita  per  i
 testimoni, da un lato, e, dall'altro,  per  i  coimputati  e  per  le
 persone  di  cui  all'art. 210 c.p.p., poggi su principi inderogabili
 dell'ordinamento, o se non sia essa, al contrario, lesiva  di  valori
 costituzionalmente rilevanti.
   Il  dubbio,  naturalmente,  non investe in assoluto la "facolta' di
 non rispondere" riconosciuta a chi  sia  accusato  di  un  reato  (il
 principio  nemo  tenetur  se  detegere  e' corollario intuitivo degli
 artt. 24 e 27 Cost.), bensi' il fatto che essa  sia  estesa  anche  a
 colui  che,  in precedenti fasi processuali, vi abbia consapevolmente
 rinunciato.
   In altri termini, la questione che si intende esaminare riguarda la
 legittimita' costituzionale delle norme che costituiscono - per cosi'
 dire - il retroterra sistematico dell'art. 513 c.p.p., vale a dire:
     gli artt. 208 e 210, comma 4 e 6, c.p.p., laddove subordinano  al
 consenso    dell'imputato    o,    rispettivamente,   della   persona
 separatamente  giudicata  per  reato   connesso   o   collegato,   la
 possibilita'  di procedere al loro esame dibattimentale anche quando,
 in  precedenza,  essi  abbiano  rinunciato  alla  facolta'   di   non
 rispondere (1);
  (1)  Sebbene  il  caso  emerso  nella  presente  vicenda processuale
 riguardi un "imputato in procedimento collegato" e non un imputato in
 senso stretto, l'assoluta identita' di ratio  e  di  disciplina  oggi
 esistente fra le due figure implica un discorso unitario il quale, se
 condiviso  dal  giudice  delle  leggi,  parrebbe  dover  portare alla
 declaratoria di parziale illegittimita' di tutte le  norme  coinvolte
 (non solo dunque gli artt. 210 e 513, comma 2, ma anche gli artt. 208
 e 513, comma 1, c.p.p.), secondo il principio di consequenzialita' di
 cui all'art. 27, ult. parte, legge 11 marzo 1953, n. 87.
     l'art.  197  lettere  a) e b), c.p.p., laddove, conseguentemente,
 prevede l'incompatibilita' degli stessi  soggetti  con  l'ufficio  di
 testimone, e quindi anche con i relativi doveri.
   Nelle  intenzioni dei compilatori del codice, il combinato disposto
 delle norme ora citate - non diversamente dalle analoghe disposizioni
 che comparivano nel codice abrogato (artt. 106, 348,  terzo comma,  e
 348-bis  c.p.p.  1931)  -  mira  a "rafforza(re) le garanzie a difesa
 della  persona  esaminata"  (Relazione  al  progetto  definitivo  del
 codice, p. 182), e in particolare  risulta  dettato  da  "ragioni  di
 tutela contro autoincriminazioni" (Relazione al progetto preliminare,
 p. 62).
    Sennonche', se riferita agli imputati che, prima del dibattimento,
 abbiano  accettato di deporre, la facolta' di sottrarsi al successivo
 esame dibattimentale appare uno strumento sproporzionato per  eccesso
 rispetto alla ratio suddetta.
   Infatti, si evince dal sistema che il silenzio non serve a tutelare
 il  soggetto  dalle  dichiarazioni  compromettenti  che aveva reso in
 precedenza, giacche' queste - attraverso il meccanismo delle  letture
 ex  art.  513, comma 1, c.p.p. - potranno essere utilizzate contro di
 lui nella sede contestuale o separata in  cui  verra'  giudicato  (la
 garanzia  sarebbe  poi del tutto superflua se si trattasse dell'esame
 di un imputato di reato connesso o collegato oggetto di  un  processo
 gia' definito).
   L'autentico  rischio  insito  nell'esame  e'  piuttosto  quello  di
 rivelare nuove circostanze sfavorevoli, intorno al medesimo fatto o a
 fatti ulteriori, ma esso non  pare  presentare,  per  i  soggetti  in
 questione,    contorni    specifici    rispetto    al    rischio   di
 autoincriminazioni  che  incombe  per  definizione  su  chiunque  sia
 chiamato  a  deporre  in  giudizio.   Anche per i semplici testimoni,
 infatti, il legislatore  ha  previsto  apposite  garanzie  contro  un
 simile  rischio,  consistenti, a priori, nel diritto del teste di non
 deporre, e comunque di non dire il vero, su fatti dai quali  potrebbe
 emergere una sua responsabilita' penale (artt. 198, comma 2, c.p.p. e
 384, comma 1, c.p.) e, a posteriori, nel divieto di utilizzare contro
 il  soggetto  quanto  da  lui  comunque dichiarato (art. 63, comma 1,
 c.p.p.).
   Ma, se cosi' e', il  radicale  diritto  al  silenzio,  riconosciuto
 indiscriminatamente  anche  agli imputati che in precedenti occasioni
 avessero accettato di deporre sui medesimi fatti per cui si  procede,
 e la conseguente incompatibilita' con l'ufficio di testimone, restano
 privi  di un apprezzabile fondamento razionale, ed anzi finiscono col
 produrre effetti del tutto estranei alla ratio perseguita.
   Se, infatti, da un lato, le dichiarazioni autoaccusatorie gia' rese
 restano per il soggetto vincolanti, e se, dall'altro, per quelle  che
 potrebbe  rendere  in sede di esame, una tutela adeguata sarebbe gia'
 ravvisabile - come per i testimoni - nel diritto di tacere o  mentire
 all'esaminatore  su  singoli  punti, la facolta' di sottrarsi in toto
 all'esame finisce per avere, come unico effetto saliente,  quello  di
 rendere  problematica  l'utilizzazione  delle prime dichiarazioni del
 soggetto nella parte  in  cui  riguardano  responsabilita'  di  altre
 persone.
   In tale sorta di aberratio ictus della "facolta di non rispondere",
 frutto di una insufficiente considerazione dell'impatto dell'istituto
 con i connotati di oralita' del sistema oggi vigente (2), risiede, in
 ultima  analisi, la causa effettiva della difficolta' di disciplinare
 la chiamata  di  correo  in  modo  rispettoso  di  tutti  i  principi
 costituzionali coinvolti. Cio' in quanto rende inevitabile il ricorso
 allo  strumento  delle  "letture"  che, come dimostrano le tormentate
 vicende dell'art.  513 c.p.p., implica l'alternativo  sacrificio  del
 diritto  alla  prova  di  una  parte oppure del diritto dell'altra al
 contraddittorio.
   Ma,  prima  ancora  che  degli  interessi delle parti singolarmente
 considerate, il complesso delle disposizioni degli artt. 197, lettere
 a) e b), 208 e 210, comma 4 e 6, c.p.p. risulta lesivo  dei  principi
 costituzionali  che  individuano nel processo uno strumento di tutela
 oggettiva e imparziale dei beni giuridici lesi dal reato.
   In questa prospettiva, va ribadita  anzitutto  l'irrazionalita'  di
 una  limitazione  del  potere-dovere di accertamento del giudice, che
 venga  fatta   dipendere   dall'arbitrio   del   soggetto   detentore
 dell'informazione (in violazione dunque del gia' richiamato art. 101,
 comma secondo, Cost.).
   In secondo luogo, va rilevato come la prerogativa riconosciuta agli
 imputati  "gia'  dichiaranti",  di  tacere non soltanto sulle proprie
 responsabilita' ma anche su quelle di soggetti diversi (e  quindi  al
 di   la'   di   oggettive   esigenze   di   tutela   dal  rischio  di
 autoincriminazione), li esoneri ingiustificatamente  dall'adempimento
 di  uno  dei  "doveri  inderogabili  di  solidarieta' sociale" di cui
 all'art. 2 Cost. tale dovendosi considerare il dovere di  collaborare
 con  l'amministrazione  della giustizia ai fini della repressione dei
 reati.  (2) Nell'economia del vecchio processo inquisitorio, infatti,
 la valenza incondizionata degli atti di istruzione faceva si' che, in
 caso  di  esercizio  della  facolta'  di  non  rispondere,  le  prime
 dichiarazioni  del  soggetto fossero integralmente utilizzabili tanto
 contro di lui quanto contro gli altri imputati.  Questa disparita' di
 trattamento rispetto alla posizione dei  comuni  testimoni  e'  tanto
 piu'  irragionevole,  ove  si  consideri  che  spesso, nella pratica,
 l'assunzione dell'una o dell'altra veste processuale  puo'  dipendere
 da fattori del tutto anodini sul piano sostanziale (si pensi al fatto
 che,  per  il  combinato  disposto  degli  artt.  61 e 210 c.p.p., le
 garanzie previste  da  quest'ultimo  articolo  risultano  applicabili
 anche  a  chi  sia  stato  in  precedenza semplicemente sottoposto ad
 indagini in relazione al reato per il quale si procede,  vedendo  poi
 archiviata  la  propria posizione: quindi, per avventura, anche a chi
 fosse stato iscritto come indagato  per  mero  scrupolo  o  per  mero
 errore  del  p.m.,  o sulla scorta di una notitia criminis rivelatasi
 palesemente infondata).  Le stesse ragioni che fanno  dubitare  della
 legittimita'  costituzionale della facolta' di non rispondere, quando
 riferita a imputati che prima del dibattimento avessero rinunciato ad
 avvalersene, militano anche contro la scelta legislativa di escludere
 tali soggetti dalle sanzioni penali di cui allart. 372 c.p..  Gia' da
 tempo (sentenza n. 148 del 1983), la Corte costituzionale ha chiarito
 quali siano i limiti che il suo sindacato sulle  scelte  di  politica
 legislativa incontra in materia penale, precisando:
     1)  che  tale  limite  riguarda  la possibilita' che, per effetto
 della pronuncia della Corte, venga ad essere ampliata  la  sfera  del
 penalmente  illecito,  ossia vengano ad essere create ex nihilo nuove
 incriminazioni, ma non anche la possibilita' di rimuovere  -  con  la
 pronuncia  stessa  -  delle  ingiustificate disparita' di trattamento
 rispetto ad una incriminazione gia' esistente;
     2) che, in tali limiti, la  declaratoria  di  incostituzionalita'
 delle  leggi penali di favore e' consentita nonostante la sua pratica
 inapplicabilita'  nel  giudizio  a  quo,  derivante  dal  divieto  di
 retroattivita'  delle  pene  (in  deroga,  quindi, al requisito della
 rilevanza di cui all'art. 23, comma secondo, legge n. 87/1953).    Ha
 osservato  infatti la Corte che, diversamente opinando, si verrebbero
 a sottrarre al controllo di costituzionalita' proprio le piu'  odiose
 tra  le  violazioni del principio di uguaglianza, in quanto incidenti
 sulla liberta' dei cittadini.  Orbene, qualora, con una pronuncia  di
 parziale  illegittimita'  degli  artt.  208  e  210  c.p.p.,  venisse
 cancellato dall'ordinamento il diritto dell'imputato a  non  ripetere
 in  giudizio  le  dichiarazioni  gia' rese contro terzi, risulterebbe
 contrario al principio di ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  Cost.
 sottrarre, in tali casi, il rifiuto di deporre alle sanzioni previste
 per il silenzio o il mendacio dei testimoni.
   E,   cio',   indipendentemente   dall'accoglimento   dell'ulteriore
 eccezione qui sollevata con riguardo alle lettere a) e  b)  dell'art.
 197  c.p.p.:   a prescindere infatti dalla possibilita' di attribuire
 all'imputato "collaborante" la formale veste  di  testimone,  sarebbe
 iniqua  sul  piano sostanziale una disciplina che prevedesse, per due
 categorie  di  soggetti,  lo  stesso   obbligo   di   deporre   sulle
 responsabilita'  penali  di  terzi,  e sanzionasse solo in un caso la
 relativa trasgressione.
   Ne' puo' ritenersi che un giudizio  costituzionale  sul  punto  sia
 inscindibile  da  profili  di  politica  criminale  riservati  in via
 esclusiva all'Organo legislativo,  in  particolare  con  riguardo  al
 quantum  della  sanzione  da applicare al coimputato reticente. Nulla
 esclude infatti che intanto la Corte dichiari,  in  accoglimento  dei
 rilievi  qui  esposti, l'illegittimita' della norma incriminatrice in
 discorso (per contrasto con  l'art.  3  Cost.)  nella  parte  in  cui
 esclude  dal  proprio  ambito  sanzionatorio  taluni soggetti, e che,
 successivamente, il legislatore intervenga per stabilire, rispetto  a
 costoro,  limiti  edittali  diversi  (maggiori  o  minori) rispetto a
 quelli previsti per gli odierni destinatari del precetto.  Le singole
 questioni di  costituzionalita'  sollevate  in  questa  sede  (e  che
 verranno  meglio  articolate in dispositivo) sono tra loro senz'altro
 correlate, ma non reciprocamente pregiudiziali.   Indubbiamente,  una
 declaratoria  di  illegittimita'  parziale  -  nei limiti che si sono
 illustrati - degli artt. 197, 208 e 210 c.p.p.  e dell'art. 372 c.p.,
 travolgerebbe in radice anche il sistema delle "letture di  atti"  di
 cui  all'attuale  art.  513  c.p.p.    Non  vale  pero' il contrario.
 Quand'anche, cioe', la Corte ritenesse assolutamente inderogabile sul
 piano costituzionale, anche nei casi  di  cui  si  tratta,  la  ratio
 ispiratrice  della  facolta'  di  non  rispondere,  potrebbe tuttavia
 rilevare -  sulla  scia  della  propria  giurisprudenza  pregressa  -
 l'irrazionalita'  degli  effetti che da quella facolta' vengono fatti
 discendere nell'art. 513 citato, ed in particolare  della  diversita'
 tra  quest'ultima  disciplina  e  quella  dettata  -  per un fenomeno
 processuale sostanzialmente analogo - dall'art. 500, comma 2-bis, ss.
 c.p.p.  Appare quasi pleonastico rilevare come tutte le problematiche
 costituzi   onali  in  discorso  siano  assolutamente  rilevanti  nel
 presente giudizio.
   Invero,  se  Isella  Giancarlo non avesse potuto invocare in questa
 sede la facolta'  di  non  rispondere,  o  se  quantomeno,  a  fronte
 dell'esercizio   di  quella  facolta',  ciascuna  parte  fosse  stata
 abilitata a far valere quanto l'Isella stesso  aveva  dichiarato  nel
 corso  delle indagini preliminari, senza che a tal fine occorresse il
 consenso  delle  parti  controinteressate,  il  materiale  di   prova
 utilizzabile  nei  confronti  degli  imputati Alde' Stefano, Musolino
 Vincenzo  e Ferrari Adelchi sarebbe stato piu' ampio di quanto invece
 risulta per effetto della disciplina esistente.  E  il  Collegio  non
 sarebbe  stato  -  come  invece  accade  -  impedito  di  valutare il
 contributo probatorio dell'Isella  (nei  limiti,  beninteso,  di  cui
 all'art.   192,   comma   3,  c.p.p.)  ai  fini  del  proprio  libero
 convincimento sui fatti portati al  suo  giudizio.    Il  presupposto
 della  rilevanza  sussiste in concreto, nel caso di specie, anche con
 riferimento alla questione di legittimita' dell'art.   372 c.p.,  per
 cui  pure  - come si e' detto - esso non sarebbe necessario alla luce
 della sentenza  costituzionale  n.  148  del  1983.  Ove  infatti  la
 questione  fosse  accolta,  quella  norma  potrebbe dispiegare i suoi
 effetti deterrenti (e garantire autenticamente il diritto di tutte le
 parti al contraddittorio) sia  nei  confronti  di  Isella  Giancarlo,
 qualora  il p.m.. ritenesse di chiederne nuovamente l'esame alla luce
 della mutata situazione  normativa,  sia  soprattutto  nei  confronti
 delle  numerose  altre persone imputate in procedimento collegato che
 restano da esaminare.