IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza sulla questione di legittimita' costituzionale degli artt. 513 c.p.p., cosi' come modificato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, e 6 legge 7 agosto 1997, n. 267, sollevata dal pubblico ministero alla udienza del 19 novembre 1997 nel procedimento penale n. 669/1996 r.g. tribunale a carico di Piccolo Nicola, Chiarentin Graziano, Eracole Alessandro, Di Domenico Angelo, Corro' Livio, Zoffi Paolo; Sentite le parti; Lette le memorie autorizzate depositate dai difensori degli imputati Ercole, Chiarentin, Piccolo, Di Domenico; Sciogliendo la riserva formulata alla udienza del 19 novembre 1997. In data 26 marzo 1997 si celebrava la prima udienza dibattimentale del procedimento penale di cui in epigrafe. L'udienza veniva dedicata all'esame delle questioni preliminari sollevate dalle parti, questioni che, per numero e complessita', occupavano l'intera giornata. L'udienza si concludeva quindi con la formale dichiarazione di apertura del dibattimento - previa lettura del capo di imputazione - e la predisposizione del calendario delle udienze successive. Il 5 novembre 1997 il tribunale, sentite le parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali, l'esame, richiesto dal pubblico ministero, degli imputati di reato connesso Celegato Giovanni, Toscani Daniela e Semenzato Mario. Nel corso della successiva udienza del 19 novembre 1997, Celegato Giovanni, Toscani Daniela e Semenzato Mario si presentavano al dibattimento assistiti dal difensore e dichiaravano tutti di avvalersi della facolta' di non rispondere. Il pubblico ministero chiedeva di produrre i verbali delle dichiarazioni da ciascuno rese nella fase delle indagini preliminari. La parte civile "si rimetteva", mentre il responsabile civile e i difensori di tutti gli imputati si opponevano. A quel punto il pubblico ministero sollevava la questione ricordata in premessa e la illustrava. Il responsabile civile e la difesa dell'imputato Zoffi prendevano la parola per argomentare il proprio dissenso e concludevano chiedendo al tribunale di non accogliere la richiesta del pubblico ministero di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; la parte civile dichiarava di rimettersi sulla questione. Alle altre parti, il tribunale concedeva termine fino al 3 dicembre 1997 per l'eventuale deposito di memorie e si riservava di sciogliere la riserva alla udienza del 17 dicembre 1997. Sulla rilevanza Il pubblico ministero, nella esposizione introduttiva, aveva posto in evidenza come le indagini, avviate in seguito alla denuncia presentata dall'allora parlamentare Dorigo Martino, denuncia avente ad oggetto gravi irregolarita' - talune di rilevanza penale - emerse da una indagine contabile eseguita presso lo stabilimento della Enichem s.p.a. di Marghera (e che avevano dato luogo ad una serie di licenziamenti, trasferimenti e/o dimissioni anche di funzionari di grado elevato), avessero trovato nuovo e determinante impulso per effetto delle dichiarazioni rese da Celegato Giovanni: amministratore della C.I.M. s.a.s. - societa' che aveva conseguto diversi appalti dall'Enichem s.p.a. e che, secondo la ipotesi accusatoria, aveva posto in essere un significativo sistema di false fatturazioni - spontaneamente presentatosi al pubblico ministero dopo il deposito della consulenza contabile disposta dalla pubblica accusa. Nella sede sopra ricordata, il pubblico ministero aveva altresi' illustrato la rilevanza delle dichiarazioni rese da Semenzato Mario, amministratore della C.I.S. s.a.s., nonche' quelle della signora Toscani Daniela, nei confronti della quale era stato avviato un procedimento penale per estorsione (conclusosi con condanna della medesima in seguito a rito abbreviato davanti al g.i.p.) avendo la predetta utilizzato le numerose informazioni in suo possesso, in ordine alla truffa posta in essere ai danni dell'Enichem, per ottenere da Celegato un posto di lavoro nella azienda da lui amministrata, prospettandogli, in caso contrario, la presentazione di una ricca ed articolata denuncia alla Procura della Repubblica. Il tribunale, peraltro, non solo dalla relazione introduttiva del pubblico ministero, ma anche dall'esame dei testi assunti e, segnatamente, da quello di Dorigo Martino, ha potuto apprezzare la rilevanza nel processo delle dichiarazioni rese da predetti imputati di reato connesso usciti dal processo che ci occupa per diverse ragioni. (Celegato ha concluso la sua vicenda processuale con rito abbreviato davanti al g.i.p.; Semenzato ha ottenuto provvedimento di archiviazione della azione nei suoi confronti; per Toscani si e' gia' detto). Ne consegue che affatto rilevante deve ritenersi, nel processo in corso, la dedotta questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma secondo, c.p.p. nella sua attuale formulazione. Necessita invece una precisazione la analoga questione sollevata dal pubblico ministero in relazione all'art. 6 della legge 7 agosto 1997, n. 267. Tale norma, infatti, a differenza di quella contenuta nell'art. 1 della menzionata legge, disciplina il regime di utilizzabilita' dei verbali degli interrogatori degli imputati di reato connesso gia' introdotti nel procedimento in forza della disciplina previgente dell'art. 513 c.p.p. (si tratta quindi di norma che detta una regola per la valutazione di una prova che si assume gia' introdotta, laddove, invece, l'art. 1 disciplina la introduzione stessa, nel processo, di mezzi di prova) e prevede la utilizzabilita' come prova delle dichiarazioni in essi contenute, solo se la attendibilita' sia confermata da altri elementi di prova non desunti da dichiarazioni rese al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria da questi delegata o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nella udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art. 513 c.p.p. nel testo vigente prima dalla entrata in vigore della legge n. 267/1997. Tale norma non puo' trovare applicazione nella fattispecie in esame. Il legislatore, rendendosi evidentemente conto che un mutamento delle norme processuali immediatamente applicabile a processi gia' in corso, avrebbe creato non pochi problemi, ha ritenuto di superare le prevedibili incongruenze e discrasie attraverso la formulazione di una "norma transitoria" dalla pretesa portata esaustiva. Si e' invece assolutamente dimenticato della fattispecie che ci occupa, ove la ricordata modifica legislativa e' intervenuta a dibattimento gia' aperto, ma quando ancora gli imputati di reato connesso non erano stati esaminati e, pertanto, le dichiarazioni dagli stessi rese nel corso delle indagini preliminari non erano state acquisite al fascicolo del dibattimento secondo la disciplina dell'art. 513 c.p.p. nella sua formulazione anteriore alla novella. La osservazione non e' di poco momento posto che, come il tribunale ha gia' potuto apprezzare, numerosi e significativi sono gli elementi emersi che, e' ragionevole ritenere, secondo la impostazione accusatoria, avrebbero dovuto rappresentare altrettanti riscontri alle dichiarazioni rese dagli imputati di reato connesso e, soprattutto, a quelle confessorie di Celegato Giovanni. Neppure pare ragionevole ritenere che alla fattispecie in esame sia applicabile il comma 1 dell'art. 6 in esame: disposizione indiscutibilmente legata ad una fase processuale oramai superata, e che, quindi, propone uno strumento non piu utilizzabile nel caso di specie. Nondimeno, e proprio con riferimento alla lacuna ora posta in evidenza, la questione di legittimita' dedotta dal pubblico ministero anche in relazione all'art. 6 della legge piu' volte citata, appare affatto rilevante. Sulla non manifesta infondatezza Riformulando l'art. 513 c.p.p. il legislatore ha inteso riaffermare con forza i principi dell'oralita' nella formazione della prova e del contraddittorio ai quali deve ispirarsi il processo penale di tipo accusatorio vigente e, nel caso di specie, cio' ha fatto attraverso lo strumento del depotenziamento del valore probatorio delle acquisizioni avvenute in assenza di contraddittorio. Ritiene questo Collegio che della chiara ed inequivoca scelta legislativa, sicuramente ispirata ad un principio di parita' sostanziale tra accusa e difesa, ci si debba limitare a prendere atto, non emergendo profili evidenti di incompatibilita' con la Carta costituzionale se non nei limiti, circoscritti, che si andranno a precisare, con specifico riferimento ai processi in corso al momento di entrata in vigore della novella, e non essendo comunque questa la sede per analizzare la scelta del legislatore di escludere qualsiasi sanzione a carico di coloro che, senza ragione alcuna, rifiutino di reiterare al dibattimento dichiarazioni eteroaccusatorie rese nel corso delle indagini preliminari. Giova peraltro ricordare che il principio della oralita' al quale il nostro sistema si ispira non puo' rappresentare il solo principio informatore delle norme che regolano la assunzione e formazione delle prove. In diverse occasioni infatti (sentenze n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991) la Corte costituzionale ha ribadito che, sempre e comunque, "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca delle verita'", sicche': "l'oralita' assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice vigente, il veicolo esclusivo di formazione della prova, nel dibattimento ... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (C. cost. n. 255/1992). E ancora, sempre con riguardo al fine primario ed ineludibile di cui sopra, la Corte ha sottolineato che "... ad un ordinamento improntato al principio di legalita' che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate nonche' al connesso principio di obbligatorieta' della azione penale non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione" (C. cost. n. 255/1992 e n. 111/1993). E' a tutti noto come, in forza di siffatti principi la Corte abbia confermato la compatibilita' al dettato costituzionale di norme nelle quali la formazione della prova deroga il principio del contraddittorio dibattimentale, o prescinde dall'immediato contatto del giudice con la prova nel momento della sua formazione (ci si riferisce agli artt. 392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6, 512 c.p.p., e lo stesso 513 c.p.p.) ed abbia individuato la ragione d'essere di tali "eccezioni" nella necessita' di non disperdere elementi di prova non compiutamente o non genuinamente acquisibili con il metodo orale: necessita' che la stessa Corte ha elevato al rango di principio costituzionalmente garantito e denominato "principio di non dispersione delle prove" (C. cost. n. 255/1992). Da questa sintetica premessa - e cioe' dai ricordati principi costituzionali - ritiene questo Collegio che non si possa prescindere nell'affrontare la questione di legittimita' dedotta. E' pero' opinione di questo Collegio che la questione - sollevata dal pubblico ministero con riferimento all'art. 513 c.p.p. nella sua nuova formulazione - meriti invece di essere affrontata sotto un altro aspetto o, meglio, con riferimento ad altra norma di rito al cui contenuto anche l'art. 513 c.p.p. deve necessariamente rapportarsi. Ci si riferisce all'art. 210, comma 4, c.p.p. nella parte in cui prevede che l'imputato di reato connesso che abbia reso dichiarazioni direttamente o indirettamente accusatorie a carico di terze persone non presenti all'atto di assunzione di dette dichiarazioni davanti al pubblico ministero, possa poi avvalersi della facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quelle stesse persone. (E' appena il caso di porre in evidenza che analogo discorso vale per l'mputato che nel corso delle indagini preliminari abbia reso dichiarazioni indizianti nei confronti di altri imputati del medesimo procedimento: ipotesi che non si affronta specificatamente in quanto, nel caso di specie, non rileva). E' di tutta evidenza infatti che la disposizione dettata dalla norma la ultimo citata (art. 210, comma 4, c.p.p.) costituisce il nodo centrale del sistema e che il sospetto di illegittimita' costituzionale che circonda norme che da esso direttamente discendono non e' che una conseguenza immediata e diretta del dubbio di illegittimita' costituzionale che attinge la norma in esame, laddove consente agli imputati di reato connesso, nelle circostanze sopra indicate, la facolta' di tacere. La necessita' di tale impostazione emerge in modo affatto evidente anche dal semplice esame delle conseguenze che la novella ha di fatto determinato, conseguenze che tradiscono quello che si ritiene essere stato lo scopo primario del legislatore. Se infatti quest'ultimo, con la attuata riforma, ha inteso riaffermare la necessita' di subordinare la introduzione nel dibattimento di dichiarazioni accusatorie eteroprocessuali al vaglio del contradittorio, di fatto, si deve constatare che, nella realta', cio' si verifica assai raramente: sicche' quella che doveva essere la regola e' in realta' la eccezione, mentre la regola e' rappresentata dalla assoluta sottrazione delle dichiarazioni dell'accusatore al vaglio dibattimentale per effetto della totale eliminazione dalla realta' processuale delle dichiarazioni da quello a suo tempo rese. Ritiene quindi questo Collegio che debba essere preliminarmente e principalmente affrontata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 210, comma 4, c.p.p. nei termini sopra delineati. Nel nostro ordinamento l'imputato ha facolta' di scegliere se tacere o parlare e, ove scelga di parlare, ha facolta' di mentire. Orbene, se e' vero che la facolta' di tacere, il diritto dell'imputato di rifiutarsi di collaborare con gli inquirenti, e' espressione del diritto di difesa e come tale merita ampia tutela, tuttavia, tale tutela, non puo' spingersi fino al punto da ledere altri ed altrettanto rilevanti principi garantiti dalla Carta costituzionale. E' evidente che qui non si fa riferimento semplicemente alla lesione di principi di ordine etico e morale che imporrebbero a chi fa determinate dichiarazioni di assumersi poi la responsabilita' delle conseguenze del suo operare, bensi' ad un vero e proprio legittimo sospetto di incompatibilita' di tale diritto - nei limiti sopra delineati - con i principi dettati dalla Costituzione. La irrazionalita' del sistema attuale appare affatto manifesta ove si consideri che: da un lato, il mancato ingresso di dichiarazioni accusatorie rese nelle indagini preliminari da un imputato di reato connesso lede i principi di obbligatorieta' dell'esercizio della azione penale e di indefettibilita' della giurisdizione e vanifica lo scopo del processo che e' quello della ricerca e dell'accertamento della verita' storica; dall'altro, viceversa, la introduzione di tali dichiarazioni lede il diritto di difesa della parte accusata impedendole, attraverso il contro-esame, di accertare la credibilita' e la attendibilita' dell'accusatore. Giova esaminare partitamente i singoli punti. Si e' gia' ricordato e si sono specificatamente richiamate le relative pronuncie sul punto, che la Corte costituzionale ha piu' volte sottolineato come lo scopo primo ed ineludibile del processo debba essere quello dell'accertamento della verita' storica, in quanto solo tale accertamento potra' poi portare il giudicante alla emanazione di una sentenza giusta. Se cosi' e', non puo' ritenersi ragionevole un sistema che consenta al giudice una conoscenza parziale, alla quale potra' conseguire solo un accertamento della verita' formale/processuale, ma certamente non della verita' storica; non puo' essere giudicato razionale un sistema che impedisca alla pubblica accusa di portare efficacemente a compimento quell'esercizio della azione penale che, pure, la stessa sia obbligatoriamente tenuta ad esercitare e che, di fatto, viene ora ad essere subordinata al consenso di altri. Ma vi e' un altro profilo di cui e' necessario tener conto. Nel nostro sistema il pubblico ministero e' organo giudiziario pubblico e indipendente, deputato alla applicazione imparziale della legge. Questultima conferisce piena utilizzabilita' agli elementi raccolti dal pubblico ministero nella fase delle indagini: utilizzabilita' che si estende fino alla legittimazione del compimento di atti che possono incidere significativamente anche su diritti costituzionali primari dei cittadini. Sia sufficiente considerare che il pubblico ministero sulla base di dichiarazioni accusatorie rese da un imputato in reato connesso e debitamente riscontrate, puo' chiedere ed ottenere dal g.i.p. la emissione di una misura cautelare personale. Non solo, ma l'esercizio della azione penale sulla base di dichiarazioni di coimputati o imputati di reato connesso e delle risultanze emergenti dalle indagini che alle stesse sono seguite, non e' attivita' meramente facoltativa del pubblico ministero ma e' attivita' obbligatoria ai sensi dell'art. 112 della Costituzione. Ad avviso di questo Collegio il dubbio di compatibilita' con la Carta costituzionale non va posto in relazione al diverso regime di utilizzabillta' dei mezzi di prova nelle diverse fasi processuali (dubbio che, in verita', non si ravvisa), quanto piuttosto sulla irrazionalita' di un sistema che, da un lato, impone al pubblico ministero la raccolta e l'utilizzo di prove sul fatto da accertare e, dall'altro, condiziona poi l'effettivo esercizio della azione penale nel raggiungimento dello scopo, che e' quello della ricerca della verita', alla volonta' meramente potestativa di un soggetto controinteressato. Parimenti, irragionevole e contraria al dettato costituzionale risulta la sottoposizione, di fatto, del giudice non gia' solo alla legge (cosi' come stabilito dalla Costituzione) ma alla volonta' di una parte che, a suo piacimento (ne' delle ragioni del suo operare e' tenuta a dare conto alcuno), potra' consentire o meno la introduzione nel processo di materiale probatorio. E' indispensabile sul punto ricordare gli interventi della Corte stituzionale volti ad evitare la introduzione nel nostro ordinamento di un preteso principio dispositivo in materia di prova. Argomentando in ordine alla prospettata eccezionalita' del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 c.p.p., la Corte ha infatti sottolineato come il preteso principio dispositivo della prova non trovi riscontro "ne' nei principi della delega, ne' nel tessuto normativo concretamente designato nel codice" E per fugare ogni dubbio ha precisato: "E' per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' della azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata al processo penale" (C. cost. n. 111/1993). Principio che la Corte aveva gia' esplicitato laddove aveva riconosciuto la illegittimita' costituzionale dell'art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse valutare non congrua la pena richiesta dalle parti e, quindi, rigettare la richiesta di applicazione pena (C. cost. n. 313/1990); ovvero laddove ha consentito il cosi' detto "recupero" del rito abbreviato al dibattimento, ove il giudice abbia giudicato non giustificato il dissenso del pubblico ministero, argomentando che in un sistema come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di partecipazione della accusa e della difesa su basi di parita' ... non dovrebbe essere consentito che i rapporti tra pubblico ministero e imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta' immotivato e percio' incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale (n. 81/1991). E da ultimo, solo per completezza, giova citare anche la sentenza n. 92/1992 ove la Corte ha inequivocabilmente sottolineato la incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato su principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che affidi a scelte discrezionali, immotivate e, quindi, insindacabili del pubblico ministero, l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena. Non meno grave e rilevante appare altresi' la evidente violazione del diritto di difesa che la applicazione della norma in esame comporta. Non puo' infatti sfuggire come la scelta di non consentire ad essere esaminato e, quindi, di non sottoporsi al contraddittorio, operata da colui che, in sede di indagini preliminari, abbia reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un terzo, leda grandemente il diritto di difesa dell'accusato, al quale deve essere riconosciuto il diritto di vedere affermata la propria innocenza, non solo quale conseguenza del venir meno ex lege di una fonte di prova e solo perche' l'accusatore ha deciso (e di tale decisione - lo si ribadisce - non e' tenuto in alcun modo ad illustrare le ragioni) di non parlare, ma, invece, come conseguenza dell'accertamento della verita' storica. Solo cosi', infatti, l'accusato potra' vedere dissolto ogni dubbio sulle accuse mosse nei suoi confronti, evitando di essere per sempre circondato di un alone di sospetto che la persona innocente non puo' e non deve tollerare. Per altro verso, se il contraddittorio e' senza dubbio uno strumento di difesa, e' altresi' innegabile la sua primaria funzione di accertamento della verita', sicche' il condizionare la sua esistenza ad una scelta, che puo' essere anche arbitraria e immotivata, dell'accusatore, suscita un ragionevole e fondato sospetto di illegittimita' costituzionale dell'art. 210 c.p.p. anche in relazione all'art. 25 della Costituzione laddove impone la punizione dei colpevoli. Da quanto esposto si evince altresi' una evidente violazione del principio di uguaglianza. L'imputato di reato connesso che con la sua condotta diventa arbitro delle sorti del processo, puo' infatti inopinatamente scegliere in quale processo parlare ed in quale invece avvalersi della facolta', che la legge gli ha accordato, di non rispondere, determinando cosi', a seconda dei casi, conseguenze affatto diverse per gli imputati, la cui sorte viene in larga parte a dipendere dagli umori del loro accusatore. (Per non parlare, poi, di come siffatto sistema si presti a favorire forme di intimidazione dirette o indirette senza che il legislatore abbia pensato di predisporre un qualche rimedio nel caso in cui il silenzio sia conseguenza di una accertata intimidazione). Nei medesimi termini deve porsi la questione della irragionevolezza di un sistema che, consentendo un uso arbitrario del diritto al silenzio, puo' determinare situazioni di disparita' di trattamento nei confronti di quegli imputati nei cui confronti, per ragioni del tutto contingenti come possono essere, ad esempio, quelle legate alla competenza funzionale (si pensi agli imputati minorenni) il processo deve essere separato. Infine, la questione prospettata merita di essere esaminata anche alla luce del principio di non dispersione dei mezzi di prova sul quale gia' ci si' e' soffermati. Per tutte le ragioni anzidette ritiene questo tribunale che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 210, comma 4, c.p.p. meriti di essere sollevata in quanto non manifestamente infondata. E' peraltro evidente che la questione involge anche la legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., sicche' l'eventuale accoglimento della prospettata questione non potra' non travolgere la menzionata norma. Se cosi' non fosse, se cioe' la Corte ritenesse infondata la questione, questo tribunale, che pure, come gia' detto, prende atto della scelta legislativa operata con la legge n. 267/1997 e la valuta non incompatibile con la Carta costituzionale per i procedimenti futuri, non puo' non porsi un dubbio di legittimita' costituzionale con riferimento ai procedimenti gia' avviati alla data di entrata in vigore della legge n. 267/1997 e per i quali, avuto riguardo alla fase nella quale si trovano, non sia piu possibile ricorrere al "rimedio" predisposto dal legislatore all'art. 6, comma 1, della menzionata novella; ovvero nei casi in cui, come quello che ci occupa, non sia neppure applicabile la disciplina dei cui al comma 5 per il semplice motivo che le dichiarazioni dell'imputato di reato connesso non erano gia' state acquisite alla data di entrata in vigore della disposizione che, viceversa, tale avvenuta acquisizione pacificamente presuppone. La mancata previsione legislativa della fattispecie in esame comporta la inapplicabilita' della norma transitoria dettata all'art. 6 legge 267/1997 al caso di specie, per il quale dovra', quindi, trovare applicazione l'art. 1 della predetta legge. E' appena il caso di far notare come un mero accidente (e cioe' il differimento ad una data successiva all'estate della istruttoria dibattimentale) abbia comportato rilevanti conseguenze sul piano processuale; ne' si puo' sottacere la irragionevole disparita' di trattamento tra imputati che si sarebbe potuta verificare se, prima della entrata in vigore della novella, vi fosse stata la acquisizione al fascicolo del dibattimento del verbale delle dichiarazioni di un imputato di reato connesso coinvolgenti, in ipotesi, la posizione di alcuni soltanto degli imputati. Per quanto riguarda invece il primo comma dell'art. 6 della legge n. 267/1997, non ci si puo' nascondere che, se anche il legislatore colmasse la lacuna sopra rilevata, ugualmente non potrebbero ritenersi superati i dubbi legati alla facolta', conferita dalla legge a colui che aveva reso dichiarazioni indizianti a carico di altri, di non rispondere anche nel corso dell'incidente probatorio: rilievo questo dal quale non puo' che trarsi ulteriore conferma che il nodo centrale di tutto il sistema attuale riposa nella compatibilita' al dettato costituzionale della norma che consente il diritto al silenzio anche a coloro che abbiano reso dichiarazioni etero-accusatorie. In ogni caso, poiche' anche il solo dubbio di non manifesta infondatezza, legittima la rimessione degli atti alla Corte, ritiene questo tribunale che sia opportuno provocare una pronuncia della Corte costituzionale anche con riferimento all'art. 513 c.p.p. nei limiti sopra indicati.