ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale del combinato disposto
 degli articoli da 18 a 36 del codice di  procedura  civile,  promossi
 con  ordinanze  emesse  il  18 dicembre 1996 dalla Corte d'appello di
 Roma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra la  R.C.S.  Rizzoli
 Periodici  S.p.A.  ed  altri  e Filocamo Felice Maria, iscritta al n.
 270 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 1997  e  l'11
 novembre  1996 dal tribunale di Roma nel procedimento civile vertente
 tra Stabile Carmine e la Societa'  Editrice Il Messaggero S.p.A.   ed
 altro,  iscritta  al  n. 279 del registro ordinanze 1997 e pubblicata
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  22,  prima   serie
 speciale, dell'anno 1997;
   Visti  gli  atti  di  costituzione  della  R.C.S. Rizzoli Periodici
 S.p.A., di Filocamo Felice Maria e di  Stabile  Carmine  nonche'  gli
 atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 9 dicembre 1997 il giudice relatore
 Cesare Ruperto;
   Uditi  gli  avvocati  Paolo  Barile per la R.C.S. Rizzoli Periodici
 S.p.A., Enzo Musco per Filocamo Felice Maria, Giovanni  Giacobbe  per
 Stabile  Carmine e l'Avvocato dello Stato Ignazio Francesco Caramazza
 per il  Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1.1. - Nel corso di un giudizio civile - promosso da un  magistrato
 per  ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e morali subi'ti
 a cagione di una dedotta diffamazione  a  mezzo  stampa  -  la  Corte
 d'appello  di  Roma,  con  ordinanza  emessa  il  18 dicembre 1996 ha
 sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della  Costituzione,
 questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli
 articoli  da  18 a 35 del codice di procedura civile, "nella parte in
 cui non prevedono che, nel caso in cui un  magistrato  sia  attore  o
 convenuto  in  un  procedimento  civile, si determini uno spostamento
 della competenza  per  territorio  secondo  princi'pi  predeterminati
 quali  quelli  previsti,  per  il  processo  penale, dall'art. 11 del
 codice   di   procedura   penale";  ovvero,  "in  linea  subordinata,
 limitatamente al caso in cui il  giudizio  civile  abbia  ad  oggetto
 fatti   la   cui   rilevanza   penale  debba  essere  incidentalmente
 accertata"; ovvero ancora, "nei procedimenti civili per  diffamazione
 a  mezzo stampa in cui sia applicabile la sanzione di cui all'art. 12
 della legge sulla stampa".
   Osserva preliminarmente  la  Corte  rimettente  che  il  fatto  che
 l'attore  non  svolgesse  funzioni  giurisdizionali al momento in cui
 ebbe a proporre la domanda giudiziale - prestando all'epoca  servizio
 presso  il  Ministero  di  grazia  e  giustizia  -  non  incide sulla
 rilevanza della questione, ove questi, come  nella  fattispecie,  nel
 corso   del  processo  ha  iniziato  ad  esercitare  nuovamente  tali
 funzioni.
   Quanto,   poi,   alla    proponibilita'    della    questione    di
 costituzionalita',   ritiene  il  giudice  a  quo  che  l'intervenuta
 pronuncia della Cassazione - la quale, a se'guito di  regolamento  di
 competenza  proposto nel corso dello stesso giudizio, aveva affermato
 la competenza territoriale del tribunale di Roma - non  precluderebbe
 la   successiva   proposizione   di   una  questione  attinente  alla
 legittimita' costituzionale di quelle stesse norme  che  radicano  la
 competenza  in  capo  al  giudice  individuato  dalla  Cassazione  in
 concreto.
   Nel merito, la Corte  d'appello  di  Roma  si  duole  dell'asserita
 illogicita'  di  un sistema giurisdizionale in cui il giudizio penale
 afferente a magistrati, siano essi imputati o parte offesa, viene per
 legge (ex  art.  11  cod.  proc.  pen.)  attribuito  alla  competenza
 territoriale  del  capoluogo  del distretto vicino a quello in cui il
 magistrato stesso presta o prestava servizio, mentre altrettanto  non
 viene  disposto  nel caso in cui un magistrato sia attore o convenuto
 in un giudizio civile.
   La Corte d'appello - pur rammentando che la  Cassazione,  investita
 di  una  questione  sostanzialmente  coincidente, ne ha dichiarato la
 manifesta  infondatezza  sotto  il  duplice  profilo  della   diversa
 rilevanza  degli  interessi  dedotti nel giudizio penale ed in quello
 civile  e  della  sussistenza,   nel   sistema,   di   strumenti   di
 salvaguardia,  quali la ricusazione e l'astensione - ritiene tuttavia
 la palese inidoneita' di tale secondo  argomento  a  svolgere  quella
 funzione   cautelatrice  che  ad  esso  si  attribuisce.  Rileva,  in
 proposito, che la funzione  giurisdizionale  riveste  caratteristiche
 peculiari  e  del tutto specifiche, in quanto la credibilita' di essa
 si basa non solo e  non  tanto  sulla  tutela  dell'indipendenza  dei
 giudici  in  astratto,  ma  piuttosto, e ben piu' significativamente,
 sulla trasparenza, anche all'esterno di essa;  di  talche',  pur  non
 sussistendo  in  ipotesi motivi di astensione, egualmente apparirebbe
 congruo  che  la  funzione  fosse  devoluta  a   giudici   "estranei"
 all'ufficio  in  cui  il  magistrato  che  e' parte presta o prestava
 servizio.  Laddove,  poi,  i  richiamati  strumenti  di  salvaguardia
 (astensione  e  ricusazione) sono presenti anche nel giudizio penale,
 il che non ha impedito al legislatore di  disciplinare  espressamente
 l'ipotesi del magistrato esercente nel distretto, dettando l'art.  11
 cod. proc. pen.
   Ne  deriva quindi, ad avviso del giudice a quo, l'irrazionalita' di
 un sistema che - pur  essendo  unica  la  giurisdizione  e  dovendosi
 salvaguardare  l'indipendenza del giudice in ogni occasione in cui la
 giurisdizione stessa  viene  esercitata  -  solo  nella  sede  penale
 garantisce  tale trasparenza, mentre nell'a'mbito del processo civile
 nulla dispone al riguardo; e cio' non tanto per  il  principio  della
 disparita' (ingiustificata) di trattamento, che pure sussiste, quanto
 per  l'illogicita'  manifesta  di  un  sistema  che  si preoccupa del
 problema   soltanto   nell'a'mbito   penale   senza   porsi   analoga
 problematica per il processo civile, con conseguente ulteriore vulnus
 sia  all'art.    3  sia all'art. 101 della Costituzione Tanto piu' in
 quanto, come nel caso concreto, ci si deve far carico della specifica
 situazione  che  si  verifica  allorche'  in  sede  civile  si  debba
 giudicare   in   tema   di   risarcimento  del  danno  susseguente  a
 diffamazione a mezzo stampa, per statuire sul quale il giudice civile
 dovra', sia pure incidenter tantum,  giudicare  sulla  sussistenza  o
 meno del reato in questione.
   1.2. -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, eccependo preliminarmente l'inammissibilita'  della  sollevata
 questione  per  difetto di rilevanza sotto il duplice profilo: a) che
 la competenza territoriale del tribunale di Roma (in primo grado) era
 stata affermata dalla Corte di cassazione in sede di  regolamento  di
 competenza, con formazione sul punto del giudicato interno preclusivo
 della  proponibilita' di una questione di legittimita' costituzionale
 il cui esito non potrebbe avere rilevanza nel giudizio a quo; b)  che
 la  competenza  si  era  ormai  definitivamente radicata in forza del
 principio della perpetuatio iurisdictionis, sancito dall'art.  5 cod.
 proc. civ., secondo cui la competenza si determina con riguardo  allo
 stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda,
 senza che abbiano rilevanza i successivi mutamenti, anche conseguenti
 ad un'eventuale pronuncia di incostituzionalita'.
   Nel  merito,  osserva l'Avvocatura come la differenza riscontrabile
 tra processo penale  e  processo  civile  trovi  una  giustificazione
 pienamente razionale nell'ontologica diversita' dei fini perseguiti e
 degli  interessi  coinvolti,  che  si  esprime,  solo quanto al primo
 processo,  nel  carattere  istituzionalmente   e   monopolisticamente
 "pubblico"  dell'azione,  e  nella  sua  diretta incidenza sul valore
 cardine  della  liberta'  personale  del  soggetto  contro  il  quale
 l'azione  stessa  e' rivolta. Sostiene quindi l'Avvocatura che appare
 ragionevole  la   scelta   operata   dal   legislatore,   nella   sua
 discrezionalita',   di  affidare  la  garanzia  dell'indipendenza  ed
 imparzialita' del giudice nel  processo  civile  esclusivamente  alle
 regole in tema di astensione e ricusazione.
   1.3.  -  Si  e' costituito l'attore del giudizio a quo, concludendo
 preliminarmente per l'inammissibilita' della sollevata questione  con
 considerazioni    sostanzialmente    analoghe    a    quelle   svolte
 dall'Avvocatura dello Stato.
   Ulteriori profili d'inammissibilita',  secondo  la  parte  privata,
 vanno  rinvenuti:  a)  nell'assunzione  quale  tertium  comparationis
 dell'art.   11 cod. proc. pen. del  1988,  che  -  al  momento  della
 proposizione  della  domanda  -  ancora  non  era  entrato in vigore;
 laddove, in  applicazione  dell'art.  41-bis  al  tempo  vigente,  la
 competenza  a  conoscere  del  reato  sarebbe  ugualmente  stata  del
 tribunale  di   Roma;   b)   nella   richiesta   di   un   intervento
 sostanzialmente  creativo,  della  Corte  costituzionale, sostitutivo
 della  discrezionalita'  che,  in  materia,  la   Corte   ha   sempre
 riconosciuto  al  legislatore nella scelta dei vari possibili criteri
 idonei a preservare l'imparzialita' del giudice.
   Nel merito, la parte conclude per la manifesta  infondatezza  della
 questione,  sulla  base  di  motivazioni  analoghe  a  quelle  svolte
 dall'Avvocatura dello Stato sia in tema di diversita' ontologica  del
 sistema  processuale  penale  rispetto  a quello civile sia in ordine
 alla sufficienza dei  rimedi  dell'astensione  e  della  ricusazione.
 Aggiungendo,   peraltro,   che   la   simmetria  tra  i  due  sistemi
 processuali, affermata dal rimettente, in realta' non sussiste,  come
 emerge   anche   dalla   diversita'   di  disciplina  in  materia  di
 incompatibilita' del magistrato (inesistente nel processo civile),  a
 dimostrazione    della    differente    modulazione    della   tutela
 dell'imparzialita' del giudice, che il  legislatore  riconnette  alla
 maggiore  o  minore  intensita'  degli  interessi pubblici sottesi al
 giudizio.
   1.4. - Si e'  costituita,  altresi',  la  societa'  editrice  delle
 pubblicazioni  denunciate  dall'attore come diffamatorie, concludendo
 nel senso della fondatezza della sollevata questione, con riserva  di
 ulteriori deduzioni, svolte poi con memoria depositata nell'imminenza
 dell'udienza,  nella  quale  - fatte proprie le considerazioni svolte
 dal  rimettente  circa  la   violazione   degli   evocati   parametri
 costituzionali  -  vengono puntualmente contrastate le argomentazioni
 svolte dall'Avvocatura generale e dalle controparti private.
   2.1. - Nel corso di analogo procedimento civile,  il  tribunale  di
 Roma,  con  ordinanza  emessa  l'11  novembre  1996,  ha  a sua volta
 sollevato -  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  25  e  101  della
 Costituzione   -   questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
 articoli da 18 a 36 del codice di procedura civile, "nella  parte  in
 cui   non  prevedono  l'applicabilita'  del  criterio  di  competenza
 territoriale stabilito dall'art. 11 del codice di  procedura  penale,
 anche  ai  giudizi  civili  nei  quali  sia  attore  o  convenuto  un
 magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di  risarcimento  dei
 danni derivanti da un reato, di cui il magistrato, parte del giudizio
 civile,  si  assume  essere  l'autore  ovvero  la persona offesa o il
 danneggiato".
   Motivando  l'incidente  di  costituzionalita'  con   considerazioni
 sostanzialmente  conformi  a quelle della Corte d'appello, osserva in
 particolare il rimettente che la diversita' di  natura  del  processo
 civile  e  di  quello  penale non e' idonea a giustificare la dedotta
 disparita' di trattamento, atteso che la norma del processo penale e'
 espressione  del  valore  di  imparzialita'  del  giudice,   di   cui
 partecipano  tanto  il  processo  penale tanto il processo civile per
 essere  entrambi  finalizzati   alla   realizzazione   dell'interesse
 pubblico    al    corretto    esercizio    della   funzione   statale
 giurisdizionale. Ne' la preordinazione  dell'uno  alla  realizzazione
 della  potesta' punitiva dello Stato, da un lato, e la preordinazione
 dell'altro alla realizzazione di situazioni  soggettive  individuali,
 dall'altro  lato,  attenua  la  primarieta'  di  questo  valore, che,
 garantito dalla Costituzione principalmente negli artt. 24, 25 e 101,
 non e' adeguatamente tutelato dagli istituti dell'astensione e  della
 ricusazione.   Affermazione,   questa,   che  il  rimettente  ritiene
 comprovata  dalla  previsione  nel  processo  civile  di  criteri  di
 competenza  territoriale  non  derogabile, nonche' dalla riproduzione
 della ripartizione della competenza ex art. 11 cod.  proc.  pen.  nel
 caso  di  azione  di  risarcimento dei danni cagionati dall'esercizio
 delle funzioni giurisdizionali ai sensi dell'art. 4  della  legge  13
 aprile 1988, n. 117.
   2.2.  -  Anche  in questo giudizio e' intervenuto il Presidente del
 Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
 Stato,  il  quale  ha concluso, nel merito, per la infondatezza della
 questione  con  considerazioni  sostanzialmente  identiche  a  quelle
 svolte nel precedente giudizio.
   2.3.  -  Si  e'  costituito, altresi', l'attore del giudizio a quo,
 concludendo  per  l'inammissibilita'   della   sollevata   questione,
 prospettata  -  secondo  la  parte  -  sull'erroneo presupposto della
 configurabilita'  di  un'azione  tesa  all'attribuzione  alla   parte
 convenuta  di  un fatto costituente reato, essendo stato chiamato, al
 contrario, il giudice non  a  decidere  in  ordine  alle  conseguenze
 derivanti  dalla commissione del reato ma soltanto a verificare se il
 comportamento  assunto  come  illecito  civile   possa   considerarsi
 astrattamente  inquadrabile,  per i limitati fini dell'applicabilita'
 dell'art. 2059 cod. civ., in una fattispecie civilmente rilevante.
   Secondo la parte privata, dunque,  l'eventuale  accoglimento  della
 sollevata  questione di legittimita' non avrebbe alcuna incidenza nel
 processo in corso, atteso che l'a'mbito  della  decisione  resterebbe
 limitato  agli effetti dell'applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod.
 civ., che, essendo relativi a materia avente carattere  esclusivo  di
 responsabilita'  civile,  rientrano,  quanto  alla  competenza, nella
 disciplina dettata dal codice di procedura civile.
   Nel merito, la parte - con motivazioni ulteriormente illustrate  in
 una  memoria  depositata  nell'imminenza  dell'udienza - conclude per
 l'infondatezza  della   questione,   richiamandosi   al   consolidato
 orientamento  giurisprudenziale  di questa Corte, secondo cui rientra
 nell'esclusiva competenza del legislatore statuire  se  ed  in  quale
 misura i rapporti che nell'a'mbito dell'organizzazione giudiziaria si
 creano  tra  organi  e  singoli  componenti e tra singoli componenti,
 debbano influire sulla determinazione della competenza, e quali siano
 le soluzioni piu' idonee a garantire il  prestigio  e  l'indipendenza
 della magistratura.
                         Considerato in diritto
   1.   -   La  Corte  d'appello  di  Roma  sospetta  d'illegittimita'
 costituzionale il combinato disposto degli articoli da 18 a  35  cod.
 proc.  civ.,  nella  parte  in cui non viene previsto uno spostamento
 della competenza  per  territorio  secondo  princi'pi  predeterminati
 quali  quelli  previsti,  per  il  processo penale, dall'art. 11 cod.
 proc. pen.: a) nel caso in cui un magistrato sia attore  o  convenuto
 in   un   procedimento  civile;  b)  ovvero,  in  linea  subordinata,
 "limitatamente al caso in cui il giudizio  civile  abbia  ad  oggetto
 fatti   la   cui   rilevanza   penale  debba  essere  incidentalmente
 accertata";  c)  ovvero,  in  via  ulteriormente  subordinata,   "nei
 procedimenti  civili  per  diffamazione  a  mezzo  stampa  in cui sia
 applicabile la sanzione di cui all'art. 12 legge sulla stampa".
   A sua volta, il tribunale di Roma solleva questione di legittimita'
 costituzionale degli articoli da 18 a  36  cod.  proc.  civ.,  "nella
 parte   in   cui  non  prevedono  l'applicabilita'  del  criterio  di
 competenza  territoriale  stabilito  dall'art.  11  del   codice   di
 procedura  penale  anche  ai  giudizi  civili  nei quali sia attore o
 convenuto un magistrato e che  abbiano  ad  oggetto  una  domanda  di
 risarcimento  dei  danni derivanti da un reato, di cui il magistrato,
 parte del giudizio  civile,  si  assume  essere  l'autore  ovvero  la
 persona offesa o il danneggiato".
   Secondo  entrambi i rimettenti, le norme censurate si porrebbero in
 contrasto: a) con l'art. 3 Cost., per la  lesione  del  principio  di
 uguaglianza  derivante  dalla  diversa regolamentazione di situazioni
 sostanzialmente identiche (tanto piu' allorquando il  giudice  civile
 sia chiamato, in via alternativa, a pronunciarsi - seppure incidenter
 tantum - su una richiesta risarcitoria fondata su una dedotta lesione
 derivante  da  un  fatto-reato), nonche' per l'irragionevolezza di un
 sistema che si preoccupa di  prevedere  il  predetto  spostamento  di
 competenza  territoriale solo in a'mbito penale e non anche in quello
 civile;  b)  con  l'art.  101  Cost.,  proprio  in  ragione  di  tale
 ingiustificata  disparita'  di trattamento a fronte della unitarieta'
 della  giurisdizione,  cui  e'  sottesa  la  generale   esigenza   di
 salvaguardare  finanche  l'apparenza dell'indipendenza del giudice in
 ogni occasione in cui la giurisdizione stessa  viene  esercitata;  c)
 con  l'art.  24  Cost.,  per la conseguente violazione del diritto di
 difesa della parte convenuta.
   Secondo  il  tribunale   di   Roma,   poi,   le   norme   censurate
 contrasterebbero  anche  con  l'art.  25  Cost.,  attesa  l'ulteriore
 conseguente lesione del principio del giudice naturale  precostituito
 per legge.
   2.  -  I giudizi possono essere riuniti e congiuntamente decisi, in
 quanto riguardanti problematiche sostanzialmente identiche.
   3. - Va  anzitutto  esaminata  l'eccezione  d'inammissibilita'  per
 irrilevanza  della  questione, che l'Avvocatura dello Stato (segui'ta
 anche dall'attore nel giudizio a quo)  ha  preliminarmente  proposto,
 con riguardo all'ordinanza di rimessione della Corte d'appello, sotto
 il triplice profilo: a) che il magistrato di cui trattasi aveva agito
 in  giudizio quando ancora si trovava fuori ruolo perche' in servizio
 presso il Ministero di grazia e giustizia; b)  che  sulla  competenza
 per territorio si era gia' pronunciata la Corte di cassazione in sede
 di  regolamento;  c)  che,  a'  sensi  dell'art.  5,  come  novellato
 dall'art. 2 della legge 26 novembre  1990,  n.  353,  applicabile  al
 giudizio de quo, s'era verificata la perpetuatio competentiae.
   3.1. - L'eccezione non e' fondata.
   3.1.1.  -  La  Corte  d'appello ha ampiamente motivato la rilevanza
 della sollevata questione, osservando fra l'altro: a) che il criterio
 della competenza previsto dall'art. 11  cod.  proc.  pen.  scatta  in
 qualunque  momento  il magistrato venga a rivestire le funzioni in un
 ufficio giudiziario  dello  stesso  distretto  che  comprende  quello
 davanti a cui pende il procedimento nel quale egli assume la qualita'
 di  imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato; b) che
 imprescindibile presupposto del principio, secondo cui la sentenza di
 regolamento  pronunciata  dalla  Corte  di  cassazione  preclude   la
 riproposizione di ogni questione sulla competenza territoriale, e' la
 perdurante   operativita'   delle  norme  che  hanno  determinato  la
 competenza stessa.
   Trattasi di motivazione non priva di plausibilita', considerato che
 la prima osservazione trova pieno conforto nella giurisprudenza della
 Corte di cassazione, mentre la seconda e' basata sulla diffusa  tesi,
 secondo  cui  l'efficacia  preclusiva  panprocessuale  che assiste la
 pronuncia di regolamento della competenza non rimane insensibile alla
 declaratoria  d'incostituzionalita'  di  quelle  norme, applicando le
 quali la Corte di cassazione ha statuito.
   3.1.2. - D'altronde,  una  consimile  cedevolezza  di  fronte  alla
 declaratoria  di incostituzionalita' e' sicuramente da ravvisarsi con
 riguardo alla legge vigente  nel  momento  della  proposizione  della
 domanda  ed i cui successivi mutamenti sono indifferenti - secondo il
 nuovo testo dell'art. 5 cod. proc. civ. - alla competenza del giudice
 adito.    Sicche'  anche  sotto  tale   terzo   profilo,   trascurato
 nell'ordinanza  di  rimessione, va ritenuta inconsistente l'eccezione
 preliminare dell'Avvocatura generale.
   4. - La questione, come sollevata da entrambi i giudici rimettenti,
 e' tuttavia da ritenere inammissibile sotto un  ulteriore  profilo,in
 quanto  la  richiesta  sentenza  additiva comporta, secondo la stessa
 prospettazione dei giudici rimettenti, una scelta fra piu'  soluzioni
 possibili, che e' rimessa al legislatore.
   4.1.  -  Questa  Corte  ha  gia'  avuto  occasione di notare che il
 "principio di imparzialita'-terzieta' della  giurisdizione  (...)  ha
 pieno  valore  costituzionale  con  riferimento  a  qualunque tipo di
 processo, in relazione specifica al  quale,  peraltro,  puo'  e  deve
 trovare attuazione" (sentenza n. 326 del 1997).
    Cio'  e' ancora una volta da ribadire, pur dovendosi precisare che
 nella  specie  codesto  principio  non  assume  la   stessa   valenza
 attribuitagli  con  riguardo  agli  istituti  dell'astensione e della
 ricusazione, regolati da norme aventi una diversa ratio e  della  cui
 (presenza  e)  generale operativita' non si puo', peraltro, non tener
 conto in sede di bilanciamento degli opposti valori e interessi nella
 materia de qua. Ma e' da  ribadire  anche  quanto  in  quella  stessa
 sentenza  si  e'  osservato,  nel  rilevare  la netta distinzione fra
 processo  civile  e  processo  penale:  che  cioe'  quest'ultimo   e'
 finalizzato   essenzialmente   all'accertamento  del  fatto  ascritto
 all'imputato, e in esso la presunzione di  un'apprezzabile  influenza
 sul   meccanismo   psicologico   che  presiede  alla  formazione  del
 convincimento  del  giudice  di  regola  non  subisce  la  mediazione
 dell'impulso  paritario  delle  parti,  operante  invece nel processo
 civile. Sicche' - ferma l'esigenza generale di assicurare che  sempre
 il  giudice  rimanga,  ed  anche  appaia,  del  tutto  estraneo  agli
 interessi oggetto del  processo  -  il  bilanciamento  di  cui  sopra
 dev'essere  condotto  secondo  linee  direttive  non  necessariamente
 identiche per i due tipi di processo, improntati  -  segnatamente  in
 tema  di competenza territoriale - a regole e criteri diversi, che si
 adeguano  a  distinte  tradizioni  ed  esigenze  attuali.  Basti   in
 proposito  notare che nel processo penale - esclusi ovviamente i casi
 di connessione - unico e' il foro territoriale, cioe' quello previsto
 dall'art. 8 cod. proc. pen., cui appunto deroga  il  successivo  art.
 11;  mentre nel processo civile sussiste un'ampia pluralita' di fori,
 correlati ai molteplici interessi, riguardanti persone  e  cose,  che
 vengono in considerazione relativamente alle varie liti.
   In  altri termini, pur alla luce delle ragioni che hanno portato il
 legislatore, attraverso  un  lungo  iter  scandito  da  sempre  nuove
 normative,  ad  enunciare  codesta  regola  derogatoria (peraltro non
 suscettibile di essere assunta a criterio generale: v.  ordinanza  n.
 462  del  1997),  si deve necessariamente valutare quale fra le tante
 soluzioni possibili sia la piu' confacente al  processo  civile,  nei
 cui    riguardi    le    modalita'   attuative   del   principio   di
 imparzialita'-terzieta'  non  sono necessariamente identiche a quelle
 previste per il processo penale.
   4.2. - Che l'estensione pura e semplice  dell'art.  11  cod.  proc.
 pen.   non   costituisca   conseguenza   obbligata   di  un'eventuale
 declaratoria   d'illegittimita'   costituzionale   della   denunciata
 normativa  e',  del  resto, reso evidente dalle stesse prospettazioni
 dei  rimettenti,  le  quali  si  articolano  in  molteplici  profili,
 correlati appunto alla pluralita' delle soluzioni idonee a preservare
 la  denunciata  normativa  dai sollevati dubbi d'incostituzionalita'.
 Soluzioni  legate  ai  contenuti   variamente   configurabili   delle
 controversie  civili,  e  perfino  ai ruoli differenti che il giudice
 puo' assumere nel dirimerle, stante l'accentuata disomogeneita' degli
 interessi contrapposti delle parti del processo civile, il  quale  si
 conforma  in  modo diverso, proprio a seconda dei suoi vari possibili
 oggetti, che il legislatore non ha  mancato  di  tener  presenti  nel
 fissare  i tanti fori speciali cui si e' accennato. Questi verrebbero
 tutti insieme e allo stesso modo derogati ove questa Corte estendesse
 l'art. 11  cod.  proc.  pen.  ad  ogni  procedimento  civile,  com'e'
 richiesto  in  via principale dalla Corte d'appello di Roma. Donde il
 rischio di una conseguente grave compressione del diritto  di  difesa
 di  qualcuna  delle  parti;  tanto piu' che in tale procedimento sono
 legittimati  a  intervenire  soggetti  diversi  dall'attore   e   dal
 convenuto  (art.  105 e segg. cod. proc.  civ.), per i quali pure non
 potrebbe non assumere rilevanza l'eventuale qualita' di magistrato.
   Che se poi l'estensione venisse contenuta nei limiti piu' ristretti
 indicati dal tribunale di Roma e,  in  via  doppiamente  subordinata,
 anche dalla Corte d'appello, sarebbe difficile evitare la violazione,
 sotto altri profili, dello stesso principio di eguaglianza evocato da
 entrambi i rimettenti, in difetto appunto del bilanciamento di valori
 e  interessi  contrapposti necessario nell'introdurre innovazioni con
 riguardo a una competenza territoriale cosi' articolata  come  quella
 prevista dal codice di procedura civile.
   4.3.   -  In  conclusione,  solo  il  legislatore  puo'  stabilire,
 nell'esercizio  del  suo   potere   discrezionale,   quando   ricorra
 quell'identita' di ratio che imponga l'estensione pura e semplice del
 criterio di cui all'art.  11 cod. proc. pen. - come del resto esso ha
 gia'  ritenuto  relativamente  alle  controversie in materia di danno
 arrecato dai magistrati nell'esercizio delle loro funzioni (v.  artt.
 4 e 8 della legge 13 aprile 1988, n.  117) - e quando, invece, quella
 ratio non ricorra affatto o sia realizzabile attraverso la previsione
 di  un  foro derogatorio appropriato alla specifica materia. Cosi' da
 evitare  che   vengano   sacrificati   altri   interessi   e   valori
 costituzionalmente rilevanti, come potrebbe accadere ove, ad esempio,
 per  un'esecuzione forzata - specie se concorsuale -, o per una causa
 divisoria, o per un regolamento di  confini,  finisse  col  diventare
 competente  il  giudice  di  un  distretto  assai  lontano  dal  foro
 attualmente singulatim previsto nel  codice  di  rito  civile,  quale
 sarebbe  quello  risultante  dal nuovo testo dell'art. 11 cod.  proc.
 pen. gia' approvato da uno dei rami del Parlamento.