IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nei confronti di Albertini Giampaolo per il delitto di estorsione aggravata nei confronti di Tonini Tranquillo, realizzato in concorso morale e materiale con Zagari Giacomo e Bertoletti Carlo Federico. Il Bertoletti risulta gia' condannato per questo fatto, con sentenza 30 dicembre 1994 del giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Milano, parzialmente riformata con sentenza 18 dicembre 1995 della Corte di appello di Milano divenuta irrevocabile in data 5 dicembre 1996. Citato a comparire come testimone dal p.m., il Bertoletti e' stato sentito con le formalita' di cui all'art. 210 c.p.p., e si e' avvalso della facolta' di non rispondere; il p.m. ha allora richiesto il consenso delle altre parti (secondo la disposizione dell'art. 513 c.p.p. come modificato dall'art. 1 della legge 7 agosto 1997 n. 267, immediatamente applicabile ai sensi dell'art. 6 della medesima legge) senza peraltro ottenere il consenso dell'imputato alla produzione dei verbali delle precedenti dichiarazioni rese dal Bertoletti avanti a.g. milanese, ritenuti "decisivi" dallo stesso p.m. per l'accertamento della verita' dei fatti (e sintomaticamente rifiutati, per ragioni speculari, dalla difesa dell'imputato...). Nella situazione appena sopra sommariamente descritta, il combinato disposto dell'art. 210 e dell'art. 513 c.p.p. (quest'ultimo, nella sua nuova formulazione) impedisce in concreto la acquisizione di una testimonianza (da ritenersi essenziale e comunque rilevante, perche' proveniente dal concorrente materiale nel medesimo reato e reo confesso, come emerge dalla sentenza milanese) ovvero, in alternativa, di materiale probatorio preformato (il cui contenuto deve comunque ipotizzarsi rilevante, quand'anche da leggere con i limiti probatori di cui all'art. 192 c.p.p.). Rispetto al giudizio di colpevolezza che il tribunale e' chiamato a dare o a negare nei confronti dell'imputato Albertini, non sembra necessario dover spendere ulteriori considerazioni per evidenziare la c.d. "rilevanza" della questione di legittimita' costituzionale che si va a proporre relativamente alle due norme processuali richiamate. Il tribunale ritiene la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale che viene sollevata d'ufficio con riferimento all'art. 210 e all'art. 513 c.p.p. come modificato, nonche' all'art. 6 della legge 267/1997, non nascondendosi che le questioni sono gia' state oggetto di precedenti rimessioni alla Corte costituzionale (circostanza, quest'ultima, che consente di limitare la trattazione al minimo essenziale). Si premette, in generale, che i principi contenuti nella sentenza n. 254/1992 non costituiscono voce isolata negli orientamenti della Corte costituzionale, ma si inseriscono nell'alveo di una giurisprudenza costante per la quale il principio c.d. di non dispersione della prova ha rilievo costituzionale fondato sui principi di solidarieta', eguaglianza e legalita' che ai sensi degli artt. 2 e 3 e 25, secondo comma della Costituzione impongono - tuttora - la ricerca della verita' quale "fine primario ed ineludibile del processo penale" (Corte cost. n. 255/1992); del resto e' la stessa legge delega che nella direttiva 73, utilizzata come base per la formulazione degli artt. 506 e 507 c.p.p., rende esplicito quel principio di ricerca della verita' sotteso al poteri istruttori del giudice, a superamento di un inesistente principio di disponibilita' della prova in capo alle parti, cosi' come e' la stessa Corte (sentenza n. 111/1993) a ritenere l'incompatibilita' del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, riflesso speculare del principio di legalita', con norme di metodologia processuale "che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione". L'art. 210 c.p.p. sottrae all'obbligo di testimonianza (che e' obbligo di solidarieta' sociale ex art. 2 Cost., costituendo uno dei presupposti per l'attuazione dell'obbligo di esercizio dell'azione penale, a sua volta presupposto per l'attuazione del principio di legalita') chi risulti imputato in un procedimento connesso e nei cui confronti "si procede o si e' proceduto" separatamente: come gia' osservato da altri giudici remittenti (Corte d'appello Palermo 15 novembre 1996; da ultimo questo stesso tribunale in data 6 dicembre 1997), se l'obbligo di solidarieta' in questione puo' trovare un non irragionevole bilanciamento con il diritto di difesa assicurato all'imputato (nei cui confronti si proceda) dall'art. 24 Cost., il medesimo "bilanciamento" non ha ragione di sussistere laddove l'imputato gia' giudicato per un certo fatto non possa ricevere tecnicamente alcun pregiudizio (e non abbia quindi ragione di appellarsi al principio del nemo tenetur se detegere) da dichiarazioni che (su altre persone, ma in astratto anche nei confronti di se' stesso) debba rendere relativamente a fatti sui quali la sua posizione personale e' ormai coperta dalla intangibilita' del giudicato. Si ritiene quindi, conclusivamente, la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt. 2, 3, 25, 101 e 112 della Costituzione dell'art. 210 c.p.p., nella parte in cui non esclude dalla applicazione delle regole ivi dettate (diverse da quelle per la testimonianza) l'esame delle persone gia' imputate del medesimo fatto che risultino giudicate con sentenza ormai resa irrevocabile. Ove non risultasse accolta la questione che si propone in via principale con riferimento all'art. 210 c.p.p., il tribunale ritiene comunque che la nuova normativa di cui all'art. 513 c.p.p. violi a sua volta i gia' rilevati principi (se non di solidarieta') di uguaglianza e di legalita' con riferimento, in particolare, all'art. 101 della Costituzione (la Corte costituzionale ha gia' affermato che il potere di decisione del giudice del merito della causa non puo' essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti (di consentire la lettura dei verbali contenenti la dichiarazione del coimputato che esaminato ex art. 210 c.p.p. si sia avvalso della facolta' di non rispondere), per giunta esercitato senza qualsiasi verificabile e valutabile motivazione; a sua volta, l'obbligatorieta' dell'azione penale preclude la possibilita' di una prova rimessa alla assoluta disponibilita' delle parti, cosi' come appare ancora piu' incongruo che la formazione della prova possa essere affidata ad un soggetto che non e' neppure parte del processo (e che avendo esercitato i suoi diritti di imputato rendendo dichiarazioni, in qualunque sede processuale, con valenza accusatoria nei confronti di soggetti terzi, si trovi poi ad essere titolare di un potere incontrollabile, al limite dell'arbitrio, di determinare l'esito del processo che sia stato avviato nei confronti di quei terzi da lui (o anche da lui) accusati. Da qui, la non manifesta illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come modificato dall'art. 1, legge n. 267/1997, per violazione degli artt. 2, 3, 24, 25, 101 e 112 Cost., nonche' dell'art. 6, comma 2 e comma 5 della medesima legge n. 267/1997 per violazione degli articoli 2, 3, 24 101 e 112.