IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza, nel giudizio penale n. 502/1997 r.g.t. a carico di Vino Mariano + 2, imputati del reato di cui all'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 commessi in Trani sino al 26 novembre 1995, il suddetto Vino Mariano, il quale nella fase delle indagini preliminari aveva reso dichiarazioni accusatorie a carico degli altri due coimputati, si e' avvalso della facolta' di non rispondere e i difensori dei coimputati non hanno prestato il consenso alla utilizzabilita' nei confronti dei propri assistiti delle dichiarazioni rese dal Vino ai sensi del primo comma dell'art. 513 c.p.c. come novellato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267. Di conseguenza il p.m. ha sollevato questione di illegittimita' costituzionale della suddetta norma per contrasto con i principi ricavabili dagli artt. 3, 97 e 112 della Costituzione. Argomenta l'organo dell'accusa che e' manifestamente irragionevole e fonte di disparita' di trattamento tra le parti in un processo penale costringere il magistrato inquirente ad assumere, in forme di legge vincolate e garantite, atti di indagine preliminare e successivamente rimettere alla mera volonta' del soggetto fonte di prova e/o dello stesso imputato la possibilita' di utilizzare il materiale conoscitivo raccolto ovvero renderlo totalmente irrilevante ai fini dell'accertamento della verita' processuale, con la conseguente possibile svalutazione di elementi probatori che, nel frattempo, hanno imposto al p.m. di esercitare l'azione penale ed al g.u.p. di introdurre la fase dibattimentale, senza parlare dei casi in cui si siano adottate misure cautelari a carico degli imputati. Osserva il p.m. che siffatta situazione incide pesantemente sul buon andamento dell'amministrazione della giustizia, nel momento in cui si permette di vanificare i risultati di un'indagine, che puo' essere stata anche complessa e dispendiosa, senza consentire di sottoporre alla valutazione dell'organo decidente il materiale probatorio raccolto, con evidente spreco di attivita' giudiziaria. Cio', oltretutto, influisce in maniera decisiva sull'esercizio obbligatorio dell'azione penale, nel momento in cui vi e' la possibilita' che muti, in maniera non prevedibile, il quadro processuale di riferimento. I difensori si sono rimessi alle decisioni di questo tribunale. Osserva il collegio che la questione di illegittimita' costituzionale sollevata dal p.m. e' rilevante e non manifestamente infondata. Sotto il primo aspetto si rileva che il diritto al silenzio esercitato dall'imputato Vino e la conseguente impossibilita', in assenza dell'accordo delle parti, di utilizzare le sue dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari impediscono di acquisire al processo una fonte di prova, emersa in modo rituale nel corso delle indagini e sottoposta al vaglio del g.u.p. ai fini della decisione in ordine al rinvio a giudizio, e pertanto incidono sulla completezza dell'accertamento dei fatti oggetto delle contestazioni. Sotto il profilo della non manifesta infondatezza si rileva quanto segue. Sussiste la violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo di una irragionevole disparita' di trattamento fra situazioni processuali equipollenti, con specifico riferimento alla disciplina transitoria prevista dall'art. 6 legge n. 267/1997 che comporta l'immediata applicazione del testo novellato dell'art. 513 c.p.p. ai giudizi di primo grado in corso nei quali il coimputato-dichiarante venga esaminato dopo l'entrata in vigore della novella (come nel caso di specie) e si avvalga della facolta' di non rispondere, senza prevedere alcuna normativa di salvaguardia come quella dettata dai commi 2 e 5 dell'art. 6 citato per il caso del dichiarante gia' esaminato in dibattimento prima dell'entrata in vigore della legge, e cio' nonostante che il p.m. non abbia avuto alcuna concreta possibilita' di assicurare il mezzo di prova con il ricorso all'incidente probatorio, essendo gia' esaurite le fasi in cui tale mezzo e' consentito e tanto di fatto comportando la mancata acquisizione di una fonte di prova ritualmente formatasi. Parimenti violati, a parere di questo collegio, sono i principi sanciti dagli artt. 97 e 112 Cost., di buon andamento dell'amministrazione e dell'esercizio obbligatorio dell'azione penale. E' evidente l'incongruenza della situazione che si viene a determinare in ordine all'esercizio dell'azione penale previsto obbligatoriamente dall'art. 112 Cost.: detta norma viene tradotta in pratica dal combinato disposto degli artt. 408 c.p.p. e 125 disp. di att. al c.p.p. che, nel prevedere che il p.m. chieda l'archiviazione tutte le volte che ritenga di non avere materiale probatorio sufficiente per sostenere l'accusa in dibattimento, dimostra, come detto organo sia obbligatorio a promuovere l'azione penale tutte le volte in cui disponga di tale materiale. Sicche' la sottrazione anche di parte di detto materiale probatorio, rimessa alla semplice volonta' della controparte processuale ovvero alla facolta' di non rispondere di un soggetto, che potrebbe anche essere stato esposto a minacce o altri mezzi di inquinamento della prova, produce l'effetto di paralizzare ex post una iniziativa penale che per il p.m. aveva costituito un atto doveroso, cosi' di fatto ponendosi in contrasto con il principio costituzionale che logicamente comporta, come suo corollario, che l'organo dell'accusa sia messo nelle condizioni processuali di validamente esercitare l'azione promossa. Tale irragionevole situazione viola anche in maniera evidente il principio sancito dall'art. 97 Cost. in quanto determina un rilevante spreco di attivita' amministrativa, finalizzata all'espletamento delle indagini e all'introduzione del giudizio dibattimentale, allorche' tale attivita' venga vanificata in conseguenza della impossibilita' non prevedibile di poter utilizzare una fonte di prova che puo' aver costituito il fondamento della stessa attivita' processuale.