IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza  nel  processo  penale  contro
 Belletti Pietro e Martinalli Stefano, rinviati a giudizio con decreto
 del g.i.p. in data 4 aprile 1996 per rispondere del reato di cui agli
 artt. 110 e 323 c.p. per avere, in concorso tra loro, Belletti Pietro
 quale  tecnico e Martinalli Stefano quale sindaco del comune di Cosio
 Valtellino, abusato del loro ufficio per procurare a Zecca  Giovanni,
 che  aveva  eseguito una recinzione senza autorizzazione comunale, un
 ingiusto  vantaggio   patrimoniale,   il   Belletti   ritardando   il
 sopralluogo   disposto   per  accertare  l'illecito  edilizio  ed  il
 Martinalli rilasciando l'autorizzazione in data 27 aprile 1994 non in
 sanatoria nonostante che l'opera quasi ultimata fosse stata segnalata
 con esposto in data 11 aprile 1994; il collegio,  in  relazione  alle
 questioni preliminari sollevate dalla difesa degli imputati,
                             O s s e r v a
   A  norma  dell'art. 129, comma 1, c.p.p. "in ogni stato e grado del
 processo, il Giudice, il quale riconosce che  ...  il  fatto  non  e'
 previsto  dalla  legge  come  reato  ...  lo  dichiara di ufficio con
 sentenza".
   Prima di procedere nell'ulteriore  corso  del  processo,  pertanto,
 occorre  verificare  se,  in  seguito alla modifica normativa de qua,
 ricorrono i presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p perche'  il
 fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato.
   Siffatta   verifica,   ovviamente,  deve  precedere  l'esame  della
 eventuale questione di legittimita' costituzionale  prospettata  alle
 parti  in  sede  di  questioni  preliminari  giacche'  -  in  caso di
 riscontro positivo - la questione stessa difetterebbe  del  requisito
 della rilevanza.
   Ed  invero,  non  avendo  lo  jus superveniens di cui alla legge 16
 luglio 1997, n. 234 operato una abolitio criminis del  reato  di  cui
 all'art. 323 c.p., bensi' la sostituzione dell'originaria fattispecie
 incriminatrice con altra, di diversa formulazione ed ampiezza ("salvo
 che il fatto costituisca un piu' grave reato, il pubblico ufficiale o
 l'incaricato  di  pubblico  servizio  che,  nello  svolgimento  delle
 funzioni o del servizio,  in  violazione  di  norme  di  legge  o  di
 regolamento,   ovvero  omettendo  di  astenersi  in  presenza  di  un
 interesse proprio o di un  prossimo  congiunto  o  negli  altri  casi
 prescritti,  intenzionalmente  procura  a  se' o ad altri un ingiusto
 vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un  danno  ingiusto  e'
 punito  ..."),  non puo' tout court ritenersi che il reato contestato
 agli imputati (di cui all'art.    323  c.p.  nel  testo  antevigente)
 costituisca fatto non (piu') previsto dalla legge come reato, ma deve
 verificarsi  se  il  medesimo possa essere sussunto anche nella nuova
 fattispecie incriminatrice.
   Nella specie, dunque, opera il disposto di cui  all'art.  2,  cpv.,
 c.p.,  in  forza  del  quale "nessuno puo' essere punito per un fatto
 che,  secondo  una  legge  posteriore,  non  costituisce  reato":  ne
 consegue  che  la verifica che le condotte ascritte agli imputati non
 possano  essere  inquadrate  nella  fattispecie  incriminatrice  come
 attualmente  vigente  -  neppure  in  astratto, e fatta salva la piu'
 penetrante verifica in sede di decisione  all'esito  dell'istruttoria
 dibattimentale,  in  caso  di  esito  negativo  di  siffatta verifica
 delibativa operata ai sensi e per gli effetti  di  cui  all'art.  129
 cit.  -  implicherebbe  l'immediata  pronuncia  di sentenza di n.d.p.
 perche' il fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato.
   Soltanto  nell'ipotesi  di  verifica  della  sussumibilita'  -   in
 astratto  -  delle  condotte ascritte agli imputati anche nella nuova
 fattispecie incriminatrice (e peraltro anche  dell'insussistenza  dei
 presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p. - ex art. 129, commi 1
 e 2, c.p.p.  - per estinzione del reato per intervenuta prescrizione,
 stante  la  diminuzione  dei  termini di prescrizione conseguita alla
 modifica normativa de qua), acquisterebbe eventualmente rilevanza nel
 presente giudizio la questione di legittimita' costituzionale de qua.
 Ed invero in siffatta ipotesi, giusta il disposto di cui all'art.  2,
 comma  1, c.p. ("nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo
 la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva  reato")  e  di
 cui  all'art.  2,  comma  3,  c.p.  ("se la legge del tempo in cui fu
 commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella  le
 cui  disposizioni  sono piu' favorevoli al reo ..."), la norma di cui
 all'art. 323 c.p.   antevigente troverebbe  necessaria  applicazione,
 dovendo  in tale ipotesi il collegio rispettivamente verificare se la
 condotta ascritta  agli  imputati  rientri  anche  nella  antevigente
 fattispecie incriminatrice e, in caso positivo, quale delle due norme
 sia  piu'  favorevole  per i rei. In tale ipotesi, e soltanto in tale
 ipotesi,  la  questione  diventerebbe  rilevante,  poiche'   il   suo
 eventuale   accoglimento   (con   conseguente   espunzione   ex  tunc
 dall'ordinamento giuridico dell'art.  323 c.p. nel testo antevigente)
 determinerebbe - a norma del richiamato  art.  2,  comma  1,  c.p.  -
 l'emanazione  di  sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' previsto
 dalla legge come reato.
   L'opzione ermeneutica accolta dal  collegio  trova  conforto  nella
 giurisprudenza  di  legittimita',  che  ha  affermato  - nell'analoga
 circostanza dell'abrogazione dell'art. 324  c.p.  operata  con  legge
 86/90  -  che anche dopo   l'abrogazione "la condotta che prima della
 suddetta  novella  veniva  punita  come  interesse  privato  in  atti
 d'ufficio,  conserva  rilevanza,  sul  piano  penale, se ed in quanto
 comprenda tutti gli estremi per la configurabilita'  del  delitto  di
 abuso  si ufficio, cosi' come descritti nel nuovo testo dell'art. 323
 c.p." (cosi' Cass.  6587 del 13 giugno 1991).
   Come gia'  osservato,  nella  presente  sede  detta  verifica  deve
 necessariamente  essere  operata in astratto, al fine di accertare se
 tutti gli elementi costitutivi dell'illecito  penale  come  descritto
 nel  nuovo  testo  dell'art.    323  c.p.  "siano  stati  ritualmente
 descritti  nell'imputazione  o  altrimenti  contestati  all'imputato"
 (cosi'  Cass.  553  del  25  gennaio  1993), o comunque se gia' dalla
 stessa  formulazione del capo d'imputazione si evinca l'insussistenza
 di almeno un elemento costitutivo del nuovo reato in oggetto.
   Ritenuto che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti  per
 l'emanazione  della  sentenza di NDP suddetta, poiche' dall'esame del
 capo di imputazione risulta che nello stesso  sono  state  contestate
 agli  imputati  condotte di abuso astrattamente sussumibili nel nuovo
 testo dell'art. 323 c.p., essendo la condotta descritta come avvenuta
 nell'esercizio delle funzioni rispettivamente di sindaco e di tecnico
 comunale, non potendosi escludere nella  presente  sede  che  l'abuso
 come  contestato sia consistito anche in violazione di legge (essendo
 contestato agli imputati il ritardo nel  compimento  di  un  atto  di
 ufficio  ed il rilascio di autorizzazione non in sanatoria nonostante
 la quasi ultimazione dell'opera).
   Essendosi, poi, il  reato  come  contestato  consumato  nell'aprile
 1994,   non  sussistono  neppure  i  presupposti  per  dichiarare  la
 sopravvenuta prescrizione del reato.
   Risulta evidente pertanto - giusta quanto sopra  argomentato  -  la
 rilevanza  della questione di legittimita' costituzionale in oggetto,
 osservando ulteriormente che  la  norma  di  cui  all'art.  323  c.p.
 antevigente trova necessaria applicazione sin dalla presente fase del
 giudizio.
   In  relazione  alla  non  manifesta  infondatezza  della questione,
 osserva il collegio:
     che il principio di tassativita' cui, a norma dell'art. 25, comma
 secondo, Cost., devono conformarsi le  norme  incriminatrici  penali,
 esprime  l'esigenza  di  evitare  la  genericita', l'indeterminatezza
 della  fattispecie  astratta,  in  modo  tale  che   sia   assicurata
 l'individuazione,  a  mezzo  degli  usuali  metodi ermeneutici, della
 condotta penalmente rilevante;
     che l'interpretazione corrente della  norma  de  qua  ricomprende
 nella   condotta   dell'abuso   ogni  "violazione  del  parametro  di
 doverosita'  come  risulta  dalle  regole  normative  improntate   ai
 principi  di  legalita'  imparzialita'  e  buon andamento della p.a."
 (cosi' Cass. 9730/1992), e "qualsivoglia comportamento  del  pubblico
 ufficiale   esplicantesi   in   una   illecita  deviazione  dai  fini
 istituzionali della p.a." (cosi' Cass. 5340/1993), nonche'  gli  atti
 viziati da eccesso di potere;
     che  la suddetta interpretazione, che costituisce diritto vivente
 non  consente  di   escludere   dubbi   sull'indeterminatezza   della
 fattispecie  penale di cui trattasi, stante la aleatorieta' di figure
 quali "parametro di doverosita'" e "fini istituzionali", e  l'assenza
 di  una  definizione normativa della figura dell'eccesso di potere, i
 cui contenuti sono stati individuati soltanto ex post dalla  dottrina
 e  dalla  giurisprudenza amministrativa ed e' figura il cui contenuto
 e' in costante evoluzione e cambiamento;
     che  conseguentemente  appare  non  manifestamente  infondata  la
 questione di legittimita' costituzionale come sopra prospettata.