IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel processo penale contro Bissi Gianpaolo+5, rinviati a giudizio con decreto del g.i.p. in data 14 luglio 1994 per rispondere (Capo A) del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv., 323, comma I e II, c.p. perche' in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nelle rispettive qualita' di pubblici ufficiali, quale sindaco o componenti della Commisione edilizia del comune di Teglio, al fine di procurare a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o non patrimoniale (al fine di gestire con la piu' ampia discrezionalita' l'espansione urbanistica del comune, aggirando l'iter dello strumento urbanistico come previsto dalla normativa nazionale e regionale), o per arrecare ad altri un danno ingiusto abusavano del loro ufficio a mezzo dei seguenti comportamenti: 1) emanare la delibera 4 agosto 1989 con la quale - impropriamente, attesa la sua natura di organo consultivo - la Commissione edilizia deliberava la validita' di un programma di fabbricazione ritenuto annesso al regolamento edilizio adottato dal Consiglio comunale con delibera n. 200 del 29 giugno 1957; 2) nell'utilizzare, in seguito a tale delibera per il rilascio delle concessioni edilizie il suddetto strumento urbanistico, privo di qualsiasi efficacia in quanto privo dell'approvazione dei competenti organi (decreto del provveditore regionale alle opere pubbliche, ex art. 36, legge n. 1150/42), e per questa ragione mai utilizzato nei precedenti 30 anni. In Teglio dal 1989 fino al febbraio 1993; nonche' dei capi B) e C) per i reati di cui agli artt. 476 e 490 c.p.; il collegio, in relazione alle questioni preliminari sollevate dalle parti. O s s e r v a A norma dell'art. 129, comma 1, c.p.p. "in ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che ... il fatto non e' previsto dalla legge come reato ... lo dichiara di ufficio con sentenza". Prima di procedere nell'ulteriore corso del processo, pertanto, occorre verificare se, in seguito alla modifica normativa de qua, ricorrono i presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato. Siffatta verifica, ovviamente, deve precedere l'esame della eventuale questione di legittimita' costituzionale prospettata alle parti in sede di questioni preliminari giacche' - in caso di riscontro positivo - la questione stessa difetterebbe del requisito della rilevanza. Ed invero, non avendo lo jus superveniens di cui alla legge 16 luglio 1997, n. 234 operato una abolitio criminis del reato di cui all'art. 323 c.p., bensi' la sostituzione dell'originaria fattispecie incriminatrice con altra, di diversa formulazione ed ampiezza ("salvo che il fatto costituisca un piu' grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto e' punito ..."), non puo' tout court ritenersi che il reato contestato sub capo A) agli imputati (di cui all'art. 323 c.p. nel testo antevigente) costituisca fatto non (piu') previsto dalla legge come reato, ma deve verificarsi se il medesimo possa essere sussunto anche nella nuova fattispecie incriminatrice. Nella specie, dunque, opera il disposto di cui all'art. 2, cpv., c.p., in forza del quale "nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato": ne consegue che la verifica che le condotte ascritte agli imputati non possano essere inquadrate nella fattispecie incriminatrice come attualmente vigente - neppure in astratto, e fatta salva la piu' penetrante verifica in sede di decisione all'esito dell'istruttoria dibattimentale, in caso di esito negativo di siffatta verifica delibativa operata ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 129 cit. - implicherebbe l'immediata pronuncia di sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato. Soltanto nell'ipotesi di verifica della sussumibilita' - in astratto - delle condotte ascritte agli imputati anche nella nuova fattispecie incriminatrice ( e peraltro anche dell'insussistenza dei presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p. - ex art. 129, commi 1 e 2, c.p.p. - per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante la diminuzione dei termini di prescrizione conseguita alla modifica normativa de qua), acquisterebbe eventualmente rilevanza nel presente giudizio la questione di legittimita' costituzionale de qua. Ed invero in siffatta ipotesi, giusta il disposto di cui all'art. 2, comma 1, c.p. ("nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato") e di cui all'art. 2, comma 3, c.p. ("se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo..."), la norma di cui all'art. 323 c.p. antevigente troverebbe necessaria applicazione, dovendo in tale ipotesi il collegio rispettivamente verificare se la condotta ascritta agli imputati rientri anche nella antevigente fattispecie incriminatrice e, in caso positivo, quale delle due norme sia piu' favorevole per i rei. In tale ipotesi, e soltanto in tale ipotesi, la questione diventerebbe rilevante, poiche' il suo eventuale accoglimento (con conseguente espunzione ex tunc dall'ordinamento giuridico dell'art. 323 c.p. nel testo antevigente) determinerebbe - a norma del richiamato art. 2, comma 1, c.p. - l'emanazione di sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato. L'opzione ermeneutica accolta dal collegio trova conforto nella giurisprudenza di legittimita', che ha affermato - nell'analoga circostanza dell'abrogazione dell'art. 324 c.p. operata con legge n. 86/1990 - che anche dopo l'abrogazione "la condotta che prima della suddetta novella veniva punita come interesse privato in atti d'ufficio, conserva rilevanza, sul piano penale, se ed in quanto comprenda tutti gli estremi per la configurabilita' del delitto di abuso di ufficio, cosi' come descritti nel nuovo testo dell'art. 323 c.p." (cosi' Cass. 6587 del 13 giugno 1991). Come gia' osservato, nella presente sede detta verifica deve necessariamente essere operata in astratto, al fine di accertare se tutti gli elementi costitutivi dell'illecito penale come descritto nel nuovo testo dell'art. 323 c.p. "siano stati ritualmente descritti nell'imputazione o altrimenti contestati all'imputato" ( cosi Cass. 553 del 25 gennaio 1993), o comunque se gia' dalla stessa formulazione del capo d'imputazione si evinca l'insussistenza di almeno un elemento costitutivo del nuovo reato in oggetto. Ritenuto che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti per l'emanazione della sentenza di n.d.p. suddetta, poiche' dall'esame del capo di imputazione sub A) risulta che nello stesso sono state contestate agli imputati condotte di abuso astrattamente sussumibili nel nuovo testo dell'art. 323 c.p. essendo la condotta descritta come avvenuta nell'esercizio delle funzioni rispettivamente di sindaco e di componenti della Commissione edilizia del comune di Teglio, non potendosi escludere nella presente sede che l'abuso come contestato sia consistito anche in violazione di legge (essendo contestato agli imputati l'aggiramento "dell'iter dello strumento urbanistico come previsto dalla normativa. nazionale e regionale"), e non potendosi escludere che la condotta descritta nel capo di imputazione possa essere qualificata come tentativo di procurare a terzi un ingiusto vantaggio patrimoniale a terzi (i destinatari delle illegittime concessioni edilizie cui si fa riferimento in rubrica sub 2). Essendosi, poi, il reato come contestato consumato nel febbraio 1993, non sussistono neppure i presupposti per dichiarare la sopravvenuta prescrizione del reato. Risulta evidente pertanto - giusta quanto sopra argomentato - la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale in oggetto, osservando ulteriormente che la norma di cui all'art. 323 c.p. antevigente trova necessaria applicazione sin dalla presente fase del giudizio. In relazione alla non manifesta infondatezza della questione, osserva il collegio: che il principio di tassativita' cui, a norma dell'art. 25, secondo comma, Cost., devono conformarsi le norme incriminatrici penali, esprime l'esigenza di evitare la genericita', l'indeterminatezza della fattispecie astratta, in modo tale che sia assicurata l'individuazione, a mezzo degli usuali metodi ermeneutici, della condotta penalmente rilevante; che l'interpretazione corrente della norma de qua ricomprende nella condotta dell'abuso ogni "violazione del parametro di doverosita' come risulta dalle regole normative improntate ai principi di legalita' imparzialita' e buon andamento della p.a." (cosi' Cass. 9730/1992), e "qualsivoglia comportamento del pubblico ufficiale esplicantesi in una illecita deviazione dai fini istituzionali della p.a." (cosi' Cass. 5340/1992), nonche' gli atti viziati da eccesso di potere; che la suddetta interpretazione, che costituisce diritto vivente non consente di escludere dubbi sull'indeterminatezza della fattispecie penale di cui trattasi, stante la aleatorieta' di figure quali "parametro di doverosita'" e "fini istituzionali", e l'assenza di una definizione normativa della figura dell'eccesso di potere, i cui contenuti sono stati individuati soltanto ex post dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa ed e' figura il cui contenuto e' in costante evoluzione e cambiamento; che conseguentemente appare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale come sopra prospettata; ritenuta la riunione dei reati sub capi A), B) e C) assolutamente necessaria ai fini dell'accertamento dei fatti, in quanto occorre - ai fini della configurabilita' dei reati sub B) e C) - verificare pregiudizialmente la giuridica esistenza dell'atto pubblico in essi indicato.