ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  75,  comma  2,
 secondo  periodo,  del  d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni
 sul  processo  tributario  in  attuazione  della  delega  al  Governo
 contenuta  nell'art.  30  della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come
 modificato dall'art. 69, comma 3, lettera  h)  del  d.-l.  30  agosto
 1993,  n.  331,  convertito,  con  modificazioni, in legge 29 ottobre
 1993, n. 427 e dall'art.  1  del  d.-l.  26  novembre  1993,  n.  477
 (Disposizioni   urgenti   in  materia  di  ricorsi  alla  commissione
 tributaria centrale e di acconto dell'imposta sul  valore  aggiunto),
 convertito  in legge 26 gennaio 1994, n. 55, e dell'art. 30, comma 1,
 lettera u) in relazione alla lettera t) della legge 30 dicembre 1991,
 n.  413  (Disposizioni  per  ampliare   le   basi   imponibili,   per
 razionalizzare,  facilitare e potenziare l'attivita' di accertamento;
 disposizioni per la rivalutazione obbligatoria di beni immobili delle
 imprese, nonche' per riformare il contenzioso e  per  la  definizione
 agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della
 Repubblica  per  la  concessione  di  amnistia  per  reati tributari;
 istituzione dei centri di assistenza fiscale e  del  conto  fiscale),
 promossi  con  19  ordinanze  emesse  in  data  10 gennaio 1995 (n. 4
 ordinanze), 7 giugno 1994, 9 maggio 1995, 7 febbraio 1995,  5  luglio
 1994,  26  settembre  1995  (n.  10  ordinanze),  20  settembre 1994,
 iscritte  ai  nn.  da 144 a 162 del registro ordinanze 1997, e con 13
 ordinanze, emesse in data 26 settembre 1995 (n. 11 ordinanze),  e  17
 ottobre  1995 (n. 2 ordinanze) dalla commissione tributaria centrale,
 iscritte ai nn. da 439 a 451 del registro ordinanze 1997,  pubblicate
 nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica nn. 14 e 29, prima serie
 speciale, dell'anno 1997;
   Visti gli atti di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 28 gennaio 1998 il giudice
 relatore Riccardo Chieppa.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Con diciannove ordinanze di identico contenuto, emesse tra  il
 7  giugno  1994  e  il 26 settembre 1995   (r.o. nn. da 144 a 162 del
 1997), nel corso di altrettanti giudizi ancora pendenti alla data  di
 entrata  in  vigore  del d.-l. 30 agosto 1993, n. 331, la commissione
 tributaria centrale ha sollevato, in riferimento agli artt.  3  e  24
 della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
 dell'art.  75, comma 2, secondo periodo, del d.lgs. 31 dicembre 1992,
 n. 546, come modificato dall'art. 69, comma 3, lettera h), del  d.-l.
 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, nella legge 29
 ottobre 1993, n. 427, il quale prevede che i giudizi pendenti innanzi
 alla  commissione  tributaria centrale alla data di entrata in vigore
 del  nuovo  ordinamento  del  contenzioso  tributario  si  estinguono
 qualora  non  venga  presentata  da  alcuna  delle  parti  istanza di
 trattazione (o, in alternativa, ricorso per cassazione), nel  termine
 decadenziale di sei mesi.
   I  dubbi  di costituzionalita' vengono estesi all'art. 30, comma 1,
 lettera u), in relazione alla lettera t), della legge  di  delega  30
 dicembre  1991,  n.  413, per contrasto con gli stessi articoli della
 Costituzione ed "eccesso di potere legislativo".
   Si rileva nelle ordinanze che, nel  quadro  del  nuovo  ordinamento
 processuale  tributario, l'art. 73 del decreto legislativo n. 546 del
 1992 nella formulazione originaria prevedeva,  per  il  trasferimento
 innanzi  alle commissioni tributarie di nuova formazione dei processi
 gia' pendenti dinanzi a quelle preesistenti, un'istanza,  a  pena  di
 decadenza,  in ossequio al criterio dettato dalla legge di delega, ed
 il successivo art. 75, comma 2, estendeva la prescrizione ai processi
 pendenti dinanzi  alla  commissione  tributaria  centrale,  mantenuta
 transitoriamente  in  vita  dall'art.  42,  comma  3,  del  d.lgs. 31
 dicembre 1992, n. 545.
   Gia' in tale originario assetto la normativa  considerata  prestava
 il   fianco,   secondo   il   collegio   rimettente,   a  rilievi  di
 illegittimita', per l'imposizione di un onere decadenziale alle parti
 private nel corso di un  processo  anteriormente  avviato,  senza  la
 garanzia  di  una  non necessaria assistenza tecnica, a fronte di una
 controparte,   l'ufficio    tributario,    ben    piu'    "attrezzato
 tecnicamente".
   L'onere  di  cui si tratta, per di piu', non avrebbe potuto trovare
 valida  giustificazione  per  i  processi   pendenti   innanzi   alla
 commissione  tributaria  centrale,  in  virtu' della persistenza, sia
 pure transitoria, di questa.
   Il d.-l. 30 agosto 1993, n.  331,  convertito,  con  modificazioni,
 nella  legge  29 ottobre 1993, n. 427, ha poi  abrogato l'art. 73 del
 decreto-legislativo n. 546 del  1992  e,  quindi,  soppresso  l'onere
 delle  istanze  di trattazione dei  processi pendenti e trasferiti ai
 nuovi  organi  del  contenzioso tributario (art. 69, comma 3, lettera
 f)), ed ha sostituito il comma 2 del successivo art. 75 con una nuova
 autonoma disciplina dell'onere decadenziale relativamente ai processi
 pendenti dinanzi alla commissione tributaria centrale (art. 69, comma
 3, lettera h)).
   La nuova formulazione della norma  concernente  questi  ultimi,  ad
 avviso del giudice a quo da un lato ridurrebbe, irrazionalmente, come
 gia'  sottolineato  con  riguardo  al precedente assetto, la garanzia
 giurisdizionale delle posizioni giuridiche dedotte in giudizio  dalle
 parti  private,  sia in assoluto che nel raffronto con quelle opposte
 degli uffici  tributari;  dall'altro,  determinerebbe  disparita'  di
 trattamento  fra i processi pendenti in primo e in secondo grado, per
 i quali l'onere non e' piu' previsto, e quelli pendenti dinanzi  alla
 commissione   tributaria   centrale,   per  i  quali,  senza  ragione
 plausibile, esso e' mantenuto.
   L'intento riposto della  norma  sarebbe  quello  di  una  sollecita
 riduzione  del  contenzioso  tributario  e di un aumento indebito del
 gettito  fiscale,  senza  pregiudizio  dei  processi  pervenuti  alla
 commissione tributaria centrale per impulso degli uffici tributari, i
 quali hanno assolto l'onere sopravvenuto.
   La  disparita'  di trattamento si determinerebbe, altresi', tra gli
 stessi contribuenti a seconda della rispettiva   idoneita'  personale
 al  comportamento processuale piu' adeguato alla tutela delle proprie
 ragioni.
   2. - La medesima questione e'  stata  sollevata  dalla  commissione
 tributaria   centrale   con   altre  tredici  ordinanze  di  identico
 contenuto, emesse tra il 26 settembre 1995 e il 17 ottobre 1995 (r.o.
 nn. da 439 a 451 del 1997).
   3. - Nei giudizi introdotti con le  ordinanze  sopra  indicate,  ha
 spiegato  intervento  il Presidente del Consiglio dei Ministri con il
 patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso  per
 la inammissibilita' o la infondatezza delle questioni.
   Sotto  il  primo profilo, l'Avvocatura ha eccepito che le questioni
 sono state sollevate con ordinanza del Presidente e non della sezione
 della commissione.
   Nel merito, si ricorda nella memoria che l'art. 44  del  d.P.R.  26
 ottobre 1972, n. 636, norma analoga a quella gia' impugnata, e' stata
 ritenuta  legittima con la sentenza della Corte costituzionale n.  63
 del 1977.  Rispetto  alla  citata  disposizione,  quella  in  oggetto
 sarebbe  anche  meno  sospetta,  sia  perche'  riguarda  soltanto  il
 giudizio di terzo grado, di ammissibilita' piu' limitata, sia perche'
 l'ampio termine e' stato riaperto anche dopo la scadenza (art. 2  del
 d.-l.  26 novembre 1993, n. 477, convertito in legge 26 gennaio 1994,
 n.  55).
   La  previsione  di sistemi di eliminazione di controversie annose e
 spesso ormai prive di rilievo al momento del passaggio  ad  un  nuovo
 ordinamento non sarebbe, quando non sia vessatoria, incompatibile con
 la  garanzia della difesa. Ne' sarebbe proponibile il confronto tra i
 giudizi pendenti in primo e secondo  grado,  destinati  a  transitare
 nelle  nuove  commissioni  provinciali  e regionali, e i procedimenti
 pendenti dinanzi alla commissione centrale, che rimarranno innanzi  a
 tale  organo  ad  esaurimento.  Quanto  alla  pretesa  disparita'  di
 trattamento tra contribuente e uffici tributari,  si  tratterebbe  di
 una  differenza  ineliminabile  che  si  porrebbe  allo stesso modo a
 fronte di tutte le norme sostanziali e processuali, cosi' come quella
 tra contribuenti piu' o meno capaci di difendersi in giudizio per  le
 loro personali attitudini.
                        Considerato in diritto
   1.  -  Le questioni sottoposte all'esame della Corte dall'ordinanza
 del presidente di sezione della commissione tributaria centrale hanno
 per oggetto l'art. 75,  comma  2,  secondo  periodo,  del  d.lgs.  31
 dicembre  1992,  n.  546  (Disposizioni  sul  processo  tributario in
 attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge
 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato  dall'art.  69,  comma  3,
 lettera  h),  del  d.-l.  30  agosto  1993,  n.  331, convertito, con
 modificazioni, nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, che prevede che i
 giudizi pendenti innanzi alla commissione  tributaria  centrale  alla
 data di entrata in vigore dello stesso decreto legislativo  sul nuovo
 ordinamento  del  contenzioso  tributario  si  estinguono  se non sia
 presentata da alcuna delle parti  nel termine decadenziale previsto -
 sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 331 del
 1993
  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.  23  del  30  agosto  1993  -
 istanza di trattazione (o, in alternativa, ricorso per cassazione).
   Le  norme  di  modifica  del  predetto art. 75 devono essere meglio
 individuate con l'aggiunta dell'art. 1 del  d.-l. 26  novembre  1993,
 n.  477  (Disposizioni urgenti in materia di ricorsi alla commissione
 tributaria centrale), convertito in legge 26 gennaio 1994, n. 55, che
 ha nuovamente modificato la decorrenza del termine di cui  si tratta.
   Viene dedotta la violazione degli artt. 3 e 24 della  Costituzione,
 per  la  irrazionale  riduzione  della garanzia giurisdizionale delle
 posizioni giuridiche delle parti private, sia  in  assoluto  sia  nel
 raffronto con quelle opposte degli uffici tributari, "piu' attrezzati
 tecnicamente".  Inoltre,  si denuncia il contrasto con l'art. 3 della
 Costituzione sotto il  profilo  della  ingiustificata  disparita'  di
 trattamento  tra  processi  pendenti  in primo e secondo grado, per i
 quali l'onere, a seguito delle modifiche di cui al predetto art.  69,
 comma 3, lettera h),  non  e'  piu'  previsto,  e  processi  pendenti
 dinanzi  alla  commissione  tributaria  centrale, per i quali esso e'
 mantenuto; nonche' sotto il profilo della  ingiustificata  disparita'
 di   trattamento   tra  gli  stessi  contribuenti,  a  seconda  della
 rispettiva idoneita'  personale  al  comportamento  processuale  piu'
 adeguato alla tutela delle proprie ragioni o capacita' patrimoniali.
   In   riferimento  agli  stessi  parametri  costituzionali,  nonche'
 all'"eccesso di potere legislativo", viene  dedotta  l'illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  30, comma 1, lettera u), in relazione alla
 lettera t), della legge di delega  30 dicembre 1991, n. 413.
   2. - E' preliminare l'esame della eccezione  dell'Avvocatura  dello
 Stato  in  ordine alla inammissibilita' della questione sollevata con
 ordinanza del presidente, e  non  della  sezione,  della  commissione
 tributaria.
   E'  sufficiente,  ai  fini  della  dimostrazione della infondatezza
 della eccezione, richiamare quanto ripetutamente affermato in  ordine
 alla  sussistenza  della  legittimazione  a  rimettere  la  questione
 incidentale  di  legittimita'  costituzionale  da  parte  di  singolo
 giudice  monocratico,  anche se appartenente a organo collegiale, con
 riferimento a  questioni  concernenti  disposizioni  che  il  giudice
 stesso  deve  applicare  per  l'adozione  di provvedimenti rientranti
 nell'ambito della propria  competenza  (sentenza  n.  204  del  1997;
 ordinanza  n.  295  del 1996; ordinanza n. 503 del 1995; ordinanza n.
 436 del 1994).
   In realta' la legittimazione dell'organo giurisdizionale a proporre
 incidente di legittimita' costituzionale e' ancorata  alla  rilevanza
 concreta  ed  attuale della questione, che puo' essere sollevata solo
 dal giudice nel momento in cui e'  chiamato  ad  applicare  la  norma
 della  cui  legittimita'  dubita  (sentenza  n.  204  del  1997,  con
 riferimento alla competenza del giudice istruttore  a  seguito  delle
 modifiche introdotte dall'art. 88 della legge n. 353 del 1990).
   Nel  sistema  del  processo  tributario  sono  attribuiti specifici
 poteri al presidente delle  commissioni  tributarie,  tra  cui  anche
 quello  di  dichiarare  l'estinzione  del processo, con previsione di
 reclamo alla commissione, che viene deciso dal  collegio  (artt.  27,
 28, 41, 45, 46 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546; art. 30, comma 1,
 lettera  m),  della  legge  30 dicembre 1991, n. 413; artt. 19, primo
 comma, e 27, primo comma del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636).
   Tale sistema, rispondente a finalita'  acceleratorie  del  processo
 tributario,  prese  in  considerazione  dal    legislatore del 1972 e
 confermate dai criteri direttivi della legge di delega del 1991 (art.
 30, comma 1, lettera g) n. 3, lettera m),  della  legge  30  dicembre
 1991,  n.    413),  trova  riscontro  nelle  norme transitorie per la
 sopprimenda   commissione   tributaria   centrale,   che   confermano
 specificatamente   l'attribuzione  al  presidente  di  sezione  della
 competenza  a  dichiarare  l'estinzione  del  processo  (per  mancata
 presentazione  della  istanza di trattazione) e  la reclamabilita' al
 collegio nei modi e nei termini di cui al richiamato  art.  28  (art.
 75, comma 2, del decreto  legislativo n. 546 del 1992).
   Non  puo' dubitarsi che il presidente della sezione aveva il potere
 di decidere sull'estinzione e doveva applicare la  norma  denunciata,
 essendo l'intervento del collegio solo eventuale, cioe' limitato alla
 sede  di  reclamo  o  al  caso  di  mancata  rilevazione da parte del
 presidente della sussistenza di  causa  di  estinzione,  ovvero  alla
 ipotesi in cui lo stesso presidente ritenga di rimettere la decisione
 della  questione,  per  la  particolarita'  del caso, al giudizio del
 collegio. La decisione del presidente sulla estinzione e' destinata a
 chiudere definitivamente la  controversia,  in  assenza  di  reclamo:
 deve,  pertanto,  essere  affermata  la legittimazione dello stesso a
 sollevare la questione   di legittimita' costituzionale  della  norma
 che  e'  chiamato  ad  applicare,  concernente  la  dichiarazione  di
 estinzione del processo.
   3.  -  Nel  merito,  la   sollevata   questione   di   legittimita'
 costituzionale  e'  priva di fondamento per quanto riguarda l'art 30,
 comma 1, lettera u) in relazione  alla  lettera  t)  della  legge  30
 dicembre  1991,  n.    413  (legge  di  delegazione).  In ordine alla
 previsione  di  un  onere  di  impulso  processuale  sotto  pena   di
 estinzione  del  processo, deve, infatti, confermarsi "che - in linea
 di principio - la garanzia costituzionale del diritto di  difesa  non
 preclude   al   legislatore,   nell'occasione  della  riforma  di  un
 ordinamento  processuale,  la  facolta'  di  introdurre,  con   norme
 eccezionali  e transitorie, nuovi adempimenti in relazione ai giudizi
 pendenti, condizionando ad essi l'ulteriore prosecuzione dei  giudizi
 stessi.  Questa  Corte  ha  piu'  volte  affermato  che  il  precetto
 costituzionale non impone che il cittadino possa conseguire la tutela
 giurisdizionale  sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, e
 non vieta quindi che  la  legge  possa  subordinare  l'esercizio  dei
 diritti  a  controlli e condizioni, purche' non vengano imposti oneri
 tali o non vengano prescritte modalita' tali da rendere impossibile o
 estremamente   difficile l'esercizio  del  diritto  di  difesa  o  lo
 svolgimento  di  attivita'  processuale" (sentenze n. 63 del 1977; n.
 113 del 1963; n. 47 del 1964).
   Ovviamente, e' sempre ammissibile un sindacato sulla ragionevolezza
 delle specifiche  imposizioni  di  oneri  processuali  sanzionati  da
 decadenze,  preclusioni  o  estinzione  del  giudizio,  in  quanto il
 riconoscimento della pur ampia discrezionalita' del  legislatore  nel
 determinare  le  speciali  caratteristiche  dei  singoli procedimenti
 giudiziali trova un limite nell'esigenza che degli stessi  non  siano
 pregiudicati  lo  scopo  e  le  funzioni  e  che  non sia compromessa
 l'effettivita' della tutela giurisdizionale.
   Del resto, la estinzione del processo per inattivita' delle  parti,
 in  caso  di  mancanza  di  impulso  processuale, non rappresenta una
 novita' in senso assoluto, ritrovandosi  in  altri  procedimenti  con
 forme   e  modalita'  differenziate.  Essa,  anzi,  costituisce,  nel
 processo  amministrativo,  attraverso  la  domanda   di   fissazione,
 strumento   normale   (permanente   e  non  transitorio)  di  impulso
 processuale  e  criterio  generale  dell'ordine  di  trattazione  dei
 ricorsi.  Pur  tuttavia,  nello  stesso  processo  amministrativo  la
 previsione di cui si tratta  e'  stata  accompagnata  da  particolare
 cautela   in  ordine  alla  decorrenza  del  termine  (che  e'  stato
 individuato nel momento della ricezione dell'avviso della  segreteria
 in  occasione  di  mutamenti  di  competenze  ed istituzione di nuovi
 organi: art. 42, quinto comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034).
   Di  conseguenza,  e'  da  escludersi   il   denunciato   vizio   di
 illegittimita'  costituzionale rispetto ad una norma di legge delega,
 che preveda tra i principi e criteri direttivi un siffatto  onere  di
 istanza   di  trattazione  (finalizzata  ad  una  ricognizione  della
 effettiva  situazione  di  tutti  i  procedimenti  in   corso   senza
 distinzione),  lasciando  tuttavia al legislatore delegato il compito
 di determinarne le ulteriori modalita', anche per quanto riguarda  la
 decorrenza di un termine (non prefigurato).
   4.1.  - Occorre ora passare all'esame della questione sollevata, in
 riferimento agli stessi parametri, nei riguardi dell'art.  75,  comma
 2,  secondo periodo, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e successive
 modificazioni, tra le quali, come  chiarito,  deve  includersi  anche
 l'art. 1 del d.-l. 26 novembre 1993, n. 477, convertito in legge
  26 gennaio 1994, n. 55.
   Preliminarmente,  sulla  base  delle suesposte considerazioni, deve
 escludersi  che  vi  sia   in   linea   di   principio,   sul   piano
 costituzionale,  un  divieto  di  introdurre  nel  processo  un onere
 generalizzato di istanza di trattazione o di fissazione  di  udienza,
 con  comminatoria  di  estinzione  del  processo  decorso  un periodo
 ragionevole di inattivita' processuale.
   Cio' posto, deve essere verificato  se  in  concreto,  in  sede  di
 previsione  dell'istituto della richiesta di trattazione, siano stati
 introdotti adempimenti vessatori, di difficile osservanza o insidiose
 complicazioni processuali tali da ledere il diritto di  difesa  delle
 parti  nel  processo,  ovvero  modalita' assolutamente irragionevoli,
 tenuto conto dello specifico sistema processuale.
   Certamente  puo'  convenirsi  che  l'onere  di  semplice istanza di
 trattazione - specie alla luce di  interpretazioni  giurisprudenziali
 che  hanno  ravvisato  un equivalente dell'istanza anche in qualsiasi
 altro atto di impulso processuale proveniente da una parte,  come  la
 presentazione di memoria difensiva o la formale richiesta delle parti
 in  udienza  (prima  della  scadenza  del  termine)  - non incide sul
 diritto  di  difesa  ed  e'  un  adempimento  ne'   vessatorio,   ne'
 ingiustificatamente   gravoso   per   le   parti,   ne'  di  per  se'
 irragionevole.
   Neppure puo' trarsi argomento per un contrasto  con  l'effettivita'
 del  diritto  di  difesa  da  una  presunta esiguita' del termine per
 depositare  la  istanza  di  trattazione.  Tra  l'altro,  come   gia'
 sottolineato,  detto  termine,  originariamente  fissato  in sei mesi
 dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo  n.  546  del
 1992,  e'  stato,  successivamente,  prorogato  con spostamento della
 decorrenza.  Ed  infatti,  la  legge  29  ottobre  1993,  n.  427  di
 conversione, con modificazioni, del d.-l.  30 agosto 1993, n. 331, ha
 fissato  la  decorrenza  dei sei mesi dalla data di entrata in vigore
 del medesimo decreto-legge (e  quindi  la  scadenza  al  28  febbraio
 1994),  anziche'  dalla  data  di  entrata  in vigore dell'originario
 d.lgs. 31 dicembre 1992, n.  546.  E'  pur  vero  che  l'art.  l  del
 successivo  d.-l.  26  novembre  1993, n. 477, convertito in legge 26
 gennaio 1994, n. 55, ha riportato la decorrenza  dei  sei  mesi  alla
 data  del  15 gennaio 1993: ma l'art. 2 dello stesso decreto-legge ha
 poi stabilito una proroga fino al 24 febbraio 1994 in favore  di  chi
 alla scadenza non avesse ancora provveduto.
   4.2.  -  Affermata  l'adeguatezza  del  termine  di  cui si tratta,
 occorre, invece, una piu' attenta considerazione  del  profilo  della
 decorrenza del termine stesso.
   Al   riguardo   deve   pervenirsi   a  conclusioni  negative  sulla
 ragionevolezza della soluzione per ultimo adottata  dal  legislatore,
 limitata  a norma transitoria per i soli giudizi pendenti avanti alla
 commissione tributaria centrale. Conclusioni alle quali  inducono  le
 considerazioni  che non e' prevista alcuna correlata comunicazione od
 avviso; che il processo tributario e' caratterizzato dall'impulso  di
 ufficio  per  la  sua prosecuzione, una volta instaurato il giudizio,
 per il quale  non  vi  era  necessita'  di  assistenza  tecnica;  che
 contemporaneamente   e'  eliminata  la  previsione  dell'onere  della
 domanda di trattazione  per  i  giudizi  di  primo  e  secondo  grado
 (abrogazione  dell'art.  73  del decreto legislativo n.  546 del 1992
 disposta dall'art. 69, comma 3, lettera f) del d.-l.  30 agosto 1993,
 n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427).
   In altri termini si e'  in  presenza  di  un  sistema  di  processo
 tributario,  dominato  da  una  sostanziale  uniforme  disciplina nei
 diversi gradi (v. ora anche art. 30, comma 1, lettera g) n. 1,  della
 legge  30  dicembre  1991,  n.  413),  salve  specifiche disposizioni
 proprie della tipologia del grado, e  caratterizzato  da  semplicita'
 processuale  (anche  per  la  non  necessita'  di  assistenza tecnica
 secondo il regime processuale del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.  636)  e
 dall'impulso  di  ufficio  nella  trattazione  del  ricorso, che puo'
 essere deciso anche indipendentemente dalla  comparizione  di  alcuna
 parte,  una volta proposta un'azione (nella specie di impugnazione di
 decisione di secondo grado). Ove  siano  stati  adempiuti  tutti  gli
 oneri  processuali all'epoca vigenti a carico della parte ricorrente,
 e'   manifestamente   irragionevole   introdurre    una    innovativa
 comminatoria   di   estinzione   per  la  mancanza  di  un  ulteriore
 adempimento  di  impulso  processuale  (peraltro   alternativo   alla
 possibilita'  di trasferire l'esame ad altro organo giurisdizionale),
 quando sia configurato come eccezionale e derogatorio,  sia  rispetto
 al  sistema  processuale  nel suo complesso, sia riguardo ai processi
 pendenti  negli  altri  gradi  della  stessa   giurisdizione,   senza
 prevedere  che  il  termine  per l'adempimento decorra da un avviso o
 comunicazione alle parti interessate.
   4.3. - A tale conclusione deve  necessariamente  giungersi  tenendo
 presente  che  in  tutti  i  giudizi pendenti avanti alla commissione
 tributaria centrale le parti continuano, senza alcuna limitazione,  a
 potere   essere   presenti   in  giudizio  senza  assistenza  tecnica
 indipendentemente  dal  valore  della  controversia,  in  quanto  non
 trovano  attuazione  le  nuove  disposizioni  sull'assistenza tecnica
 introdotte dal decreto legislativo n. 546 del 1992.
   Inoltre, esiste un ragionevole e  preciso  contestuale  affidamento
 delle  parti  allo  svolgimento del processo secondo "le disposizioni
 vigenti anteriormente alla data di  entrata  in  vigore  del  decreto
 legislativo   n.  546  del  1992  (art.  75,  comma  4,  del  decreto
 legislativo n. 546 del 1992,  in  relazione  all'art.  30,  comma  1,
 lettera u), della legge n. 413 del 1991").
   Di conseguenza, alla luce dei principi di effettivita' della tutela
 giurisdizionale,  nella  suindicata  situazione  e configurazione del
 processo, la inerzia delle  parti  non  puo'  essere  ragionevolmente
 assoggettata  all'estinzione  del giudizio, se non dopo che le stesse
 parti siano rese consapevoli della pendenza processuale e  dell'onere
 e  delle  conseguenze,  sopravvenute  ed  innovative:  cioe'  dopo la
 ricezione di  avviso  contenente  la  segnalazione  che  non  risulta
 presentata  istanza  di  trattazione del ricorso o richiesta di esame
 con  trasferimento  alla  Corte  di  cassazione,  con  richiamo  alle
 relative   nuove   norme   e   con   l'indicazione  del  termine  per
 l'adempimento a pena di estinzione.
   In realta', anche in sede  processuale  devono  valere  i  principi
 dell'affidamento,  della  conoscibilita'  dell'atto (o del momento da
 cui derivano oneri con effetti di preclusione  o  pregiudizievoli)  e
 della collaborazione leale tra soggetti che operano nel processo.  Di
 modo  che  non  vi  puo'  essere  decorrenza  di  termine  per  onere
 processuale  imposto  dal  giudice  (a  pena  di   decadenza   o   di
 inammissibilita'), nonostante la astratta previsione di legge, se non
 vi  sia  informativa  del provvedimento, che lo determina, alla parte
 cui incombe l'onere,  affinche'  questa  possa  disporre  dell'intero
 periodo previsto per l 'adempimento eventuale.
   Sullo  stesso piano, nelle anzidette situazioni processuali, quando
 sono introdotte nuove regole  innovative  e  transitorie  rispetto  a
 processi   ritualmente   instaurati   e  pendenti,  soggetti  per  la
 prosecuzione  solo  ad  impulso  di  ufficio,   sono   manifestamente
 irragionevoli  norme  eccezionali, limitate ad un solo grado, che non
 prevedano - per  la  decorrenza  di  un  termine  di  estinzione  del
 giudizio   conseguente  al  mancato  compimento  di  un  nuovo  onere
 sopravvenuto  a  carico  delle  parti,  con  facolta'  alternativa  -
 accorgimenti  procedurali  di  garanzia  al  fine  di  assicurare una
 conoscibilita' minima dell'obbligo di  adempimento,  come  un  avviso
 alle parti con richiamo alle scelte alternative.