IL PRETORE
   Premesso che La Rocca Vittorio veniva tratto in arresto, unitamente
 a Cultraro Maurizio,  in  data  28  gennaio  1998  e  che  a  seguito
 dell'udienza   di   convalida  del  28  gennaio  1998  l'arresto  era
 convalidato e veniva applicata nei suoi confronti la misura cautelare
 dell'obbligo di presentazione alla p.g.;
   Che a seguito di termine a difesa,  alle  udienze  del  6  febbraio
 1998,  prima  e del 13 febbraio 1998, poi, l'imputato personalmente e
 il suo difensore avanzavano  richiesta  di  applicazione  della  pena
 nella  misura  finale  di  mesi quattro di reclusione e L. 400.000 di
 multa cosi' determinata: concesse le circostanze attenuanti generiche
 equivalenti  alle  contestate  aggravanti,  pena  base  mesi  sei  di
 reclusione  e  L.  600.000 di multa, pena ridotta all'inflitto per il
 rito   (senza   subordinare   tale   richiesta    alla    sospensione
 condizionale);
   Che all'udienza del 13 febbraio 1998 il pubblico ministero prestava
 il proprio consenso a tale richesta;
   Considerato    che   la   qualificazione   giuridica   del   fatto,
 l'applicazione e  comparazione  delle  circostanze  effettuate  dalle
 parti  appare  corretta  e  che  la  pena  determinata appare congrua
 all'effettiva entita' del fatto;
   Ritenuto che La Rocca Vittorio in data 10 maggio  1996  aveva  gia'
 subito  una sentenza di applicazone della pena ad anni uno e mesi sei
 di reclusione e L. 800.000 di multa per i reati  di  cui  agli  artt.
 56,  110,  628  c.p.  e legge n. 895/1967 emessa dal g.i.p. presso il
 tribunale di Caltagirone e in  quella  sede  era  stato  concesso  il
 beneficio della sospensione condizionale della pena;
   Considerato  che, pertanto, (ritenendo questo decidente corretta la
 prognosi negativa prospettata dalle parti circa la futura  astensione
 da  parte  del  La  Rocca  della  commissione di ulteriori reati), in
 questa sede si rende attuale il problema della concreta  operativita'
 nei  suoi confronti della revoca di diritto del beneficio concessogli
 con la citata sentenza del g.i.p. presso il tribunale di Caltagirone,
 a norma dell'art. 168, comma 1, n. 1 c.p. a  seguito  dell'emissione,
 di  una  sentenza di "patteggiamento" nonche' della stessa natura del
 rito alternativo, previsto ex art. 444 c.p.p.;
   Solleva d'ufficio questione di  legittimita'  costituzionale  degli
 artt.  445  c.p.p.  e  168  c.p.  e, in via subordinata dell'art. 444
 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 13, primo  e  secondo  comma,  24,
 secondo  comma,  25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma,
 101,  secondo  comma,  102,  primo  comma,  111,  primo  comma  della
 Costituzione per i seguenti motivi.
   1.  -  Con  le  sentenze risettivamente dell'8 maggio 1996 e del 26
 febbraio 1997 la Corte di cassazione sezioni unite ha  affermato  che
 la  sentenza  emessa all'esito della procedura ex artt. 444 s. c.p.p.
 non puo costituire  titolo  idoneo  alla  revoca,  della  sospensione
 condizionale  della  pena precedentemente concessa, a norma dell'art.
 168, comma 1, n. 1 c.p., non avendo naura  di  sentenza  di  condanna
 nella parte in cui prescinde dall'accertamento giudiziale del reato e
 dall'affermazione di responsabilita' dell'imputato.
   La   suprema   Corte   nel  motivare  tale  determinazione  ha,  in
 particolare, affermato che:
     tra le sentenze di condanna emesse a seguito del rito ordinario e
 quelle emesse ex artt. 444, ss.  c.p.p.  "la  diversita'  della  loro
 genesi  e  dei  loro conseguenti presupposti si dissolve di fronte ad
 una  costante,  essenziale  caratteristica:  in  esse  (sentenze   di
 condanna),  infatti,  la  pena  e'  sempre autonomamente disposta dal
 giudice, nell'esercizio del suo  potere  discrezionale,  e  non  gia'
 sulla  base della sola contestazione del fatto-reato, bensi' dopo che
 si e' accertata e, quindi, dichiarata, la colpevolezza dell'accusato.
 Ed una volta individuata tale profonda differenza, apprezzabile anche
 in relazione ai requisiti formali e sostanziali di  cosi'  eterogenei
 modelli  processuali,  e'  stato agevole dedurne che il provvedimento
 conclusivo  dello  speciale  procedimento  previsto  dall'art.   444,
 c.p.p., non contenendo un accertamento completo sulla sussistenza del
 fatto  reato  e  sulla  sua effettiva riferibilita' ad un determinato
 soggetto,  giammai  avrebbe  potuto  giustificare  la  revoca   della
 sospensione  condizionale della pena, giacche' questa anche quando e'
 conseguente alla doverosa ricognizione di una decadenza dal beneficio
 avvenuta ope legis, in virtu' di  quanto  disposto  dall'art.    168,
 comma  1,  n. 1 c.p., postula sempre un accertamento dotato di quelle
 caratteristiche di completezza in ordine alla commissione  del  reato
 e,  quindi,  alla  colpevolezza  dell'imputato,  accertamento  che e'
 conseguibile solo mediante una sentenza pronunciata in  esito  ad  un
 giudizio con plena cognitio del reato e della pena";
     nella  sentenza di "patteggiamento", "l'accertamento completo del
 fatto reato e della sua commissone  da  parte  di  un  soggetto  sono
 sostituiti  dalla  ricognizione dell'accordo intervenuto tra le parti
 sul merito del processo e sulla pena da applicare";
     "il riconoscere di non possedere elementi utili, allo stato degli
 atti,  per  dimostrare  l'insussistenza  del  reato   contestato   o,
 comunque,  la  propria  innocenza,  non  puo'  certo equivalere ad un
 riconoscimento implicito della propria colpevolezza";
     nel procedimento speciale ex artt.  444,  c.p.p.  "ogni  verifica
 deve   esaurirsi  nell'ambito  dei  risultati,  sempre  incompleti  e
 provvisori, che l'indagine preliminare, nei limiti in  cui  e'  stata
 eseguita  dal  pubblico  ministero, puo', avere acquisito: ed in tale
 senso l'accertamento giudiziale non puo'  che  essere  partecipe  dei
 limiti  che  discendono  oltre  che  dal  suo  intrinseco  contenuto,
 soprattutto dalle modalita' con le quali tale contenuto e'  stato  al
 procedimento   acquisito,   e  cioe'  senza  il  prezioso  contributo
 dialettico delle parti";
     "la revoca del beneficio gia' concesso e' soltanto conseguente ad
 un sopravvenuto evento che  pone  nel  nulla,  per  la  sua  indubbia
 sintomaticita',  la  prognosi di ravvedimento che era stata formulata
 nella sentenza che quel beneficio  aveva  concesso:  e  tale  evento,
 dovendo  necessariamente  identificarsi nella commissione di un nuovo
 reato,  non  puo'  essere supposto sulla base di una mera ipotesi, ma
 deve avere i connotati qualificanti  della  certezza  processuale  e,
 quindi, non puo' essere sottratto alla completezza di un accertamento
 giudiziale che ne' il procedimento previsto dall'art. 444 c.p.p., ne'
 la  sentenza  che  questo  procedimento  conclude,  sono  in grado di
 assicurare".
    2. - In tali sentenze la suprema Corte, pertanto, non si limita  a
 introdurre  in  via  interpretativa  un  ulteriore  effetto  premiale
 conseguente  alla  scelta  del  rito  ex   art.   444,   c.p.p.   non
 espressamente  previsto  per  legge (in primis dall'art. 445 c.p.p.),
 bensi', per poter giungere alle conclusioni esposte, si  sofferma  ad
 esaminare  e  a  delineare  l'intera natura del rito speciale e della
 sentenza che lo conclude.
   Tali conclusioni interpretative, ribadite con le due ampie sentenze
 delle sezioni unite,  costituiscono,  pertanto  diritto  vivente  che
 questo  giudice ritiene si pongano in aperto contrasto con i principi
 sanciti nella Costituzione e con lo stesso orientamento  espresso  in
 materia dalla Corte costituzionale.
   Invero  in  passato  la  Corte,  con la storica sentenza n. 313 del
 1990, nel respingere la maggior parte  delle  censure  sollevate  (ad
 eccezione  di  quella  che  coinvolgeva  l'art. 27, terzo comma e che
 significativamente  comporto'  la  pronuncia  di  illegittimita'  ben
 nota),   aveva   ricostruito   la  struttura  e  la  natura  del  cd.
 "patteggiamento" in modo diametralmente opposto a quello  oggi  cosi'
 autorevolmente prospettato dalle ss.uu..
   Nella    sentenza    n.    313/1990    la   Corte   aveva   offerto
 un'interpretazione che, nel pieno rispetto della lettera della  legge
 (contrariamente  a  quanto,  come  vedremo,  hanno  fatto  le sezioni
 unite), portava l'istituto in esame ad armonizzarsi  con  il  sistema
 costituzionale,  pur mantenendone le sue peculiari caratteristiche di
 rito alternativo a scopo deflattivo.
   Le ss.uu. invece, espressamente, evidenziano tuttora "la  struttura
 di  un  procedimento  che,  per  potere  avere  concrete  prospettive
 applicative in chiave deflattiva,  non  poteva  non  presentarsi  con
 connotati  di spiccata eccentricita' rispetto al sistema processuale,
 anche perche'  privo  di  concrete  radici  nella  nostra  tradizione
 culturale  e  scientifica".   Va peraltro verificato se tale asserita
 "eccentricita'" non sia in realta' la costruzione di un  sistema  che
 contrasta   tout   court  con  i  principi  fondamentali  del  nostro
 ordinamento.  E' pertanto indubbio per  questo  decidente  che,  tale
 orientamento  della  suprema Corte di cassazione, da un e lato impone
 ai giudici di merito di uniformarsi ad esso (non  rendendo  operativa
 la  revoca  di  diritto a seguito di sentenza di "patteggiamento"), e
 dall'altro, ripropone i medesimi dubbi sulla natura del rito e  sulla
 sua  compatibilita'  all'ordinamento giuridico complessivo sancito in
 sede costituzionale e che erano stati  posti  prima  della  emissione
 della sentenza n. 3l3/1990.  E' pertanto necessaria una rivisitazione
 dell'intero  istituto  a partire dallo specifico effetto della revoca
 della sospensione condizionale della pena.
   3. - Le posizioni delle sezioni unite da  un  lato  e  della  Corte
 costituzionale  dall'altro,  sono irriducibili ed il conflitto che ne
 nasce e' del tutto insanabile.  Il tentativo di superamento da  parte
 delle  ss.uu.dell'asserito  apparente  conflitto  e' solo formale, fa
 leva su caratteri meramente letterali sganciati  dal  contesto  della
 motivazione  e  travisa la vera sostanza della citata pronuncia della
 Corte, la quale e' sempre fatta  oggetto  di  esplicito  richiamo  ed
 adesione  da  parte  delle successive ordinanze della Corte (cfr. per
 tutte ordinanza 4-19 marzo 1992, n. 116).
   E  cio'  e'  facilmente  evidenziabile  mediante  la  citazione  di
 significativi  stralci  di tale sentenza da porre in correlazione con
 quelli gia' trascritti delle recenti sentenze delle sezioni unite.
   Afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990:
     con riferimento alla prospettata violazione dell'art  101,  primo
 comma, della Costituzione:
     "Non   e'  vero  che  i  poteri  del  giudice  abbiano  carattere
 ''notarile''.   Gia nell'esercitare il  controllo  sulla  definizione
 giuridica dei fatti, il giudice non valuta soltanto la correttezza di
 un'operazione   logico-giuridica   ...   il   giudice   trae  il  suo
 convincimento proprio dalle risultanze degli atti e non dal  modo  in
 cui  le  hanno valutate, ... e' sempre sulle risultanze che s'appunta
 il sindacato del giudice per la verifica e percio' non e' vero che il
 suo controllo s'arresti alla cornice di legittimita' ...  cosi'  come
 e'  implicito  che,  il  giudice  non ha soltanto il potere-dovere di
 controllare la correttezza  delle  circostanze  che  le  parti  hanno
 ritenuto,  ma  puo'  altresi'  liberamente  ravvisarne  altre,  tanto
 attenuanti che aggravanti: con esse diversamente condizionando  anche
 l'eventuale giudizio di bilanciamento";
     con  riferimento alla prospettata violazione dell'art. 102, primo
 comma e 111, primo comma della  Costituzione:
     "Va negato decisamente che  nell'ipotesi  di  cui  all'art.  444,
 c.p.p.,  il giudice non eserciti una funzione giurisdizionale ...  va
 altresi' negato conseguentemente che nella sentenza di  cui  all'art.
 444,  c.p.p., non vi sia una motivazione che esprima il convincimento
 del giudice";
     con riferimento alla prospettata violazione degli artt.  3  e  24
 della  Costituzione, laddove vi sarebbe attribuzione di una pena a se
 stesso  da  parte  dell'imputato,  cosi'   disponendo   del   diritto
 indisponibile     della     liberta'    personale    a    prescindere
 dall'accertamento di una commissione di un fatto-reato:
     "Quanto  detto  esclude  che  il  giudice  resti  estraneo   aIla
 determinazione della pena ... l'accertamento diretto ad escludere che
 sussistano,   acquisiti   agli   atti,   elementi   che   negano   la
 responsabilita'   o   la   punibilita',   integra   una    importante
 partecipazione  del  giudice  all'indagine  sulla responsabilita' ...
 quando sorga qualche perplessita' in ordine al senso effettivo  della
 sua  richiesta,  il  giudice  ha  ampia possibilita' di sincerarsene,
 disponendo la comparizione dell'imputato  per  poterlo  personalmente
 sentire:  anche questo e' un modo di accertare ... anche la decisione
 di  cui  all'art.  444,  c.p.p.,   quando   non   e'   decisione   di
 proscioglimento,    non    puo'   prescindere   dalle   prove   della
 responsabilita' ... Resta  quindi  confermato  che  la  essenzialita'
 della  partecipazione  del  giudice  alla  decisione  non e' soltanto
 formale ... cio' che non puo essere assolutamente condiviso e  l'idea
 che  l'imputato  ''disponga''  della  sua  ''indisponibile'' liberta'
 personale per autolimitarla";
     con rifermento all'art. 27 della Costituzione:
     "In  effetti,  nel  nuovo  ordinamento  giuridico-processuale  e'
 preponderante l'iniziativa delle parti  nel  settore  probatorio:  ma
 cio'   non   immuta   affatto  i  principi,  nemmeno  nello  speciale
 procedimento in esame, dove anzi il giudice e' in primo luogo  tenuto
 ad  esaminare ex officio se sia gia' acquisita agli atti la prova che
 che il fatto non sussiste  o  che  l'imputato  non  lo  ha  consesso.
 Dimodoche',  risultando negativa questa prima verifica, se l'imputato
 ritiene  di  possedere  elementi  per  l'affermazione  della  propria
 innocenza,  nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione della pena
 ed egli ha a disposizione le garanzie del rito  ordinario.  In  altri
 termini, chi chiede. l'applicazione della pena vuol dire che rinuncia
 ad  avvalersi  della  facolta' di contestare l'accusa, senza che cio'
 significhi violazione del principio di presunzione  d'innocenza,  che
 continua  a  svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile
 la  sentenza  ...  bisogna  riconoscere  che  la  preclusione   dello
 specifico  controllo del giudice sulla concreta congruita' della pena
 puo'  talvolta  determinare  una  situazione  di  conflitto  con   il
 principio di cui al comma 3 dell'art. 27 della Costituzione", "... se
 la  finalizzazione  (della pena) venisse orientata verso quei diversi
 criteri  (afflittivita',  retributivita'),  anziche'   al   principio
 rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l'individuo
 per  fini  generali di politica criminale (prevenzione generale) o di
 privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di  stabilita'  e
 sicurezza   (difesa  sociale),  sacrificando  il  singolo  attraverso
 l'esemplarita' della  sanzione.  E'  per  questo  che  in  uno  Stato
 evoluto,  la  finalita' rieducativa non puo' essere ritenuta estranea
 alla legittimazione e alla funzione  stessa  della  pena  ...".    Il
 procuratore  generale  presso  la cassazione, in sede di requisitoria
 nel giudizio delle ss.uu. n. 1/1997, ha cosi' efficacemente riassunto
 la  ratio  decidendi  della  sentenza  della   Corte   n.   313/1990:
 "L'ordinamento  processuale  vigente  non  conferisce  effetti penali
 (qual  e'  quello  da  cui  deriva  la   revoca   della   sospensione
 condizionale della pena) unicamente a provvedimenti messi in esito ad
 un  giudizio svolto secondo il rito della plena cognitio, non essendo
 preclusa la configurabilita' in sede normativa  ordinaria  di  moduli
 processuali   diversi   per   l'accertamento   della  responsabilita'
 dell'imputato". Egli ha indicato come  esempio  il  procedimento  per
 decreto  penale  in  cui l'irrevocabilita' della condanna consegue al
 mero silenzio dell'imputato e nel  testo  originario  dell'art.  168,
 c.p.  (laddove  la  revoca era prevista anche a seguito di condanne a
 pena pecuniaria era anch'esso  pacificamente  titolo  per  la  revoca
 della sospensione condizionale della pena.
   4. - In sintesi, la ricostruzione offerta dalla Corte di cassazione
 ss.uu.  continua  a  ritenere la sussistenza di una sera "ipotesi" di
 reato e di colpevolezza di una persona accusata di  averlo  consesso,
 anche  dopo  l'emissione della sentenza di patteggiamento, mentre con
 la sentenza,  in  qualche  modo  e  rispondendo  alla  necessita'  di
 certezza  del  diritto, il conflitto espresso prima del processo, non
 puo'  non  risolversi  giuridicamente  e  l'ipotesi   iniziale   deve
 trasformarsi in un dato di certezza giuridica.
   La  Corte  nella  sentenza  n.  313/1990,  infatti, necessariamente
 ricollega la circostanza che  una  pena  venga  applicata  al  previo
 necessario  accertamento  che  il  soggetto  che  la  subisce  ne sia
 meritevole, cosi che tale pena possa coerentemente esplicare  i  fini
 rieducativi,  preventivi  e  retributivi  ad  essa  connaturati; tali
 finalita', per contro, non avrebbero concreta ragione di esistere nei
 confronti  di  chi  sia ancora solo ipoteticamente colpevole e non si
 possa affermare abbia effettivamente commesso quel preciso reato  per
 cui  sconta  una  pena.    Le  sezioni  unite,  invece, muovono da un
 presupposto giuridico estraneo  al  nostro  ordinamento,  secondo  il
 quale   sarebbe  plausibile  la  dissociazione  tra  accertamento  di
 responsabilita' e l'irrogazione  della  pena,  tra  pronuncia  di  un
 giudizio  e  aderenza  tendenziale alla realta', privilegiando in tal
 modo una costruzione giuridica in cui  il  dato  fittizio  prende  il
 posto   di   quello  reale,  sganciata  dalla  doverosa  verifica  di
 corrispondenza con la realta' accertabile.
                       La questione e rilevante
   Come gia' detto questo giudice solleva la  questione  allorche'  si
 trova a dover decidere in ordine alla accoglibilita' di una richiesta
 di  applicazione  della  pena, con conseguente possibile emissione di
 sentenza ex art. 444, c.p.p., ed inoltre ad  un  soggetto  che  aveva
 subito  altra  sentenza  di applicazione della pena in data 10 maggio
 1996 e nei cui confronti, pertanto, opererebbe la revoca  di  diritto
 disposta  dall'art.  168,  comma 1, n. 1 c.p.  Questo giudice ritiene
 che a seguito del citato  orientamento  delle  ss.uu.  la  disciplina
 attualmente  vigente  circa  le  sentenze idonee a produrre la revoca
 della sospensione condizionale  della  pena  comporti  la  violazione
 delle  norme  costituzionali  indicate  e  che  cio'  coinvolga nella
 suddetta  censura  l'intero   istituto   del   patteggiamento   cosi'
 strutturato nel diritto vivente.  Cionondimeno, ritiene sufficiente e
 la  richiede in via principale, una pronuncia della Corte sugli artt.
 445, c.p.p. e 168 c.p. idonea a riportare l'istituto ad  armonizzarsi
 con  il sistema costituzionale, cosi' come indicato nella sentenza n.
 313/1990.   Solo in via subordinata ed  allorche'  la  Corte  ritenga
 insuperabile  il  giudizio  di  rilevanza  in  ordine  alla questione
 sollevata in via principale, e allorche'  la  Corte  non  ritenga  di
 prendere  decisioni solo interpretative, si solleva la conseguenziale
 e  logica  questione  di  legittimita'   dell'intero   istituto   del
 patteggiamento  cosi'  come strutturato nel diritto vigente a seguito
 delle citate sentenze delle ss.uu.   Non  ignora  questo  giudice  le
 recenti ordinanze in cui codesta ecc.ma Corte ha arrestato la propria
 disamina della questione sollevata ritenendo la questione irrilevante
 "essendo  precluso  al giudizio di legittimita' costituzionale in via
 incidentale ogni intervento additivo in materia penale che si risolva
 in  un  trattamento  sfavorevole  per  l'imputato"  (cfr.  per  tutte
 ordinanza  n. 297/1997 sul punto qui in esame).  Si chiede, peraltro,
 alla Corte di voler riconsiderare tale sintetico  diniego  alla  luce
 della sua stessa giurisprudenza e delle considerazioni che seguono.
   A)   E'   ben   noto   che   la   complessa   vicenda   in   ordine
 all'ammissibilita' del sindacato di legittimita' delle  norme  penali
 di  favore e' stata autorevolmente affrontata con la storica sentenza
 n. 148/1983.  In tale pronuncia la Corte prende  atto  che,  a  voler
 seguire  fino  in  fondo  una  rigida applicazione del criterio della
 rilevanza, "ne deriverebbero implicazioni assai gravi" e  che  "norme
 sicuramente   applicabili  nel  giudizio  a  quo,  rischierebbero  di
 sfuggire ad ogni sindacato della Corte non essendo mai  pregiudiziale
 la loro impugnazione; e la Corte stessa verrebbe in tal senso privata
 -    quanto  meno nei giudizi instaurati in via incidentale - di ogni
 strumento atto a garantire la  preminenza  della  Costituzione  sulla
 legislazione statale ordinaria".
   Tre  sono  stati  i  profili  di rilevanza segnalati dalla Corte in
 giudizi attinenti norme penali di favore:
     "In primo luogo, l'eventuale accoglimento  delle  impugnative  di
 norme  siffatte verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento
 o, quanto meno,  sui  dispositivi  delle  sentenze  penali,  i  quali
 dovrebbero  imperniarsi  per  effetto  della  pronuncia  emessa dalla
 Corte, sul comma 1 dell'art. 2,  c.p.  (sorretto  dal  secondo  comma
 dell'art.  25  della  Costituzione)  e  non  sulla  sola disposizione
 annullata dalla Corte stessa";
     "In secondo luogo, le norme  penali  di  favore  fanno  anch'esse
 parte  del  sistema,  al  pari  di  qualunque altra norma costitutiva
 dell'ordinamento ... sicche'  va  confermato  che  si  tratta  di  un
 problema  inerente  all'interpretazione  di  norme  diverse da quelle
 annullate, che i singoli giudici dovranno dunque affrontare caso  per
 caso,  nell'ambito  delle  rispettive competenze"; In terzo luogo, la
 tesi restrittiva muoverebbe da assunti ristretti ed angusti circa  il
 tipo  di  pronunce adottabili dalla Corte, la quale "non e' vincolata
 in assoluto dalle posizioni interpretative del giudice  che  promuove
 l'incidente   di   costituzionalita'.   In  altre  parole,  non  puo'
 escludersi a priori che il giudizio della Corte su una  norma  penale
 di favore si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei
 sensi  di cui in motivazione) o con una pronuncia comunque correttiva
 delle premesse esegetiche su cui  si  fosse  fondata  l'ordinanza  di
 rimessione".    Per  il  caso in esame si fanno semplicemente proprie
 tali autorevoli considerazioni, atteso che il giudizio richiesto alla
 Corte coinvolge principi  cardine  dell'ordinamento  e  che  pertanto
 massima  deve essere la preoccupazione di non istituire "zone franche
 del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle  quali  la
 legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".
   B)  A  cio'  si  aggiunga  che  la  stessa Corte ha gia' piu' volte
 dichiarato ammissibili (e a volte fondate) questioni di  legittimita'
 costituzionale  di  leggi  regionali  che incidano in materia penale,
 laddove, a legislazione vigente, il giudice avrebbe dovuto  assolvere
 l'imputato.
   C)  In  realta', si ritiene che nel caso in esame, non si tratti di
 estendere la portata di una norma penale (il reato rimane  del  tutto
 inalterato),   bensi'   di  riconoscere  esplicitamente,  anche  alla
 sentenza di patteggiamento il potere di dispiegare gli effetti propri
 della sentenza penale di condanna, cui  la  stessa  e'  espressamente
 equiparata  ex  art.  445,  c.p.p., (fatti salvi gli effetti premiali
 gia' riconosciuti ex lege e tassativamente elencati).
   D) Ulteriore argomento che consentirebbe alla Corte di  discostarsi
 dalla   prospettazione   delle  sezioni  unite  penali  mediante  una
 pronuncia meramente interpretativa (come suggerito nella sentenza  n.
 148/1983  al  terzo  rilievo),  e'  costituito  dal fatto che sezioni
 semplici della Corte di cassazione civile, nell'applicare il medesimo
 art. 445, c.p.p., ritengono tassativo l'elenco dei benefici  connessi
 al  rito  alternativo  in  esame  e,  quanto al resto, lo considerano
 pienamente equiparabile ad una sentenza  di  condanna  (come  recita,
 peraltro  la  stessa  lettera dell'ultima parte del primo comma).  Si
 vedano ad esempio Cass. I, 12 aprile 1996  n.  3490  e  Cass.  I,  18
 ottobre 1994 n. 8489, ove in relazione all'ineleggibilita' di chi sia
 stato  condannato  per determinati reati sancita dall'art.  15, legge
 1990 n. 55 e succ. mod., espressamente sostiene che  la  sentenza  di
 patteggiamento,  "ancorche'  non  produttiva di taluni effetti tipici
 della sentenza  di  condanna  (espressamente  esclusi  dal  comma  1,
 dell'art.  445 c.p.p.) e' tuttavia idonea a comportare la sospensione
 dalla carica del consigliere comunale - a norma del citato art. 15  -
 quando porti applicazione di pena per uno dei reati ivi previsti, non
 rientrando  detta  sospensione  nel novero delle pene accessorie".  A
 fronte di tale differente orientamento, un giudizio della  Corte  nel
 merito  dell'intero  istituto  risponderebbe,  pertanto, a ragioni di
 eguaglianza.
   E) La stessa citata ordinanza della Corte n.  297/1997  indica  due
 possibili  varchi  al proprio giudizio di inammissibilita'.  La Corte
 afferma, infatti, che il proprio sindacato riemergerebbe  laddove  la
 norma sospettata di illegittimita' costituzionale, sia frutto "di una
 scelta  irrazionale  e  non  giustificata", risulti arbitraria sia la
 previsione che la regolamentazione di cause di estinzione  del  reato
 in  relazione  al  disvalore ad esso assegnato e alla condotta tenuta
 dal reo.   Premesso che la  Corte  utilizza  termini  quali  "reo"  e
 "disvalore"  che  le  sezioni  unite  citate  non  ritengono  neppure
 appartenere  alla  natura   dell'accertamento   della   sentenza   di
 patteggiamento,  si  segnalano  i  seguenti profili di irrazionalita'
 conseguenti all'avere le ss.uu.   negato a  tale  sentenza  qualunque
 effetto  di  accertamento di responsabilita' (e quindi idoneita' alla
 revoca ex art. 168, c.p.).
   1. - E' pacifico che gli effetti della sentenza  di  patteggiamento
 siano  elencati  espressamente  dall'art. 445 c.p.p. e che, quanto al
 resto e  salvo  espresse  disposizioni  di  legge,  la  sentenza  sia
 equiparata  a  una  pronuncia  di  condanna: essa genera recidiva (v.
 anche   Relazione   al   progetto   preliminare),    abitualita'    e
 professionalita'  nel  reato; costituisce il precedente richiamato da
 singole norme incriminatrici, quali ad es. l'art. 707 c.p.
   2. - Lo stesso art. 445 secondo comma c.p.p. prevede, a  contrario,
 che  l'applicazione  di  una pena detentiva condizionalmente sospesa,
 quand'anche siano passati i cinque anni ivi previsti per l'estinzione
 del  reato,  sia  ostacolo  alla  concessione   di   una   successiva
 sospensione   condizionale  della  pena;  sul  punto  le  ss.uu.  non
 convincono laddove sostengono che i presupposti per la concessione di
 una sospensione condizionale della pena sarebbero di  natura  diversa
 rispetto a quelli richiesti per la revoca.
   Ed infatti la suprema Corte precisa che la pena applicata all'esito
 del   "patteggiamento"  legittimamente  possa  essere  ostativa  alla
 concessione di una successiva sospensione condizionale della pena, in
 quanto "applicando la pena", essa, sotto tale ed  unico  profilo,  e'
 legittimamente  equiparabile  a una pronuncia di condanna.  A seguire
 l'impostazione  delle  ss.uu.   le   conseguenze   sarebbero   invero
 arbitrarie  in  quanto  si  pone  quale  presupposto  impeditivo  del
 beneficio il solo "avere subito l'applicazione di una  pena",  quando
 per contro, la sospensione condizionale e' volta a fini preventivi ed
 esprime  un  giudizio di prognosi sul futuro comportamento di un reo.
 Nel limitare la valenza  della  sentenza  di  patteggiamento  ad  una
 fittizia ed ipotetica affermazione dell'attribuzione all'imputato del
 reato  contestato  con applicazione della pena, del tutto incongrua e
 incomprensibile  diventa,  quindi,  la  valutazione  dei  presupposti
 formali  e sostanziali richiesta per la concessione della sospensione
 condizionale della pena: fittizia ed ipotetica sarebbe anch'essa,  in
 quanto  nessuna  concreta  esigenza  preventiva  e  dissuasiva per il
 futuro sarebbe formulabile, coerentemente  a  tali  presupposti,  nei
 confronti  di  chi  non  si ritiene colpevole di avere commesso alcun
 reato.
   3. - Lo stesso art. 445, comma 2, c.p.p., prevede che "Il reato  e'
 estinto se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un
 delitto,   e   di   due   anni,   quando  la  sentenza  concerne  una
 contravvenzione,  l'imputato  non  commette  un  delitto  ovvero  una
 contravvenzione  della stessa indole".  Tale formulazione e' in tutto
 analoga al meccanismo del beneficio  della  sospensione  condizionale
 della  pena:  l'estinzione  non si verifica se l'imputato commette un
 delitto o una contravvenzione della stessa indole.
   E  cosa  dire  nel  caso  in  cui  il  soggetto   richieda   sempre
 l'applicazione  della  pena  anche  per  delitti ascrittigli entro il
 quinquennio? L'interpretazione della Corte  indirettamente  coinvolge
 anche  l'applicazione  di  questa  norma,  implicitamente limitandone
 l'applicazione solo ai casi in cui si possa "effettivamente" dire che
 ha commesso un reato, ovvero solo quando vi sia plena  cognitio?  Del
 resto gli agganci letterali valorizzati delle ss.uu. sono identici.
   In  tutto  cio'  vi  e'  qualcosa di aberrante, atteso che quel che
 voleva  essera   solo   un   rito   deflattivo,   ben   puo'   essere
 strumentalmente  utilizzato per lo svuotamento e l'inoperativita', ad
 esempio, di due norme: l'art. 445 comma 2, c.p.p. e l'art. 63 c.p.
   Negare l'effetto della revoca della sospensione condizionale  della
 pena   a  seguito  dell'opzione  di  un  rito  alternativo,  infatti,
 significa negare al giudice  la  possibilita'  di  verificare  se  la
 prognosi  espressa  in  sede  di  concessione del beneficio sia stata
 osservata; e' inoltre svuotare di significato l'intero istituto della
 sospensione condizionale della pena, la quale  si  basa  su  un  fine
 preventivo,  che sarebbe del tutto vanificato ex ante dalla sicurezza
 dell'impunita' per tale primo reato: patteggiando  sempre,  anche  la
 commissione  di  un  ulteriore  reato non comporterebbe la revoca del
 beneficio.
   4.  -  La  ricostruzione  dell'istituto   offerta   dalle   ss.uu.,
 nonostante  un  tentativo meramente letterale di aggirare l'ostacolo,
 si pone poi in aperto contrasto con i presupposti della  sentenza  n.
 155 del 1996, cosi' inserendo un ulteriore elemento di irrazionalita'
 nel  sistema.  Nella  sentenza  n.  155/1996  (come  del  resto nelle
 pronunce  similari),  la  Corte  ha   dichiarato   che   l'estensione
 dell'incompatibilita' dei g.i.p. dev'essere pronunciata rispetto alla
 decisione sulla richiesta di applicazione della pena concordata dalle
 parti  "la  quale  integra  un vero e proprio giudizio". Cio' perche'
 "nel procedimento previsto dagli artt. 444, s. c.p.p. il giudice, pur
 essendo il suo  compito  condizionato  dall'accordo  intervenuto  tra
 imputato   e   p.m.   e,  quindi,  in  questo  senso  circoscritto  e
 indirizzato, e'  chiamato  infatti  a  svolgere  valutazioni  fondate
 direttamente sulle circostanze in atti, aventi natura di giudizio non
 di  mera  legittimita',  ma  anche  di  merito,  concernenti tanto la
 prospettazione del caso contenuta nella richiesta di parte, quanto la
 responsabilita' dell'imputato, quanto, infine, la pena".
   E) La Corte sempre nella  citata  ordinanza  n.  297/1997,  afferma
 inoltre  che  "la disposizione censurata e' coerente con il carattere
 premiale  del  "patteggiamento",  ed  e'  suscettibile  di  controllo
 giurisdizionale  nel momento in cui al giudice chiamato a pronunciare
 sentenza  ex  art.  444  c.p.p.  e'  imposta  una  valutazione  della
 "congruita'"  del  trattamento  sanzionatorio  complessivo  negoziato
 dalle  "parti",  e "che, in particolare, la conseguenza - prospettata
 dal giudice remittente - di  un  ricorso  al  patteggiamento  per  un
 numero  indeterminato  di  volte,  con la conseguenza che le pene non
 sarebbero mai eseguite, e' priva di  fondamento,  in  quanto,  da  un
 lato,  la richiesta di applicazione della pena e' condizionata in via
 generale al consenso del  pubblico  ministero,  dall'altro,  ove  sia
 subordinata  alla  concessione  della  sospensione condizionale della
 pena, il giudice, se  ritiene  che  il  beneficio  non  possa  essere
 concesso,  rigetta  la  richiesta  a  norma  dell'art.  444, comma 3,
 c.p.p.".
   Sembra si intravveda in tale prospettazione il  suggerimento  della
 Corte  al  giudice  di  merito  (vincolato quanto all'interpretazione
 dell'art. 168 c.p. all'orientamento delle  ss.uu.)  di  rigettare  le
 richieste  di  applicazione  della  pena  avanzate  da  soggetti "non
 meritevoli" del regime generale degli effetti  premiali  connessi  al
 patteggiamento,  operando un rigetto sulla base di un giudizio di non
 congruita' "del trattamento sanzionatorio complessivo"  (l'Avvocatura
 dello  Stato  in quella sede parlava addirittura di "opportunita' del
 beneficio").
   Non si vede peraltro, in base a quale norma sia stato  riconosciuto
 un  tale e penetrante intervento del giudice circa la scelta del rito
 che, in genere, spetta all'accordo delle parti.  La  stessa  sentenza
 della Corte n. 313/1990 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale
 dell'art.  444,  c.p.p. nella parte in cui non prevede che, ai fini e
 ai limiti di cui all'art. 27 terzo  comma  Cost.,  il  giudice  possa
 valutare la congruita' della pena indicata dalle parti, rigettando la
 richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione.
   Il sistema normativo attualmente vigente non consente al giudice di
 condizionare  il  proprio  giudizio  sulla meritevolezza del rito del
 "patteggiamento"  o  sulla  congruita'  del  complessivo  trattamento
 sanzionatorio  a  un  evento,  revoca  della  precedente  sospensione
 condizionale, che appare al di fuori della disponibilita' delle parti
 e che lo stesso diritto vivente (sentenza n. 1/1997 ss.uu.  Corte  di
 cassazione)  ha  reso  impermeabile proprio rispetto a tale specifica
 conseguenza.   Vale  poi  ribadire  che  il  giudizio  di  congruita'
 concesso  a seguito della sentenza n. 313/1990 attiene esclusivamente
 alla quantificazione della singola pena da irrogare e non a tutti gli
 eventuali effetti penali conseguenti ex lege.
   E' pur vero che la sensibilita'  del  giudice  interpreta  in  modo
 estensivo   le   ipotesi   di   rigetto,  nello  spirito  di  evitare
 patteggiamenti in casi in cui un  giudizio  ordinario  comporterebbe,
 probabilmente, un risultato piu' favorevole per l'imputato, ma non si
 ritiene  che  appartenga  al  sistema normativo vigente il potere del
 giudice di rigettare la richiesta di applicazione della pena (congrua
 in se'), per il solo fatto di non ritenere l'imputato meritevole  dei
 benefici connessi al rito.
   Come  sopra  gia'  osservato,  nel caso, peraltro, in cui la ecc.ma
 Corte ritenga che il diritto vivente in materia di definizione  degli
 effetti della sentenza ex art. 444, c.p.p. sia di fatto inattaccabile
 da un giudizio di legittimita' costituzionale, appare necessariamente
 coinvolto dal giudizio di verifica di costituzionalita' l'intero rito
 alternativo  del  "patteggiamento". Sotto tale profilo e' evidente la
 rilevanza della questione sollevata essendo chiamato questo giudice a
 pronunciarsi su una richiesta congiunta di applicazione della pena e,
 in ogni caso, si richiama quanto sopra appena esposto.  La  questione
 non e' manifestamente infondata
   Negare  che  la sentenza di patteggiamento sia titolo per la revoca
 della sospensione condizionale della pena, implica ritenere che  tale
 sentenza non contenga un accertamento di responsabilita'.
   Il  diritto  vivente  nega  tale  natura alla sentenza ex art. 444,
 c.p.p., o meglio, ritiene che solo a seguito di una plena cognitio si
 sia in grado di affermare  con  certezza  una  nuova  responsabilita'
 penale  che, facendo venir meno la prognosi di ravvedimento in virtu'
 della quale il beneficio era stato concesso per motivi rieducativi  e
 di recupero sociale del condannato, produca la revoca di cui all'art.
 168 comma 1, n. 1, c.p.
   Pertanto  si  ritiene  che  tale  ricostruzione  confligga  con  le
 seguenti norme della Costituzione:
   A) art. 13, primo comma, e 24,  secondo  comma  in  quanto  con  la
 sentenza  ex art. 444 c.p.p. la pena verrebbe applicata a chi non sia
 stato effettivamente riconosciuto autore di un reato; di  conseguenza
 l'irrogazione  di  una  pena  conseguirebbe alla mera richiesta delle
 parti e alla  verifica  solo  astratta  e  ipotetica  della  corretta
 qualificazione  del  fatto  e  della  sua  riferibilita' all'imputato
 richiedente, con cio' riconoscendo  un  diritto  alla  disponibilita'
 della liberta' personale e della difesa.
   B)  art.  25,  secondo  comma,  in quanto l'applicazione della pena
 conseguirebbe a una legge che sia entrata in vigore prima di un fatto
 che, peraltro, non si sa se sia stato effettivamente commesso da  chi
 subisce la punizione.
   C) art. 27, primo, secondo e terzo comma.
   Tale  articolo  collega  l'applicazione  della  pena ad un giudizio
 positivo di responsabilita' della singola persona a causa di una  sua
 azione  od  omissione.  Non  e'  prevista  nel nostro ordinamento una
 responsabilita' fittizia, presunta o virtuale:  se  e',  deve  essere
 reale  e riferita al caso concreto e alla persona precisa, cosi' come
 concreta e riferita a quella persona e' la pena che viene eseguita.
   La pena e' effettiva e deve essere ricollegata  strettamente  quale
 conseguenza dell'accertamento della responsabilita' di un reato.
   Una  pena  non puo' essere applicata per il solo fatto che le parti
 la richiedano e che il fatto ipotizzato sia previsto dalla legge come
 reato.
   Quanto, poi, al fine rieducativo della pena si richiamano tutte  le
 osservazioni  gia'  citate  e contenute nella sentenza della Corte n.
 313/1990, sinteticamente solo richiamando che  l'effetto  rieducativo
 presuppone un soggetto colpevole.
   D) art. 101, secondo comma.
   L'indipendenza  del giudice ivi sancita, infatti, sarebbe vulnerata
 dal fatto che  l'emanazione  della  sua  sentenza  sarebbe  vincolata
 all'accordo  tra  p.m.  e imputato (eccezion fatta per l'accertamento
 delle  sole  condizioni  di  legittimita'  volute  ex  lege  e  della
 congruita'  - ipotetica - della pena), prescindendo del tutto dal suo
 libero  e  pieno  convincimento  e  da  un  accertamento  di   penale
 responsabilita'.
   E)  art.  102,  primo  comma, laddove pare riservare l'esercizio di
 funzioni  giurisdizionali  a  contenuto  decisorio  al  solo   organo
 giudicante, mentre nel caso in esame la decisione avrebbe mera natura
 ipotetica,  aleatoria e affidata prevalentemente alle parti (imputato
 e p.m.).
   F) art. 111, primo comma  della  Costituzione,  sembra  non  essere
 rispettato  in quanto mancherebbe una motivazione effettiva che possa
 dare ragione del convicimento del giudice, atteso il materiale esiguo
 su cui andrebbe a fondarsi, riducendola a mero riscontro  formale  ed
 apparente.
   Tale  violazione  appare ancor piu' intensa allorche' si accosta al
 111, primo comma, anche l'art. 13, secondo comma, norma specifica per
 la motivazione di provvedimenti restrittivi della liberta' personale.
   G) art. 3, Cost. sotto il profilo che nei confronti di soggetti che
 abbiano commesso i medesimi reati e ai quali sia  stata  in  concreto
 applicata  la  medesima  pena,  non  sia riconosciuta la colpevolezza
 degli uni rispetto  agli  altri  in  dipendenza  esclusiva  dal  rito
 prescelto,  cosi' che, irragionevolmente, solo a chi avesse richiesto
 le maggiori garanzie di plena cognitio e contraddittorio proprie  del
 rito  ordinario,  sarebbe  revocabile  il beneficio della sospensione
 condizionale della pena precedentemente concesso.
   Riassumendo, il dubbio di  costituzionalita'  e'  rilevante  e  non
 manifestamente infondato:
     quanto  all'art.  445, c.p.p. nella parte in cui prevede, secondo
 il diritto vivente, che tra gli effetti dell'applicazione della  pena
 su  richiesta  vi  e'  la  non  revoca  della  precedente sospensione
 condizionale della pena  (ove  sussistano  le  altre  condizioni  che
 legittimerebbero  la  revoca  a  seguito  di  condanna  con  il  rito
 ordinario);
     quanto  all'art.  168,  c.p.,  nella   parte   in   cui   prevede
 analogamente  che  la sentenza di patteggiamento non e' titolo per la
 revoca della sospensione condizionale;
     quanto  all'art.  444,  c.p.p.,  (in  subordine),  in  quanto  la
 sentenza di patteggiamento prescinde dall'accertamento giudiziale del
 reato e dell'affermazione di responsabilita' dell'imputato.