ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt. 1-ter e
 1-sexies, del decreto-legge 27  giugno  1985,  n.  312  (Disposizioni
 urgenti   per   la   tutela   delle  zone  di  particolare  interesse
 ambientale), introdotti dall'art. 1  della  legge  di  conversione  8
 agosto  1985,  n.  431,  e  7  della  legge  29  giugno 1939, n. 1497
 (Protezione delle bellezze naturali), promosso con  ordinanza  emessa
 il  22 ottobre 1996 dal pretore di Camerino nel procedimento penale a
 carico di Sordoni Rosanna ed altri, iscritta al n.  88  del  registro
 ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1997;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio del 10  dicembre  1997  il  giudice
 relatore Riccardo Chieppa;
   Ritenuto  che nel corso del procedimento penale a carico di Sordoni
 Rosanna ed altri, per aver concorso  a  realizzare  abusivamente  una
 veranda di legno in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi
 degli artt. 110 cod. pen., 1-ter, 1-sexies della legge 8 agosto 1985,
 n. 431 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27
 giugno  1985,  n.  312, recante disposizioni urgenti per la tutela di
 zone di particolare interesse ambientale), il pretore di Camerino  ha
 sollevato, in riferimento agli artt. 25, 9, secondo comma, 3, 13 e 27
 della  Costituzione,  questione  di legittimita' costituzionale degli
 artt. 1-ter, 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431 - recte:  del
 d.-l. 27 giugno 1985, n. 312  (Disposizioni  urgenti  per  la  tutela
 delle  zone  di  particolare  interesse ambientale), introdotti dalla
 legge di conversione 8 agosto 1985, n. 431  -  e  7  della  legge  29
 giugno 1939, n. 1497;
     che  il  giudice  rimettente sottolinea come gli imputati abbiano
 ottenuto, dopo  la  realizzazione  dell'opera,  l'autorizzazione  dal
 sindaco  di  Ussita  e  che,  nonostante  cio',  alla  stregua  della
 consolidata giurisprudenza di legittimita', riconosciuta la natura di
 reato di pericolo, essi sono perseguibili e punibili penalmente senza
 che l'integrita' del bene tutelato sia stata lesa;
     che, a parere del giudice a  quo,  il  combinato  disposto  delle
 norme   censurate  sarebbe  affetto  da  incongruita'  costituzionale
 rilevante sotto distinti profili; il primo di essi  si  incentrerebbe
 sulla  violazione  del  principio  di  legalita'  di cui all'art. 25,
 secondo comma, della Costituzione  nella  sua  proiezione  sul  piano
 sostanziale  di  determinatezza  della fattispecie penale, laddove le
 pluralita' delle ipotesi sanzionatorie previste  dall'art.  20  della
 legge  n.  47  del  1985, cui rinvia quoad poenam l'art. 1-sexies del
 d.-l. n. 312 del 1985, introdotto dall'art.  1 della legge n. 431 del
 1985, consente che giudici diversi possano applicare a fatti  diversi
 le stesse sanzioni;
     che,  sempre  secondo  il giudice a quo sotto il secondo profilo,
 risulterebbe violato l'art. 9,  secondo  comma,  della  Costituzione,
 perche'  la  tutela  paesaggistica,  con uno specifico e circoscritto
 ambito di tutela, in relazione ai valori da essa  considerati,  viene
 estesa  anche  alla  materia  ambientale  che,  dal  punto  di  vista
 giuridico,  ha  origine  convenzionale,  del  tutto   estranea   alla
 disciplina paesaggistica;
     che,   infine,  secondo  il  pretore  rimettente,  la  necessaria
 offensivita' del reato, presidiata dagli artt. 3, 13, 25 e  27  della
 Costituzione,  non  consentirebbe  di  sanzionare penalmente condotte
 prive del connotato della  lesivita'  concreta,  ne'  di  sacrificare
 arbitrariamente,  senza  la  violazione dell'interesse protetto dalla
 norma penale, la liberta'  personale  ai  sensi  dell'art.  13  della
 Costituzione;   l'irragionevolezza   delle  norme  censurate  sarebbe
 palesata  altresi'  dal  trattamento  penale   deteriore   comminato,
 rispetto  a  quello  previsto  dall'art. 734 cod.   pen. che, essendo
 reato  di  danno,  sanziona  in  misura  meno  severa   la   condotta
 concretamente lesiva;
     che  e'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, che ha concluso per l'infondatezza della questione richiamando
 gli  specifici  precedenti  della  Corte  (sentenze nn. 376 e 269 del
 1993), e sottolineando che la  fattispecie  e'  estranea  al  condono
 edilizio  (l'imputazione  si  riferisce ad accertamento del 26 luglio
 1995), e che, sul piano sistematico,  vi  e'  coerenza  normativa  in
 ragione  degli  interessi  pubblici  sottesi,  afferenti  alla tutela
 paesaggistica   ed  ambientale,  sulla  previeta'  del  controllo  di
 compatibilita'  di  ogni  intervento  potenzialmente  incidente   sul
 paesaggio.
   Considerato  che  questa  Corte  ha  ripetutamente affermato che la
 ratio della introduzione di vincoli paesaggistici  generalizzati  (in
 base  a tipologie di beni) risiede nella valutazione che l'integrita'
 ambientale e' un bene unitario, che puo' risultare compromesso  anche
 da  interventi  minori  e  che  va, pertanto, salvaguardato nella sua
 interezza (sentenze nn. 247 del 1997, 67 del 1992  e  151  del  1986;
 ordinanze nn. 68 del 1998 e 431 del 1991);
     che,  quanto  alla  lamentata  violazione  dell'art.  25, secondo
 comma, della Costituzione, questa Corte ha  gia'  ritenuto  infondate
 analoghe  questioni  sollevate  con  riferimento al medesimo rilievo,
 osservando che "la scansione ... dell'ambito  sanzionatorio  e  della
 conseguente  quantificazione  della  pena,  distinta  su tre livelli,
 sulla base della tipologia di condotte incriminate ... risulta - alla
 luce   sia   della   interpretazione   adeguatrice   operata    dalla
 giurisprudenza  che  dell'indirizzo  interpretativo  della  Corte  di
 cassazione  -  corrispondere  ai  precetti  di  determinatezza  della
 sanzione  penale,  soddisfacendo, inoltre, il canone di adeguatezza e
 congruita' della pena  nel  rapporto  di  proporzionalita',  sia  nel
 minimo  che nel massimo, alla tutela del bene presidiato dalla norma"
 (sentenza n. 247 del  1997;  ordinanza  n.  68  del  1998;  v.  anche
 sentenze nn. 122 del 1993 e 67 del 1992);
     che,   d'altra   parte,   la   giurisprudenza  costituzionale  ha
 ripetutamente  posto  in  evidenza  che  l'accentuata  severita'  del
 trattamento,  che  puo' risultare dalla norma di cui si tratta, trova
 giustificazione  nella  entita'  sociale  dei  beni  protetti  e  nel
 ricordato  carattere  generale, immediato ed interinale, della tutela
 che la legge ha inteso apprestare di fronte alla  urgente  necessita'
 di  reprimere  comportamenti  tali che possono produrre danni gravi e
 talvolta irreparabili all'integrita' ambientale (sentenze nn.  269  e
 122 del 1993; ordinanza n. 68 del 1998);
     che  questa  Corte  ha,  altresi', gia' esaminato il problema del
 diverso, e  piu'  grave,  livello  sanzionatorio  previsto  dall'art.
 1-sexies  rispetto  al  trattamento  riservato  a chi compia opere di
 trasformazione non autorizzata in zona vincolata ai sensi della legge
 29 giugno 1939,  n.  1497,  osservando  che  le  censure  avverso  un
 differente trattamento sanzionatorio operante su piani diversi, quali
 sono  quelle  di  cui si tratta, sono manifestamente infondate per la
 non comparabilita' dei due sistemi presi in considerazione, l'uno dei
 quali (legge n.   1497 del 1939)  prevede  una  tutela  diretta  alla
 preservazione  di  cose  e  localita'  di particolare pregio estetico
 isolatamente considerate, mentre l'altro  (d.-l.  n.  312  del  1985,
 convertito,  con  modificazioni,  in  legge  8  agosto  1985, n. 431)
 introduce una tutela del paesaggio (per vaste porzioni del territorio
 individuate   secondo    tipologie    paesistiche,    ubicazioni    o
 morfologiche),  improntata  a integrita' e globalita', implicante una
 riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e
 in attuazione del valore estetico-culturale (v., da ultimo, ordinanze
 nn. 68 del 1998 e 431 del 1991);
     che  inoltre  il  reato  di  cui  all'art.  1-sexies  citato   e'
 espressamente  previsto dal legislatore come concorrente con tutte le
 sanzioni di cui alla legge 29 giugno 1939, n. 1497,  e  nello  stesso
 tempo,  quando  ricorra  l'elemento  del danno, puo' essere integrata
 anche  l'ulteriore  violazione  di cui all'art. 734 cod. pen., con il
 conseguente cumulo di pene;
     che, anche per quanto concerne il problema  della  compatibilita'
 delle  norme impugnate con il principio della necessaria offensivita'
 del reato, desumibile, come ritiene  il  giudice  a  quo  dal  plesso
 normativo  costituito  dagli artt. 3, 25, 27 e 13 della Costituzione,
 questa Corte ha anzitutto  rilevato  -  come  ha  gia'  affermato  in
 riferimento   all'art.  1-sexies  -  la  inconferenza  del  parametro
 dell'art. 13 della Costituzione, rispetto alle fattispecie  normative
 di  cui  si  tratta,  che prevedono una nuova figura criminosa ed una
 forma sanzionatoria che si aggiungono a quelle di cui alla  legge  29
 giugno  1939,  n.  1497;  sicche' le norme denunciate non hanno alcun
 rapporto con la liberta' personale "se  non  nel  senso  generale  ed
 indiretto  che  il  responsabile  di un reato e' soggetto alle misure
 restrittive previste dalla legge" (sentenza n. 247 del 1997);
     che,  quanto  agli  altri  paramenti  indicati,  e'   sufficiente
 richiamare  l'indirizzo  interpretativo  di  questa Corte, secondo il
 quale l'accertamento  della  stessa  e'  in  ogni  caso  devoluto  al
 sindacato  del  giudice  penale  (v.,  da ultimo, sentenza n. 247 del
 1997; ordinanza n. 68 del 1998);
     che,  d'altro  canto,  deve  ritenersi  ammissibile,  sul   piano
 costituzionale,  la previsione legislativa di reati di mero pericolo,
 qualora il bene tutelato, per il suo valore - come  apprezzato  dallo
 stesso  legislatore (e nella specie vi e' una espressa considerazione
 nel testo costituzionale tra i principi fondamentali:  art.  9  della
 Costituzione)  -  esiga  protezione anche da potenziali interventi di
 manomissione,  conseguenti   alla   mancanza   di   previa   verifica
 dell'amministrazione  mediante intervento abilitativo per determinate
 attivita' o condotte;
     che,  in  altri  termini,  il  previo  controllo   amministrativo
 rispetto  a  determinate  attivita'  puo'  essere giustificato per la
 rilevanza e la natura dell'interesse pubblico  in  gioco  -  come  ha
 osservato  l'Avvocatura  dello  Stato - quando il legislatore ritenga
 imprescindibile   la   verifica   preventiva   della   compatibilita'
 dell'attivita'  privata  con l'interesse pubblico tutelato (principio
 desumibile dall'art.  7 della legge n. 1497  del  1939  in  relazione
 all'art.  82  del  d.P.R.    24  luglio 1977, n. 616, come modificato
 dall'art. 1 del d.-l. 27 giugno 1985, n.  312  nel  testo  risultante
 dalla legge di conversione n. 431 del 1985);
     che  la sopravvenienza dell'autorizzazione e' irrilevante ai fini
 della sottoposizione a sanzione penale ai  sensi  dell'art.  1-sexies
 (sentenza n. 318 del 1996); infatti l'autorizzazione intervenuta dopo
 l'inizio  dell'attivita'  soggetta  al  necessario  previo  controllo
 paesaggistico, non e'  sufficiente  per  rimuovere  in  via  generale
 l'antigiuridicita'   (penalmente   rilevante)   dell'attivita'   gia'
 compiuta in assenza di titolo abilitativo (salvo si intende  espressa
 previsione  normativa  come  effetto  di  sanatoria), mentre non puo'
 invocarsi un diverso principio dalla espressa previsione di sanatoria
 (assoggettata  a  precise  condizioni  prefigurate  dal  legislatore)
 contenuta  nell'art.    22  della  legge n. 47 del 1985, che riguarda
 esclusivamente la materia urbanistica;
     che  la tutela del paesaggio deve ormai ritenersi non legata alla
 visione frammentaria propria della legge 29 giugno 1939,  n.  1497  -
 diretta  in  prevalenza  alla  tutela  di  singole  bellezze naturali
 isolatamente considerate - sicche'  essa  e'  diventata  sinonimo  di
 tutela  ambientale  (sentenza  n.  46 del 1995), della quale, quindi,
 deve ritenersi comprensiva per quanto attiene al  territorio  su  cui
 vive l'uomo;
     che,  pertanto,  tutte  le  questioni sollevate dal giudice a quo
 devono essere dichiarate manifestamente infondate.
   Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11  marzo  1953,  n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.