IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sull'istanza presentata da
 Pregnolato Luciano, nato il 24 novembre 1950 a Porto Tolle  (Rovigo),
 attualmente detenuto presso la Casa di reclusione di Padova, tendente
 ad  ottenere  il  beneficio  di  cui  all'art.  176 c.p. (liberazione
 condizionale) in relazione alla condanna di cui alla sentenza  emessa
 il 29 marzo 1995 dalla Corte d'Assise d'Appello di Venezia.
                              Motivazione
   In  data  28  marzo  1997  l'istante,  detenuto  presso  la Casa di
 reclusione di Padova in espiazione del titolo indicato  in  epigrafe,
 ha presentato domanda di liberazione condizionale.
   Si tratta di persona che e' stata condannata alla pena di anni nove
 e  mesi  undici  di  reclusione  per  i  reati di omicidio volontario
 consumato e di tentato omicidio in concorso, commessi il  7  novembre
 1991.  Dalla  lettura  della  sentenza di condanna emerge che i fatti
 oggetto del procedimento sono stati integralmente accertati (si  veda
 la  laboriosa  ricostruzione  effettuata  nelle 61 fitte pagine della
 sentenza), che il reato e' stato commesso in concorso con  altri  due
 soggetti,  condannati  col  medesimo  titolo,  con  modalita'  ed  in
 circostanze estranee a contesti di criminalita'  organizzata,  e  che
 gli  sono  state  riconosciute  le circostanze attenuanti generiche e
 quella della provocazione con l'applicazione della riduzione  massima
 annessa dalla legge.
   In   relazione  a  tale  titolo  esecutivo,  ha  sofferto  custodia
 cautelare per un periodo pari  ad  anni  tre,  mesi  dieci  e  giorni
 ventuno,  e  detenzione  definitiva dal 18 maggio 1996 ad oggi (cioe'
 anni uno, mesi 4  e  giorni  28);  vanno  inoltre  aggiunte,  per  la
 presunzione  di  espiazione sancita dall'art. 54, ultimo comma, della
 legge n. 685/1975, le detrazioni di pena per liberazione  anticipata,
 concesse  per  complessivi  405 giorni. Risulta pertanto espiata piu'
 della meta' della pena inflitta e il residuo pena non supera i cinque
 anni (l'attuale fine pena e' infatti fissato al 16 aprile 2001).
   Va  tuttavia  rilevato  che,  trattandosi di condannato per uno dei
 delitti indicati all'art. 4-bis della  legge  n.  685/1975,  commesso
 successivamente  all'entrata  in  vigore  del decreto-legge 13 maggio
 1991 n.  152  (convertito  nella  legge  12  luglio  1991  n.  203  -
 "Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata
 e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa"), va
 applicata  nei  suoi confronti la norma contenuta nell'art. 2.2 della
 citata legge, che innalza ai due terzi della pena detentiva il limite
 temporale  minimo  per  accedere  al  beneficio   della   liberazione
 condizionale,  limite temporale non ancora raggiunto dal richiedente.
 Allo stato della normativa, l'istanza e' quindi inammissibile.
   Il tribunale ritiene  pero'  di  sollevare  d'ufficio  la  seguente
 questione di legittimita' costituzionale, premettendo all'uopo alcune
 considerazioni di carattere generale e sistematico.
   La  norma  di cui all'art. 2.2 della legge n. 203/1991 e' parallela
 ad altre previsioni analoghe  introdotte  per  i  condannati  di  cui
 all'art.  4-bis della legge n. 354/1975 in materia di assegnazione al
 lavoro  all'esterno  (vedasi  art. 21 o.p., come modificato dall'art.
 1.2 della legge n. 203/1991, che ha introdotto ex novo la preclusione
 temporale del terzo di  pena  espiata),  di  ammissione  ai  permessi
 premio  (vedasi  art.  30-ter,  quarto comma, legge n. 354/1975, come
 modificato dall'art.  4 dell'art. 1.3, lett. c) della legge cit., che
 ha innalzato il limite da  un  quarto  alla  meta'  della  pena),  di
 ammissione  al  regime  di  semiliberta'  (vedasi  art.  50, legge n.
 354/1975, come modificato dall'art. 1, quarto comma della legge cit.,
 che ha innalzato il limite dalla meta' ai due terzi della pena).
   La ratio di tale normativa eccezionale  e'  chiara:  si  postulava,
 attraverso l'introduzione o l'innalzamento dei livelli minimi di pena
 gia'  espiati,  la  necessita'  di  verificare,  con  un  periodo  di
 osservazione e di trattamento piu'  lungo,  l'effettivo  percorso  di
 risocializzazione   di   quanti   si   fossero   macchiati  di  reati
 riconducibili all'area della criminalita' organizzata o eversiva.  Ed
 in  tale  ottica  si  comprende  anche  la  ratio  della norma di cui
 all'art. 58-ter, legge n. 354/1975 (introdotta  dall'art.  1.5  della
 legge  n. 203/1991) - estensibile anche alla liberazione condizionale
 per l'espresso richiamo dell'art. 2.3 della legge n. 203/1991 -,  che
 prevede  l'inapplicabilita'  delle  deroghe temporali per coloro che,
 "anche  dopo  la  condanna,  si  sono  adoperati  per   evitare   che
 l'attivita'  delittuosa  sia  portata  a conseguenze ulteriori ovvero
 hanno aiutato concretamente  l'autorita'  di  polizia  o  l'autorita'
 giudiziaria  nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione
 dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei  reati
 con tali condotte collaborative lo stesso condannato fornisce infatti
 la  prova  dell'intervenuto  distacco  dal circuito criminale (vedasi
 motivazione della sentenza 22 febbraio-1 marzo  1995,  n.  68,  della
 Corte costituzionale).
   E'  necessario  ricordare  che, a seguito delle modifiche apportate
 all'art. 4-bis, legge n. 354/1975 ad  opera  del  d.-l.  n.  306/1992
 (convertito  nella  legge 7 agosto 1992, n. 356 "Modifiche urgenti al
 nuovo codice di procedura penale e provvedimenti  di  contrasto  alla
 criminalita'  mafiosa"),  per  una  prima  "fascia"  di  condannati o
 internati ("per  i  delitti  commessi  avvalendosi  delle  condizioni
 previste  dall'art.  416-bis  del  codice  penale  ovvero  al fine di
 agevolare   l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo  stesso
 articolo nonche' per i delitti di cui agli artt. 416-bis  e  630  del
 codice  penale  e  all'art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309") e'
 stato stabilito che  i  permessi  premio,  l'assegnazione  al  lavoro
 all'esterno  e le misure alternative alla detenzione previste al capo
 VI della legge n. 354/1975 possano essere concessi solo nei  casi  in
 cui tali detenuti o internati collaborino, o abbiano collaborato, con
 la  giustizia  a  norma  dell'art.  58-ter  o.p. E' pacifico che tale
 disciplina  vada  estesa  anche  al   beneficio   della   liberazione
 condizionale  in  virtu' del rinvio formale, permanente e recettizio,
 all'art. 4-bis operato dall'art. 2.1 del d.-l. n.  152/1991  (vedasi,
 in  tal  senso le sentt.   n. 68/1995 della Corte costituzionale e n.
 209 del 20 gennaio 1993 della Corte di cassazione, I sez., Mura).
   Pertanto,  dopo  le  modifiche  del  1992,   il   requisito   della
 collaborazione  con  la  giustizia, descritto compiutamente dall'art.
 58-ter dell'ord.  pen., opera su due piani ben distinti: da  un  lato
 infatti, solo per la prima "fascia" dei delitti dell'art. 4-bis della
 stessa  legge,  esso  costituisce  un  vero  e proprio presupposto di
 ammissione ai benefici, che vale nel corso di tutta la  detenzione  o
 dell'internamento;  dall'altro  lato,  per  tutti i delitti dell'art.
 4-bis dell'ord. pen., e quindi anche per quelli della seconda  fascia
 (delitti   commessi  per  finalita'  di  terrorismo  o  di  eversione
 dell'ordinamento costituzionale ovvero delitti di cui agli artt. 575,
 628, terzo comma, 629, secondo comma, del codice  penale  e  all'art.
 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, comma
 2   del  d.P.R.  309/1990),  esso  opera  solo  come  condizione  per
 l'applicazione dei limiti temporali ordinari.
   E' importante sottolineare  che  la  collaborazione  effettivamente
 prestata,  che secondo la Corte sostituisce ex lege - per i casi piu'
 gravi (primissima "fascia" dell'art.  4-bis  ord.  pen)  -  la  prova
 dell'assenza   di  collegamenti,  consente  altresi'  di  dare  pieno
 ingresso ai benefici senza limiti di pena differenziata (si veda, per
 la liberazione condizionale,  l'art.  2.3,  legge  n.  203/1991,  che
 sancisce   l'inapplicabilita'  del  comma  2  alle  persone  indicate
 nell'art. 58-ter o.p., e dunque  ritorna  alla  regola  generale  del
 meta' pena per l'accesso al beneficio).
   Peraltro, la Corte costituzionale, con piu' interventi (sentt.  nn.
 306/1993,  357/1994  e  68/1995),  ha inciso significativamente sulla
 portata dell'art. 4-bis, prima  parte  dell'ord.  pen.,  arrivando  a
 dichiarare  illegittima  la  norma per contrasto con gli artt. 3 e 27
 della Costituzione nella parte in cui non prevede: 1) che "i benefici
 di cui al primo periodo possano essere concessi anche nel caso in cui
 la limitata partecipazione al fatto criminoso, come  accertata  nella
 sentenza  di  condanna, renda impossibile un'utile collaborazione con
 la giustizia, sempre che  siano  stati  acquisiti  elementi  tali  da
 escludere  in  maniera  certa  l'attualita'  di  collegamenti  con la
 criminalita' organizzata"  (sent.  n.  357/94);  2)  che  gli  stessi
 benefici  "possano  essere concessi anche nel caso in cui l'integrale
 accertamento dei fatti e delle responsabilita' operato  con  sentenza
 irrevocabile   renda   impossibile  un'utile  collaborazione  con  la
 giustizia,  sempre  che  siano  stati  acquisiti  elementi  tali   da
 escludere  in  maniera  certa  l'attualita'  di  collegamenti  con la
 criminalita' organizzata" (sent.  n. 68/1995).
   Dalla  lettura  delle  motivazioni e dei dispositivi delle suddette
 sentenze,  emerge  chiaramente   che   tali   importanti   interventi
 riguardano  solo  la collaborazione come presupposto di ammissione ai
 benefici per  i  condannati  per  i  delitti  della  prima  "fascia",
 prescindendo del tutto dal profilo relativo ai limiti temporali.
   Si ritiene invece che l'equiparazione della collaborazione prestata
 alla  collaborazione  impossibile  operata dalla Corte debba produrre
 effetti anche sul  piano  dei  limiti  della  pena:  sarebbe  infatti
 illogico  che  l'efficacia della collaborazione sia diversa a seconda
 che  si  tratti  di  collaborazione  effettiva  o  di  collaborazione
 impossibile.
   La  collaborazione,  infatti,  non riveste piu' nel sistema valenza
 trattamentale, trattandosi  di  un  semplice  incentivo  offerto  dal
 legislatore  per sconfiggere la criminalita' organizzata, offrendo in
 cambio il beneficio  consistente  nel  ripristino  del  principio  di
 uguaglianza  fra i condannati per i delitti dell'art. 4-bis ord. pen.
 e  gli  altri  condannati.  L'equiparazione  fatta  dalla  Corte  tra
 collaborazione prestata o irrilevante e collaborazione impossibile ne
 e' la riprova:  una volta ammesso che l'incentivo non puo' funzionare
 per  chi non lo puo' dare, si e' tolto di mezzo  l'ostacolo invocando
 i noti parametri costituzionali.
   Se la ratio originaria dell'art. 4-bis ord.  pen.  era  quella  "di
 adeguare  l'intero  sistema  penitenziario  agli  ormai intollerabili
 livelli di pericolosita' sociale raggiunti dal triste fenomeno  della
 criminalita'  organizzata"  appare oggi illogico e ingiustificato che
 sia imposto un periodo di osservazione piu' lungo per coloro che, per
 definizione,  non  possono  essere  utili  nella  lotta   contro   la
 criminalita' organizzata.
   Se  l'equiparazione,  introdotta  dal  diritto vivente creato dalla
 Consulta, tra collaborazione effettiva o irrilevante e collaborazione
 impossibile fa cadere il principale ostacolo all'ammissione  a  certi
 benefici  penitenziari,  non  si  comprende  perche' non debba cadere
 anche l'"accessorio" (limiti differenziati  di  pena  per  i  singoli
 istituti):  se  cosi'  non  fosse,  si  tratterebbe  di  un risultato
 interpretativo estraneo alla volonta' del legislatore, come integrata
 dalla Consulta.
   Ammettere che rimanga - insito nel sistema -  un  inasprimento  per
 coloro   che   sono   impossibilitati   a  collaborare,  inasprimento
 costituito dalla previsione di soglie minime  di  pena  differenziate
 per  l'accesso  ai  benefici,  appare irragionevole, perche' privo di
 quella  contropartita  che  lo  rendeva   invece   costituzionalmente
 giustificato nell'impianto originario, cosi' come si presentava prima
 dell'intervento       della       giurisprudenza      costituzionale.
 (Incidentalmente, si osserva che il raggiungimento del limite di pena
 richiesto  dalla  legge  non  comporta  un'automatica  ammissione  al
 beneficio,  ben potendo il magistrato o il tribunale di sorveglianza,
 valutando nel merito, e tenendo quindi conto  anche  della  tipologia
 del  reato,  ritenere  opportuno  verificare  l'evoluzione attraverso
 un'ulteriore periodo di osservazione inframuraria).
   Ordunque,  il  tribunale  ravvisa  una  situazione  d'irragionevole
 disparita'  tra il condannato per un qualsiasi reato dell'art. 44-bis
 ord. pen.  che abbia collaborato con la giustizia,  in  quanto  nelle
 condizioni  di  farlo,  e  che  quindi  possa  accedere  ai  benefici
 penitenziari  nei  termini  ordinari  (o  addirittura  senza   alcuna
 preclusione  temporale  come  nel  caso  del lavoro all'esterno) e il
 condannato  per lo stesso reato che, per l'integrale accertamento dei
 fatti e delle responsabilita' operato con sentenza irrevocabile,  sia
 impossibilitato a fornire un'utile collaborazione con la giustizia, e
 che  quindi debba attendere i maggiori termini introdotti dalla legge
 n. 203/1991.
   Al fine di meglio comprendere la situazione denunciata, si pensi al
 caso di piu' condannati per il delitto  di  sequestro  di  persona  a
 scopo  di estorsione (art. 630 c.p., incluso nella prima "fascia" del
 piu' volte citato articolo 4-bis  ord.  pen.).  Dalla  lettura  della
 sentenza di condanna pronunciata nei confronti di tutti i concorrenti
 nel  delitto,  il  tribunale  di  sorveglianza  apprende che le forze
 dell'ordine fecero irruzione nel covo  dove  trovavasi  custodito  il
 rapito,  traendovi  in  arresto  Tizio e Caio, momentanei custodi, ma
 complici  di  altri  soggetti  non  presenti  in  loco   al   momento
 dell'operazione  di  polizia.    I  due  vennero  associati a diversi
 istituti di pena. Di li' a qualche  giorno,  Tizio  (non  rileva  per
 quale  motivo)  decise  di collaborare e chiese di essere sentito dal
 procuratore distrettuale antimafia.  Anche Caio,  all'insaputa  della
 scelta  di  Tizio,  decise  di  collaborare  (magari  per motivi meno
 commendevoli di quelli del suo collega), ed  ottenne  casualmente  di
 essere  interrogato  dagli  inquirenti  in  data  anteriore  a quella
 fissata per l'interrogatorio del complice.    L'ampia  collaborazione
 che  Caio  rese  nel  corso  della  propria  deposizione consenti' la
 cattura e la  condanna  di  tutti  gli  altri  concorrenti,  rendendo
 superfluo l'apporto che Tizio avrebbe avuto intenzione di offrire.
   Espiata  meta'  della pena, sia Tizio che Caio avanzano istanza per
 la concessione della liberazione condizionale. Orbene: Tizio, che non
 ha potuto prestare una collaborazione espressa quale intesa ai  sensi
 dell'art.  58-ter  ord.  pen.,  e  che  puo' considerarsi soltanto un
 "collaboratore  impossibile"  (essendo  stato   operato   l'integrale
 accertamento  dei  fatti e delle responsabilita' a prescindere da suo
 apporto), si vedra' dichiarare la propria domanda inammissibile,  non
 avendo  ancora  espiato  i due terzi della pena, cosi' come richiesto
 dalla norma che il Collegio ritiene sospettata di costituzionalita'.
   Caio, che solo casualmente ha potuto essere interrogato per  primo,
 per rivestire poi la posizione soggettiva di collaboratore "espresso"
 ai  sensi  dell'art. 58-ter ord. pen., puo' invece aspirare all'esame
 del merito della propria istanza,  essendogli  sufficiente  la  meta'
 della pena.
   Una  volta  che il giudice delle leggi e' giunto - con l'importante
 operazione  esegetica  tracciata  con  la  sentenza    n.  68/1995  -
 all'approdo  interpretativo che ha voluto sancire l'equiparazione tra
 collaborazione espressa e collaborazione impossibile, il perdurare di
 una siffatta disparita' di trattamento appare del tutto  irrazionale:
 trattasi  invero  di  disparita'  ancorata al solo caso, disgiunta da
 ogni apprezzabile ragione di politica criminale, e che  -  per  stare
 all'esempio  (il quale non e' soltanto di scuola) - premia chi arriva
 per primo, incidendo sul bene protetto dall'art. 3 della Costituzione
 senza alcuna giustificazione.   E nell'esempio sopra  fatto,  ben  si
 potrebbe  affermare  che l'ammissione al beneficio della condizionale
 e' attualmente regolata dal principio  prior  in  tempore  potior  in
 iure.
   L'irragionevolezza  e'  poi  ancora  piu' evidente se si compara il
 caso del sequestratore-collaboratore dell'esempio con  i  casi,  come
 quello  oggetto  del  procedimento,  nei  quali non solo i fatti sono
 stati completamente accertati (sia pure - nel nostro caso - a seguito
 di laboriosa motivazione, la quale e' andata anche al  di  la'  della
 ricostrizione   fattuale   degli  estremi  necessari  ai  fini  della
 fattispecie del concorso tra i condannati, in certo modo coinvolgendo
 anche soggetti  diversi  dai  tre  imputati,  quali  tali  Zanetti  e
 Cattin),  ma, per le circostanze e modalita', vi sia da escludere che
 le  attivita'  delittuose  siano  espressioni   di   appartenenza   a
 organizzazioni  criminali,  e  pertanto  non vi e' alcuna utilita' di
 accertare il distacco dal circuito di  cui  e'  sintomo  la  condotta
 collaborativa.
   Tutto  cio'  premesso,  va denunciata la non manifesta infondatezza
 della questione concernente il su indicato contrasto fra le norme  di
 cui agli artt. 2.2, 2.3, legge 203/1991, 58-ter ord. pen. e gli artt.
 3 e 27 della Costituzione.
   Relativamente  a  questo  secondo  parametro,  si  osserva  che  il
 ritardare l'ammissione a importanti benefici penitenziari,  quali  la
 liberazione  condizionale,  comporta  un ingiustificato rallentamento
 del  percorso  risocializzante,  e  quindi  una  frustrazione   delle
 finalita'  rieducative  della  pena,  senza  alcun vantaggio sotto il
 profilo delle esigenze di prevenzione generale.
   Si rileva  infine  che  la  questione  sollevata  riguarda  sia  la
 liberazione   condizionale   che  gli  altri  benefici  ai  quali  fa
 riferimento l'art.  58-ter o.p. (lavoro all'esterno, permessi  premio
 e  semiliberta');  valutera' la Corte, qualora ritenesse la questione
 fondata, la necessita' di estendere la  pronuncia  anche  alle  altre
 disposizioni  legislative  interessate in via di consequenzialita' ai
 sensi dell'art. 27, legge n. 87/53.
   In punto di rilevanza, si osserva che, fatte ovviamente salve altre
 questioni di diritto e di merito che potranno emergere nell'ulteriore
 corso  del  procedimento,  l'applicazione  delle  norme  indicate  e'
 evidentemente   ineliminabile   nell'iter   logico-giuridico  che  il
 remittente deve percorrere per la  decisione:  infatti,  in  caso  di
 dichiarazione   di   fondatezza  della  questione  cosi'  come  sopra
 prospettata, l'istanza del  condannato  Pregnolato  Luciano  dovrebbe
 essere  ritenuta ammissibile (almeno per l'aspetto relativo ai limiti
 temporali),  mentre,  in  caso  di  rigetto,  l'attuale  stato  della
 normativa imporrebbe una pronuncia d'inammissibilita'.