IL TRIBUNALE
   Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
 513,  c.p.p.,  come  sostituito  dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n.
 267,  sollevata  dal  pubblico  ministero  nel  processo  penale   n.
 219/1/1995  r.g.  nuovo rito a carico di Bosso Luigi + 27, sentite le
 parti;
                             O s s e r v a
   1. - Nel corso del dibattimento relativo al processo nei  confronti
 di  Bosso  Luigi  +  27  all'udienza  del    28  ottobre 1997, Arnese
 Salvatore e Scalzone Federico, ammessi dal tribunale  come  testi  su
 richiesta del pubblico ministero e citati da quest'ultimo nelle forme
 di  cui  all'art.  210,  c.p.p.,  essendo stato il primo inizialmente
 sottoposto ad indagini nel  presente  procedimento  e  risultando  il
 secondo   -   anche  se  in  maniera  non  specifica  -  indagato  in
 procedimento  connesso,  si  erano  avvalsi  della  facolta'  di  non
 rispondere,  allorquando  erano  stati  chiamati a deporre davanti al
 tribunale.
   All'udienza successiva del 4 novembre 1997, il  pubblico  ministero
 sollevava eccezione di legittimita' costituzionale della disposizione
 di  cui  all'art.  513,  c.p.p.,  come novellata dalla legge 7 agosto
 1997, n. 267, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24  primo  e  secondo
 comma, 101, 111, 112 della Costituzione.
   Le  parti  interloquivano  in  merito  ed il tribunale riservava la
 decisione all'odierna udienza.
   2. - Rilevanza nel processo de quo della questione di  1egittimita'
 costituzionale  dell'art.  513,  c.p.p., come modificato dall'art. 1,
 legge n. 267 del 1997.
   Nell'analizzare  la  rilevanza   della   sollevata   questione   di
 legittimita'  costituzionale  nell'ambito  del  giudizio in corso, va
 innanzitutto   sottolineata   l'importanza   che   le   dichiarazioni
 dell'Arnese  e  dello Scalzone rivestono sul piano probatorio, atteso
 che gli  stessi,  inseriti  nella  lista  testimoniale  del  pubblico
 ministero,  erano stati regolarmente ammessi dal tribunale, in quanto
 chiamati  a  riferire  sui  rapporti intercorrenti tra il Taurisano e
 l'imputato  Di  Donato  Giulio,  su  quelli  tra  quest'ultimo  e  la
 "Napoletana  Gas"  e  sull'organizzazione ed i metodi di raccolta del
 consenso elettorale del Di Donato stesso.
   Tali circostanze, nella  prospettazione  accusatoria,  appaiono  di
 primaria  importanza  in  relazione  alle  contestazioni  di cui sono
 chiamati  a  rispondere  gli   odierni   imputati,   anche   se   non
 costituiscono,  come  esplicitato  dallo  stesso  pubblico ministero,
 delle dichiarazioni di accusa nei confronti di questi ultimi.
   Le considerazioni sopra esposte, inducono il  collegio  a  ritenere
 sicuramente  rilevante  per  il processo che qui occupa, la sollevata
 questione di legittimita' costituzionale.
   Ed infatti, se  il  consenso  delle  parti  all'acquisizione  delle
 dichiarazioni  rese  in  sede di indagine dai soggetti sopra indicati
 che costituisce, secondo la nuova formulazione dell'art. 513, c.p.p.,
 l'unica  condizione  per  acquisire  le  stesse  al   fascicolo   del
 dibattimento e considerarle poi utilizzabili ai fini della decisione,
 fosse dichiarato incostituzionale tali dichiarazioni avrebbero libero
 accesso  nel  processo pendente, risultando pienamente valutabili dal
 giudice,  con  un  meccanismo  di  acquisizione  identico  a   quello
 contemplato  dalla  vecchia formulazione dell'art. 513, c.p.p., cosi'
 come integrato dalla sentenza n. 254/1992 della Corte costituzionale.
   3. - La non manifesta infondatezza delle questioni proposte.
   Va preliminarmente  osservato  che  la  censura  di  illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  513, c.p.p., nella   valutazione di questo
 collegio, non e' diretta a confutare il  principio  ispiratore  della
 norma  nella  parte in cui   essa, nella nuova formulazione, tende ad
 assicurare  le  regole  del   contraddittorio.   Al   contrario,   va
 riconosciuto  che  la nuova formulazione dell'art. 513 ha sicuramente
 cercato di dare una risposta, da piu' parti auspicata, alle  numerose
 critiche mosse alla normativa precedente, considerata da molti lesiva
 del  diritto  di  difesa  dell'imputato,  laddove consentiva la piena
 utilizzabilita' delle dichiarazioni di soggetti estranei al  processo
 raccolte in assenza di contraddittorio.
   La  scelta  di  subordinare l'acquisizione di tali dichiarazioni al
 consenso  delle  parti,  infatti,  altro  non  costituisce  -   nelle
 intenzioni del legislatore - che la "riparazione" di tale violazione,
 possibile  solo  con  il  consenso  di  colui  il cui diritto risulta
 violato dal mancato rispetto delle regole imposte dal  principio  del
 contraddittorio.
   E  pero'  la  scelta  operata  dal  legislatore appare inadeguata a
 conciliare i diversi principi costituzionali che regolano la  materia
 in  questione  e  mal  si armonizza con il sistema quale si e' andato
 delineando in questi  ultimi  anni  anche  attraverso  le  successive
 pronunce  della  Corte  costituzionale.  E'  vero  infatti  che  essa
 determina uno squilibrio, ora in pregiudizio  dell'accusa,  non  meno
 censurabile  di  quello  preesistente  a sfavore della difesa, che si
 voleva invece correggere.
   Com'e' noto il giudice, nell'esprimere un preliminare  giudizio  di
 non   manifesta   infondatezza   della   questione   di  legittimita'
 costituzionale  posta  alla  sua   attenzione,   deve   limitarsi   a
 raffrontare  le  norme  di  sospetta  legittimita'  non  solo  con le
 specifiche disposizioni costituzionali di riferimento, ma  anche  con
 l'interpretazione  che  delle  stesse  e' stata fornita nel corso del
 tempo dalla Corte costituzionale.
   Tali  norme, infatti, non possono essere interpretate isolatamente,
 ma devono essere valutate sistematicamente  alla  luce  dei  principi
 informatori  della  Costituzione stessa, che la Corte, massimo organo
 di interpretazione della Costituzione "vivente", ha enucleato con  la
 propria giurisprudenza.
   Ed  invero,  e'  la  stessa Corte che con la sentenza n. 111 del 26
 marzo 1993, ha  affermato  che  "la  considerazione  dell'ordinamento
 processual-penale  italiano  va  condotta  a  prescindere da astratte
 modellistiche, sulla base del  tessuto  normativo  positivo,  la  cui
 interpretazione  e  comprensione  non puo' che derivare da un'attenta
 lettura dei principi e dei criteri direttivi  enunciati  dalla  legge
 delega  e  dei  principi  costituzionali  di cui questa .... richiede
 attuazione. Non va  cioe'  dimenticato  che  il  sistema  processuale
 delineato  nella  legge  delega ed attuato nel codice e' tutt'affatto
 originale, dato che tende bensi' ad attuare i caratteri  del  sistema
 accusatorio, ma secondo i criteri ed i principi direttivi specificati
 nelle  direttive  che  seguono;  e che, poiche' la stessa norma detta
 ancor prima l'obbligo di attuare i principi della  Costituzione,  una
 adeguata  considerazione  dell'ordinamento effettivamente vigente non
 puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte  si  e'
 trovata a dover apportare".
   Ed  e'  sicuramente  alla luce di quanto or ora espresso che questo
 collegio non  puo'  non  ritenere  non  manifestamente  infondata  la
 sollevata   questione   di   legittimita'  costituzionale,  anche  in
 considerazione del fatto che la nuova disciplina  prevista  dall'art.
 513, c.p.p., sostanzialmente ripropone, con la mera previsione di una
 condizione   puramente   "di   scuola"   e   sicuramente   quasi  mai
 verificabile,  la  disciplina  originariamente   prevista   da   tale
 articolo,  poi  ritenuto  illegittimo  dal giudice delle leggi con la
 sentenza  n.  254  del  3  giugno  1992,  che  ne  aveva   dichiarato
 l'incostituzionalita'  per  contrasto  con  gli  artt.  3  e 76 della
 Costituzione, nella parte  in  cui  non  prevedeva  che  il  giudice,
 sentite  le parti, disponesse la lettura dei verbali di dichiarazioni
 rese dalle persone indicate nell'art. 210, c.p.p., qualora queste  si
 fossero avvalse in dibattimento della facolta' di non rispondere.
   4.  -  Principi  costituzionali  ed  elaborazioni giurisprudenziali
 della Corte costituzionale.
   La Corte costituzionale,  prendendo  le  mosse  dall'esistenza  nel
 nostro  ordinamento  del  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
 penale e di legalita', regolati dagli artt. 112 e 101 Cost., ha  piu'
 volte  affermato  che  il  processo  penale  ha come fine primario ed
 ineludibile quello della ricerca della verita' (cfr.  sent.  nn.  111
 del  1993, 255 del 1992, 258 del 1991), intesa in senso storico e non
 meramente processuale.
   Ed invero il modello processuale prescelto con l'entrata in  vigore
 del  nuovo  codice  di  procedura penale,   non e' certo quello di un
 processo di parti nel senso puro del termine, nel  quale  il  giudice
 deve "accontentarsi" della prospettazione delle stesse, ma un sistema
 che  consente  a quest'ultimo di addivenire ad una giusta decisione e
 che fa salvo il  principio  del  libero  convincimento,  inteso  come
 liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente
 apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri
 adottati e dei risultati conseguiti.
   In  maniera  del  tutto conseguenziale la Corte, enucleando il c.d.
 principio della non dispersione o di conservazione  della  prova,  ha
 poi  affermato  che  -  proprio  in  virtu' del fatto che il fine del
 processo penale deve  individuarsi  nella  ricerca  della  verita'  -
 "l'oralita'  assunta  a  principio  ispiratore  del nuovo sistema non
 rappresenta, nella disciplina del codice,  il  veicolo  esclusivo  di
 formazione della prova nel dibattimento (....) di guisa che in taluni
 casi  in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato
 rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento  (sent.  n.  255
 del 1992).
   E  cio'  tanto  piu'  in  un  sistema  procedimentale  nel quale il
 pubblico ministero e' una parte processuale pubblica, "un  magistrato
 indipendente,  appartenente  all'ordine giudiziario che non fa valere
 interessi   particolari   ma   agisce   esclusivamente    a    tutela
 dell'interesse  generale all'osservanza della legge" (sent. n. 88 del
 1991); al quale e' percio' demandato anche il compito di svolgere gli
 accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta
 alle indagini ed i cui poteri discrezionali, in virtu' del  principio
 dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  sono  stati rigorosamente
 contenuti (cfr. sentenza n. 92 del 1992 con  la  quale  la  Corte  ha
 dichiarato  l'incompatibilita'  "con  un  ordinamento  costituzionale
 fondato sui principi di eguaglianza e di legalita'  della  pena"  nel
 giudizio  abbreviato  "che  affida(va) a scelte - immotivate e quindi
 insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad  un
 rito  dal  quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla
 determinazione della pena; sentenza 26 giugno 1990, n.  313,  che  ha
 ritenuto  illegittimo, nella parte in cui prevedeva per il giudice il
 potere di rigettare la richiesta di applicazione della pena  ritenuta
 non congrua).
   Dall'elaborazione  dei  principi  fin qui citati, la Corte ha anche
 individuato l'inesistenza nel  nostro  ordinamento  di  un  principio
 dispositivo  in  materia  di  tutela  giurisdizionale, che si estende
 anche in tema di prova, nel  senso  che  il  potere  del  giudice  di
 addivenire ad una giusta decisione non puo' mai essere subordinato al
 potere delle parti o a loro scelte processuali.
   Ed  infatti  nella  sentenza  del  26  marzo  1993,  n.  111, si e'
 affermato che la configurazione del potere istruttorio  conferito  al
 giudice dall'art. 507, c.p.p., non ha natura eccezionale.
   Nella  motivazione  di  tale sentenza la Corte, nel ribadire che la
 disponibilita' della tutela giurisdizionale assicurata  dal  processo
 penale  e'  indubbiamente  contraria  ai  principi  costituzionali di
 legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale, evidenzia  che  un
 principio  dispositivo  non  puo'  dirsi  esistente neanche sul piano
 probatorio  "perche'  cio'   significherebbe   rendere   disponibile,
 indirettamente  la  res  iudicanda".  E cio' soprattutto in relazione
 all'art. 507, c.p.p.,  la  cui  portata  normativa  inserita"  in  un
 sistema  imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova
 e nel quale l'acquisizione del materiale  probatorio  e'  rimessa  in
 primo  luogo  all'iniziativa  delle  parti,  conferisce al giudice il
 potere-dovere  d'integrazione  anche  d'ufficio,  delle   prove   per
 l'ipotesi  in cui la carenza o l'insufficienza, per qualsiasi ragione
 dell'iniziativa delle parti, impedisca al dibattimento  di  assolvere
 la  funzione  di  assicurare la piena conoscenza da parte del giudice
 dei  fatti oggetto del processo onde consentirgli di pervenire ad una
 giusta decisione".
   Anche del diritto  di  difesa,  garantito  dall'art.  24,  primo  e
 secondo  comma della Costituzione, la Corte costituzionale ha fornito
 la propria interpretazione, sottolineando come l'inviolabilita' dello
 stesso  imponga  sul  piano  processuale  che   l'ordinamento   debba
 adoperarsi  con ogni mezzo per consentire a chiunque di dimostrare la
 propria innocenza in ogni stato e grado  di  giudizio,  e  sul  piano
 tecnico  che non possano esservi spazi del thema decidendum sui quali
 l'imputato  non  possa  intervenire  criticamente,  come  del   resto
 espressamente sancito anche dall'art. 6 della Convenzione europea dei
 Diritti  dell'uomo,  sempre  piu' spesso richiamata anche dal giudice
 delle  leggi  per  individuare  i  principi  supremi  cui  il  nostro
 ordinamento deve uniformarsi.
   Talche' deve ritenersi incostituzionale - salvi casi eccezionali ed
 espressamente   previsti   -   qualsiasi  soluzione  legislativa  che
 sottragga alla parte, anche solo  parzialmente  e  per  singole  fasi
 processuali,  tale  potere  di  intervento,  ovvero  che sottragga al
 vaglio critico del dibattimento qualsiasi elemento di prova  prodotto
 dalle parti.
   Va  da  ultimo  sottolineato  che  al  piu'  generale  principio di
 solidarieta' previsto dall'art. 2 Cost., e' collegata l'esistenza dei
 cc.dd. "doveri  pubblici",  tra  i  quali  deve  ricomprendersi,  per
 costante  orientamento della Corte costituzionale, anche l'obbligo di
 rendere testimonianza.
   A  tale  dovere,  che  deve  essere  esercitato  nel   piu'   ampio
 perseguimento   dei   fini   del  processo  penale,  per  come  sopra
 evidenziati, possono essere imposte delle  limitazioni  solo  per  la
 tutela  di  altri  valori costituzionalmente garantiti da considerare
 prevalenti, in base ad un bilanciamento di interessi.
   Proprio in  considerazione  della  coesistenza  di  piu'  interessi
 diversamente  tutelati  dall'ordinamento,  puo'  cosi'  spiegarsi  la
 previsione normativa della facolta'  di  astensione  prevista  per  i
 prossimi  congiunti  nonche'  quella del diritto dell'imputato di non
 rispondere, che proprio perche' espressioni di diritti  "prevalenti",
 possono costituire deroghe eccezionali al dovere di testimoniare.
   5.  - Incostituzionalita' dell'art. 513, secondo comma, c.p.p., per
 contrasto con gli artt. 2, 3, 25 secondo comma, 111 Cost.
   In  relazione  a   tali   disposizioni   costituzionali,   la   cui
 interpretazione e' stata chiarita alla luce di quanto sopra espresso,
 va   rilevato   che   la  norma  in  questione  presenta  profili  di
 illegittimita' costituzionale nella parte in cui consente al soggetto
 citato ex art. 210, c.p.p., che durante le indagini preliminari aveva
 inteso  rispondere,  di  avvalersi  della  facolta'  di  non  rendere
 dichiarazioni in dibattimento.
   Il  carattere irragionevole di tale disposizione e di contrasto con
 i   principi   di   responsabilita'   e   collaborazione   in   vista
 dell'accertamento  della  verita'  che  questa  disciplina  presenta,
 appare ancora piu' evidente se si sottolinea che la  possibilita'  di
 "recedere"  da  una  scelta  precedentemente operata - il non essersi
 avvalso di tale facolta' nella fase delle  indagini  -  non  puo'  in
 realta'  giustificarsi con il principio del nemo tenetur se detegere,
 ossia con l'interesse del soggetto di non rendere  dichiarazioni  che
 possano  poi pregiudicarlo nel diverso procedimento nel quale riveste
 la qualita' di imputato.  Ed invero, in tale ultimo processo, qualora
 egli  dovesse  avvalersi della facolta' di non rispondere, subira' il
 ben diverso e piu' "dannoso" trattamento  previsto  dal  comma  primo
 dell'art.  513,  c.p.p., con la conseguente utilizzabilita' contra se
 delle dichiarazioni precedentemente rese al pubblico ministero.
   Proprio in virtu' di tale considerazione, non  puo'  non  ritenersi
 che  la  possibilita'  riconosciuta a tale soggetto di sottrarsi alla
 prova  dibattimentale,  appellandosi  alla   possibilita'   che   gli
 riconosce   il   legislatore  di  avvalersi  della  facolta'  di  non
 rispondere, non trova fondamento nel diritto di difesa  della  parte,
 risolvendosi  in  una  ingiustificata ed irragionevole violazione del
 generale dovere  di  collaborare  alla  ricerca  della  verita'  come
 innanzi  configurato.   Vanno in tal senso condivise ed integralmente
 richiamate in questa sede le argomentazioni  del  pubblico  ministero
 circa  il  contrasto  con  il  principio del libero convincimento del
 giudice ex art. 111 Cost., di una normativa che "... improvvisamente,
 in dipendenza della scelta di  (un)  soggetto  estraneo  al  processo
 sottrae  al  giudice  una  parte del thema decidendum e del materiale
 probatorio portatogli, senza per converso fornirgli alcuno  strumento
 per  sopperire,  in  vista dell'accertamento dei fatti, a tale lacuna
 che si viene a creare.
   6. - Incostituzionalita' dell'art. 513,  commi  1  e  2  c.p.p.,  e
 conseguentemente  dell'art.  514, c.p.p., per contrasto con gli artt.
 3, 24, secondo comma, 111 e 112 Cost.
   Appare di sospetta legittimita' costituzionale anche la  disparita'
 di trattamento che puo' verificarsi nel modo in cui viene assicurato,
 secondo la disciplina vigente, il diritto di difesa degli imputati ed
 in  particolare  il  diritto  al  controesame che costituisce momento
 essenziale nello svolgimento del processo.
   Ed invero, nel caso in cui due processi relativi allo stesso  fatto
 vengano trattati in momenti diversi, potra' verificarsi l'ipotesi che
 il  dichiarante,  in  uno  dei  processi, risponda alle domande delle
 parti,  mentre  nell'altro,  si  avvalga  della   facolta'   di   non
 rispondere.
   In  tale  seconda  ipotesi,  gli  imputati  si vedranno privati del
 diritto di controesaminare il dichiarante, vedendo cosi' leso il loro
 diritto di difesa che - come si e' visto in precedenza -, deve essere
 individuato  non  nella  possibilita'  di  sfuggire   comunque   alla
 condanna,  ma  nella  tutela riservata all'imputato di vedersi sempre
 assicurata la  possibilita'  di  fare  tutto  quanto  necessario  per
 dimostrare la propria innocenza.
   Tale  disparita'  di  trattamento  appare ancor piu' evidente se si
 considera che il giudice in un  caso  potra'  tenere  conto  di  tali
 dichiarazioni,  mentre  nell'altro caso si vedra' privato di elementi
 essenziali per il giudizio, per la sola decisione (rectius  arbitrio)
 di  un soggetto estraneo al processo, al quale viene riconosciuta una
 facolta' di astenersi dal rispondere, assolutamente non  collegata  -
 per  quanto  sopra  evidenziato  -  alla  tutela  del suo inviolabile
 diritto di difesa.
   Per comprendere  piu'  a  fondo  tale  aspetto  della  problematica
 sollevata  dal  pubblico  ministero,  il  Collegio ritiene necessario
 evidenziare  che,  se  costituisce  sicura  espressione  di  avanzata
 civilta'  giuridica, il consentire l'utilizzabilita' in dibattimento,
 solo subordinatamente al consenso della parte che non ha  partecipato
 al momento della loro assunzione, delle dichiarazioni rese nella fase
 delle  indagini  preliminari, potendo solo tale soggetto ripristinare
 l'avvenuta  violazione  del  principio  del  contraddittorio,  e'  da
 ritenersi,  invece, del tutto inconcepibile che tale possibilita' sia
 collegata alla scelta di un soggetto estraneo al processo.
   Tale  scelta,  infatti,  insindacabile  e  non  soggetta  ad  alcun
 controllo   e  sanzione,  costituisce  -  come  innanzi  ricordato  -
 violazione  del  principio  del  giusto   processo   e   del   libero
 convincimento  del giudice riconducibili all'art. 111 Cost., ed anche
 di  quello  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  regolato   dal
 successivo art. 112.
   7.  -  Incostituzionalita' dell'art. 513, c.p.p., per contrasto con
 gli artt. 3 e 111 della Cost.
   La disciplina introdotta dal novellato testo dell'art. 513, c.p.p.,
 presenta una irragionevole disparita' di trattamento  anche  rispetto
 al  regime previsto per l'analoga ipotesi di rifiuto di rispondere da
 parte del teste. In tale secondo caso, infatti,  ai  sensi  dell'art.
 511, c.p.p., le dichiarazioni rese dai testi che si sono rifiutati di
 rispondere,   verranno   lette   ed   acquisite   al   fascicolo  del
 dibattimento, senza alcuna possibilita' che la parte, il cui  diritto
 al  contraddittorio  risulta  comunque  violato,  possa impedire tale
 evenienza negando il proprio consenso alla loro utilizzazione.
   Per meglio comprendere tale profilo di  incostituzionalita',  basta
 sottolineare  come  le  persone  imputate in un procedimento connesso
 siano da sempre state individuate come una categoria  intermedia  tra
 quella dell'imputato e quella del teste.
   Ed  invero,  se  l'esame  dello  stesso e' inserito tra le fonti di
 prova, come quello dell'imputato, gli sono  estese  le  modalita'  di
 citazione  del  teste  e gli e' poi riconosciuta, in applicazione del
 gia' richiamato principio del nemo tenetur se detegere, la necessita'
 di farsi assistere da un difensore e la conseguente  possibilita'  di
 avvalersi della facolta' di non rispondere.
   Tali considerazioni, rapportate a quanto si e' gia' esposto in tema
 di  eccezionalita'  delle  ipotesi  di  deroga al generale obbligo di
 collaborazione  con  la  giustizia  alla  ricerca  della  verita',  e
 collegate  alla  esclusione di ogni pregiudizio che allo stesso possa
 derivare nel procedimento a  suo  carico,  comportano  una  oggettiva
 assimilazione  della  sua  posizione  a  quella del teste, per quanto
 attiene alle dichiarazioni rese  non  contro  se  stesso,  ma  contro
 terzi.
   Del resto la "peculiarita'" di tali dichiarazioni, rese da soggetto
 "interessato"  al  processo,  che  proprio  per questo possono essere
 inficiate  dall'esistenza   di   interessi   personali,   trova   una
 confortante  tutela  nella  speciale disciplina dettata dall'art. 192
 comma 3 e 4, c.p.p., in tema di valutazione della prova.
   Ulteriore  profilo  di   incostituzionalita'   della   disposizione
 prevista  dall'art. 513, c.p.p., non rilevato dal pubblico ministero,
 ma  ritenuto  sussistente  dal  collegio  sempre  in  relazione  alla
 disparita'  di  trattamento  tra  la posizione dell'imputato di reato
 connesso ed il testimone, va  ravvisato  nella  non  previsione,  nel
 testo  novellato  della  citata norma, di una diversa disciplina alla
 quale assoggettare le dichiarazioni precedentemente rese dai soggetti
 indicati nell'art. 210, c.p.p., nel caso in cui risulti  provato  che
 gli  stessi siano rimasti vittima di pressioni o minacce, come invece
 testualmente previsto in caso di esame testimoniale.
   Tale  mancata previsione, inizialmente prevista ma poi non trasfusa
 nel testo definitivo, appare sicuramente illogica ed  irrazionale  ed
 acquista  una  rilevanza  particolare  se  solo  si tiene conto della
 maggiore permeabilita'  a condizionamenti esterni di  tali  soggetti,
 derivante proprio dalla "ibrida" posizione processuale dagli stessi
  rivestita.
   Sempre  partendo  dall'elaborazione  dei  principi  fin qui esposti
 circa l'irragionevolezza di una  disparita'  di  trattamento  tra  la
 posizione del teste e quella di imputato di reato connesso per quanto
 non  attiene  alle  dichiarazioni  autoaccusanti,  appare  di  dubbia
 costituzionalita' anche la differenziazione tra  la  disciplina  alla
 quale  sono  soggette le disposizioni in tema di prossimi congiunti e
 quelle regolate dall'art.  513, c.p.p.
   Ed infatti, nel caso dei prossimi congiunti che si avvalgono  della
 facolta'  di non rispondere, la Corte costituzionale ha sostenuto che
 tale facolta' rappresenta una oggettiva  ed  imprevedibile  causa  di
 impossibilita'  di ripetizione dell'atto (sent. n. 179 del 1994), con
 conseguente  possibilita'  di   utilizzazione   delle   dichiarazioni
 precedentemente  rese  dai  prossimi congiunti che in dibattimento si
 erano  poi  avvalsi  della  facolta'  di  non   rispondere,   laddove
 nell'ipotesi  analoga  che qui ne occupa, la legge ha predisposto una
 disciplina basata sulla  utilizzabilita'  delle  stesse  solo  previo
 consenso delle parti.