ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei   giudizi   di   legittimita'   costituzionale  dell'art.  2  del
 decreto-legge 23 gennaio 1993, n.  16  (Disposizioni  in  materia  di
 imposte   sui  redditi,  sui  trasferimenti  di  immobili  di  civile
 abitazione, di termini per la definizione agevolata delle  situazioni
 e  pendenze  tributarie,  per  la  soppressione  della ritenuta sugli
 interessi, premi ed  altri  frutti  derivanti  da  depositi  e  conti
 correnti   interbancari,   nonche'  altre  disposizioni  tributarie),
 convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo  1993,  n.  75  e
 degli  artt. 2, comma 1, dello stesso decreto-legge e 1, comma 5, del
 decreto-legge 28 giugno 1995, n.  250 (Differimento di taluni termini
 ed  altre  disposizioni  in  materia  tributaria),  convertito,   con
 modificazioni,  nella  legge  8  agosto  1995,  n.  349, promossi con
 ordinanze  emesse,  l'una,  il  1  giugno  1995   dalla   Commissione
 tributaria di primo grado di Firenze, sui ricorsi riuniti proposti da
 Paladini  Giorgio  contro  l'Ufficio  tecnico  erariale  di  Firenze,
 iscritta al n. 392 del registro ordinanze  1996  e  pubblicata  nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  19, prima serie speciale,
 dell'anno 1996 e, l'altra,  il  15  ottobre  1996  dalla  Commissione
 tributaria  provinciale di Piacenza, sul ricorso proposto dalla Banca
 di Piacenza Soc. Coop. a r.l. contro l'Ufficio registro di  Piacenza,
 iscritta  al  n.  57  del  registro ordinanze 1997 e pubblicata nella
 Gazzetta  Ufficiale  della  Repubblica  n.  9,  prima serie speciale,
 dell'anno 1997;
   Visti gli atti di costituzione di Paladini Giorgio e della Banca di
 Piacenza Soc. Coop.  a  r.l.  nonche'  gli  atti  di  intervento  del
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 9 dicembre 1997 il giudice relatore
 Massimo Vari;
   Uditi  gli  avvocati  Felix  Hofer  per  Paladini  Giorgio, Massimo
 Luciani per la Banca di Piacenza Soc. Coop. a r.l. e l'Avvocato dello
 Stato Carlo Bafile per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
   1.1. - Con ordinanza del 1 giugno 1995 (r.o. n. 392 del  1996),  la
 Commissione  tributaria  di  primo  grado di Firenze ha sollevato, in
 riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 113 della Costituzione,  questione
 di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2  del  decreto-legge 23
 gennaio 1993, n. 16 (Disposizioni in materia di imposte sui  redditi,
 sui trasferimenti di immobili di civile abitazione, di termini per la
 definizione  agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la
 soppressione della ritenuta sugli interessi, premi  ed  altri  frutti
 derivanti  da  depositi  e conti correnti interbancari, nonche' altre
 disposizioni tributarie), convertito, con modificazioni, nella  legge
 24  marzo  1993,  n.  75 "nella parte in cui prevede la permanenza in
 vigore delle tariffe d'estimo e delle  rendite  gia'  determinate  in
 esecuzione del decreto ministeriale 20 gennaio 1990".
    1.2.  -  L'ordinanza  e'  stata assunta nell'ambito di tre giudizi
 riuniti aventi ad oggetto l'impugnativa, da parte di un contribuente,
 dell'accertamento della rendita catastale di  taluni  suoi  immobili,
 deducendo  l'illegittimita'  della stessa "per violazione di legge ed
 eccesso  di  potere"  del  decreto  ministeriale  20  gennaio   1990,
 concernente la revisione delle tariffe d'estimo.
   1.3. - Il giudice rimettente, richiamate le vicende giurisdizionali
 che  hanno interessato detto decreto, come pure quello successivo del
 27  settembre  1991,  al  cui  annullamento  ha  fatto   seguito   la
 disposizione denunciata, reputa quest'ultima in contrasto, anzitutto,
 con  gli  artt. 3 e 53 della Costituzione, in quanto il "criterio del
 valore  unitario  di  mercato  ordinariamente  ritraibile",  cui   fa
 riferimento  il primo comma della disposizione stessa, ha "esposto ed
 espone gli Uffici tecnici erariali  -  nel  periodo  transitorio  che
 doveva  durare  fino al 1994, ma che e' stato poi prorogato fino al 1
 gennaio 1998 - al rischio concreto di  attribuire  rendite  catastali
 superiori  a quelle effettive, determinando cosi', nella liquidazione
 delle singole imposte, una ingiusta erosione del patrimonio  e  dando
 luogo ad effettive situazioni di disparita' di trattamento con palese
 violazione  del  principio  di  uguaglianza  e di quello di capacita'
 contributiva".  Ad avviso dell'ordinanza non giova  obiettare,  cosi'
 come  fa la Corte costituzionale, nella sentenza n. 263 del 1994, che
 la  verifica  di  costituzionalita'  va  operata  nell'ambito   della
 disciplina  delle  singole imposte. In molti casi, come ad esempio in
 materia di IRPEF, in cui  l'imposta  e'  applicata  direttamente  dal
 contribuente  in  base  ad una sua autodichiarazione, l'adesione alle
 suddette argomentazioni costringerebbe il cittadino  ad  iniziare  un
 procedimento  quanto  mai  macchinoso  e dispendioso, al solo fine di
 sollevare le eccezioni  di  illegittimita'  costituzionale,  e  cioe'
 "richiesta     di     rimborso    all'amministrazione    finanziaria,
 silenzio-rifiuto,  ricorso avverso tale silenzio-rifiuto dinanzi alle
 Commissioni  tributarie".     Secondo  il  rimettente,   il   profilo
 d'illegittimita'  denunziato  si  appalesa rilevante, poiche' - salvo
 verifica in  sede  di  esame  di  merito  di  quanto  illustrato  dal
 contribuente  -  l'applicazione  della  rendita catastale, in base ai
 parametri cui fa riferimento l'art.  2 del decreto-legge  denunciato,
 evidenzia, nella fattispecie, una notevole difformita' "tra il valore
 catastale  ed  il  valore  reale  di mercato degli immobili attuale o
 quello riferito al periodo 1988-1989".
   1.4.  -  Ugualmente   ammissibili   e   rilevanti   sono,   secondo
 l'ordinanza,  altri  due  profili  di incostituzionalita'.   Il primo
 riguarda la violazione dell'art. 3 della Costituzione, in  quanto  la
 "legificazione"   delle   tariffe   d'estimo,   fissate  dai  decreti
 ministeriali  20  gennaio  1990  e  27  settembre  1991,  da'   luogo
 "all'attribuzione  di  fatto,  in  linea  diretta ed immediata, delle
 rendite catastali alle unita' immobiliari", donde la conclusione che,
 in tal modo, il legislatore e' venuto  a  sostituirsi  alla  pubblica
 amministrazione,     esercitando     "una     funzione    tipicamente
 amministrativa" e ponendo in  essere  un  "comportamento  viziato  da
 eccesso di potere ed irragionevolezza".
   1.5. - L'altro profilo concerne, invece, la lesione degli artt.  24
 e 113 della Costituzione, avendo il legislatore precluso al cittadino
 qualsiasi  possibilita'  di  difesa  giurisdizionale di fronte ad una
 disciplina   che,   nell'assorbire    concretamente    la    funzione
 amministrativa,  appare  atta  ad incidere sulle posizioni soggettive
 dei privati "con riguardo ai parametri di individuazione in  concreto
 degli  elementi  di  fatto"  da  cui  trae  origine  la potenzialita'
 reddituale".
   1.6. - La parte privata, nel costituirsi in giudizio, ha depositato
 una memoria in cui, nel lamentare che il valore  assegnato  alle  sue
 unita'  immobiliari  sia  molto  piu' alto di quello riscontrabile in
 riferimento alla realta' oggettiva del  mercato  immobiliare  locale,
 segnala  l'esigenza di una riconsiderazione del carattere transitorio
 della disciplina impugnata, da cui deriverebbe,  giusta  la  sentenza
 della  Corte  n.  263  del 1994, la mancanza di potenzialita' lesiva,
 visto che la disciplina stessa e'  stata  prorogata  al  31  dicembre
 1998.    Si  osserva,  inoltre,  che:    il meccanismo, automatico ed
 implicito,  con  il  quale  e'  stata  attribuita  la  nuova  rendita
 catastale  agli  immobili  di  proprieta'  del ricorrente, implica, a
 carico di quest'ultimo, "evidenti esiti di accertamento  tributario",
 realizzato   all'insaputa   dell'interessato,   senza   il   rispetto
 dell'obbligo di motivazione e di congrua esternazione dei criteri  di
 calcolo e dei parametri utilizzati per stabilire il valore di mercato
 degli  immobili,  con  conseguente  lesione  del  diritto  di difesa,
 violazione  del  principio  di  ragionevolezza  ex   art.   3   della
 Costituzione  e  preclusione del sindacato giurisdizionale assicurato
 dall'art.  113  e  dai  dettami  di  trasparenza  ex  art.  97  della
 Costituzione;  sotto  ulteriore  e  diverso  profilo, la disposizione
 denunciata  si  pone  in  contrasto  con  gli  artt.  3  e  53  della
 Costituzione, in quanto il criterio fissato nel primo comma dell'art.
 2  del  decreto-legge  n.  16  del  1993  (valore unitario di mercato
 ordinariamente ritraibile)  da'  luogo  all'attribuzione  di  rendite
 catastali  superiori  a  quelle  effettive,  con  assegnazione  di un
 reddito astratto e virtuale,  trascurando  che  le  presunzioni,  per
 potere  essere  conformi  al  principio  di  capacita'  contributiva,
 debbono essere confortate da elementi concreti che  le  giustifichino
 razionalmente.    Ne', ad avviso della parte privata, la problematica
 in esame puo' essere spostata  in  altra  sede  e,  segnatamente,  in
 quella  in  cui  si  attuano i procedimenti applicativi delle singole
 imposte, per le difficolta' e preclusioni  oggettive  che  spesso  si
 oppongono  a  tale  trasferimento.    In  definitiva, il legislatore,
 prevedendo la permanenza in vigore delle  tariffe  d'estimo  e  delle
 rendite gia' determinate in esecuzione del decreto del Ministro delle
 finanze  20  gennaio  1990,  e'  giunto  ad assegnare direttamente le
 rendite  alle  singole  unita'  immobiliari,  appropriandosi  di  una
 funzione  tipicamente amministrativa e ponendo in essere disposizioni
 viziate   da   "eccesso   di   potere   legislativo",   nonche'    da
 irragionevolezza,  censurabili  ex  art.  3  della  Costituzione, non
 potendo  i  precetti  legislativi  "trasmodare  in   un   regolamento
 irrazionale"  che incide arbitrariamente sulle situazioni sostanziali
 poste in essere da leggi  precedenti,  frustrando  l'affidamento  del
 cittadino nella sicurezza giuridica.  Esito conseguenziale di cio' e'
 la  violazione  anche  degli  artt.   24 e 113 della Costituzione, in
 quanto  l'assorbimento  della  funzione  amministrativa   in   quella
 legislativa  elimina  ogni possibilita' di tutela giurisdizionale dei
 singoli cittadini, per l'impossibilita' di impugnare,  di  fronte  al
 giudice  amministrativo  ovvero  di  fronte al giudice tributario, un
 provvedimento legislativo.
   1.7. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, per chiedere  che  la  questione  sollevata  venga  dichiarata
 inammissibile  ovvero rigettata.   In via pregiudiziale, l'Avvocatura
 sostiene  il  difetto  di  rilevanza   delle   prospettate   censure,
 osservando  che  l'oggetto  del processo principale e' l'impugnazione
 dell'avviso di classamento, sicche' il ricorso puo' portare  solo  ad
 una   modifica   della  categoria  e  della  classe  di  appartenenza
 dell'immobile. Tutt'altro problema e', invece, quello  della  tariffa
 "che   puo'  essere  affrontato  innanzi  alle  Commissioni  solo  in
 connessione con un atto che concerne la determinazione di  una  delle
 imposte  sulle quali e' rilevante il reddito catastale".  Nel merito,
 la difesa erariale rileva che l'ordinanza di rimessione si  limita  a
 prospettare  "il  rischio"  che  il reddito, per effetto del criterio
 fissato  dalla  norma  denunziata,  risulti  superiore  alla  rendita
 effettiva, sicche' la illegittimita' si fonda sulla eventualita' che,
 nel   caso   del  ricorrente  (e  non  in  termini  generali),  possa
 verificarsi (ma e' solo un sospetto da  verificare)  una  valutazione
 sproporzionata.    In  ogni  caso,  l'ordinanza  fa riferimento ad un
 reddito astratto, quale risulta  a  seguito  del  classamento,  senza
 considerare   che   la  verifica  del  rispetto  dell'art.  53  della
 Costituzione si puo' fare solo a fronte di "una imposizione effettiva
 e  non  potenziale",  promuovendo   un   ricorso   contro   un   atto
 dell'ufficio.
   1.8.  -  In prossimita' della trattazione del giudizio, fissata, in
 un primo tempo, per la camera di consiglio  del  9  aprile  1997,  la
 parte  privata  ha  depositato  una  memoria, in cui, replicando alle
 deduzioni dell'Avvocatura dello Stato, si  sostiene  che  il  giudice
 tributario  ha  ritenuto  di  dover nuovamente investire la Corte del
 sindacato  di  costituzionalita'   della   disposizione   denunciata,
 perche',   nel   caso   oggetto  di  giudizio,  esiste  una  notevole
 difformita' tra valore catastale e  valore  reale  di  mercato  degli
 immobili,  onde  si e' verificata proprio l'ipotesi prospettata nella
 sentenza della Corte n. 263 del 1994, nel  senso  che  l'applicazione
 dei  criteri  contenuti  nella norma al vaglio della Corte ha portato
 all'attribuzione di  una  rendita  notevolmente  superiore  a  quella
 effettiva,  con violazione degli artt. 3 e 53 della Costituzione.  Si
 nega,  peraltro,  che  oggetto  della   impugnazione   nel   giudizio
 principale  sia  un  avviso di classamento, assumendo che oggetto del
 giudizio  e',  invece,   l'attribuzione   della   rendita   catastale
 intervenuta  a  seguito della revisione delle tariffe d'estimo e che,
 quindi, si tratta di una controversia sicuramente di  competenza  del
 giudice  tributario.    Rammentato che la sentenza della Corte n. 263
 del 1994 ha ritenuto che, nel caso allora in esame,  non  risultavano
 prospettati   profili   idonei   a   concretamente   evidenziare  una
 incongruita' dei criteri di determinazione  dei  valori  rispetto  al
 fine  che  si  era inteso perseguire, si sostiene che la pronunzia ha
 lasciato aperta la via per un vaglio di costituzionalita' della legge
 nelle ipotesi in cui la concreta  applicazione  di  quest'ultima  dia
 luogo  ad  una rendita catastale superiore all'effettiva. Confutando,
 poi,  la  tesi  della  difesa  erariale  che  ritiene  la   questione
 prospettata  in  astratto,  si  osserva  che l'applicazione dei nuovi
 criteri ha comportato l'attribuzione di un reddito  assai  "concreto"
 cui  il  cittadino  deve  fare  riferimento  per  ogni  incombenza  a
 carattere fiscale (in particolare, in  sede  di  autoliquidazione  ai
 fini  IRPEF).   Non condividendo le indicazioni della difesa erariale
 circa le vie consentite al contribuente, per proporre la questione di
 legittimita' costituzionale dei  criteri  determinativi  delle  nuove
 rendite  catastali, si ribadisce che la norma denunciata ha assegnato
 le  nuove   rendite   alle   singole   unita'   immobiliari   urbane,
 appropriandosi  di  una  funzione  tipicamente  amministrativa. Si e'
 cosi'   realizzata   una   disciplina   palesemente   arbitraria   ed
 irragionevole che, come risulta dalle perizie depositate nel giudizio
 principale,  ha  portato  all'attribuzione,  in  concreto, di rendite
 assolutamente esorbitanti rispetto  alla  realta',  senza  che  siano
 state svolte dal legislatore la necessaria attivita' istruttoria e la
 indispensabile   valutazione  dei  concreti  elementi  di  fatto  che
 avrebbero dovuto necessariamente precedere l'attivita' amministrativa
 di attribuzione della rendita catastale.  Quanto al  contrasto  della
 norma  censurata  con  gli  artt.  24  e  113  della Costituzione, si
 sostiene che, nel momento in cui l'attivita'  amministrativa  risulta
 interamente  assorbita dalla potesta' legislativa, si nega al privato
 la  necessaria  tutela,  non  essendo  il  provvedimento  legislativo
 impugnabile  di  fronte ad alcuna autorita' giudiziaria.  Inoltre, la
 parte privata, nel rammentare che la sentenza n. 263 del  1994  aveva
 giudicato  non  fondata  la  questione di legittimita' costituzionale
 della normativa in esame  anche,  e  soprattutto,  in  considerazione
 della  transitorieta'  della  disciplina  denunciata, rileva che tale
 transitorieta' e' venuta meno a seguito  delle  successive  proroghe.
 Ricordato,   infine,   che   gli   stessi   giudici   amministrativi,
 nell'annullare i decreti,  avevano  ammonito  che  la  semplice  loro
 legificazione    avrebbe   comunque   sottoposto   il   provvedimento
 legislativo a chiari dubbi di costituzionalita', si  afferma  che  al
 legislatore  non  e'  consentito spingersi fino al punto di stabilire
 egli  stesso  le  singole  rendite,  determinando cosi' addirittura i
 presupposti di fatto dell'imposizione tributaria.
   1.9. - In prossimita' della  odierna  udienza  pubblica,  la  parte
 privata  ha  depositato una ulteriore memoria in cui si riconfermano,
 sostanzialmente, le considerazioni in  precedenza  svolte  non  senza
 rilevare  che,  nel  caso  di  specie,  l'ordinanza della Commissione
 tributaria ha ravvisato  un  classico  esempio  di  incongruita'  dei
 criteri  di determinazione normativamente stabiliti, per la discrasia
 tra i risultati ottenuti e la  reale  redditivita'  del  bene.    Nel
 contestare  l'affermazione  dell'Avvocatura  dello  Stato  secondo la
 quale la lamentata illegittimita' costituzionale si fonderebbe "sulla
 eventualita' che nel caso del ricorrente (e non in termini  generali)
 possa  verificarsi  (ma  e'  solo  un  sospetto  da  verificare)  una
 valutazione   sproporzionata",   si   ricorda   che,    secondo    la
 giurisprudenza,  le  leggi provvedimento, pur ammissibili in linea di
 principio,   devono,   tuttavia,   conformarsi   ai    principi    di
 ragionevolezza e di buon andamento.
   2.1.  -  La  Commissione  tributaria  provinciale  di Piacenza, con
 ordinanza del 15 ottobre 1996 (r.o. n. 57 del  1997),  ha  sollevato,
 due  questioni di legittimita' costituzionale, concernenti, la prima,
 l'art. 2 del gia' menzionato decreto-legge 23 gennaio  1993,  n.  16,
 "convertito,  con  modificazioni,  nella  legge 24 marzo 1995, n. 75"
 (recte: 24 marzo 1993, n. 75), censurato per contrasto con gli  artt.
 3  e 53 della Costituzione, "nella parte in cui prevede la permanenza
 in vigore delle tariffe d'estimo e delle rendite gia' determinate  in
 esecuzione  del decreto ministeriale 20 gennaio 1990"; e, la seconda,
 l'art.  2, comma 1, "della legge n. 75 del 1993"  (recte:  l'art.  2,
 comma  1,  del  decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con
 modificazioni, nella legge 24 marzo 1993, n. 75), nonche'  l'art.  1,
 comma  5,  del  decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250 (Differimento di
 taluni  termini  ed  altre  disposizioni  in   materia   tributaria),
 convertito,  con  modificazioni,  "nella legge 8 agosto 1995, n. 344"
 (recte: n. 349), denunciati per contrasto con gli artt. 24, 101, 102,
 103 e 104 della Costituzione.
   2.2. - Le questioni sono state sollevate nell'ambito di un giudizio
 avente ad oggetto la richiesta avanzata dalla Banca di Piacenza, Soc.
 coop. a r.l., per il rimborso di  somme  pagate  a  titolo  di  INVIM
 straordinaria,  sui  valori  finali  degli immobili di sua proprieta'
 alla data del 31  ottobre  1991;  INVIM  calcolata  applicando,  alle
 rendite  catastali determinate a seguito della revisione disposta dal
 piu' volte  menzionato  decreto  ministeriale  20  gennaio  1990,  "i
 moltiplicatori  di  cui  all'art. 1, comma 8, della legge 18 novembre
 1991, n. 365" (recte: art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre
 1991, n.  299, convertito, con modificazioni, nella legge 18 novembre
 1991, n. 363).  Il giudice rimettente, nel rilevare che la originaria
 transitorieta' della disciplina di cui all'art. 2  del  decreto-legge
 n.  16  del  1993  -  su cui si fonda la declaratoria di infondatezza
 contenuta nella sentenza di questa Corte n. 263 del 1994 - e'  venuta
 meno  a  seguito  della  proroga della disciplina stessa al 1 gennaio
 1997 (in forza dell'art. 1, comma 5, del  decreto-legge  n.  250  del
 1995,  nonche'  dell'ulteriore  proroga risultante dalla legge n. 549
 del 1995 e dal disegno di legge  collegato  alla  finanziaria  1997),
 ritiene  che  l'articolo denunciato sia stato salvato dal giudizio di
 illegittimita' sul presupposto che l'operativita' della  disposizione
 di  legge  sarebbe  stata  temporanea e che la transitorieta' sarebbe
 cessata con la revisione  delle  tariffe,  da  attuarsi  entro  il  1
 gennaio  1995.  L'inerzia  del  legislatore  giustifica,  percio', la
 riproposizione della questione di legittimita' costituzionale,  sotto
 il  profilo  del  contrasto  con gli artt. 3 e 53 della Costituzione,
 essendo la disposizione irragionevole  e  tale  da  "dar  luogo  alla
 determinazione  e  alla  applicazione di redditi superiori e comunque
 diversi  da  quelli  voluti  dal  legislatore,  con   situazioni   di
 disparita' di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza
 e di quello di capacita' contributiva".
   2.3. - Ad avviso dell'ordinanza, la continua dilatazione del regime
 transitorio  di  applicazione  dei criteri dichiarati illegittimi dal
 TAR Lazio  (e  legificati  in  modo  asseritamente  temporaneo  dalla
 predetta  legge  n.  75  del  1993)  impone  un  riesame  anche delle
 questioni gia' esaminate e respinte dalla Corte costituzionale  nella
 citata  sentenza n. 263 del 1994, relative al contrasto "dell'art. 2,
 comma 1, secondo  periodo,  della  legge  n.  75  del  1993"  (recte:
 dell'art.  2,  comma  1,  del  decreto-legge  23 gennaio 1993, n. 16,
 convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 1993,  n.  75)  e
 dell'art.  1,  comma  5,  del  decreto-legge  28 giugno 1995, n. 250,
 convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n. 349, con
 gli artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione. Atteso  che  la
 transitorieta' della richiamata situazione e' destinata a protrarsi e
 non  si  avverte  una soluzione in tempi brevi del problema, la Corte
 costituzionale dovra', pertanto, valutare se  il  fine  delle  citate
 norme  non  sia stato proprio quello "di vanificare gli effetti della
 sentenza  del  TAR,  con   conseguente   straripamento   del   potere
 legislativo in quello giudiziario".
   2.4.  -  Si  e'  costituito  in  giudizio  il contribuente che, nel
 rilevare il carattere  ormai  stabile  assunto  dalla  disciplina,  a
 seguito  dell'art.    3,  comma 155, della legge n. 662 del 1996, per
 effetto del quale la decorrenza dell'applicazione  dei  nuovi  estimi
 catastali  e' in pratica senza termine, ritiene che occorra giungere,
 ormai, a conclusioni opposte a quelle della sentenza n. 263 del 1994.
 In primo luogo, riprende tutta la sua importanza il  rilievo  secondo
 il quale il legislatore non puo' "convalidare" un atto amministrativo
 illegittimo   e   gia'   annullato  senza  invadere  la  sfera  delle
 attribuzioni  dell'amministrazione  e  del  potere  giudiziario.  Nel
 nostro   ordinamento   la  convalida  degli  atti  amministrativi  e'
 possibile solo in sede di autotutela, mentre e', a dir  poco,  dubbio
 che  il  legislatore  possa,  con  norma  singolare, convalidare atti
 amministrativi illegittimi e annullati, senza violare gli artt.  3  e
 97  della  Costituzione.    Infatti,  i  principi  costituzionali  di
 uguaglianza  e  di  imparzialita',  oltre   che   il   principio   di
 affidamento,  escludono che la legge possa liberamente disporre - con
 effetti nei  singoli  casi  e  quindi  con  incisione  su  situazioni
 soggettive  tutelate  -  del  contenuto  e  degli  effetti degli atti
 amministrativi, come e' avvenuto nella specie.   Nel  rilevare,  poi,
 che  il  principio del giusto procedimento esige che il provvedimento
 che incide su situazioni giuridiche tutelate  sia  preceduto  da  una
 definizione  legislativa  di  criteri e condizioni, si osserva che la
 distinzione tra  regola  e  applicazione  della  regola  e'  talmente
 fondamentale,  nel  disegno costituzionale delle fonti normative, che
 ogni deroga alla stessa, come di recente ribadito dalla stessa Corte,
 deve  essere  oggetto  di  uno  scrutinio  particolarmente  stretto e
 rigoroso (sentenza n. 2 del 1997).  Osserva, ancora, la  memoria  che
 il  legislatore,  legificando  gli  atti amministrativi annullati, ha
 perseguito il fine di  superare  ed  anzi  di  violare  il  giudicato
 prodottosi   a   seguito   dell'annullamento   dei   vecchi   decreti
 ministeriali, disattendendo cosi' le disposizioni della  Costituzione
 che  assicurano il diritto di agire in giudizio, l'indipendenza della
 funzione giurisdizionale e la tutela dei diritti  e  degli  interessi
 contro  gli  atti  della pubblica amministrazione.   Altro profilo di
 illegittimita' risiederebbe nella contraddittorieta' e, quindi, nella
 contrarieta'  al  principio  di   razionalita'   della   disposizione
 contenuta  nell'art.  2,  comma 1, del decreto-legge n.  16 del 1993:
 essa, da un lato, prevede che la nuova revisione  delle  tariffe  sia
 effettuata   secondo   criteri   aventi  riguardo  al  reddito  medio
 dell'immobile e, dall'altro, dispone, fino alla revisione stessa,  la
 permanenza  in  vigore  delle tariffe degli estimi formati sulla base
 del diverso criterio stabilito dal decreto  ministeriale  20  gennaio
 1990;    criterio    che,    dichiarato   illegittimo   dal   giudice
 amministrativo, viene mantenuto in  vita  per  un  tempo  illimitato.
 Nell'evidenziare,   infine,   la   ingiustificata   e   irragionevole
 disparita' di trattamento tra le situazioni giuridiche regolate dalle
 tariffe di estimo determinate ai sensi dei  decreti  ministeriali  20
 gennaio 1990 e 27 settembre 1991, fondate sul criterio del valore del
 bene,  e  quelle  passate  e  future  regolate secondo il criterio di
 redditivita' del bene, si sostiene che la  tassazione  delle  rendite
 immobiliari,  fondata  su  una  ipotesi di fruttuosita' dell'immobile
 determinata con  criteri  di  tipo  patrimoniale,  contrasta  con  il
 principio  di  capacita'  contributiva  e  di  progressivita'  di cui
 all'art. 53, in relazione all'art. 3, della Costituzione: a  meno  di
 non  voler  rischiare  di  introdurre  nel  sistema  un  elemento  di
 incoerenza, il riferimento ad estimi determinati con il criterio  del
 valore    non    potrebbe   ragionevolmente   utilizzarsi   ai   fini
 dell'applicazione di imposte sul reddito, atteso che in tal modo  non
 si   terrebbe   conto   della  capacita'  contributiva  del  soggetto
 d'imposta, con l'eventualita' di tassare redditi superiori  a  quelli
 reali.
   2.5.  -  Il  Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
 difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  e'  intervenuto  in
 giudizio  chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o
 rigettate per infondatezza.   La difesa  erariale,  rilevato  che  la
 materia  del  contendere nel giudizio principale riguarda il rimborso
 dell'INVIM straordinaria pagata il 20 dicembre 1991, sulla  base  dei
 valori  finali  degli  immobili  alla  precedente data del 31 ottobre
 1991, reputa irrilevante  l'eventuale  illegittimita'  costituzionale
 sopravvenuta  della  disposizione,  a  causa della mancata successiva
 revisione delle tariffe.  Secondo l'Avvocatura, ulteriore  motivo  di
 inammissibilita'  consegue  alla  considerazione  che, nell'INVIM, il
 valore finale non e' determinato in base  agli  estimi  catastali  in
 modo  cogente,  in  quanto il contribuente ha facolta' di invocare il
 reddito catastale capitalizzato con l'applicazione di un coefficiente
 ex art. 1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299,  per
 evitare  che  l'ufficio  accerti il valore venale, senza tuttavia che
 sia impedito al contribuente stesso di dichiarare un valore inferiore
 a quello tabellare, e di svincolarsi cosi' dalla  operativita'  della
 tariffa di estimo.
   2.6.  -  In prossimita' della udienza pubblica, la parte privata ha
 depositato una ulteriore  memoria  nella  quale,  nel  contestare  le
 eccezioni   di   irrilevanza  prospettate  dall'Avvocatura  erariale,
 sostiene che le norme censurate  sono  da  reputare  illegittime  fin
 dall'inizio ed in radice.  Quanto all'altra eccezione sollevata dalla
 difesa  erariale  -  nel senso che la questione sarebbe inammissibile
 poiche' il contribuente potrebbe svincolarsi dalla tariffa  d'estimo,
 dichiarando  un  valore inferiore e sottoponendosi, cosi', alla stima
 del valore corrente in commercio - si rileva che, nel caso di specie,
 e'  in  discussione  il  mancato  rimborso  dell'INVIM  straordinaria
 calcolata  sui  valori  finali gia' ottenuti applicando, alle rendite
 catastali,  i  moltiplicatori  di  cui  all'art.  1,  comma  8,   del
 decreto-legge  13  settembre  1991, n. 299. Onde il giudice a quo non
 poteva non considerare come base del  calcolo  le  rendite  catastali
 medesime e, altrettanto conseguentemente, non sollevare la questione.
 Il  suggerimento  della  difesa  erariale (di esporsi, dichiarando un
 valore  inferiore  a  quello  catastale,  al  rischio  di   ulteriori
 accertamenti,  allo  scopo  di  invocare  come  base  di  calcolo  la
 redditivita'   dell'immobile),   dimostrerebbe   la   gravita'    del
 pregiudizio  che  il  contribuente subisce in forza dell'applicazione
 dei criteri contestati e,  parimenti,  la  maggiore  plausibilita'  e
 conformita'  a Costituzione del criterio della redditivita'.  Secondo
 la parte,  anche  la  specifica  normativa  sull'INVIM  straordinaria
 consente   di   riscontrare   l'irragionevolezza   del   criterio  di
 determinazione delle rendite catastali basato sul valore  di  mercato
 dell'immobile,   dal   momento   che   e'   la  stessa  procedura  di
 capitalizzazione delle rendite, ai fini  della  comparazione  con  il
 valore accertabile d'ufficio, a perdere di significato e ad assumerne
 uno  fuorviante  ed arbitrario, se quelle che si chiamano rendite non
 vengono correlate al reddito.   In  sostanza  una  rendita  catastale
 cosi'  stabilita e' irragionevole ex artt. 3 e 53 della Costituzione,
 perche' cessa di essere, puramente  e  semplicemente,  vera  rendita,
 mentre  le  stesse  risultanze catastali, che la legislazione vigente
 vorrebbe significative della redditivita' dell'immobile,  cessano  di
 assolvere  la  loro  funzione.    Nel  rilevare come venga cosi' meno
 quell'effetto di certezza che il catasto e la  stessa  determinazione
 delle  rendite  catastali  esplicano  circa la redditivita' dei beni,
 anche a fini diversi da quelli fiscali,  si  ribadisce,  infine,  che
 cade  anche  la  giustificazione - accolta dalla giurisprudenza della
 Corte (sentenza  n.  263  del  1994)  per  rigettare  le  censure  di
 illegittimita' costituzionale formulate nei confronti della normativa
 de  qua  - della transitorieta' del regime contestato; transitorieta'
 sostituita, a causa della proroga sine die delle  rendite  catastali,
 dalla  ordinarieta'  che non puo' non travolgere il regime stesso non
 solo de futuro,  bensi'  anche  de  praeterito.    Rilevata,  infine,
 l'incostituzionalita'  dell'adozione  con  decreto-legge di norme che
 fanno  riferimento  a  provvedimenti  ad  emanazione   ed   efficacia
 differita,  come  quelli  di revisione generale delle tariffe e delle
 rendite di cui all'art. 2  del  decreto-legge  n.  16  del  1993,  si
 sostiene  che  le  disposizioni  censurate,  nel  pretendere  di  far
 rivivere il decreto  ministeriale  20  gennaio  1990,  censurato  dal
 giudice  amministrativo,  violano  gli  artt. 24, 101, 102, 103 e 104
 della Costituzione, sottolineando,  al  riguardo,  che  il  combinato
 disposto degli artt. 2 del decreto-legge n. 16 del 1993 e 1, comma 5,
 del  decreto-legge n. 250 del 1995, fa riferimento, per la decorrenza
 (ormai protratta sine die) dell'applicazione delle tariffe d'estimo e
 delle rendite catastali di cui al predetto decreto, ad una data (il 1
 gennaio 1992) anteriore  all'annullamento  pronunciato  dal  TAR  del
 Lazio  (il  6  maggio  1992).  E cio' dimostrerebbe "come e quanto il
 legislatore abbia proprio inteso opporsi frontalmente alla  pronuncia
 del  giudice  amministrativo",  con  un  intento  lesivo dei principi
 dell'effettivita' della  tutela  giudiziaria,  dell'indipendenza  del
 giudice e dell'intangibilita' del giudicato.
                        Considerato in diritto
   1. - Le questioni sollevate con le ordinanze in epigrafe investono,
 sotto  vari  profili,  l'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio 1993, n.
 16 (Disposizioni in materia di imposte sui redditi, sui trasferimenti
 di immobili di civile  abitazione,  di  termini  per  la  definizione
 agevolata delle situazioni e pendenze tributarie, per la soppressione
 della  ritenuta  sugli  interessi, premi ed altri frutti derivanti da
 depositi e conti correnti interbancari,  nonche'  altre  disposizioni
 tributarie),  convertito,  con  modificazioni,  nella  legge 24 marzo
 1993, n. 75, e l'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28  giugno  1995,
 n.  250  (Differimento  di  taluni  termini  ed altre disposizioni in
 materia tributaria), convertito, con  modificazioni,  nella  legge  8
 agosto 1995, n. 349.
   2.  -  I  giudizi,  avendo  ad oggetto questioni tra loro connesse,
 vanno riuniti per essere decisi con una unica sentenza.
   3. - La Commissione tributaria di primo  grado  di  Firenze  dubita
 della  legittimita' costituzionale della prima delle sopra menzionate
 disposizioni e cioe' dell'art. 2 del decreto-legge 23  gennaio  1993,
 n.  16,  "nella  parte  in  cui prevede la permanenza in vigore delle
 tariffe di estimo e delle rendite gia' determinate in esecuzione  del
 decreto ministeriale 20 gennaio 1990".
   Come  e' noto, tale disposizione e' intervenuta dopo che il giudice
 amministrativo aveva annullato quest'ultimo decreto, come pure quello
 successivo del  27  settembre  1991,  contenente  i  prospetti  delle
 tariffe   d'estimo  delle  unita'  immobiliari  urbane  per  l'intero
 territorio nazionale, avendo ritenuto  che  il  criterio  del  valore
 unitario di mercato ordinariamente ritraibile, alla stregua del quale
 il  primo  dei cennati decreti aveva autorizzato la revisione di tali
 tariffe, fosse in contrasto con le norme sul catasto.
   3.1.  -  Ad  avviso  del  rimettente,  la  disposizione  denunciata
 colliderebbe con:
     gli  artt. 3 e 53 della Costituzione, posto che il riferimento al
 "criterio del valore unitario di mercato  ordinariamente  ritraibile"
 espone  gli  uffici  tecnici  erariali  nel  periodo transitorio, che
 doveva durare fino al 1994, ma che e' stato poi prorogato fino  al  1
 gennaio  1998, al rischio di attribuire rendite catastali superiori a
 quelle  effettive,  determinando  cosi',  nella  liquidazione   delle
 singole imposte, una ingiusta erosione del patrimonio e dando luogo a
 situazioni  di  disparita'  di trattamento, con palese violazione del
 principio di uguaglianza e di quello di capacita' contributiva;
     l'art. 3 della Costituzione, per avere  il  legislatore  attuato,
 attraverso la "legificazione" delle tariffe, l'attribuzione di fatto,
 in  linea  diretta  ed immediata, delle rendite catastali alle unita'
 immobiliari,    sostituendosi    alla    pubblica    amministrazione,
 nell'esercizio  di  una potesta' tipicamente amministrativa e ponendo
 in  essere  "un  comportamento  viziato  da  eccesso  di  potere   ed
 irragionevolezza";
     gli  artt.  24  e  113  della Costituzione, per avere precluso al
 cittadino qualsiasi possibilita' di difesa giurisdizionale, di fronte
 ad una disciplina normativa che  assorbe  concretamente  la  funzione
 amministrativa  e  che e' atta ad incidere sulle posizioni soggettive
 dei privati, con riguardo ai parametri di individuazione in  concreto
 degli  elementi  di  fatto da cui origina la potenzialita' reddituale
 del contribuente.
   3.2. - Va esaminata, in via pregiudiziale, la  eccezione  sollevata
 dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale sostiene l'irrilevanza
 della    questione,    essendo   il   giudizio   principale   rivolto
 all'impugnazione   dell'avviso   di   classamento,   si'   da   poter
 eventualmente mettere capo soltanto ad una modifica della categoria e
 della   classe   di  appartenenza  dell'immobile;  mentre  tutt'altro
 problema sarebbe quello relativo alla tariffa, dalla  quale  discende
 come  mera  conseguenza  aritmetica  la  rendita delle singole unita'
 immobiliari e "che puo' essere affrontato  innanzi  alle  Commissioni
 solo in connessione con un atto che concerne la determinazione di una
 delle imposte".
   L'eccezione  e'  da disattendere, giacche', contrariamente a quanto
 sostenuto   dall'Avvocatura,   risulta    chiaramente    dal    testo
 dell'ordinanza   di   rimessione   che   il   giudizio  promosso  dal
 contribuente  innanzi  alla  Commissione   tributaria   concerne   la
 "determinazione   della   rendita   catastale",   nell'ambito  di  un
 procedimento nel quale il ricorrente lamenta "violazione di legge  ed
 eccesso di potere" da parte del decreto ministeriale 20 gennaio 1990,
 concernente la revisione delle tariffe di estimo.
   D'altro   canto,  ai  fini  della  rilevanza  della  questione,  e'
 sufficiente rammentare il consolidato orientamento  di  questa  Corte
 secondo  cui  il controllo sull'ammissibilita' della questione stessa
 potrebbe  far  disattendere  la  premessa  dalla   quale   muove   il
 rimettente,  nel  ritenere  applicabile  nel  giudizio a quo la norma
 denunciata,  solo   allorche'   tale   premessa   dovesse   risultare
 palesemente  arbitraria,  ovvero  quando l'interpretazione accolta si
 palesasse del tutto non plausibile (cfr., ex plurimis,  sentenze  nn.
 386  e  361  del 1996, 103 del 1993). Presupposti, questi, che non e'
 dato assolutamente ravvisare nel caso di specie, ove si  tenga  conto
 di quel filone giurisprudenziale (gia' ricordato anche nella sentenza
 n.  9 del 1993), che ha affermato, in casi analoghi a quello pendente
 innanzi  al  rimettente,  la  competenza  del  giudice  tributario  a
 conoscere  della  controversia  e  a  sindacare,  sia pure incidenter
 tantum, la legittimita' dei prospetti delle tariffe  derivanti  dalla
 revisione degli estimi, argomentando dall'attribuzione di rendita che
 in  concreto  deriverebbe  dall'adozione  delle nuove tariffe ovvero,
 alternativamente,  dalla  modifica  del  classamento  che   ad   esse
 conseguirebbe.
   3.3.  - Nel merito, la questione non e' fondata nei sensi di cui si
 dira'.
   Il rimettente denuncia, in primo luogo, violazione degli artt.  3 e
 53 della Costituzione, senza in realta' addurre alcun elemento  nuovo
 rispetto a quelli gia' esaminati nella precedente sentenza n. 263 del
 1994,  ma  limitandosi  a  richiamare un rilievo ivi svolto che viene
 isolato dal contesto della motivazione di cui fa parte.
   Invero,  quello  dei  rischi,  insiti  nella  determinazione  delle
 rendite catastali sulla base dei  valori  di  mercato  del  bene,  e'
 argomento   gia'   valutato  da  questa  Corte  in  detta  precedente
 circostanza, ma non ritenuto tale da influire sulla  ratio  decidendi
 allora  accolta,  che  fa  leva  su  una pluralita' di motivi tra cui
 principalmente la connessione che, comunque, e' dato stabilire fra il
 valore venale del bene e la sua redditivita', come  pure  la  mancata
 evidenziazione  di  ragioni  atte  a  dimostrare  l'incongruita'  del
 criterio di determinazione delle rendite accolto dal legislatore.
   Le conclusioni di infondatezza cui  e'  pervenuta  detta  pronuncia
 vanno,  dunque,  mantenute  ferme,  anche perche' l'esito di cui, sul
 piano normativo, sembra precipuamente dolersi il rimettente - si'  da
 denunciare  l'incongruita'  dei criteri adottati nella norma rispetto
 al fine dell'equa e ragionevole tariffazione che essa si  prefigge  -
 parrebbe  essere  quello di una violazione del principio di capacita'
 contributiva discendente non tanto dal criterio di tipo  patrimoniale
 accolto  dal  legislatore  per  pervenire  alla rendita e quindi alla
 tassazione,  quanto  piuttosto  da  una  tassazione  che,  sia   pure
 nell'ambito  dei  contestati criteri di determinazione della rendita,
 non terrebbe conto della  denunciata  "notevole  difformita'  tra  il
 valore catastale e il valore reale di mercato degli immobili". Il che
 pone  un  problema  non  coincidente  con quello esaminato nella gia'
 menzionata sentenza n.  263  del  1994:  quest'ultima  affrontava  la
 questione  della  legittimita'  costituzionale  in  se'  del criterio
 accolto dal legislatore nel passare,  attraverso  l'applicazione  del
 tasso  di redditivita', dal valore di mercato alla rendita catastale;
 la censura qui formulata, come  si  desume  dall'ordinanza,  solleva,
 fondamentalmente, un problema di significativita', a fini di una equa
 ripartizione   del   carico   tributario,  di  valori  del  bene  non
 suscettibili di contestazione, anche  se  non  rispondenti  a  quelli
 reali,  proprio  perche'  desumibili, con un mero calcolo aritmetico,
 dalle  tariffe  e  dalle  rendite   legificate   dalla   disposizione
 denunciata.
   3.4.  -  In  questo senso, meritevoli di maggiore attenzione, anche
 perche' piu' pertinenti, appaiono le ulteriori  due  censure  con  le
 quali  viene riproposta all'esame della Corte la tematica delle leggi
 a contenuto sostanzialmente provvedimentale; in primo luogo, sotto il
 profilo  della  violazione  dell'art.  3  della   Costituzione,   per
 l'irragionevole  assorbimento della funzione amministrativa in quella
 legislativa che, ad avviso del rimettente,  deriverebbe  dall'art.  2
 del  decreto-legge  n.  16  del  1993  il  quale,  nel conferire base
 legislativa alle tariffe  d'estimo  fissate  dai  menzionati  decreti
 ministeriali,  comporterebbe  "l'attribuzione di fatto in via diretta
 ed immediata, delle rendite catastali alle unita' immobiliari"; e, in
 secondo luogo, sotto quello della  vanificazione  delle  garanzie  di
 difesa apprestate dagli artt.  24 e l13 della Costituzione.
   Occorre  rammentare  che, secondo la giurisprudenza costituzionale,
 le  leggi  in  questione  esigono  un  controllo   stretto   di   non
 arbitrarieta'  e  di  non  irragionevolezza  restando, in definitiva,
 soggette a quello scrutinio che l'ordinanza di rimessione invoca  nel
 richiamare l'art.  3 della Costituzione.
   Di  quanto teste' considerato non puo' non tenersi conto ovviamente
 anche  nell'interpretazione   della   contestata   disposizione,   in
 relazione all'esigenza di una lettura della medesima che non la ponga
 in contrasto con la Costituzione.
   Il denunciato atto legislativo, annoverabile piu' esattamente nella
 categoria  delle  leggi  di  sanatoria, nel disporre la permanenza in
 vigore delle tariffe d'estimo e delle rendite  "gia'  determinate  in
 esecuzione del decreto del Ministro delle finanze 20 gennaio 1990" ha
 avuto  il  fine, come gia' posto in risalto dalla precedente sentenza
 n. 263 del 1994, di conferire base legislativa  a  quel  criterio  di
 revisione  delle  tariffe d'estimo "sulla base del valore unitario di
 mercato ordinariamente ritraibile", che era stato recepito  in  detto
 decreto,  annullato  dal  giudice amministrativo, perche' il criterio
 stesso non era  conforme  ai  principi  ispiratori  della  disciplina
 all'epoca vigente in materia.
   Si   deve   percio'   ritenere  che  il  legislatore  abbia  inteso
 salvaguardare le tariffe e le rendite solo in quanto applicative  del
 criterio  ritenuto  illegittimo  dal  giudice, validando le stesse in
 stretta correlazione con il criterio legificato, senza  ricomprendere
 nella  sanatoria  eventuali vizi sostanziali o procedimentali diversi
 da quelli derivanti dall'illegittimita' del criterio medesimo.
   Conclusione questa che va mantenuta  ferma  anche  a  fronte  della
 disciplina contenuta nei commi 1-bis, 1-ter e 1-quater del denunciato
 articolo.  Questi  ultimi, aggiunti dalla legge di conversione, hanno
 contemplato la possibilita', a seguito di  ricorso  alle  Commissioni
 censuarie,   di  eventuali  modifiche  delle  tariffe  d'estimo  gia'
 stabilite, da recepire in un decreto legislativo (art. 2 della  legge
 24   marzo   1993,   n.   75),  come  in  effetti  e'  poi  avvenuto,
 introducendosi cosi' una disciplina che, pero', rimane estranea  alla
 presente questione di costituzionalita'.
   Al  tempo  stesso, contrariamente a quanto assume il rimettente, e'
 da escludere che  la  disposizione  denunciata,  trasmodando  in  una
 ingiustificata  disciplina  delle modalita' applicative, abbia inteso
 ricomprendere nell'effetto di legificazione anche "l'attribuzione  di
 fatto in via diretta ed immediata della rendita catastale" ai singoli
 immobili.  Cio'  sta allora a significare che, se si sono determinati
 altri vizi in sede di rilevazione dei valori degli immobili ovvero di
 determinazione  delle  rendite  diversi  da  quelli  discendenti  dal
 criterio  ora legificato, i vizi stessi non possono reputarsi sanati.
 Oltretutto sarebbe palesemente contraddittorio, nel momento in cui si
 riconduce a legittimita' il criterio, consentire la violazione  dello
 stesso,   come,  in  via  pratica,  potrebbe  accadere  se  gli  atti
 applicativi,  beneficiando  della   disposta   sanatoria,   venissero
 sottratti al sindacato del giudice.
   In  tal  modo  viene  altresi' meno il presupposto della censura di
 violazione delle garanzie giurisdizionali di cui agli artt. 24 e  113
 della  Costituzione.  Mentre infatti la sanatoria per via legislativa
 del vizio afferente al criterio stabilito nel decreto 20 gennaio 1990
 opera sul piano sostanziale, attribuendo ex post al criterio  accolto
 nel  decreto  il  fondamento  legislativo  prima  mancante, gli altri
 eventuali vizi degli atti che hanno portato  alla  determinazione  di
 tariffe  di  estimo  e  di  rendite  restano  interamente soggetti al
 controllo giurisdizionale.
   4.  -  Con  la  seconda delle ordinanze in epigrafe, la Commissione
 tributaria provinciale di Piacenza sottopone  all'esame  della  Corte
 due  questioni  di  legittimita', concernenti, la prima, l'art. 2 del
 decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con  modificazioni,
 nella  legge  24  marzo 1995, n. 75 (recte: 24 marzo 1993, n. 75); la
 seconda, l'art. 2, comma 1, della legge n. 75 del 1993 (da intendersi
 piu' esattamente come art. 2, comma 1, del decreto-legge  23  gennaio
 1993,  n.  16,  convertito,  con  modificazioni, nella legge 24 marzo
 1993, n. 75) e l'art. 1, comma 5, del decreto-legge 28  giugno  1995,
 n.  250, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1995, n.
 344 (recte: n. 349).
   4.1. - Le questioni di cui sopra sono state sollevate nel corso  di
 un   giudizio   avente  ad  oggetto  la  ripetizione,  da  parte  del
 contribuente, di somme a suo tempo corrisposte,  a  titolo  di  INVIM
 straordinaria,  sul  valore  finale degli immobili di sua proprieta',
 alla data del 31 ottobre 1991; INVIM calcolata utilizzando i  criteri
 dell'art.    1, comma 8, del decreto-legge 13 settembre 1991, n. 299,
 convertito, con modificazioni, nella legge 18 novembre 1991, n.  363,
 il  quale  stabilisce  che detto valore non e' sottoposto a rettifica
 ove  dichiarato  in  misura  non  inferiore  a  quella  che   risulta
 applicando  i  moltiplicatori,  previsti  dalla  disposizione stessa,
 all'ammontare delle rendite catastali  determinate  a  seguito  della
 revisione  generale disposta con il piu' volte menzionato decreto del
 20 gennaio 1990.
   Intervenuto,   nelle   more   del   giudizio,   l'annullamento   di
 quest'ultimo   decreto   da  parte  del  giudice  amministrativo,  il
 rimettente muove dalla premessa che il rinvio dell'art. 1,  comma  8,
 del  decreto-legge  13  settembre  1991, n. 299 sia da intendere oggi
 effettuato alla disposizione dell'art. 2 del decreto-legge 23 gennaio
 1993, n. 16.
   Chiede, pertanto, alla Corte di stabilire:
     se il predetto art. 2 violi gli artt. 3 e 53 della  Costituzione,
 "nella  parte in cui prevede la permanenza in vigore delle tariffe di
 estimo e delle rendite gia' determinate  in  esecuzione  del  decreto
 ministeriale   20  gennaio  1990",  posto  che  il  medesimo  "appare
 irragionevole  e  potrebbe  dar  luogo  alla  determinazione  e  alla
 applicazione di redditi superiori e comunque diversi da quelli voluti
 dal  legislatore,  con  situazioni  di  disparita' di trattamento, in
 violazione del principio di uguaglianza e di quello  della  capacita'
 contributiva";
     se  il  comma  1  del  medesimo articolo e l'art. 1, comma 5, del
 decreto-legge 28 giugno 1995, n. 250, convertito, con  modificazioni,
 nella  legge  8  agosto 1995, n. 349, si pongano in contrasto con gli
 artt. 24, 101, 102, 103 e 104 della Costituzione, nella parte in  cui
 operano  una  "dilatazione del regime transitorio di applicazione dei
 criteri dichiarati illegittimi dal TAR Lazio (e  legificati  in  modo
 asseritamente  temporaneo  dalla predetta legge n. 75 del 1993)", per
 essere il fine delle citate norme quello di  vanificare  gli  effetti
 della  pronunzia  del  TAR,  con conseguente straripamento del potere
 legislativo in quello giudiziario.
   4.2. - Pur a voler condividere la premessa  dalla  quale  muove  il
 rimettente,  e'  comunque  da  escludere  che l'una e l'altra censura
 siano fondate.
   A  ben  vedere,  la prima non si discosta sostanzialmente da quella
 analogamente proposta dal giudice tributario di Firenze  con  l'altra
 ordinanza  qui  in esame, sicche' non possono che reputarsi valide le
 considerazioni gia' svolte a proposito di quest'ultima, alle quali e'
 sufficiente rinviare.
   Quanto poi alla seconda censura, anch'essa risulta gia'  scrutinata
 dalla  Corte  con  la  sentenza n. 263 del 1994, la quale - dopo aver
 ricordato il consolidato orientamento della  giurisprudenza,  secondo
 cui  le  leggi di sanatoria, ove non siano preordinate a vanificare i
 giudicati, non possono di per se'  essere  considerate  lesive  delle
 attribuzioni  degli  organi  giurisdizionali  - ha escluso, comunque,
 l'illegittimita' della  disposizione  denunciata  per  la  "decisiva"
 circostanza che, nella specie, "il legislatore, piu' che a vanificare
 pronunzie  giudiziali,  ha provveduto a dare fondamento legislativo a
 criteri che il giudice amministrativo aveva  considerato  illegittimi
 proprio  perche'  enunciati  in un decreto ministeriale" (sentenza n.
 263 del 1994). Conclusione, questa, che non puo'  non  restare  ferma
 anche  a  fronte  della protratta transitorieta' della disciplina, il
 cui termine, come  rammenta  lo  stesso  rimettente,  originariamente
 fissato  al 1 gennaio 1995, e' stato prorogato, dall'art. 1, comma 5,
 del decreto-legge n. 250 del 1995, al 1 gennaio 1997 e  ulteriormente
 rinviato  all'esito  della  revisione  delle  zone  censuarie e delle
 tariffe di estimo che dovra'  avvenire  sulla  base  dei  regolamenti
 previsti  dall'art.  3,  comma  155, della legge 23 dicembre 1996, n.
 662.
   4.3. - A parte dette considerazioni, non  meno  risolutivo  appare,
 anche,  l'argomento  che e' dato trarre dal carattere facoltativo del
 ricorso al particolare meccanismo  impositivo  previsto  per  l'INVIM
 straordinaria,  tale di per se' da escludere qualsiasi attentato alla
 capacita' contributiva  del  soggetto  tassato,  considerata  la  non
 cogenza del criterio di determinazione del valore finale in base agli
 estimi  catastali. Criterio suscettibile, infatti, di essere invocato
 dal contribuente a sua assoluta discrezione,  sulla  base  delle  sue
 personali   valutazioni   di  convenienza  economica,  per  escludere
 l'accertamento del reale valore venale del bene da parte dell'Ufficio
 tributario, senza, pero', impedire,  a  chi  voglia  svincolarsi  dal
 riferimento alla tariffa di estimo, di dichiarare un valore inferiore
 a quello tabellare.