IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza per  decidere  sulla  questione  di
 legittimita'  costituzionale  proposta  in  relazione  agli artt. 513
 c.p.p., cosi' come modificato dalla legge 7 agosto  1997,  n.  267  e
 art.  6,  legge  7 agosto 1997 n. 267, sollevata dal p.m. all'udienza
 del 23 gennaio 1998 nell'ambito del processo penale n. 142/1997  r.g.
 tribunale celebrantesi a carico di Tesserin Dario.
   Sentite  le parti e sciolta la riserva formulata all'udienza del 23
 gennaio 1998.
   Con decreto, emesso in data 4  marzo  1997,  il  g.i.p.  presso  il
 tribunale di Venezia disponeva procedersi a giudizio nei confronti di
 Tesserin  Dario  per  sentirlo  rispondere,  a titolo di concorso con
 Chiereghin Fabrizio, gia' giudicato, del delitto di cessione a  terzi
 di  230  grammi  circa di hashish. All'udienza del 23 gennaio 1998 il
 p.m.  esponeva i fatti e formulava le  proprie  richieste  probatorie
 consistenti  nell'esame  dei  testi, dell'imputato e dell'imputato in
 reato connesso nei cui confronti si era proceduto  separatamente,  la
 difesa  si  proponeva  per il controesame preannunciando il rifiuto a
 rispondere all'esame opposto  dal  proprio  assistito.  Il  tribunale
 quindi  procedeva  all'audizione  dell'assistente  di  polizia Tiozzo
 Massimo e prendeva atto del fatto che l'imputato  in  reato  connesso
 Chiereghin  Fabrizio  dichiarava  di  avvalersi della facolta' di non
 rispondere. A questo punto il p.m.   chiedeva di produrre  i  verbali
 contenenti   le   dichiarazioni   rese   al  g.i.p.  ottenendo  pero'
 l'opposizione della difesa sicche' il rappresentante  della  pubblica
 accusa riteneva di investire il tribunale della questione in premessa
 ricordata  e procedeva alla sua illustrazione, mentre il difensore si
 rimetteva.
   Rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale.
   Il p.m.  sottolineava  nella  sua  relazione  introduttiva  come  i
 poliziotti  operanti,  che  si  trovavano  in loco proprio perche' il
 medesimo era stato indicato da fonte confidenziale come  abitualmente
 frequentato da spacciatori, avevano cercato di procedere al controllo
 di  due  giovani  che  tuttavia, accortisi della presenza delle forze
 dell'ordine,  si  erano  dati  a  precipitosa   fuga.   Rilevava   il
 rappresentante della pubblica accusa come gli agenti fossero riusciti
 a  bloccarne  uno,  il  Chiereghin appunto, trovato in possesso di 42
 grammi di hashish  e  tratto  in  arresto,  mentre  l'altro  giovane,
 riconosciuto nel Tesserin, riusciva a fuggire e veniva poi denunciato
 a  piede  libero.  Evidenziava  altresi' il p.m. come Chiereghin, sia
 nell'immediatezza che successivamente avanti  al  g.i.p.  aveva  reso
 dichiarazioni  eteroaccusatorie  nei  confronti  di Tesserin fondanti
 l'impianto  accusatorio.  In  effetti   ii   tribunale,   nel   corso
 dell'istruttoria  dibattimentale,  e  precisamente dall'audizione del
 teste Tiozzo, ha potuto apprezzare la rilevanza  delle  dichiarazioni
 rese  dall'imputato  in  procedimento connesso ed uscito dal presente
 processo grazie alla scelta di un rito alternativo cui il p.m.  aveva
 consentito  essendo  vigente  la precedente normativa. In effetti non
 sembra  potersi  dubitare,  preso  atto  degli  elementi   indizianti
 esistenti  a  carico  di  Tesserin e rappresentanti dall'essersi dato
 alla fuga alla vista degli agenti, che la scelta  fra  assoluzione  e
 condanna   dell'imputato   dipenda   dall'acquisibilita'   e   quindi
 conoscibilita'    delle    dichiarazioni    eteroaccusatorie     rese
 dall'imputato  in  reato  connesso.  Parimenti  rilevante deve essere
 ritenuta la questione in relazione all'art. 6, legge 7  agosto  1997,
 n.  267,  disciplinante  il  regime di utilizzabilita' dei verbali di
 interrogatori di imputati  in  reato  connesso  gia'  introdotti  nel
 procedimento  in  forza della disciplina previgente (si tratta quindi
 di norma che detta una regola per la valutazione di una prova che  si
 assume gia' introdotta) e prevede la utilizzabilita' come prova delle
 dichiarazoni  in  essi  contenute,  solo  se  la  attendibilita'  sia
 confermata  da  altri  elementi  di  prova  non  desunti   da   altre
 dichiarazioni  rese  al  p.m., alla polizia giudiziaria delegata o al
 g.i.p. di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art.  513  c.p.p.,
 previgente.  Appare  evidente  come  tale  norma  non  possa  trovare
 applicazione nella fattispecie in esame.  Il legislatore,  rendendosi
 evidentemente   conto   che  un  mutamento  delle  norme  processuali
 immediatamente applicabile a processi gia' in  corso  avrebbe  creato
 non   pochi   problemi,   ha  ritenuto  di  superarli  attraverso  la
 formulazione di una norma transitoria dalla pretesa portata esaustiva
 dimenticandosi, viceversa, di disciplinare le ipotesi, come quella in
 esame, in cui la modifica e'  intervenuta  a  dibattimento  in  corso
 senza  che,  tuttavia,  l'imputato in reato connesso fosse gia' stato
 sentito e, pertanto, senza che le sue dichiarazioni  avessero  potuto
 entrare  a  far  parte  del  fascicolo  dibattimentale  attraverso il
 meccanismo delle letture. La  questione  pare  di  non  poco  momento
 giacche',  nel  processo  de  quo,  il tribunale ha potuto apprezzare
 alcuni elementi, emersi nel  corso  dell'istruttoria  dibattimentale,
 che  potrebbero  assurgere,  secondo  l'impostazione  accusatoria, ad
 elementi di riscontro.  Neppure pare ragionevole  ritenere  che  alla
 fattispecie  in  esame  sia  applicabile  il  comma 1, dell'art. 6 in
 esame: disposizione indiscutibilmente legata ad una fase  processuale
 oramai  superata  e  che,  quindi,  propone  uno  strumento  non piu'
 utilizzabile nel caso di specie. Pertanto, e proprio con  riferimento
 alla   lacuna   ora   evidenziata,   la   questione  di  legittimita'
 costituzionale dedotta appare rilevante anche  sotto  il  prospettato
 profilo.
   Sulla non manifesta infondatezza.
   Riformulando   l'art.   513   c.p.p.,   il  legislatore  ha  inteso
 riaffermare con forza i principi dell'oralita' nella formazione della
 prova e del contraddittorio  ai  quali  deve  ispirarsi  il  processo
 penale  di  tipo  accusatorio  vigente e, nel caso di specie, cio' ha
 fatto  attraverso  lo  strumento  del  depotenziamento   del   valore
 probatorio delle acquisizioni avvenute in assenza di contradditorio.
   Ritiene  questo  collegio  che  della  chiara  ed inequivoca scelta
 legislativa,  sicuramente  ispirata  ad  un  principio   di   parita'
 sostanziale  tra  accusa  e  difesa,  ci si debba limitare a prendere
 atto, non emergendo profili evidenti di incompatibilita' con la Carta
 costituzionale se non nei limiti, circoscritti,  che  si  andranno  a
 precisare,  con specifico riferimento ai processi in corso al momento
 di entrata in vigore della novella, e non essendo comunque questa  la
 sede  per  analizzare la scelta del legislatore di escludere qualsasi
 sanzione a carico di colore che, senza ragione alcuna,  rifiutino  di
 reiterare  al  dibattimento  dichiarazioni  eteroaccusatorie rese nel
 corso delle indagini  preliminari.
   Giova peraltro ricordare che il principio della oralita'  al  quale
 il  nostro sistema si ispira non puo' rappresentare il solo principio
 informatore delle norme che regolano la assunzione e formazione delle
 prove.
   In diverse occasioni infatti (sent. n. 111 del  1993,  n.  255  del
 1992,  n.  258  del  1991)  la  Corte costituzionale ha ribadito che,
 sempre e comunque, "fine primario ed ineludibile del processo  penale
 non  puo'  che rimanere quello della ricerca delle verita'", sicche':
 "l'oralita' assunta a principio ispiratore  del  nuovo  sistema,  non
 rappresenta,   nella   disciplina  del  codice  vigente,  il  veicolo
 esclusivo di formazione della prova, nel dibattimento... di guisa che
 in taluni casi  in  cui  la  prova  non  possa,  di  fatto,  prodursi
 oralmente  e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in
 volta  indicate,  ad  atti  formatisi  prima  ed  al  di  fuori   del
 dibattimento"  (Corte  cost.  n.    255/1992).  E, ancora, sempre con
 riguardo al fine primario ed ineludibile di cui sopra,  la  Corte  ha
 sottolineato  che  "...  ad un ordinamento improntato al principio di
 legalita' che rende doverosa la punizione delle  condotte  penalmente
 sanzionate  nonche'  al  connesso  principio di obbligatorieta' della
 azione penale non sono consone norme di metodologia  processuale  che
 ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo di accertamento del
 fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione"  (Corte
 cost. n. 255/1992 e n. 111/1993).
   E'  a tutti noto come, in forza di siffatti principi la Corte abbia
 confermato la compatibilita' al dettato costituzionale di norme nelle
 quali  la  formazione   della   prova   deroga   il   principio   del
 contraddittorio  dibattimentale,  o prescinde dall'immediato contatto
 del giudice con la prova nel momento  della  sua  formazione  (ci  si
 riferisce  agli artt.  392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6, 512,
 c.p.p., e lo stesso 513, c.p.p.)  ed  abbia  individuato  la  ragione
 d'essere  di  tali  "eccezioni"  nella  necessita'  di non disperdere
 elementi di prova non compiutamente o  non  genuinamente  acquisibili
 con  il  metodo  orale:  necessita' che la stessa Corte ha elevato ai
 rango  di  principio  costituzionalmente   garantito   e   denominato
 "principio di non dispersione delle prove" (Corte cost. n. 255/1992).
   Da  questa  sintetica  premessa  -  e  cioe' dai ricordati principi
 costituzionali - ritiene questo collegio che non si possa prescindere
 nell'affrontare la questione di legittimita' dedotta.
   E' pero' opinione di questo collegio che la questione  -  sollevata
 dal  pubblico  ministero  con riferimento all'art. 513, c.p.p., nella
 sua nuova formulazione - meriti invece di essere affrontata sotto  un
 altro  aspetto  o,  meglio, con riferimento ad altra norma di rito al
 cui  contenuto  anche  l'art.  513,  c.p.p.,   deve   necessariamente
 rapportarsi.
   Ci  si  riferisce  all'art. 210, comma 4, c.p.p. nella parte in cui
 prevede che l'imputato di reato connesso che abbia reso dichiarazioni
 direttamente o indirettamente accusatorie a carico di  terze  persone
 non presenti all'atto di assunzione di dette dichiarazioni davanti al
 pubblico  ministero,  possa  poi  avvalersi  della  facolta'  di  non
 rispondere nel dibattimento a carico di quelle  stesse  persone.  (E'
 appena  il  caso  di  porre in evidenza che analogo discorso vale per
 l'imputato che  nel  corso  delle  indagini  preliminari  abbia  reso
 dichiarazioni indizianti nei confronti di altri imputati del medesimo
 procedimento:    ipotesi  che  non  si  affronta  specificatamente in
 quanto, nel caso di specie, non rileva).
   E' di tutta evidenza infatti  che  la  disposizione  dettata  dalla
 norma  la  ultima  citata  (art. 210, comma 4, c.p.p.) costituisce il
 nodo centrale  del  sistema  e  che  il  sospetto  di  illegittimita'
 costituzionale che circonda norme che da esso direttamente discendono
 non  e'  che  una  conseguenza  immediata  e  diretta  del  dubbio di
 illegittimita' costituzionale che attinge la norma in esame,  laddove
 consente  agli  imputati  di  reato connesso, nelle circostanze sopra
 indicate, la facolta' di tacere.
   La necessita' di tale impostazione emerge in modo affatto  evidente
 anche dal semplice esame delle conseguenze che la novella ha di fatto
 determinato,  conseguenze che tradiscono quello che si ritiene essere
 stato lo scopo primario del legislatore.
   Se  infatti  quest'ultimo,  con  la  attuata  riforma,  ha   inteso
 riaffermare   la   necessita'  di  subordinare  la  introduzione  nel
 dibattimento di dichiarazioni accusatorie eteroprocessuali al  vaglio
 del  contraddittorio, di fatto, si deve constatare che, nella realta,
 cio' si verifica assai raramente: sicche' quella che doveva essere la
 regola e in realta' l'eccezione, mentre  la  regola  e  rappresentata
 dalla  assoluta  sottrazione  delle  dichiarazioni dell'accusatore al
 vaglio dibattimentale per effetto  della  totale  eliminazione  dalla
 realta' processuale delle dichiarazioni da quello a suo tempo rese.
   Ritiene  quindi  questo collegio che debba essere preliminarmente e
 principalmente affrontata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 210, comma 4, c.p.p., nei termini sopra delineati.
   Nel nostro ordinamento  l'imputato  ha  facolta'  di  scegliere  se
 tacere o parlare e, ove scelga di parlare, ha facolta' di mentire.
   Orbene,   se  e'  vero  che  la  facolta'  di  tacere,  il  diritto
 dell'imputato di rifiutarsi di collaborare  con  gli  inquirenti,  e'
 espressione  del  diritto  di difesa e come tale merita ampia tutela,
 tuttavia, tale tutela, non puo' spingersi fino  al  punto  da  ledere
 altri   ed  altrettanto  rilevanti  principi  garantiti  dalla  Carta
 costituzionale.
   E' evidente che  qui  non  si  fa  riferimento  semplicemente  alla
 lesione  di  principi di ordine etico e morale che imporrebbero a chi
 fa determinate dichiarazioni  di  assumersi  poi  la  responsabilita'
 delle  conseguenze  del  suo  operare,  bensi'  ad  un vero e proprio
 legittimo  sospetto  di incompatibilita' di tale diritto - nei limiti
 sopra delineati - con i principi dettati dalla Costituione.
   La irrazionalita' del sistema attuale appare affatto manifesta  ove
 si  consideri  che:  da un lato, il mancato ingresso di dichiarazioni
 accusatorie rese nelle indagini preliminari da un imputato  di  reato
 connesso  lede  i  principi  di  obbligatorieta' dell'esercizio della
 azione penale e di indefettibilita' della giurisdizione e vanifica lo
 scopo del processo che e' quello della  ricerca  e  dell'accertamento
 della verita' storica; dall'altro, viceversa, la introduzione di tali
 dichiarazioni   lede  il  diritto  di  difesa  della  parte  accusata
 impedendole, attraverso il contro-esame, di accertare  credibilita' e
 la attendibilita' dell'accusatore.
   Giova esaminare partitamente i singoli punti.
   Si e' gia' ricordato  e  si  sono  specificatamente  richiamate  le
 relative  pronuncie  sul  punto,  che la Corte costituzionale ha piu'
 volte sottolineato come lo scopo primo ed  ineludibile  del  processo
 debba  essere  quello  dell'accertamento  della  verita'  storica, in
 quanto solo tale accertamento potra' poi portare il  giudicante  alla
 emanazione di una sentenza giusta.
   Se cosi' e', non puo' ritenersi ragionevole un sistema che consenta
 al giudice una conoscenza parziale, alla quale potra' conseguire solo
 un  accertamento della verita' formale/processuale, ma certamente non
 della verita' storica; non puo' essere giudicato razionale un sistema
 che  impedisca  alla  pubblica  accusa  di  portare  efficacemente  a
 compimento  quell'esercizio  della azione penale che, pure, la stessa
 era obbligatoriamente tenuta ad esercitare e che, di fatto, viene ora
 ad essere subordinata al consenso di altri.
   Ma vi e' un altro profilo di cui e' necessario tenere conto.
   Nel nostro sistema il  pubblico  ministero  e'  organo  giudiziario
 pubblico  e indipendente, deputato alla applicazione imparziale della
 legge. Quest'ultima conferisce piena  utilizzabilita'  agli  elementi
 raccolti   dal   pubblico   ministero   nella  fase  delle  indagini:
 utilizzabilita'  che  si  estende  fino   alla   legittimazione   del
 compimento  di  atti che possono incidere significativamente anche su
 diritti costituzionali primari dei cittadini.
   Sia sufficiente considerare che il pubblico ministero sulla base di
 dichiarazioni accusatorie rese da un  imputato  in  rato  connesso  e
 debitamente  riscontrate,  puo'  chiedere  ed  ottenere dal g.i.p. la
 emissione di una misura cautelare personale.
   Non  solo,  ma  l'esercizio  della  azione  penale  sulla  base  di
 dichiarazioni  di  coimputati  o  imputati  di reato connesso e delle
 risultanze emergenti dalle indagini che alle stesse sono seguite, non
 e' attivita' meramente  facoltativa  del  pubblico  ministero  ma  e'
 attivita' obbligatoria ai sensi dell'ar. 112 della Costituzione.
   Ad  avviso  di  questo  collegio il dubbio di compatibilita' con la
 Carta costituzionale non va posto in relazione al diverso  regime  di
 utilizzabilita'  dei  mezzi  di  prova nelle diverse fasi processuali
 (dubbio che, in verita', non  si  ravvisa),  quanto  piuttosto  sulla
 irrazionalita'  di  un  sistema  che,  da un lato, impone al pubblico
 ministero la raccolta e l'utilizzo di prove sul fatto da accertare e,
 dall'altro, condiziona poi l'effettivo esercizio della azione  penale
 nel  raggiungimento  dello  scopo,  che e' quello della ricerca della
 verita',  alla  volonta'  meramente  potestativa   di   un   soggetto
 controinteressato.
   Parimenti,  irragionevole  e  contraria  al  dettato costituzionale
 risulta la sottoposizione, di fatto del giudice non  gia'  solo  alla
 legge  (cosi'  come stabilito dalla Costituzione) ma alla volonta' di
 una parte che, a suo piacimento (ne' delle ragioni del suo operare e'
 tenuta a dare conto alcuno), potra' consentire o meno la introduzione
 nel processo di materiale probatorio.
   E' indispensabile sul punto ricordare gli  interventi  della  Corte
 costituzionale   volti   ad   evitare   la  introduzione  nel  nostro
 ordinamento di un preteso principio dispositivo in materia di prova.
   Argomentando in ordine alla prospettata eccezionalita'  del  potere
 istruttorio  conferito  al giudice dall'art. 507, c.p.p., la Corte ha
 infatti sottolineato come  il  preteso  principio  dispositivo  della
 prova  non  trovi  riscontro  "ne' nei principi della delega, ne' nel
 tessuto normativo concretamente designato nel codice". E  per  fugare
 ogni  dubbio  ha  precisato:  "E'  per  la verita', incontroverso che
 sarebbe contrario  ai  principi  costituzionali  di  legalita'  e  di
 obbligatorieta'  della  azione  concepire  come disponibile la tutela
 giurisdizionale  assicurata  al  processo  penale"  (Corte  cost.  n.
 111/1993).
   Principio  che  la  Corte  aveva  gia'  esplicitato  laddove  aveva
 riconosciuto la illegittimita' costituzionale dell'art. 444,  c.p.p.,
 nella  parte in cui non prevedeva che il giudice potesse valutare non
 congrua la  pena  richiesta  dalle  parti  e,  quindi,  rigettare  la
 richiesta  di  applicazione  pena  (Corte  cost. n. 313/1990); ovvero
 laddove ha consentito il cosi' detto "recupero" del  rito  abbreviato
 al  dibattimento,  ove il giudice abbia giudicato non giustificato il
 dissenso del pubblico ministero, argomentando che in un sistema  come
 quello  del  nuovo codice, imperniato sul principio di partecipazione
 della accusa e della difesa su basi di parita'... non dovrebbe essere
 consentito che i  rapporti  tra  pubblico  ministero  e  imputato  si
 sbilancino  al  punto  che il primo, con un semplice atto di volonta'
 immotivato e percio' incontrollabile, si trovi in grado di privare il
 secondo di un rilevante vantaggio  sostanziale  (n.  81/1991).  E  da
 ultimo,  solo  per  completezza,  giova  citare  anche la sentenza n.
 92/1992  ove  la  Corte   ha   inequivocabilmente   sottolineato   la
 incompatibilita'   con   un  ordinamento  costituzionale  fondato  su
 principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che
 affidi a scelte discrezionali, immotivate  e,  quindi,  insindacabili
 del  pubblico ministero, l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale
 scaturiscono automaticamente rilevanti effetti  sulla  determinazione
 della pena.
   Non  meno  grave e rilevante appare altresi' la evidente violazione
 del diritto di difesa  che  la  applicazione  della  norma  in  esame
 comporta.
   Non  puo'  infatti  sfuggire  come  la  scelta di non consentire ad
 essere esaminato e, quindi, di  non  sottoporsi  al  contraddittorio,
 operata  da  colui  che,  in sede di indagini preliminari, abbia reso
 dichiarazioni accusatorie nei confronti di un terzo, leda grandemente
 il diritto di difesa dell'accusato, al quale deve essere riconosciuto
 il diritto di vedere affermata la propria innocenza, non  solo  quale
 conseguenza  del  venir  meno  ex  lege  di una fonte di prova e solo
 perche' l'accusatore ha deciso (e di tale decisione - lo si ribadisce
 - non e' tenuto in alcun  modo  ad  illustrare  le  ragioni)  di  non
 parlare, ma, invece, come conseguenza dell'accertamento della verita'
 storica.
   Solo  cosi', infatti, l'accusato potra' vedere dissolto ogni dubbio
 sulle accuse mosse nei suoi confronti, evitando di essere per  sempre
 circondato  di un alone di sospetto che la persona innocente non puo'
 e non deve tollerare.
   Per  altro  verso,  se  il  contraddittorio  e'  senza  dubbio  uno
 strumento  di difesa, e' altresi' innegabile la sua primaria funzione
 di  accertamento  della  verita',  sicche'  il  condizionare  la  sua
 esistenza   ad  una  scelta,  che  puo'  essere  anche  arbitraria  e
 immotivata,  dell'accusatore,  suscita  un  ragionevole   e   fondato
 sospetto  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  210, c.p.p.,
 anche in relazione all'art. 25 della Costituzione laddove  impone  la
 punizione dei colpevoli.
   Da  quanto  esposto  si evince altresi' una evidente violazione del
 principio di uguaglianza.
   L'imputato di reato  connesso  che  con  la  sua  condotta  diventa
 arbitro  delle  sorti  del    processo,  puo'  infatti inopinatamente
 scegliere in quale processo parlare  ed  in  quale  invece  avvalersi
 della  facolta',  che  la  legge gli ha accordato, di non rispondere,
 determinando cosi', a seconda dei casi, conseguenze  affatto  diverse
 per gli imputati, la cui sorte viene in larga parte a dipendere dagli
 umori  del  loro  accusatore. (Per non parlare, poi, di come siffatto
 sistema si  presti  a  favorire  forme  di  intimidazione  dirette  o
 indirette  senza  che  il legislatore abbia pensato di predisporre un
 qualche rimedio nel caso in cui il silenzio sia  conseguenza  di  una
 accertata intimidazione).
   Nei medesimi termini deve porsi la questione della irragionevolezza
 di  un  sistema  che,  consentendo  un  uso arbitrario del diritto al
 silenzio, puo' determinare situazioni di  disparita'  di  trattamento
 nei  confronti  di quegli imputati nei cui confronti, per ragioni del
 tutto contingenti come possono essere, ad esempio, quelle legate alla
 competenza funzionale (si pensi agli imputati minorenni) il  processo
 deve essere separato.
   Infine,  la  questione prospettata merita di essere esaminata anche
 alla luce del principio di non dispersione dei  mezzi  di  prova  sul
 quale gia' ci si e' soffermati.
   Per  tutte  le  ragioni  anzidette  ritiene questo tribunale che la
 questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  210,  comma  4,
 c.p.p.,  meriti  di  essere  sollevata  in  quanto non manifestamente
 infonda.
   E' peraltro evidente che la questione involge anche la legittimita'
 costituzionale  dell'art.   513,   c.p.p.,   sicche'      l'eventuale
 accoglimento della prospettata questione non potra' non travolgere la
 menzionata norma.
   Se  cosi'  non  fosse,  se  cioe'  la  Corte ritenesse infondata la
 questione, questo tribunale, che pure, come gia' detto,  prende  atto
 della scelta legislativa operata con la legge n. 267/1997 e la valuta
 non  incompatibile  con  la  Carta  costituzionale per i procedimenti
 futuri, non puo' non porsi un dubbio di  legittimita'  costituzionale
 con  riferimento ai procedimenti gia' avviati alla data di entrata in
 vigore della legge n. 267/1997 e per i  quali,  avuto  riguardo  alla
 fase  nella  quale  si  trovano,  non  sia  piu' possibile correre al
 "rimedio" predisposto dal  legislatore  all'art.  6,  comma  1  della
 menzionata  novella;  ovvero  nei  casi  in  cui,  come quello che ci
 occupa, non sia neppure applicabile la disciplina di cui al  comma  5
 per  il  semplice  motivo che le dichiarazioni dell'imputato di reato
 connesso non erano gia' state  acquisite  alla  data  di  entrata  in
 vigore  della disposizione che, viceversa, tale avvenuta acquisizione
 pacificamente presuppone.
   La  mancata  previsione  legislativa  della  fattispecie  in  esame
 comporta  la  inapplicabilita'  della transitoria dettata all'art. 6,
 legge n.  267/1997 al caso di specie, per il  quale  dovra',  quindi,
 trovare applicazione l'art. 1 della  predetta legge.
   E'  appena il caso di far notare come un mero accidente (e cioe' il
 differimento ad una  data  successiva  all'estate  della  istruttoria
 dibattimentale)  abbia  comportato  rilevanti  conseguenze  sul piano
 processuale; ne' si puo' sottacere  la  irragionevole  disparita'  di
 trattamento  tra  imputati che si sarebbe potuta verificare se, prima
 della entrata in vigore della novella, vi fosse stata la acquisizione
 al fascicolo del dibattimento del verbale delle dichiarazioni  di  un
 imputato  di reato connesso coinvolgenti, in ipotesi, la posizione di
 alcuni soltanto degli imputati.
   Per quanto riguarda invece il primo dell'art.  6,  della  legge  n.
 67/1997,  non  ci  si  puo'  nascondere  che, se anche il legislatore
 colmasse  la  lacuna  sopra  rilevata,  ugualmente   non   potrebbero
 ritenersi  superati  i  dubbi  legati  alla facolta', conferita dalla
 legge a colui che aveva reso dichiarazioni  indizianti  a  carico  di
 altri,  di  non rispondere anche nel corso dell'incidente probatorio:
 rilievo questo dal quale non puo' che trarsi ulteriore  conferma  che
 il   nodo   centrale   di  tutto  il  sistema  attuale  riposa  nella
 compatibilta' al dettato costituzionale della norma che  consente  il
 diritto  al  silenzio  anche  a coloro che abbiano reso dichiarazioni
 eteroaccusatorie.
   In ogni caso, poiche' il solo dubbio di non manifesta infondatezza,
 legittima  la  rimessione  degi  atti  alla  Corte,  ritiene   questo
 tribunale  che  sia  opportuno  provocare  una  pronuncia della Corte
 costituzionale anche con riferimento all'art. 513, c.p.p., nei limiti
 sopra indicati.