IL TRIBUNALE Nel corso della pubblica udienza del 16 aprile 1998, ha pronunicato la seguente ordinanza sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli artt. 3, 101, 112 della Costituzione, sollevata dal pubblico ministero all'udienza odierna nel procedimento penale nei confronti di Spagnoli Antonio, Bucciarelli Vincenzo, Guinetti Carlo, Liburdi Giovanni, Martiradonna Giuseppe, Bucciarelli Giuseppe, Bucciarelli Saverio, Feudi Remo, Pizzuti Antonio, Colapietro Antonello, Del Brocco Franco, imputati dei reati di cui al decreto che dispone il giudizio: O s s e r v a Premessa. Il presente procedimento, relativo ad una pluralita' di fatti delittuosi per lo piu' costituenti i reati fine di una associazione per delinquere, trae la sua origine dallo sviluppo delle dichiarazioni accusatorie dapprima rese da tale Mirabella Corredo e, quindi, da Bottoni Filomena, Recine Pasqualino e, infine Colapietro Giampaolo, ai quali, nell'attuale fase procedimentale, compete la veste di imputato in procedimento connesso ex art. 210 c.p.p., e di cui il p.m. ha chiesto l'audizione. Raccolte le dichiarazioni accusatorie e dopo una attivita' investigativa diretta alla acquisizione di elementi di riscontro rilevanti ai sensi dell'art. 192, comma 2, c.p.p., richiesta ed ottenuta l'applicazione di misure cautelari nei riguardi di diversi imputati, veniva, quindi, diposto il giudizio avanti il tribunale con decreto emesso il 29 giugno 1996. Il dibattimento si sviluppava per alcune udienze, sin quando, all'udienza del 9 aprile 1998 e a quella odierna, gli imputati di reato connesso chiamati a deporre dichiaravano di avvalersi della facolta' di non rispondere. Poiche' nessuna delle parti private prestava consenso all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dai quattro citati oggetti, il pubblico ministero chiedeva a questo tribunale di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della nuova formulazione dell'art. 513 c.p.p. con i provvedimenti di conseguenza. Della rilevanza. Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova contenuta nel decreto che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico ministero nel corso della relazione introduttiva e dell'illustrazione della eccezione sollevata, nonche' delle richieste di prova dallo stesso formulate ai sensi dell'art. 493 c.p.p., accolte dal tribunale con l'ordinanza ex art. 495 c.p.p, appare evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita' costituzionale nei limiti in cui viene riferita alla nuova formulazione del comma 2, dell'art. 513 c.p.p., trattandosi di processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetti che si trovano nelle condizioni descritte dall'art. 210 c.p.p. Tali dichiarazioni, in applicazione della impugnata norma, non possono trovare ingresso nel dibattimento, stante l'esercizio, da parte dei dichiaranti, della facolta' di non rispondere, e l'assenza dell'accordo delle parti in ordine alla acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dai medesimi nel corso delle indagini preliminari. Della non manifesta infondatezza. E' avviso del collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del 1992, attraverso la quale era stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p. nella formulazione allora vigente "nella parte cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni ... rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere). In quella occasione, la Corte osservo' che il principio guida dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di evitare la perdita ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che in tale categoria gia' la legge delega ricomprendeva anche l'indisponibilita' dell'imputato all'esame. E proseguendo nella strada di indicare principi costituzionali certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la Corte, con una successiva sentenza (n. 255/1992) attribui' esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di conservazione della prova", osservando che "... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale ...". Al riguardo, puo' anche richiamarsi la sentenza n. 179 del 1994 della Corte, relativa all'ipotesi dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre in dibattimento prevista dall'art. 199, c.p.p.: ivi la Corte concludeva affermando che "la testimonianza cosi' acquisita e' legittimamente e soprattutto stabilmente acquisita" ed "e' certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste, nel caso di un suo tardivo esercizio della facolta' di astensione". In tali casi si determina una "oggettiva e non prevedibile" impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo. La conclusione della citata sentenza e', quindi, nel senso che occorre "contemperare il rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". In definitiva, di fronte al teste che opponga un irremovibile rifiuto di testimoniare, nell'alternativa fra il disperdere la prova e non fare giustizia e valorizzare, invece, gli atti formati anteriormente, il legislatore ha operato questa seconda scelta, consentendo la lettura e, quindi, l'utilizzazione delle dichiarazioni rese. Orbene, anche nel caso delle persone indicate dall'art. 210, c.p.p., si e' in presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si sono avvalsi della facolta' di non rispondere, e che hanno esercitato tale diritto rendendo l'atto "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile. Nemmeno appare logico che le dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari possano essere utilizzate tout court qualora non sia possibile ottenere la presenza della persona in dibattimento con altre modalita' (art. 513, comma 2, prima parte), e invece occorra l'accordo delle parti qualora la persona si presenti in udienza e rifiuti di rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte): ipotesi nel caso realizzatasi con riferimento ad un altro imputato di reato connesso, tale Marcenaro Sergio, deceduto, le cui dichiarazioni sono gia' state acquisite al fascicolo dibattimentale. Concludendo, in entrambi i casi l'atto e' irripetibile, oggettivamente e imprevedibilmente, apparendo, tuttavia, evidente l'assoluta irragionevolezza di una differente loro disciplina. La norma impugnata contrasta altresi' con il combinato disposto degli artt. 101, secondo comma, 112, Cost., secondo il quale e' inesistente un pieno potere dispositivo delle parti in ordine alla prova. La Corte ha spiegato che il precetto di cui all'art. 101, secondo comma, preclude una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo nel processo penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto, sicche', in definitiva, la disponibilita' della prova renderebbe indirettamente disponibile la stessa res iudicanda. Ed allora, "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale" (Corte cost. n. 111/1993). Se e' vero che un potere dispositivo della prova nel processo e' negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e' per definizione estraneo al processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni. La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova al vaglio dibattimentale, a seguito di un atto meramente discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato e capriccioso - compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del procedimento, come avviene nel caso in cui la persona esaminata ex art. 210 c.p.p. si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio' il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando (nel caso in cui il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della facolta' di non rispondere) la possibilita' di acquisire le precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al gradimento) delle parti. Tali scelte, alla stregua della norma della cui legittimita' in questa sede il collegio dubita, condizionano l'esercizio della giurisdizione, incidendo in misura determinante sulla liberta' del giudice, nel significato che tale concetto ha assunto nella giurisprudenza costituzionale. Il tribunale remittente si e', quindi, trovato di fronte ad una situazione in cui l'assunzione della prova e' stata inibita proprio dalla scelta arbitraria dei dichiaranti, che induce conseguenze che non possono essere scongiurate dalla previsione del meccanismo, dell'incidente probatorio benche', in virtu' del disposto dell'art. 4, legge n. 267/1997, lo stesso sia esperibile indipendentemente dalla sussistenza dei requisiti previsti in via generale, dall'art. 392 c.p.p., poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio', come l'adozione di tale meccanismo, lungi dal poter essere considerata alla stregua di "valvola di sicurezza" del sistema, si riduca alla mera anticipazione dei tempi di assunzione di quella prova, senza tuttavia garantirne l'effettiva acquisizione al processo. L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere o meno dichiarazioni e alla volonta' delle parti processuali di consentire alla lettura di dichiarazioni in precedenza rese, ha finito per rimettere nella totale disponibilita' delle parti l'ingresso di una prova nel dibattimento e, in definitiva, a condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale. Che e' quanto accaduto alle udienze del 9 e del 16 aprile 1998, quando tutti i difensori, preso atto del rifiuto dei dichiaranti di sottoporsi all'esame, non hanno consentito alla lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni gia' rese. Si puo' dunque concludere, con le parole della stessa Corte costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione" (Corte costituzionale n. 241/1994).