IL TRIBUNALE
   Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza nel procedimento penale n.
 2075/96 nei confronti di Albini Giancarlo  Maria  e  Tonali  Antonio,
 imputati  dei  reati  di cui al decreto che dispone il giudizio sulla
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p.,  nella
 formulazione  risultante dalle modifiche operate con l'art. 1 legge 7
 agosto 1997, n. 267, per violazione degli artt. 3, 24, 25, 101, 111 e
 112 della Costituzione, sollevata dal pubblico ministero  all'udienza
 del 9 febbraio 1998.
                             O s s e r v a
   Albini  Giancarlo Maria e Tonali Antonio sono chiamati a rispondere
 del reato di cui agli artt. 81, 110, 317, 6/n.  7  c.p.  perche',  in
 concorso  con Radaelli Sergio, con piu' azioni esecutive del medesimo
 disegno criminoso  e  in  tempi  diversi,  l'Albini  in  qualita'  di
 presidente  e il Tonali in qualita' di vicepresidente della Lombardia
 informatica
  S.p.a. a capitale pubblico, incaricata della  informatizzazione  del
 servizio  sanitario  regionale,  abusando  dei  loro  poteri  avevano
 costretto il legale  rappresentante  della  Honeywell  Bull,  Mariani
 Renato,   a   versare  somme  di  denaro  in  relazione  agli  ordini
 commissionati da Lombardia informatica S.p.a.  alla  Honeywell  Bull,
 cosi' come indicati nel capo di imputazione.
   Le  fonti  di  prova  sono  costituite dalle dichiarazioni rese nel
 corso delle indagini preliminari da  Mariani  Renato  e  da  Radaelli
 Sergio  i quali, in quanto imputati in procedimento connesso, si sono
 avvalsi della facolta' di non rispondere.
   Il p.m., all'udienza del 9 febbraio 1998, ha chiesto l'acquisizione
 delle dichiarazioni  dagli  stessi  rese  nel  corso  delle  indagini
 preliminari.
   Poiche'  i  difensori  degli  imputati  non  hanno prestato il loro
 consenso a tale acquisizione, il pubblico  ministero  ha  chiesto  al
 tribunale  di dichiarare non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p.
                            Sulla rilevanza
   Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova  contenuta  nel
 decreto  che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico
 ministero  nel  corso  della  relazione  introduttiva  nonche'  delle
 richieste  di  prova  dallo  stesso  formulate ai sensi dell'art. 493
 c.p.p. (e accolte dal tribunale con l'ordinanza ex art.  495  c.p.p.)
 appare  evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita'
 costituzionale  nei  limiti  in  cui  viene   riferita   alla   nuova
 formulazione  del  comma  2,  dell'art.  513  c.p.p.,  trattandosi di
 processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle
 dichiarazioni di soggetti che si trovano nelle  condizioni  descritte
 dall'art.  210  c.p.p.  Tali  dichiarazioni,  in  applicazione  della
 impugnata norma,  non  possono  trovare  ingresso  nel  dibattimento,
 stante  l'esercizio,  da parte dei dichiaranti, della facolta' di non
 rispondere, e l'assenza  dell'accordo  delle  parti  in  ordine  alla
 acquisizione  dei  verbali  delle dichiarazioni rese dai medesimi nel
 corso delle indagini preliminari.
                         Sulla non infondatezza
   E' avviso del collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente
 ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui  la  stessa
 Corte  costituzionale  aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del
 1992, attraverso la quale  era  stata  dichiarata  la  illegittimita'
 costituzionale  dell'art. 513, comma 2, c.p.p., nella formulazione in
 allora vigente "nella parte  in  cui  non  prevede  che  il  giudice,
 sentite   le   parti,   -   dispone  la  lettura  dei  verbali  delle
 dichiarazioni
  .. rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora  queste
 si avvalgano della facolta' di non rispondere".
    In  quella  occasione,  la  Corte  osservo' che il principio guida
 dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di  evitare  la
 perdita  ai  fini  della  decisione  di  quanto  acquisito  prima del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando  che  in
 tale   categoria   gia'   la   legge   delega   ricomprendeva   anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   E proseguendo nella  strada  di  indicare  principi  costituzionali
 certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la
 Corte,  con  una  successiva  sentenza  (n.  255/1992)  ha attribuito
 esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di  conservazione
 della   prova",   osservando   che   "...   il   sistema  accusatorio
 positivamente   instaurato   ha   prescelto   la    dialettica    del
 contraddittorio    dibattimentale    quale    criterio    rispondente
 all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio  della
 oralita'  e'  presente,  nel  nuovo sistema processuale, il principio
 della non dispersione degli elementi di prova  non  compiutamente  (o
 non genuinamente) acquisibili con il metodo orale ...".
   Ancora piu' di recente, avendo sempre presente il principio secondo
 il  quale  fine centrale del processo e' la ricerca della verita', la
 Corte con la sentenza n. 179 del 1994,  relativamente  alla  ipotesi,
 invero  in  tutto  e  per  tutto  analoga  a  quella  che  ci occupa,
 dell'esercizio della facolta' di  astenersi  dal  deporre,  riservata
 dall'art.   199   c.p.p.  ai  prossimi  congiunti  dell'imputato,  ha
 confermato il proprio orientamento.
   Muovendo da una fattispecie concreta in  relazione  alla  quale  il
 giudice  a  quo  aveva  sollevato  la  questione di costituzionalita'
 reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p.
 nel caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni  in
 sede  di  indagini preliminari, si avvalga della citata facolta' solo
 in sede dibattimentale, la  Corte  ha  dichiarato  la  questione  non
 fondata, ricorrendo ad una pronuncia c.d. "interpretativa di rigetto"
 che  ha  concluso  nel senso che  la testimonianza cosi' acquisita e'
 legittimamente,  e  soprattutto,   stabilmente   acquisita   "ed   e'
 certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale
 legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita'
 di  una  successiva  invalidazione da parte del teste, nel caso di un
 suo tardivo  esercizio  della  facolta'  di  astensione:  non  esiste
 nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione
 del  genere".  Nell'impostazione  del giudice delle leggi, dunque, in
 casi consimili, e sebbene in presenza dell'esercizio di  un  diritto,
 si  determina  una  "oggettiva  e  non prevedibile" impossibilita' di
 ripetizione dell'atto dichiarativo.   La conclusione  cui  la  citata
 sentenza  perviene  (ossia  la  lettura,  ex  art.  512 c.p.p., delle
 dichiarazioni in precedenza rese) si pone in  linea  con  quello  che
 deve  essere  senz'altro  definito caposaldo della elaborazione della
 giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice  di
 procedura  penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il
 rispetto  del  principio  dell'oralita'  con l'esigenza di evitare la
 perdita, ai fini della  decisione,  di  quanto  acquisito  prima  del
 dibattimento  e  che  sia  irripetibile  in  tale sede".   Del resto,
 diversamente opinando, l'oralita' si atteggerebbe a principio fine  a
 se  stesso,  al  quale  verrebbe  sacrificato lo scopo essenziale del
 processo penale, che - come il collegio non reputa possa revocarsi in
 dubbio - consiste nella ricerca della verita' e  nella  pronuncia  di
 una  giusta  decisione.    Per  un  elementare  principio di civilta'
 giuridica, affermato dalla Corte costituzionale e divenuto patrimonio
 comune, l'impossibilita' di consentire la dispersione della prova  ha
 imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura di
 atti  formati  nelle indagini preliminari, allorche' per qualsivoglia
 ragione (che puo' consistere anche nel puro  arbitrio  del  soggetto)
 l'atto  non  sia  ripetibile in dibattimento.   E cosi', di fronte al
 testimone  che  opponga  un  irremovibile  rifiuto  di  testimoniare,
 nell'alternativa  tra il disperdere la prova e non fare giustizia (id
 est: ricercare la verita'  e  pervenire  a  una  sentenza  giusta)  e
 valorizzare  invece gli atti formati anteriormente, il legislatore ha
 operato questa  seconda  scelta,  consentendo  la  lettura  e  quindi
 l'utilizzazione  delle  dichiarazioni  rese.   Orbene, anche nel caso
 delle persone indicate nell'articolo 210 c.p.p. si e' in presenza  di
 soggetti  che  nella  fase  delle  indagini  preliminari  non si sono
 avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato  tale
 diritto   in   dibattimento   rendendo   l'atto   "oggettivamente   e
 imprevedibilmente" irripetibile.   La ragione ideologica  allegata  a
 giustificazione  della espunzione, dal novero degli atti utilizzabili
 in  giudizio,  del  materiale  probatorio  dichiarativo   proveniente
 dall'imputato   nel  medesimo  procedimento  ovvero  in  procedimento
 connesso, una volta che questi si sia avvalso della facolta'  di  non
 rispondere o che, piu' semplicemente, non abbia inteso presenziare al
 processo  a  suo carico, e' individuata nella necessita' di garantire
 il  principio   fondamentale   della   raccolta   della   prova   nel
 contraddittorio delle parti: pertanto, laddove cio' non sia possibile
 si  procede drasticamente alla neutralizzazione, mediante la sanzione
 di   inutilizzabilita',    del    materiale    probatorio    raccolto
 unilateralmente.
   In  realta',  neppure  con la nuova disciplina dell'art. 513 c.p.p.
 si e' adottata un sistema processuale di tipo puramente  accusatorio,
 perche'  continua a rimanere vigente la disciplina della acquisizione
 delle dichiarazioni  testimoniali  rese  nella  fase  delle  indagini
 preliminari  mediante  l'impiego  nei confronti del teste reticente o
 che  semplicemente  rende  dichiarazioni  difformi   del   meccanismo
 processuale della contestazione previsto dall'art. 500 c.p.p. Anzi la
 dichiarazione di natura testimoniale che viene acquisita al fascicolo
 del  dibattimento ed utilizzata quale prova nelle forme stabilite dai
 commi 4 e 5 dell'art. 500, c.p.p., e' stata resa in forma ancora piu'
 "inquisitoria",  rispetto  alla  dichiarazione   dell'imputato;   per
 quest'ultima    infatti   una   osservanza   minimale   delle   forme
 "accusatorie"  e'  assicurata  dalla  presenza   del   difensore   al
 compimento  dell'atto, indispensabile per l'interrogatorio di polizia
 (art. 350, comma 3, c.p.p.) e per l'interrogatorio di  convalida  del
 g.i.p.  (art.  391),  facoltativa per l'interrogatorio del p.m. (art.
 364) e per l'interrogatorio "di garanzia" del g.i.p.    ex  art.  294
 c.p.p.;  al  contrario, le dichiarazioni rese dalle persone informate
 sui  fatti  alla polizia giudiziaria e al p.m. sono raccolte in forma
 rigorosamente inquisitoria e, tuttavia, sono pienamente  utilizzabili
 in   dibattimento,   vuoi   nella   forma   della   acquisizione  per
 contestazione ex art. 500, comma 2-bis,  c.p.p.,  in  caso  di  teste
 presente   ma   renitente   o   reticente,  vuoi  nella  forma  della
 acquisizione integrale del verbale  delle  dichiarazioni  rese  nelle
 indagini  preliminari  ex  art. 512 c.p.p., in caso di impossibilita'
 sopravvenuta per irreperibilita' del teste.  Sarebbe stato molto piu'
 coerente   con   il   proclamato   intendimento   di   garantire   il
 contraddittorio,  la  previsione dell'obbligo giuridico di sottoporsi
 ad esame a  carico  dell'imputato  che,  nella  fase  delle  indagini
 preliminari,  abbia  liberamente  rinunziato  alla  facolta'  di  non
 rispondere, scegliendo di  rendere  dichiarazioni  confessorie  e  di
 effettuare  chiamate in correita'.  Solo in tal modo il principio del
 contraddittorio nella formazione della prova al dibattimento  avrebbe
 trovato   piena   attuazione  e  si  sarebbe  evitata  quell'assoluta
 irragionevolezza nella disparita' di trattamento tra le dichiarazioni
 rese dall'imputato  di  reato  connesso  nella  fase  delle  indagini
 preliminari,  le  quali possono essere utilizzate tout court, qualora
 non sia possibile ottenere la presenza  in  dibattimento  o  non  sia
 possibile  escuterlo  a  domicilio  o  con altra specifica modalita',
 (art.  513,  comma  2,  prima  parte),  e  viceversa  possono  essere
 utilizzate,  solo  con  l'accordo  delle  parti,  qualora  l'imputato
 connesso, presentatosi all'udienza, si rifiuti  di  rispondere  (art.
 513,  comma  2,  seconda  parte).  Le  due  ipotesi  disciplinate dal
 legislatore del 1997 in realta' non meritano una diversa  disciplina,
 poiche'  in  entrambi  i casi l'atto e' irripetibile oggettivamente e
 imprevedibilmente e tanto  basta  perche',  in  armonia  ai  principi
 costituzionali  fissati  in  materia  dalla  Corte  (sent.  254/1992;
 255/1992; 179/1994), il giudice se ne possa avvalere liberamente,  al
 fine  di adempiere il precetto costituzionale racchiuso all'art. 101,
 comma secondo, della Costituzione pervenendo a una sentenza giusta.
   La norma impugnata appare altresi' in  evidente  contrasto  con  il
 disposto  dell'art.  101,  comma  secondo  e 112, della Costituzione:
 nella giurisprudenza costituzionale ormai consolidata, infatti, i due
 canoni finiscono per confondersi l'uno nell'altro, laddove portano ad
 affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in
 ordine alla prova.
   Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare  come  il
 potere  di  decisione  del  giudice  del merito della causa non possa
 essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un  potere
 delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche
 immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui
 all'art.   101,   comma  secondo,  della  Costituzione  precluda  una
 esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del
 processo penale, in ragione delle  indisponibilita'  degli  interessi
 pubblici  e  delle  posizioni  soggettive che di questo costituiscono
 l'oggetto; la  disponibilita'  della  prova  renderebbe  disponibile,
 indirettamente,  la  stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato
 nella   nota   sentenza   (sempre   appartenente   al   genus   delle
 interpretative di rigetto: Corte costituzionale n. 111/1993) relativa
 alla  definizione  del  potere  istruttorio  suppletivo  riservato al
 giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo codice di rito
 "il metodo dialogico di formazione  della  prova  e'  stato,  invero,
 prescelto  come  metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente
 idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno  accertamento,  e  non
 come  strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una verita'
 formale risultante dal mero confronto dialettico tra le  parti  sulla
 varieta'  reale: ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva
 del processo, che discende dal principio di legalita' e da  quel  suo
 particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di  obbligatorieta'
 dell'azione penale".
   Se e' vero che un potere dispositivo della prova  nel  processo  e'
 negato  alle  parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come
 le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e' per definizione estraneo al
 processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni.
   La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre  una  prova
 al   vaglio   dibattimentale,   a   seguito   di  un  atto  meramente
 discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato  e  capriccioso  -
 compiuto  da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del
 procedimento, come avviene nel caso in cui la  persona  esaminata  ex
 art.  210 c.p.p.  si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio'
 il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un  ulteriore
 sbarramento  all'ingresso  della fonte di prova, riservando (nel caso
 in cui il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia  avvalso  della
 facolta'   di   non  rispondere)  la  possibilita'  di  acquisire  le
 precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al  gradimento)  delle
 parti.    A  tal  proposito  non sembra superfluo sottolineare che il
 potere concesso alle parti e' cosi'  ampio  -  si  parla  infatti  di
 accordo  "delle  parti"  e  non  gia' delle parti "interessate" - che
 ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla
 sua  posizione  -  ma  rilevanti  rispetto  a  posizioni  diverse   -
 senz'altro  scopo  che  il porre un impedimento al regolare esercizio
 della giurisdizione.  Ma la situazione si aggrava proprio  quando  la
 parte  -  in  particolare  l'imputato  -  si  oppone  alla lettura di
 dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico.    In  tal
 caso  infatti  -  posto  che  tali dichiarazioni non sono considerate
 ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non  ne
 avrebbe  consentito  la  documentazione  e  l'utilizzo  nella fase di
 indagini preliminari e addirittura a fini cautelari -  il  meccanismo
 normativo  risulta  semplicemente  paradossale.  I veti incrociati di
 soggetti privati  -  quali  sono  gli  imputati  e  gli  imputati  in
 procedimento  connesso  - possono precludere l'esercizio stesso della
 giurisdizione  e  prima  ancora  quello  dell'azione   penale:   ora,
 considerato  che  i  soggetti predetti agiscono, chiaramente, per far
 valere interessi privati e sinanco  meramente  egoistici,  l'ostacolo
 frapposto  all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non essere
 ritenuto irrazionale.  La scelta del legislatore, alla stregua  della
 norma  della  cui  legittimita'  in  questa  sede il collegio dubita,
 condiziona  l'esercizio  della  giurisdizione,  incidendo  in  misura
 determinante  sulla  liberta'  del  giudice, nel significato che tale
 concetto ha assunto nella giurisprudenza costituzionale.  Conseguenze
 che  non  vengono  scongiurate  dalla   previsione   del   meccanismo
 dell'incidente probatorio - benche', in virtu' del disposto dell'art.
 4,  legge  n.  267/1997,  lo  stesso sia esperibile indipendentemente
 dalla sussistenza dei requisiti previsti in via  generale,  dall'art.
 392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di
 non  rendere  dichiarazioni: e' evidente, percio', come l'adozione di
 tale  meccanismo,  lungi dal poter essere considerata alla stregua di
 "valvola di sicurezza" del sistema, si riduca alla mera anticipazione
 dei tempi di assunzione di quella prova,  senza  tuttavia  garantirne
 l'effettiva   acquisizione   al  processo.  In  conclusione,  l'avere
 riservato alla insindacabile scelta del soggetto di  rendere  o  meno
 dichiarazioni  e  alla volonta' delle parti processuali di consentire
 alla lettura di  dichiarazioni  in  precedenza  rese  ha  finito  per
 rimettere  nella  totale disponibilita' delle parti l'ingresso di una
 prova nel dibattimento e, in definitiva, a  condizionare  l'esercizio
 stesso  dell'azione  penale.    Che  e'  quanto accaduto nell'odierna
 udienza  quando  tutti  i  difensori,  preso  atto  del  rifiuto  dei
 dichiaranti  di  sottoporsi  all'esame,  non  hanno  consentito  alla
 lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni gia'  rese.  Si  puo'
 dunque  concludere,  con le parole della stessa Corte costituzionale,
 che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce  il  principio  di
 obbligatorieta'  dell'azione  penale, ma e' prima di tutto improntato
 alla tutela dei diritti inviolabili  dell'uomo  ed  al  principio  di
 eguaglianza  dei  cittadini  di  fronte  alla legge, non sono consone
 norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole
 il  processo  di  accertamento  del  fatto  storico  necessario   per
 pervenire  ad  una  giusta  decisione"  (cfr. Corte costituzionale n.
 241/1994; nello stesso senso, gia' Corte costituzionale n. 111/1993).