IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 1369 del 1993 proposto da Fusaro' Italo Vincenzo, rappresentato e difeso dall'avv. Gabriella Spata ed elettivamente domiciliato in Lecce presso il suo studio alla via Salvatore Trinchese n. 87; Contro comune di Avetrana, in persona del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Pietro Quinto ed elettivamente domiciliato in Lecce presso il suo studio alla via G. Garibaldi n. 43; Per l'annullamento del silenzio rifiuto serbato dal comune di Avetrana sull'atto di diffida notificato in data 27 febbraio 1993, nonche' per l'accertamento della natura di rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato relativamente all'attivita' lavorativa prestata in favore del comune di Avetrana con conseguente obbligo del predetto comune del riconoscimento di diritti, spettanze e retribuzioni maturate e non corrisposte, con rivalutazione e interessi. Visti il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del comune di Avetrana; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa. Udito il relatore cons. Antonio Pasca e uditi altresi' gli avv.ti G. Spata e P. Quinto. Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o Con il ricorso n. 1369/1993, depositato in data 8 maggio 1993, il ricorrente impugna il silenzio rifiuto formatosi sulla diffida notificata in data 27 febbraio 1993, chiedendo accertarsi, in relazione alla attivita' lavorativa prestata in favore del comune di Avetrana la natura di rapporto di pubblico impiego, con tutte le conseguenze sul piano giuridico ed economico, con rivalutazione e interessi sulle somme dovute. Il ricorrente assume di aver prestato servizio presso il comune di Avetrana in qualita' di ragioniere (sesta qualifica funzionale) in virtu' di formale incarico conferitogli dapprima con delibere g.m. n. 451 del 1 settembre 1988 (chiarita con successiva delibera n. 539 del 18 ottobre 1988) e n. 86/1989 del 2 febbraio 1989 (incarichi a convenzione intercorsi tra il comune e lo "studio Giuliano", del quale il ricorrente risultava collaboratore). Il ricorrente, benche' la iniziale durata dell'incarico convenzionale fosse di durata limitata, asserisce di aver prestato la propria opera, contrariamente a quanto previsto dalla convenzione, in via continuativa, in virtu' di ulteriori successive delibere adottate dall'a.c. di Avetrana. Il ricorrente assume di essere stato sin dall'inizio inserito nell'apparato organizzativo dell'ente, prestando la propria opera con vincolo di subordinazione gerarchica, avvalendosi di mezzi e di attrezzature forniti dall'ente. Il rapporto in questione, nonostante la formale qualificazione come contratto d'opera ex art. 2222 c.c., si sarebbe concretamente atteggiato come vero e proprio rapporto di pubblico impiego. Il ricorrente ha notificato apposito atto di diffida in data 27 febbraio 1993, sulla quale si e' formato il silenzio rifiuto, pure impugnato con il ricorso in esame. A sostegno della propria pretesa il ricorrente deduce i seguenti motivi di censura: 1) eccesso di potere, con riferimento alla illegittimita' dell'inerzia serbata dall'Amministrazione sull'atto di diffida; 2) violazione degli artt. 36 della Costituzione e 2126 c.c. nonche' eccesso di potere per manifesta ingiustizia, per erronea presupposizione e difetto di istruttoria, in relazione alla circostanza che l'amministrazione non avrebbe adeguatamente valutato la configurabilita' del rapporto in esame come rapporto di pubblico impiego, sussistendone tutti gli indici rivelatori e a prescindere dal nomen fittiziamente attribuito al rapporto stesso. In data 22 febbraio 1994 si e' costituito formalmente in giudizio il comune di Avetrana, chiedendo la reiezione del ricorso. In data 28 gennaio 1995 la difesa del ricorrente ha depositato in atti varia documentazione in via istruttoria. In data 1 marzo 1996 il ricorrente ha proposto istanza cautelare; nella c.c. 12 marzo 1996 detta istanza e' stata, su richiesta, rinviata a data da destinarsi. In data 11 marzo 1996 la difesa del comune di Avetrana ha depositato in atti una memoria difensiva. In data 16 dicembre 1997 si e' costituito in giudizio per il ricorrente l'avv. G Spata, in sostituzione del precedente difensore avv. G. Pellegrino. In date 14 marzo 1998 e 23 marzo 1998 la difesa del ricorrente e, rispettivamente, la difesa del comune di Avetrana hanno depositato in atti memorie conclusive. All'udienza del 25 marzo 1998, in esito all'orale discussione, il ricorso e' stato per la decisione. D i r i t t o L'azione di accertamento proposta dal Fusaro' con il ricorso in esame concerne l'arco temporale che va dal 13 febbraio 1989 al 6 maggio 1993; il ricorrente chiede, previa qualificazione del rapporto come rapporto di p.i., l'accertamento del proprio diritto alle differenze retributive, oltre interessi e rivalutazione, nonche' alla regolarizzazione del rapporto sotto il profilo contributivo e previdenziale. A seguito della acquisizione agli atti, in esecuzione della sentenza parziale n. 330/1997 (resa nel ricorso connesso n. 948/1996, proposto - tra gli altri - anche dall'odierno ricorrente), della relazione in data 23 luglio 1997 a firma del segretario generale del comune di Avetrana e' emerso - in disparte ogni altra considerazione in ordine alla sussistenza dei cd indici rivelatori - che non risultava previsto e/o vacante il corrispondente specifico posto all'interno della pianta organica. In particolare nella citata relazione si legge: "il rag. Fusaro' Italo ha prestato la sua opera nel periodo compreso tra il 13 febbraio 1989 e il 31 dicembre 1993 negli uffici di ragioneria e segreteria del comune di Avetrana ..."; ed ancora, relativamente alla previsione e alla vacanza del posto: "per quanto riguarda i posti che i ricorrenti assumono di aver sostanzialmente ricoperto, si comunica che presso l'ufficio ragioneria risultava vacante il posto di ragioniere economo (sesta qualifica funzionale) sino al 28 dicembre 1992, coperto a seguito di espletamento di concorso interno"; ed inoltre: "presso ... l'ufficio segreteria non vi erano posti di sesta qualifica funzionale vacanti ...". Da quanto sopra emerge dunque che presso l'Ufficio segreteria non risultava vacante alcun posto di sesta qualifica funzionale durante tutto l'arco di tempo qui considerato e che, viceversa, presso l'ufficio ragioneria risultava vacante e disponibile un solo posto di ragioniere economo di sesta qualifica funzionale e solo fino alla data del 28 dicembre 1992. Deve quindi, nei termini temporali sopra evidenziati, ritenersi non sussistere in relazione alla attivita' prestata dal ricorrente il presupposto della vacanza e della disponibilita' del posto specifico nelle previsioni della pianta organica. Cio' premesso, ritiene il collegio, che l'assenza di tale presupposto precluda l'applicabilita' della norma di cui all'art. 2126, atteso che la previsione e vacanza del posto in pianta organica deve riguardarsi alla stregua di necessario presupposto, con priorita' logica rispetto all'esame degli indici rivelatori della subordinazione solitamente considerati che comunque ricorrono nel caso di specie. Occorre premettere che la norma di cui al secondo comma dell'art. 2126 non sembra applicabile alla fattispecie in esame; tale norma sancisce il diritto del prestatore di lavoro alla retribuzione se il lavoro e' stato prestato con violazione di norme poste a tutela del lavoratore. Ed invero nel caso in esame il lavoro risulterebbe prestato in violazione di norme diverse poste a tutela dell'interesse della p.a. e dell'interesse generale della collettivita' tale essendo la ratio delle norme che prevedono l'assunzione al pubblico impiego esclusivamente mediante concorso. sanzionando di nullita' assoluta (in senso proprio gli atti di costituzione di un rapporto di pubblico impiego in assenza di pubblico concorso (fatte salve le deroghe espressamente previste dalla legge). Tali norme, che trovano fondamento nell'art. 97 della Costituzione, ricorrono nell'ordinamento sia con riferimento alle amministrazioni statali, che per gli enti pubblici in genere, per i comuni, le province, le aziende sanitarie, etc. La normativa in questione mira a tutelare sia le esigenze di contenimento della spesa pubblica sia le esigenze di imparzialita' dell'azione amministrativa, sia infine quelle legate ad una adeguata valutazione dei requisiti di ammissione e all'utilizzazione di idonei criteri selettivi per l'accesso al pubblico impiego (ex plurimis. C.d.S. A.P. n. 2/1992). Come autorevolmente rilevato dal C.d.S., in particolare con la decisione A.P. n. 2 del 29 febbraio 1992, deve escludersi che la violazione delle norme che prevedono il divieto di assunzioni possa integrare illiceita' dell'oggetto o della causa nei termini e nei limiti ivi precisati. Conseguentemente la norma a cui occorre fare riferimento e' esclusivamente quella di cui al primo comma, del citato art. 2126 c.c.; tale norma prevede che la nullita' o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione. Ritiene il collegio che in realta' la norma di cui al primo comma, dell'art. 2126 c.c. null'altro costituisca se non una specificazione del generale principio di cui all'art. 2041 c.c. (con un elemento - tuttavia - specializzante come di seguito evidenziato); ove infatti la norma di cui al primo comma, dell'art. 2126 non esistesse, ugualmente risulterebbe attribuita tutela al prestatore di lavoro ai sensi dell'art. 2041 c.c., che prevede in via residuale l'azione generale di indebito arricchimento (in questo caso tuttavia con onere di prova dell'utilitas a carico del ricorrente. La norma di cui all'art. 2126, primo comma, trova infatti la sua evidente ratio non gia' nella astratta esigenza di fare salvi gli effetti medio tempore prodotti in esecuzione del contratto di lavoro nullo, bensi nell'esigenza di salvaguardare il sinallagma prestazione-controprestazione, realizzando contemporaneamente e in termini di complementarieta' - da un lato - la tutela del lavoratore e - dall'altro - l'esclusione dell'ingiustificato arricchimento da parte del datore di lavoro. Conseguentemente l'art. 2126, primo comma, deve interpretarsi - quando riferito ad una pubblica amministrazione - entro tale angolazione visuale e conformemente alla sua ratio nel senso che deve ritenersi l'ingiustificato arricchimento della p.a. in danno del prestatore di lavoro come un postulato della norma in esame. La norma di cui all'art. 2126, in quanto prevista anzitutto per regolare rapporti di lavoro privatistici (il chiaro riferimento alla nullita' o annullamento del "contratto" ne e' testimonianza), non contiene per cio' stesso un esplicito riferimento in tal senso, essendo intuitivo del resto che la costituzione di un rapporto di lavoro nell'ambito del diritto privato e quindi per volonta' anche del datore di lavoro, ancorche' con contratto nullo o annullato implica e presuppone di per se' una evidente quanto implicita valutazione di utilita' e rilevanza economica per il datore di lavoro stesso della prestazione resa dal dipendente. L'elemento specializzante dell'art. 2126 rispetto alla norma di cui all'art. 2041 c.c. e' costituito dalla presunzione assoluta di utilitas della prestazione per il datore di lavoro da quanto sopra discende l'esonero del ricorrente dal relativo onere di prova. Tale presunzione juris et de jure di utilita' economica della prestazione di lavoro resa dal lavoratore (che caratterizza e differenzia l'art. 2126 dall'art. 2041) non ha ragion d'essere qualora il datore di lavoro sia una pubblica amninistrazione, sia per la peculiarita' della normativa di riferimento, sia per la cogente esigenza - anche costituzionalmente garantita sotto vari profili - di programmazione del fabbisogno di personale e di correlativa puntuale previsione delle risorse umane. Siffatta utilita' e rilevanza economica presunta juris et de jure (implicito presupposto di applicabilita' dell'art. 2126), ove il datore di lavoro sia una pubblica ammmistrazione non puo' che ravvisarsi - sempre ai soli fini' dell'applicazione dell'art. 2126 - nella attivita' prestata su un posto previsto nella p.o., vacante e disponibile. Tale circostanza dunque deve riguardarsi come necessario e imprescindibile presupposto per l'applicazione dell'art. 2126 c.c. nei confronti della p.a. Il collegio non ignora ovviamente l'orientamento giurisprudenziale che non attribuisce rilevanza a siffatto elemento nell'ambito di giudizi analoghi a quello in esame, orientamento pure in precedenza seguito da questo tribunale; alcune riflessioni ulteriori, tuttavia, inducono il collegio, melius re perpensa, a mutare il proprio indirizzo. Occorre infatti considerare che l'indebito arricchimento della, p.a. (che e' presunto in via assoluta ex art. 2126) in danno del dipendente, a differenza di quanto accade per il caso di un datore di lavoro privato, deve necessariamente raggiungere un livello di rilevanza giuridico-formale ai fini dell'applicazione della norma in esame; ed invero, diversamente opinando, l'arricchimento ingiustificato della p.a. ai sensi dell'art. 2126 c.c. suonerebbe come una mera asserzione di principio e come un assioma indimostrato e indimostrabile. Occorre peraltro considerare che una siffatta rilevanza giuridico-formale (e non meramente fattuale) dell'arricchimento indebito costituisce per la pubblica amministrazione, a differenza di quanto accade nei rapporti interprivati, non un dato meramente formale e fine a se stesso, bensi' il concreto presupposto dell'arricchimento senza giusta causa, che qui rileva in quanto causa di patologia del rapporto sinallagmatico al quale l'art. 2126 c.c. intende porre rimedio. Tale arricchimento ingiustificato per la pubblica amministrazione - sempre ai limitati fini dell'applicazione dell'art. 2126 - non puo' che consistere, infatti, nella fruizione di determinate prestazioni lavorative, riferibili qualitativamente e quantitativamente ad una determinata qualifica funzionale, retribuita o con un trattamento economico previsto per un dipendente di qualifica inferiore (come accade in tema di retribuzione differenziale per lo svolgimento di mansioni superiori) ovvero con un corrispettivo di fonte convenzionale, comunque inferiore al parametro economico costituito astrattamente dalla qualifica di riferimento delle mansioni svohe (come accade per il caso della domanda di accertamento della qualificabilita' di un rapporto precario come rapporto di pubblico impiego). Occorre infatti considerare che, per fruire di una siffatta prestazione lavorativa, la p.a. dovrebbe poter coprire il posto vacante (e ovviamente previsto nella p.o.) mediante una regolare assunzione (concorso, mobilita', etc.), con la conseguenza di dover corrispondere al dipendente in tal modo assunto un trattamento economico corrispondente alla qualifica di riferimento; l'assenza di previsione e/o vacanza del posto nella p.o., per quanto sopra evidenziato, precluderebbe alla p.a. ogni possibilita' di ricorrere ad una regolare assunzione. Conseguentemente nessuna utilita' in termini economici e nessun indebito arricchimento possono presumersi - ex art. 2126 - derivare alla p.a. dall'espletamento di mansioni superiori ovvero dall'espletamento di attivita' da parte di personale in rapporto di incarico e a convenzione, per il caso in cui il posto non risulti previsto nella pianta organica (come nel caso in esame) ovvero per il caso in cui lo stesso non risulti vacante. In realta', la ratio di fondo che giustifica la retribuibilita' delle mansioni superiori non e' dissimile da quella posta a giustificazione della retribuzione secondo il parametro dei contratti collettivi di un rapporto di incarico o a convenzione: in un caso e nell'altro si e' in presenza di una rivendicazione da parte del prestatore di lavoro, rivendicazione che presuppone che lo stesso abbia sostanzialmente, e anche in via di mero fatto, ricoperto uno specifico posto della pianta organica, vacante e disponibile. Diversamente opinando non appare giustificato, ne' conforme al principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, il ritenere inapplicabili' le norme di cui agli artt. 36 della Costituzione e 2126 c.c. per il caso del dipendente che abbia svolto mansioni superiori in assenza della previsione o della vacanza dello specifico posto e, per contro, il ritenere tali norme applicabili nei confronti di un soggetto che, sempre in assenza di previsione e di vacanza del posto, abbia prestato una attivita' in favore della p.a. in virtu' di atti deliberativi di incarico; in un caso o nell'altro infatti la retribuzione differenziale presuppone l'accertamento della copertura in via di fatto di un posto vacante nella p.o. E' noto infatti che l'esigenza del perseguimento dell'interesse generale e dei fini istituzionali da parte dell'ente pubblico condiziona l'intera organizzazione delle risorse umane e delle energie lavorative. In particolare, la pianta organica costituisce il momento di sintesi, all'interno del quale vengono necessariamente rappresentate tutte le esigenze qualitative e quantitative in relazione alla natura dei servizi offerti e dei fini istituzionali perseguiti. La p.o. costituisce peraltro un evidente limite anche per l'amministrazione, in vista della esigenza di garantire l'osservanza dei principi di cui all'art. 97 della Costituzione e una corretta gestione delle risorse finanziarie. Conseguentemente risulta precluso all'amministrazione di costituire rapporti impiegatizi su posti non previsti e vacanti in p.o. Le esigenze che non risultino tradotte in una previsione della p.o. risultano pertanto entita' non immediatamente e presuntivamente apprezzabili in termini economico patrimoniali per l'amministrazione, salvo prova contraria, nei termini di seguito precisati (ex art. 2041 c.c.) Da cio' deriva che la previsione e la vacanza dello specifico posto, come in relazione all'asserito espletamento delle mansioni superiori costituisce necessario presupposto per la retribuibilita' delle stesse (c.f.r. C.d.S. A.p. n. 2 del 16 maggio 1991; t.a.r. Marche n. 553 del 29 novembre 1996; t.a.r. Sicilia Catania n. 1109 del 21 giugno 1996; t.a.r. Puglia Lecce n. 46/1997 del 24 gennaio 1997; nonche' c.f.r. Corte costituzionale 31 marzo 1995 n. 101), cosi' anche in relazione all'asserita qualificabilita' di un rapporto ad incarico come rapporto di pubblico impiego deve necessariamente costituire altrettanto imprescindibile presupposto per l'attribuzione di retribuzione differenziale rispetto al corrispettivo fissato nell'atto di incarico, atteso che in un caso come nell'altro la previsione e la vacanza del posto condizionano in concreto la qualificabilita' della fattispecie come ipotesi di arricchimento ingiustificato presunto (ex art. 2126). Deve pertanto ritenersi che l'assenza della previsione e/o vacanza del posto costituisca circostanza idoena e sufficiente ad escludere l'applicabilita' alla fattispecie della previsione di cui all'art. 2126, comma primo. Cio' non vuol dire che in tal caso il prestatore d'opera resti privo di tutela giurisdizionale, per quanto di seguito si dira'. Preme qui sottolineare che l'assenza di previsione e/o vacanza del posto non viene in rilievo ai fini del ritenere sussistente o meno un rapporto di p.i. (ancorche' costituito con atti sanzionati di nullita'), ovvero un obiettivo ingiustificato arricchimento della p.a., bensi' solo ai fini del ritenere applicabile o meno la norma di cui all'art. 2126 del c.c., tenuto conto che l'evidente agevolazione del ricorrente sul piano dell'onere di prova trova fondamento in una presunzione assoluta dell'utilitas della prestazione per il datore di lavoro, presunzione configurabile anche nei confronti della p.a. ma solo nel caso di previsione e vacanza del posto e fatta salva l'ipotesi dell'espresso riconoscimento di tale utilitas da parte della p.a. Ai sensi dell'art. 1414 c.c., il contratto simulato non produce effetto tra le parti e, se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purche' ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma. Cio' premesso, come gia' sopra anticipato, non puo' ritenersi che - secondo la tesi interpretativa qui seguita - il prestatore di lavoro privato, in tal modo di tutela giurisdizionale ex art. 2126 comma primo, in relazione al rapporto dissimulato resti anche privo di azione con riferimento al rapporto apparente per effetto del citato art. 1414, comma primo, c.c. Occorre infatti considerare che spetta al giudice il compito di qualificare la fattispecie sul piano guridico, conseguentemente: 1) se - in presenza dei presupposti di legge e degli indici rivelatori - il rapporto sara' qualificato come rapporto di pubblico impiego, cio' stesso comprovera' che il contratto o rapporto apparente e' simulato, trovando conseguentemente applicazione l'art. 2126 comma primo e l'art. 1414, comma primo; 2) se viceversa - in difetto delle necessarie condizioni - tale norma (2126) non possa applicarsi (ad esempio per difetto del presupposto della previsione e/o vacanza del posto corrispondente nella p.o.) delle due l'una: a) o deve ritenersi esclusa la simulazione, essendo evidente in tal caso che non sono ravvisabili un rapporto apparente convenzionale ed un rapporto dissimulato di p.i., sussistendo viceversa unicamente il rapporto convenzionale, da ritenersi quindi non apparente, bensi' reale ed effettivo sotto ogni profilo (ipotesi che ricorre qualora il rapporto siasi concretamente articolato in conformita' delle previsioni convenzionali, oggettivamente riconducibili nell'ambito applicativo di cui all'art. 2222 c.c.) avendo in tal caso il lavoratore a disposizione ovviamente le azioni nascenti dal contratto; b) ovvero, ricorrendo comunque la simulazione (essendosi il rapporto concretamente articolato secondo il modello del rapporto di lavoro subordinato), deve ritenersi che il contratto dissimulato abbia effetto tra le parti, ove ricorrano i necessari requisiti di forma e di sostanza, e che il lavoratore, esclusa l'applicabilita' dell'art. 2126 per difetto del presupposto della vacanza del posto, riceva tutela giurisdizionale ai sensi dell'art. 2041. c.c. Nell'ipotesi di cui sub 2-a) (sostanzialmente assimilabile all'ipotesi di accertata insussistenza in fatto degli indici rivelatori della subordinazione), il prestatore di lavoro avra' a sua disposizione l'azione nascente dalla convenzione-contratto, azione la cui cognizione resta ovviamente devoluta all'AGO, nel caso in cui il rapporto si sia concretamente articolato secondo le modalita' e le previsioni contenute nella convenzione. In tal caso il lavoratore, oltre all'azione nascente dal contratto, avra' a disposizione, in via residuale, l'azione generale di cui all'art. 2041 c.c., da esercitarsi sempre davanti al g.o.; cosi' ad esempio nei seguenti casi: per il caso in cui il prestatore sia decaduto dall'azione contrattuale; ovvero per il caso in cui il contratto manchi dei necessari requisiti formali (ad es.: forma scritta che per la p.a. e' richiesta ad substantiam); ovvero per il caso in cui il contratto risulti nullo o venga annullato. Nell'ipotesi di cui sub 2)-b), viceversa. sempre nella ritenuta assenza o vacanza del posto in p.o., il prestatore d'opera potra' agire - davanti al giudice amministrativo - nei confronti della p.a., avvalendosi della generale e residuale azione ai sensi dell'art. 2041 c.c. L'azione ai sensi dell'art. 2041, con conseguente onere di prova dell'utilitas della prestazione a carico del ricorrente, va comunque riconosciuta nei seguenti casi: qualora il rapporto siasi in concreto articolato in termini differenti rispetto alle previsioni contrattuali (prova di simulazione), concernendo ad esempio l'esecuzione di prestazioni ulteriori e non previste convenzionalmente e secondo il modello del rapporto di lavoro subordinato; ovvero infine per il caso in cui non vi sia stato alcun contratto o convenzione e il rapporto siasi comunque articolato secondo il modello del rapporto di lavoro subordinato. In tali ultime ipotesi infatti, in presenza degli indici rivelatori del rapporto di pubblico impiego, da valutarsi ex ante ed in relazione al petitum, resta per cio' stesso radicata la giurisdizione del g.a.; non potendo tuttavia applicarsi - in difetto della vacanza del posto (o dell'esplicito riconoscimento dell'utilitas) - l'art. 2126, il ricorrente ha l'onere di fornire prova della utilita' economica della prestazione per la p.a., avvalendosi di tutti i mezzi di prova a sua disposizione (anche in relazione a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la nota sentenza 23 aprile 1987, n. 146). Sia sufficiente in proposito solo richiamare, per esigenze di sintesi, il prevalente orientamento in tema di onere di prova nell'azione ex 2041 nei confronti della p.a., anche con riferimento alla possibilita' di riconoscimento implicito dell'utilita': ex plurimis Cass. 11 novembre 1994, n. 9458; Cass. 27 febbraio 1991, n. 2111; Cass. 13 maggio 1980, n. 3157; Cass. 23 maggio 1995, n. 5638; Cass. 23 giugno 1992, n. 7694; Cass. 20 novembre 1992, n. 12399; Cass. 10 dicembre 1994, n. 10567; Cass. ss.uu. 13 febbraio 1991, n. 1521; Cass. 8 luglio 1994; Cass. 12 settembre 1992, n. 10433; Cass. 20 agosto 1992, n. 9682; Cass. 10 novembre 1993, n. 11107. Siffatto onere probatorio risulta peraltro temperato dalla possibilita', prevista unicamente per il giudizio davanti all'AGO, di chiedere e di ottenere una pronuncia secondo equita', atteso il tenore da un lato dell'art. 113 c.p.c. e dall'altro del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 432 c.p.c. Tale ultima disposizione prevede, infatti, espressamente (indipendentemente da una richiesta di parte in tal senso) che nelle controversie di lavoro, "quando sia certo il diritto ma non sia possibile determinare la somma dovuta..." la valutazione delle prestazioni rese dal lavoratore venga liquidata dal giudice con valutazione equitativa (rif. anche ad art. 1226 c.c.). Ai sensi dell'art. 409 c.p.c. tali controversie - ratione materiae - rientrano infatti nella competenza del giudice del lavoro, con conseguente applicazione dello speciale rito (art. 409 c.p.c., terzo comma). Si consideri peraltro che la previsione di cui all'art. 2126, proprio facendo salvi gli effetti del contratto nullo o annullato per il tempo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, rinvia quanto al parametro retributivo di riferimento, proprio al compenso o retribuzione previsti dal contratto stesso, esclusa pertanto ogni possibilita' di integrazione o sostituzione per c.d. "esterna". Si puo' in proposito ritenere che il ricorso da parte della giurisprudenza amministrativa, in tali i casi, ai parametri retributivi previsti dalla contrattazione collettiva per il dipendente di ruolo con mansioni similari abbia costituito in realta' un escamotage o un surrogato del potere di liquidazione equitativa della prestazione, attribuito al solo al giudice ordinario (atteso che il riferimento ai parametri retributivi fissati dai CC.CC.NN.LL. per i dipendenti di ruolo appare praticabile solo per l'ipotesi di copertura di fatto di un posto vacante e disponibile). La possibilita' comunque di ottenere una liquidazione equitativa attenua, come gia' evidenziato, l'onere, di prova che incombe sull'attore ex 2041 c.c., potendosi agevolmente ravvisare in cio' - alla stregua della previsione specifica per le controversie di lavoro di cui all'art. 432 c.p.c. - un evidente favor per il prestatore di lavoro, in perfetto parallelo con quello - per altro verso - assicurato dal 2126 c.c. Correlativamente si puo' ritenere che la posizione di favor per il prestatore di lavoro, che trova radici nei principi sanciti nella Carta costituzionale, risulti comunque garantita anche per l'ipotesi di azione ex art. 2041, ove esercitata dal lavoratore; la liquidazione equitativa, anche d'ufficio, esclude infatti complicazioni probatorie sull'utilitas, abbastanza ardue in taluni casi (investendo valutazioni gestionali difficilmente apprezzabili dall'attore). Conclusivamente deve ritenersi che come le azioni ai sensi del 2041 proposte dal prestatore d'opera, ai sensi dell'art. 409 c.p.c., terzo comma, rientrano nella competenza del giudice del lavoro, cosi' analogamente l'azione ex 2041 proposta dal prestatore d'opera nei confronti della p.a. non possa che rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo qualora nel rapporto e alla luce della domanda siano ravvisabili gli indici rivelatori del rapporto di pubblico impiego. Considerato che, ove manchi il presupposto della previsione e della vacanza del posto in p.o., non puo' trovare applicazione, pure in presenza degli indici rivelatori, l'art. 2126 c.c. e tenuto conto che in tal caso non puo' assumersi a parametro retributivo di riferimento il trattamento economico previsto per i dipendenti di ruolo dalla contrattazione collettiva (anche in relazione alla correlazione della retribuzione non solo alla oggettivita' della prestazione resa, ma anche alle condizioni soggettive e qualitative del prestatore), appare discriminatorio il ritenere non applicabile da parte del g.a. la norma di cui all'art. 432 c.p.c. Tale norma infatti, in quanto e facente parte del rito speciale del lavoro innanzi al G.O., non sembra immediatamente applicabile nel giudizio in tema di pubblico impiego dinnanzi al giudice amministrativo. Tale omessa previsione appare in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, differenziando sul piano della tutela giurisdizionale situazioni sostanzialmente identiche; nonche' in contrasto con l'art. 36 Cost. nella parte in cui - esclusa per l'assenza della vacanza del posto l'applicabilita' dell'art. 2126 e, conseguentemente, la possibilita' del riferimento ai parametri retributivi della contrattazione collettiva - preclude al lavoratore una liquidazione secondo equita' che risulti comunque conforme ai principi fissati nella citata norma della Carta costituzionale; nonche' infine in contrasto con l'art. 113 Cost. in quanto tale omessa previsione limita la tutela giurisdizionale del diritto soggettivo alla giusta retribuzione, qualora - non trovando applicazione i parametri della contrattazione collettiva - il ricorrente non sia in grado di provare anche il quantum. La questione di costituzionalita', cosi come sopra esposta, appare non manifestamente infondata e rilevante ai fini del decidere. Basti in proposito considerare che il ricorrente, come si evince anche dalle relazioni in atti, ha svolto mansioni completamente diverse da quelle previste nell'originaria convenzione; cio' induce a ritenere che il rapporto di incarico a convenzione fosse in realta' simulato. Le attivita' svolte, che peraltro sono obiettivamente riconducibili nell'ambito di quelle proprie di qualifiche varie e diverse fra loro, non possono ritenersi compensate dal corrispettivo previsto nella convenzione, proprio perche' ulteriori e diverse. Non essendo, per quanto sopra evidenziato, applicabile l'art. 2126 e ricorrendo gli indici rivelatori della subordinazione, nel caso di specie non appare possibile definire la controversia nella sua totalita' se non previa definizione della questione di costituzionalita' nei termini sopra esposti. Riservata ogni altra decisione, il giudizio va pertanto immediatamente sospeso, in attesa della decisione della Corte costituzionale, cui vanno rimessi gli atti.