IL TRIBUNALE
   Nel procedimento penale n. 538/1996 r.g.  trib.  nei  confronti  di
 Preti   Giuseppe,   Lautieri   Gianfranco,   Scampini   Luigi,  Ferri
 Giuseppina,  Pala  Paolo  Giuseppe,  Giuliani   Francesca,   Giuliani
 Achille, imputati come in atti;
   Pronunciando   sulla   eccezione   di  legittimita'  costituzionale
 formulata dal pubblico ministero nell'odierna udienza in ordine  agli
 artt.    210, comma 4, c.p.p. e 513, comma 2, c.p.p. (come sostituito
 dalla legge n. 267/1997);
   Sentiti i difensori delle altre parti;
                             O s s e r v a
    1. - All'udienza del 21 marzo 1997, terminata l'acquisizione delle
 prove  richieste  dalle  parti,  il  tribunale  disponeva,  a   norma
 dell'art.   507 c.p.p., l'audizione, fra gli altri, degli imputati in
 procedimento connesso Piretti Giuseppe  e  Marchetti  Marinella,  nei
 confronti dei quali si era proceduto separatamente, avendo gli stessi
 chiesto  ed  ottenuto la definizione del processo mediante ricorso al
 rito speciale di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p.
   All'odierna udienza dibattimentale venivano introdotti per  l'esame
 i  sunnominati  Piretti  e  Marchetti,  i  quali  si avvalevano della
 facolta' di non rispondere (loro riconosciuta dagli artt. 210  e  513
 c.p.p.).
   Il   pubblico  ministero  chiedeva  pertanto  procedersi,  a  mente
 dell'art.   513 c.p.p. cosi' come modificato  dall'art.  1  legge  n.
 267/1997, alla lettura dei verbali delle dichiarazioni rese alla p.g.
 su  delega  del  p.m. nonche' al pubblico ministero dai summenzionati
 imputati  (in  procedimento  connesso)  nel  corso   delle   indagini
 preliminari.
   La difesa dell'imputato Lautieri non acconsentiva alla lettura.
   Il  pubblico ministero sollevava, quindi, eccezione di legittimita'
 costituzionale in ordine agli artt 210, comma 4, c.p.p. e 513,  comma
 2,  c.p.p.,  in  relazione agli artt. 3, 24 comma 2, 25 comma 2, 101,
 102 comma 1, 111, 112 della Costituzione.
   2.  -  Interpretazione  dell'art.  513  c.p.p.,   come   sostituito
 dall'art.  1 della legge n. 267 dell'8 agosto 1997.
   Rileva  il  tribunale  che l'art. 513 c.p.p., cosi' come sostituito
 dall'art. 1 legge n. 267  del  1997,  dispone:  "1)  Il  giudice,  se
 l'imputato'  e'  contumace  o  assente  ovvero  rifiuta di sottoporsi
 all'esame, dispone, a richiesta di parte, che sia  data  lettura  dei
 verbali  delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero
 o  alla  polizia  giudiziaria  su  delega del pubblico ministero o al
 giudice  nel  corso  delle  indagini   preliminari   o   nell'udienza
 preliminare,  ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei
 confronti di altri senza il loro consenso.   2) Se  le  dichiarazioni
 sono  state rese dalle persone indicate nell'art.  210, il giudice, a
 richiesta  di  parte,  dispone,  secondo  i  casi,  l'accompagnamento
 coattivo  del  dichiarante  o  l'esame  a  domicilio  o  la rogatoria
 internazionale ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge  con
 le  garanzie  del  contraddittorio.  Se  non e' possibile ottenere la
 presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei  modi
 suddetti,  si  applica  la  disposizione  dell'art.  512  qualora  la
 impossibilita'  dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al
 momento delle dichiarazioni.  Qualora il dichiarante si avvalga della
 facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali
 contenenti  le  suddette  dichiarazioni  soltanto con l'accordo delle
 parti. 3) Se le dichiarazioni di cui ai commi  1  e  2  del  presente
 articolo  sono state assunte ai sensi dell'articolo 392, si applicano
 le disposizioni di cui all'articolo 511".
    La norma prevede dunque che, qualora una  delle  persone  indicate
 nell'art.  210  c.p.p. (imputato in procedimento connesso) si avvalga
 della  facolta'  di  non  rispondere,  si  puo'  dare  lettura   (con
 conseguente  acquisizione al fascicolo per il dibattimento) delle sue
 dichiarazioni predibattimentali, indicate nel comma 1 dell'art.  513,
 soltanto se sussista l'accordo di tutte le parti del processo.
   A  ciascuna  delle  parti processuali viene, pertanto, conferito il
 potere di vietare la lettura e  l'utilizzabilita'  a  fini  probatori
 delle dichiarazioni in questione.
   Ritiene,   inoltre,   questo   tribunale   che  si  ponga  altresi'
 preliminarmente   una   questione   di   conformita'    al    dettato
 costituzionale  degli artt.   210, comma 4 e 513 c.p.p nella parte in
 cui attribuiscono, alle persone indicate ai commi 1 e 6 dello  stesso
 art.  210  c.p.p.,  la  facolta'  di non rispondere alle domande loro
 rivolte in dibattimento. Tale questione  e'  rilevante  nel  presente
 processo poiche' il Piretti Giuseppe e la Marchetti Marinella si sono
 avvalsi di tale facolta'.
    Siffatta  disciplina  legislativa si appalesa, ad avviso di questo
 collegio, in contrasto con alcuni principii di rango  costituzionale,
 di  talche'  va  sollevata questione di legittimita' costituzionale a
 norma dell'art. 23, legge   n.  87/1953,  nei  termini  proposti  dal
 pubblico ministero.
   Per  motivi  di  comodita'  espositiva  e'  preferibile  affrontare
 dapprima la questione  concernente  la  nuova  disciplina  introdotta
 dall'art.    1 della legge n. 267/1997, sebbene quella riguardante il
 combinato disposto di cui agli artt. 210, comma 4 e  513  c.p.p.  sia
 logicamente preliminare.
   3.  -  Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art.
 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997.
   Appare evidente, nel caso di specie, la rilevanza  della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  del disposto di cui al vigente art.
 513, comma 2, c.p.p., poiche'  l'esame  ex  art.  210  c.p.p.,  degli
 imputati   in   prodimento  connesso  Piretti  Giuseppe  e  Marchetti
 Marinella e' stato disposto dal  tribunale  ai  sensi  dell'art.  507
 c.p.p.,   essendo   stato   ritenuto   non   solo  rilevante,  bensi'
 assolutamente necessario in relazione  alla  posizione  dell'imputato
 Lautieri,  detto  mezzo  di prova; va, poi, osservato che la norma in
 questione subordina la lettura e l'acquisizione al fascicolo  per  il
 dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dai sunnominati
 -  che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere - al consenso
 delle parti e che la difesa dell'imputato Lautieri si  e'  opposta  a
 tale  lettura.  Tali  dichiarazioni,  in applicazione della impugnata
 norma, non possono quindi trovare ingresso nel dibattimento.
   4. - Non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 dell'art. 513, comma 2, c.c.p., come sostituito dall'art. 1, legge n.
 267 del 1997, nella parte in cui subordina soltanto all'accordo delle
 parti  la  lettura  dei  verbali  contenenti le dichiarazioni rese al
 pubblico ministero  dalle  persone  indicate  nell'art.  210  c.p.p.,
 qualora si siano avvalse della facolta' di non rispondere.
   Contrasto  con gli artt. 3, 24 comma 1 e 2, 25, comma 2, 101, comma
 2, 102, comma 1, 111, comma 1, 112 della Costituzione.
   4.1. - Irragionevolezza della norma.
   La legge n. 267/1997 ha, in buona sostanza, reintrodotto  un  vizio
 di  manifesta  irragionevolezza analogo a quello gia' censurato dalla
 Corte costituzionale nella sentenza n. 254 del 1992, con la quale era
 stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma
 2, c.p.p., (nella formulazione all'epoca vigente) nella parte in  cui
 non prevedeva che il giudice, sentite le parti, disponesse la lettura
 dei  verbali  delle  dichiarazioni di cui al primo comma del medesimo
 articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., ove queste
 si fossero avvalse della facolta' di non rispondere.
   La nuova formulazione dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  prevede,
 infatti,  una  diversa  utilizzabilita'  degli  atti a seconda che si
 tratti di dichiaranti in relazione ai quali non e' possibile ottenere
 la presenza o procedere all'esame (in uno dei modi indicati nel comma
 medesimo  della  citata  disposizione)  per   fatti   o   circostanze
 imprevedibili al momento delle dichiarazioni, ovvero che si tratti di
 dichiaranti  che  si  presentano al dibattimento, ma che si avvalgono
 della facolta' di non rispondere.
   Ed, invero, mentre nel primo caso e'  consentito  al  giudice  dare
 senz'altro   lettura   (ex   art.  512  c.p.p.)  delle  dichiarazioni
 predibattimentali rese dalle persone indicate nell'art.  210  c.p.p.,
 tale  possibilita'  e'  preclusa  nella  seconda ipotesi, allorquando
 anche una sola delle parti non vi acconsenta.
   E' innegabile, tuttavia, che nella categoria  degli  atti  divenuti
 imprevedibilmente  irripetibili  sono  sicuramente  da  ricomprendere
 anche   i    verbali    contenenti    le    suddette    dichiarazioni
 predibattimentali  di  persone, indicate nell'art. 210 c.p.p., che si
 siano avvalse in dibattimento della facolta' di non  rispondere.  Che
 l'irripetibilita'   dell'atto   sia  imprevedibile  (soprattutto  nel
 momento delle precedenti dichiarazioni) e' evidente, ove si consideri
 che essa dipende da una scelta rimessa al mero arbitrio del  soggetto
 (giova  rammentare  a  tale  proposito che la Corte costituzionale ha
 ritenuto che determini un'oggettiva ed imprevedibile  irripetibilita'
 dell'atto  il tardivo esercizio della facolta' di astensione da parte
 di prossimo congiunto dell'imputato: sent. n. 179/1994).
   Trattandosi di situazioni identiche, la  diversita'  di  disciplina
 e',   dunque,  sfornita  di  qualunque  ragionevole  giustificazione,
 poiche' in entrambi  i  casi  l'atto  e'  divenuto  imprevedibilmente
 irripetibile  e tanto dovrebbe bastare perche' il giudice se ne possa
 avvalere ai fini di una decisione giusta.
    La  mera  eventualita'  che  delle dichiarazioni possa essere data
 lettura, ove  tutte  le  parti  lo  consentano,  non  fa  venir  meno
 l'irragionevolezza  della  disciplina di cui al nuovo art. 513, comma
 2, c.p.p, atteso che l'ostacolo frapposto alla formazione della prova
 consiste in un insindacabile potere rimesso di fatto al libero volere
 di tutte le parti (comprese quelle che, in ipotesi, non abbiano alcun
 interesse processualmente rilevante in ordine alla prova stessa),  di
 guisa  che  ciascuna  di  esse potrebbe opporsi all'utilizzo di prove
 irrilevanti rispetto alla propria posizione - ma rilevanti rispetto a
 posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un  impedimento  al
 regolare esercizio della giurisdizione.
   4.2. - Principio di non dispersione della prova
   Nella  pronuncia sopra citata (n. 254/1992) la Corte costituzionale
 osservo'  che  nel  vigente  codice  processuale  e'  rinvenibile  un
 fondamentale   criterio   tendente   contemperare   il  rispetto  del
 principio-guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare la "perdita",
 ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e
 che in questa sede sia divenuto irripetibile.
   Nella successiva  sentenza  n.  255/1992  la  Corte  ha,  altresi',
 affermato  che  "...l'oralita',  assunta  a  principio ispiratore del
 nuovo sistema, non  rappresenta,  nella  disciplina  del  codice,  il
 veicolo  esclusivo  di  formazione della prova nel dibattimento; cio'
 perche' fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che
 rimanere quello della ricerca della verita'... di guisa che in taluni
 casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e'  dato
 rilievo  nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti formatisi prima e al di fuori del dibattimento".  La  Corte  ha,
 quindi,  individuato, siccome emergente da vari istituti processuali,
 il c.d.  principio  di  non  dispersione  dei  mezzi  di  prova,  non
 compiutamente  o  non  genuinamente  acquisibili col metodo orale. Si
 pensi ad esempio al testimone (gia' sentito nella fase delle indagini
 preliminari) che opponga un irremovibile rifiuto a deporre;  in  tali
 casi  il  legislatore,  posto nell'alternativa di disperdere la prova
 testimoniale precedentemente acquisita o  rendere  utilizzabile  tale
 atto  anteriormente  formato,  ha  optato  per questa seconda scelta,
 consentendo la lettura delle dichiarazioni gia' rese in precedenza.
   Se cosi' non fosse, quello dell'oralita'  diverrebbe  un  principio
 fine  a  se  stesso,  sul  cui  altare  verrebbe sacrificato lo scopo
 essenziale del processo penale,  che  consiste  nella  ricerca  della
 verita' e nella pronuncia di una decisione giusta.
   Anche  sotto questo profilo la norma impugnata pare quindi priva di
 giustificazione, ponendo in essere una irragionevole preclusione alla
 ricerca della verita'.
   4.3. -  Inesistenza  di  un  principio  dispositivo.  Principio  di
 indefettibilita'    della   giurisdizione.   Principio   del   libero
 convincimento del giudice.
   La Corte, nella sentenza n. 111 del 1993  ha,  inoltre,  affermato:
 "...  La  configurazione  del potere istruttorio conferito al giudice
 dall'art. 507 come eccezionale, e quindi  da  escludere  in  caso  di
 decadenza   o   inattivita'   delle  parti,  discende,  nella  logica
 presupposta dai giudici  remittenti,  dall'assunzione  dell'immanenza
 nel  nuovo  codice,  come conseguenza della scelta accusatoria, di un
 principio  dispositivo  in  materia di prova. Si tratta, pero', di un
 assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel
 tessuto normativo concretamente disegnato nel codice.
   E' per la verita' incontroverso che sarebbe contrario  ai  principi
 costituzionali  di  legalita'  e obbligatorietd dell'azione concepire
 come disponibile la tutela giurisdizionale  assicurata  dal  processo
 penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame
 strutturale  e  funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse
 sostanziale pubblico alla repressione dei fatti  criminosi  che  quei
 principi  intendono  garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza,
 ad essi correlata, che la  responsabilita'  penale  sia  riconosciuta
 solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile
 della liberta' personale.
   Sotto  questo  profilo,  e'  significativo  che il nuovo codice non
 conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il
 giudice sul merito della decisione; prova ne sia  che  ad  un  simile
 esito  non  conduce  neanche  l'istituto dell'applicazione di pena su
 richiesta (cfr. sent. n. 313 del 1990). Ma un  principio  dispositivo
 non  puo'  dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche' cio'
 significherebbe rendere disponibile, indirettamente,  la  stessa  res
 iudicanda.  Ed anche qui la riprova si ha nell'altro rito speciale in
 cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle  parti,  e  cioe'
 nel  giudizio  abbreviato, dato che in esso l'accordo di queste sulle
 prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed
 anzi non puo' neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da
 questa Corte  (sentt.  nn.  92  del  1992  e  56  del  1993)  -  come
 assolutamente  preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente
 necessarie,   pena   la   sua   incompatibilita'   con   i   principi
 costituzionali.
   Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non
 trova  riscontro  nella  normativa  positiva  neanche sul terreno del
 giudizio ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova  e'
 stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto
 maggiormente   idoneo   al   loro  per  quanto  piu  possibile  pieno
 accertamento,  e  non  come  strumento  per  far   programmaticamente
 prevalere   una   verita'   formale  risultante  dal  mero  confronto
 dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti,  ne  sarebbe
 risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende
 dal  principio  di  legalita'  e  da  quel  suo  particolare  aspetto
 costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale.... Ma
 e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere
 dispositivo delle parti in materia di prova.
   Questa  Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del
 1992, che tale norma - inserita "in un sistema processuale imperniato
 su un ampio  riconoscimento  del  diritto  alla  prova  e  nel  quale
 l'acquisizione  del  materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo
 all'iniziativa delle parti" - "conferisce al giudice il potere-dovere
 d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui  la
 carenza  o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle
 parti  impedisca  al  dibattimento  di  assolvere  la   funzione   di
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del   processo,   onde   consentirgli  di  pervenire  ad  una  giusta
 decisione... Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque,
 un potere suppletivo, ma  non  certo  eccezionale..    E'  del  resto
 evidente   che   sarebbe   contraddittorio,   da  un  lato  garantire
 l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o
 le deliberate inerzie del pubblico ministero  conferendo  al  giudice
 per  le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli
 l'imputazione ....; e, dall'altro, negare al  giudice  dibattimentale
 il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica".
   In  sostanza,  nella  predetta  pronuncia  la Corte ha riconosciuto
 incompatibile  con  i   principi   costituzionali   di   uguaglianza,
 legalita',  obbligatorieta'  dell'azione  penale,  un processo penale
 ridotto a "... tecnica di  risoluzione  delle  controversie  nel  cui
 ambito  al  giudice  sarebbe  riservato  essenzialmente  un  ruolo di
 garante  dell'osservanza  delle  regole  di  una  contesa  tra  parti
 contrapposte,  ed  il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i
 fatti  reali  onde  pervenire  ad  una  decisione  il  piu  possibile
 corrispondente  al  risultato  voluto  dal diritto sostanziale, ma di
 attingere - nel presupposto di  un'accentuata  autonomia  finalistica
 del  processo  -  quella sola "verita'" processuale che sia possibile
 conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e  nel
 rispetto  di  rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al
 modello" (cfr. sent. n. 111 del 1993).
    Sotto questo profilo e' innegabile  che  il  potere  insindacabile
 concesso  alle  parti  (di  acconsentire  o  meno  alla lettura delle
 dichiarazioni predibattimentali) dalla norma  impugnata  e'  tale  da
 consentire  alle stesse di disporre ad libitum della prova e, quindi,
 del processo stesso.
   Va, poi,  sottolineato  che  la  disciplina  dell'utililizzabilita'
 delle  dichiarazioni  predibattimentali dell'imputato in procedimento
 connesso che  si  sia  avvalso  della  facolta'  di  non  rispondere,
 introdotta  dalla  Corte  con  la  citata  sentenza  n. 254 del 1992,
 tendeva a bilanciare  due  valori  diversi:  l'esercizio  dell'azione
 penale,  ma  soprattutto,  da  un  lato,  l'esercizio  della funzione
 giurisdizionale e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa.
   La nuova disciplina legislativa consente, invece,  all'imputato  di
 opporsi   alla   lettura   di   dichiarazioni   accusatorie  (benche'
 imprevedibilmente irripetibili) rese  a  suo  carico,  permettendogli
 cosi' di disporre a piacimento del processo, potendo financo giungere
 a paralizzare l'esercizio della giurisdizione - e prima ancora quello
 dell'azione  penale  -  nei  suoi  confronti,  specie allorquando non
 sussistano altri elementi di prova a carico.
   Detto ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo'
 che essere ritenuto irragionevole.   La stessa  Corte  costituzionale
 (sent.   111   del   1993)   ha  considerato  illegittimo  il  potere
 riconosciuto  al  pubblico  ministero  (organo  cui  pure  la   Corte
 riconosce     funzioni     pubbliche    finalizzate    esclusivamente
 all'applicazione della legge: cfr. sent. n. 88 del 1991) di  disporre
 del processo, disponendo della prova.
    Non   si  puo',  allora,  non  considerare  parimenti  illegittimo
 l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati -  quali
 sono  l'imputato e la parte civile - che, come tali, orientano i loro
 comportamenti  secondo  logiche  meramente  individualistiche.     Il
 precetto  di  cui all'art. 101, comma 2, della Costituzione, preclude
 una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo
 nel  processo  penale,  in  ragione  della   indisponibilita'   degli
 interessi   pubblici   e  delle  posizioni  soggettive  che  di  esso
 costituiscono  l'oggetto;  la  disponibilita'  della prova renderebbe
 disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda.
   Come precisato dalla Corte nella piu' volte citata  sent.  111/1993
 "il  metodo  dialogico  di  formazione  della prova e' stato, invero,
 precelto come metodo di conoscenza dei  fatti  ritenuto  maggiormente
 idoneo  al  loro  per  quanto piu' possibile pieno accertamento e non
 come strumento  per  far  programmaticamente  prevalere  una  verita'
 formale  risultante  dal mero confronto dialettico tra le parti sulla
 verita' reale: altrimenti ne sarebbe tradita la funzione  conoscitiva
 del  processo,  che discende dal principio di legalita' e da quel suo
 particolare  aspetto  costituito  dal  principio  di  obbligatorieta'
 dell'azione penale".
   La  Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni
 di ricusazione fondate sui medesimi motivi - ha di recente avuto modo
 di ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio  di
 indefettibilita'  della  giurisdizione, ricollegabile a vari principi
 costituzionali fra i quali  l'art.  101  della  Costituzione".  E  la
 Corte,  confrontando  il principio suddetto con quello di uguaglianza
 inteso come  "canone  di  coerenza  dell'ordinamento  giuridico,  cui
 devono  uniformarsi  pure gli istituti processuali ...", ha aggiunto:
 "E qui va riconosciuta, certo, la  discrezionalita'  del  legislatore
 per  quanto  attiene alla individuazione delle scansioni processuali,
 tuttavia nel rispetto del principio  di  ragionevolezza  perche'  non
 venga  compromessa,  di fatto, la nozione stessa di processo. Si' che
 sono da censurare, pure  alla  luce  del  principio  di  razionalita'
 normativa,  istituti  o regole quando si prestino ad un uso distorto,
 recando  cosi  lesione  dell'efficiente  svolgimento  della  funzione
 giurisdizionale".
   Va,  poi,  aggiunto  che  la  formazione di un razionale e motivato
 convincimento giudiziale  -  artt.  101,  secondo  comma,  111  della
 Costituzione  -  non  e'  solo  parte integrante dell'esercizio della
 funzione giurisdizionale, ma e' lo scopo stesso del processo.
   Ad avviso del tribunale, la normativa  impugnata,  introducendo  il
 potere delle parti di disporre della prova consente di sottrarla alla
 razionale   e   motivata   valutazione   del  giudice,  in  tal  modo
 impedendogli di formarsi un convincimento che  si  avvicini  il  piu'
 possibile  alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la
 pronuncia di una giusta decisione.
   Vale anche notare che, almeno  nella  materia  dell'utilizzabilita'
 delle  prove  processuali penali, quando, come nel caso di specie, la
 legge devolve a  soggetti  privati  (quali  sono  gli  imputati,  gli
 imputati  in  procedimento  connesso  e la parte civile) la decisione
 ultima  e  definitiva,  oltre  che  immotivata  ed   incontrollabile,
 sull'utilizzabilita'  delle  prove, allora appare violata dalla legge
 stessa la regola secondo cui il giudice  e'  soggetto  soltanto  alla
 legge:  per  il  tramite  formale di una norma giuridica il giudice -
 nell'esercizio della funzione  che  gli  e'  propria  -  viene  fatto
 soggiacere alle decisioni di altri.
   4.4.   -   Principio   della  obbligatorieta'  dell'azione  penale.
 Principio di legalita'.
   Circa la funzione ed il ruolo  del  pubblico  ministero,  la  Corte
 (nella  sentenza  n. 88 del 1991) richiamando la precedente pronuncia
 n. 84 del 1979, ha rammentato che: "l'obbligatorieta'  dell'esercizio
 dell'azione  penale  ad opera del p.m.... e' stata costituzionalmente
 affermata   come   elemento   che   concorre   a   garantire,  da  un
 lato,l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e,
 dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge  penale;
 sicche' l'azione e' attribuita a tale organo senza consentirgli alcun
 margine  di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio.
 Piu' compiutamente il principio di legalita' (art. 25, secondo comma,
 della Costituzione) che rende doverosa la repressione delle  condotte
 violatrici    della    legge    penale,   abbisogna,   per   la   sua
 concretizzazione, della legalita' del  procedere;  e  questa,  in  un
 sistema  come  il  nostro,  fondato  sul principio di uguaglianza dei
 cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla  legge  penale),
 non   puo'  essere  salvaguardata  che  attraverso  l'obbligatorieta'
 dell'azione penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non  e',
 pero',  concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata
 dipende da altri poteri: sicche' di tali principi e'  imprescindibile
 requisito  l'indipendenza  del  p.m.  Questi  e' infatti, al pari del
 giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della
 Costituzione)  e  si  qualifica  come  "un  magistrato   appartenente
 all'ordine   giudiziario   collocato   come   tale  in  posizione  di
 istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere", che non fa
 valere  interessi  particolari  ma  agisce  esclusivamente  a  tutela
 dell'interesse  generale  all'osservanza della legge (cfr. sentt. nn.
 190 del 1970 e 96 del 1975).
   Il principio di  obbligatorieta'  dell'azione  penale  e',  dunque,
 punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema
 costituzionale,  talche'  il  suo venir meno ne altererebbe l'assetto
 complessivo.  Di  conseguenza  l'introduzione   del   nuovo   modello
 processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo ...
   Per  altro  verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale
 tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della
 prova e  di  liberta'  personale  -,  non  comporta  che,  sul  piano
 strutturale  ed  organico,  il  p.m.  sia separato dalla magistratura
 costituita in  ordine  autonomo  ed  indipendente.  Nell'architettura
 della  delega,  infatti,  il  ruolo  del  p.m.  non e' quello di mero
 accusatore,  ma  pur  sempre  di  organo  di  giustizia  obbligato  a
 ricercare  tutti  gli  elementi  di  prova  rilevanti  per una giusta
 decisione, "ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato"  (cfr.
 dir. n. 37....).
   Coerentemente  a  cio', il legislatore delegato ha sottolineato che
 il "potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini  a  tutto
 cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa tende
 "nel  rispetto  assoluto  dei  principi del sistema accusatorio e del
 ruolo di "parte" del p.m., ad evidenziare  la  natura  ordinamentale,
 giudiziaria  e pubblica dell'istituto e della funzione" (Relazione al
 progetto preliminare. '91); ed ha  poi  confermato  tale  natura  nel
 redigere  il  nuovo  art.  190  dell'ordinamento giudiziario (art. 29
 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449).
   Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che  nulla
 venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice:  ed
 in  esso  e'  insito,  percio', quello che in dottrina viene definito
 favor actionis. Cio' comporta non solo il  rigetto  del  contrapposto
 principio  di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad
 azione penale facoltativa....; ma comporta,  altresi',  che  in  casi
 dubbi l'azione vada esercitata e non omessa".
    Occorre  rammentare  che  gli atti compiuti dal pubblico ministero
 sono bensi' atti formati in assenza di contraddittorio, ma sono anche
 atti compiuti da un organo giudiziario,  pubblico,  indipendente,  la
 cui  azione  e'  rivolta  esclusivamente  all'applicazione imparziale
 della legge (sent. n. 88 del 1991). Si tratta, altresi', di atti  che
 godono  di  particolari  garanzie processuali quanto alla rispondenza
 alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali.
   Proprio  per  questa  loro  particolare  affidabilita',  la   legge
 conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nella fase
 delle  indagini,  con  riferimento  sia  ad  atti che spiegano i loro
 effetti all'interno di tale fase (es.: esercizio  dell'azione  penale
 nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori
 dalla  fase  delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non
 doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che
 incidono  profondamente  su  diritti   costituzionali   primari   dei
 cittadini  (es.:   emissione di decreti di perquisizione e sequestro,
 adozione di misure cautelari personali).
   Non solo,  ma  l'utilizzazione  delle  risultanze  emergenti  dalle
 indagini,  -  tra  le  quali  le dichiarazioni dei coimputati o degli
 imputati in procedimento connesso - non e', per il  p.m  facoltativa,
 ma e', in base all'art. 112 della Costituzione, obbligatoria.
    Tutto  cio'  premesso, ritiene questo tribunale che costituisca un
 irragionevole ostacolo all'esercizio dell'azione  penale,  oltre  che
 una  evidente  contraddizione  ordinamentale,  disporre  che atti sui
 quali il pubblico ministero ha fondato il  doveroso  esercizio  della
 sua  funzione,  quando  siano divenuti imprevedibilmente irripetibili
 siano utilizzabili in dibattimento solo subordinatamente al  consenso
 di tutte le altre parti processuali, tra le quali gli stessi imputati
 nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in
 base alla legge i propri effetti.
   Risulta   cioe'  irrazionale,  da  un  lato,  imporre  al  pubblico
 ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo,  elementi
 di  prova  circa  il  fatto,  imporgli  di chiedere misure cautelari,
 introdurre meccanismi  di  garanzia  contro  l'inerzia  del  pubblico
 ministero,   e   poi,   quando   quegli   elementi   siano   divenuti
 imprevedibilmente     irripetibili,     conferire     al     soggetto
 controinteressato  il  potere di disporre a suo piacimento della loro
 utilizzabilita' secondo logiche  che,  per  la  natura  del  soggetto
 investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche,
 privatistiche e, comunque, insindacabili ed immotivate.
   4.5.  -  Diritto  di difesa (artt. 24, primo e secondo comma, della
 Costituzione).
   Va rammentato che nel  presente  procedimento  si  sono  costituite
 anche  alcune  parti civili (Ministero delle finanze, Ministero della
 sanita',  A.G.I.P.),  cosicche'  la  questione   involge   anche   la
 legittimita'  costituzionale  della  norma  impugnata in relazione al
 diritto di difesa della parte  civile  (artt.  24,  primo  e  secondo
 comma, della Costituzione), poiche' l'attribuzione all'imputato della
 facolta'  di  impedire  l'utilizzo  di  elementi  di  prova  divenuti
 imprevedibilmente irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base
 a quanto detto in precedenza - il diritto della parte civile di veder
 tutelati gli interessi privatistici di cui assume avvenuta la lesione
 ad opera dell'imputato mediante la commissione del reato.
   Basti  considerare,  in  proposito,  che  la parte civile non puo',
 nella fase delle indagini preliminari, ne' chiedere, ne'  partecipare
 all'incidente    probatorio   e,   nell'udienza   preliminare,   puo'
 parteciparvi (se chiesto da altri), ma non farne richiesta.
   Rispetto  alla  parte  civile,  le  dichiarazioni  rese   al   p.m.
 dall'imputato  in procedimento connesso che si avvalga della facolta'
 di non rispondere sono sempre irrimediabilmente irripetibili.
   Ma le contraddizioni della disciplina impugnata emergono  anche  da
 altro  e  opposto angolo di visuale, quello della titolarita' in capo
 alla  parte  civile  del  potere  di  negare  il   proprio   consenso
 all'utilizzo  delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati in
 procedimento  connesso  che  si  avvalgano  della  facolta'  di   non
 rispondere.
   La   parte   civile,   infatti,   ben   potrebbe,  nella  personale
 interpretazione  dei  suoi  interessi  privatistici,   opporsi   alla
 acquisizione  di  dichiarazioni  di imputati in procedimento connesso
 quando esse ridondino a discarico degli imputati; in tal caso sarebbe
 allora evidente la lesione del principio del diritto di difesa  degli
 imputati.
   5.  -  Non  manifesta  infondatezza della questione di legittimita'
 degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p., nella parte in cui  prevedono
 che  l'imputato in procedimento connesso che abbia reso dichiarazioni
 accusatorie a carico di soggetti non presenti all'atto di  assunzione
 davanti  al  pubblico  ministero, possa avvalersi, nel dibattimento a
 carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere.
   Ritiene, infine, questo collegio condivisibile  l'opinione  di  chi
 afferma  che  le  discrasie  e  le  contraddizioni  che  connotano la
 disciplina introdotta con l'art. 1 legge n. 267  del  1997  -  ed  in
 particolare quella di cui al comma 2, dell'art. 513 c.p.p. - siano da
 attribuire  alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto
 - in quanto tale irragionevole - tra diritto di difesa  ed  esercizio
 della funzione giurisdizionale.
   Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto
 all'assunzione  delle  prove  nel  contraddittorio delle parti e, per
 altro verso il diritto degli  imputati  a  non  sottoporsi  all'esame
 dibattimentale  -  entrambi  espressione del piu' generale diritto di
 difesa  -  la  legge  finisce  per  sacrificare   l'esercizio   della
 giurisdizione:  in nome del diritto al contraddittorio ciascuna parte
 puo'   vietare   ad   libitum   l'utilizzabilita'   di  dichiarazioni
 predibattimentali di un  altro  soggetto  (imputato  in  procedimento
 connesso   nei   cui   confronti   si   procede  o  si  e'  proceduto
 separatamente) il quale, esercitando il proprio  diritto  di  difesa,
 abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo, avvalendosi della
 facolta' di non rispondere.
   Emerge,  pertanto: 1) l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli
 artt. 2, 3, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102  e  111  della
 Costituzione,   fondano   il   principio  di  indefettibilita'  della
 giurisdizione penale e, in particolare, di un giudizio finalizzato ad
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del processo, affinche' possa essere emessa una giusta decisione;  2)
 che  il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione,
 ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i  diversi  soggetti;
 3)  che  il  conflitto  in  questione e' stato erroneamente risolto a
 tutto danno della giurisdizione.
   E'  evidente  che il diritto al silenzio (e la facolta' di mentire)
 possono essere  indirettamente  tutelati,  in  tanto  in  quanto  non
 consentano  di  bloccare  ne'  l'esercizio  dell'azione  penale,  ne'
 l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto  dell'individuo
 ad  astenersi  dal  collaborare con gli organi preposti alla verifica
 della responsabilita' penale.  Quindi  i  contemperamenti  rivolti  a
 risolvere  il problema del conflitto degli interessi contrapposti non
 possono che essere ricercati su altri piani.
   Il  sistema  processuale  introdotto  nel  1988  -  tendenzialmente
 accusatorio  -  ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine
 quello  dell'oralita',  ossia  della  formazione   della   prova   in
 dibattimento,  cioe'  nel  contraddittorio  delle  parti di fronte al
 giudice che decide nel merito del processo.   Cio',  tra  l'altro  in
 armonia  con  il  disposto  dell'art.  6,  comma  2,  lett.  d) della
 Convenzione   per   la   salvaguardia    dei    diritti    dell'uomo.
 L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella
 formazione  della  prova,  del  resto,  e'  apparso  uno  degli scopi
 fondamentali che hanno  mosso  l'azione  del  legislatore  del  1997.
 Seppure  a  mezzo  di  meccanismi  processuali  irrazionali e' palese
 l'intenzione di  costruire  il  contraddittorio  come  diritto  delle
 parti.
   E'  pero'  evidente  che  una  delle condizioni per lo sviluppo del
 contraddittorio  nel  dibattimento  e'  che  il  soggetto  sottoposto
 all'esame sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli
 vengono  rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede
 al soggetto medesimo il potere insindacabile di  vanificare  l'altrui
 diritto all'esame e controesame.
   Mentre  la  concessione  alle  parti di un diritto di veto rispetto
 all'acquisizione  delle  dichiarazioni   predibattimentali   divenute
 irripetibili  (rese  in  assenza  di  contraddittorio  dalle  persone
 indicate nell'art.  210 c.p.p.) finisce per  ledere  irreparabilmente
 il  razionale  esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della
 giurisdizione  e  lo  scopo  stesso  del   processo,   l'acquisizione
 immediata  di  tali  dichiarazioni  finisce  per ledere il diritto di
 difesa delle parti inteso come diritto all'esame ed al controesame.
   Cio' posto - considerando come fondamentali  principi  del  sistema
 processuale  quello  del  diritto  al  contraddittorio e, dall'altro,
 quelli di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale,
 funzione   conoscitiva   del    processo    e    del    dibattimento,
 indefettibilita' della giurisdizione - appare irrazionale riconoscere
 all'imputato in procedimento connesso, nei cui confronti si procede o
 si  e'  proceduto separatamente, che abbia reso al pubblico ministero
 dichiarazioni che  costituiscono  elemento  indiziante  a  carico  di
 determinati  soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento
 che si celebra a carico di quei soggetti.
   In tali termini non appare manifestamente infondata,  in  relazione
 agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2,
 c.p.p.
   E'  appena il caso di sottolineare che un'eventuale declaratoria di
 illegittimita' costituzionale  delle  norme  predette  e  nei  limiti
 suindicati  consentirebbe  a  tutte le parti di esercitare il proprio
 diritto all'esame - con le correlative ed eventuali  contestazioni  -
 mentre  non introdurrebbe ovviamente per gli imputati in procedimento
 connesso,   nei   cui   confronti   si  procede  o  si  e'  proceduto
 separatamente, l'obbligo di  dire  la  verita',  con  le  correlative
 sanzioni.
   In  sostanza,  l'unica  via  razionale  aperta  alla  soluzione del
 problema in  questione  e'  quella  di  ritenere  che,  a  fronte  di
 dichiarazioni  indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri,
 il diritto di difesa del dichiarante si  affievolisca  di  fronte  al
 diritto  di  difesa  dei  chiamati  in  causa,  ai  quali deve essere
 riconosciuta la possibilita' di interrogarlo in ordine  alle  accuse,
 direttamente od indirettamente, rivolte loro.
    La  ragionevolezza  di  tale  affievolimento  si apprezza anche in
 considerazione del fatto che, quando in  sede  penale  -  indagini  o
 dibattimento  -  un  soggetto  indagato  o imputato rivolge accuse ad
 altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in  quel
 modo preciso il proprio diritto di difesa, con tutti i benefici e gli
 inconvenienti  del  caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria
 (art. 112 della Costituzione) di  approfondire  quelle  affermazioni,
 con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli
 altrui  diritti  individuali  in  sede cautelare, sia di dispendio di
 energie degli organi  pubblici  preposti  all'accertamento.  Date  le
 conseguenze   di  un  tale  comportamento  -  universalmente  note  a
 qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da  una
 assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di
 rispondere   alle   domande   rivoltegli  in  sede  di  esame  e  con
 controesame.
   Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non  e'  del  tutto
 obliterato, posto che egli manterrebbe (in quanto non assume la veste
 di  testimone)  la  facolta'  di  dare  versioni diverse, ritrattare,
 perfino  mentire,  facolta'  pure  essa  ritenuta,  fino   ad   oggi,
 espressione del diritto di difesa.
   Al  legislatore  rimarrebbe,  comunque,  sia  la  valutazione se il
 dichiarante-accusatore debba o no  essere  equiparato  al  testimone,
 sia,   in   caso  contrario,  la  decisione  circa  l'introduzione  -
 ovviamente  opportuna  poiche'  costituente  una  forma   di   tutela
 dell'effettivita'  del  contraddittorio  -  di  un nuovo reato contro
 l'amministrazione della giustizia, avente come fattispecie  obiettiva
 il  rifiuto  di  rispondere a domande rivolte nel corso dell'esame ad
 imputati in procedimento  connesso  che  abbiano  reso  dichiarazioni
 indizianti a carico di altri, in assenza di questi ultimi.
   E'  chiaro,  infine,  che,  qualora  venisse  ritenuta  fondata  la
 questione di legittimita' di cui qui si discorre, verrebbe  meno  uno
 dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina
 dell'acquisizione  delle dichiarazioni degli imputati in procedimento
 connesso e si determinerebbe immediatamente, in base  a  questo  dato
 nuovo,  la  necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale
 di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il  potere  di
 interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi
 -  a  questo  punto  illegittimamente  -  si  rifiutasse  comunque di
 rispondere.
   Ritiene  il  collegio  che  tutti  i   motivi   che   rendono   non
 manifestamente  infondata  la  questione  concernente l'attuale testo
 dell'art. 513, comma 2, c.p.p., non possano che essere  ribaditi  con
 forza anche con riferimento a questa nuova situazione.
   Si  deve  concludere,  quindi,  che,  ove  si  ritenesse fondata la
 questione  di  legittimita'  concernente  l'art.   210   c.p.p.,   si
 proporrebbe  altresi'  -  in quanto non manifestamente infondata - la
 questione di legittimita'  dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  (come
 sostituito  dall'art.  1,  legge  n. 267 del 1997) nella parte in cui
 subordina al consenso delle parti l'acquisizione delle  dichiarazioni
 predibattimentali  rese  dalle  persone indicate nell'art. 210 c.p.p.
 che comunque si rifiutino di rispondere nel dibattimento a carico  di
 altri soggetti.