IL TRIBUNALE Decidendo nel processo penale n. 3683/1996 r.g. a carico di Chieco Giuseppe e Pasquali Gianpaolo Celestino, imputati, il primo in qualita' di amministratore unico della B.Al.For. S.r.l. ed il secondo in qualita' di amministratore di fatto della medesima societa', in concorso tra loro, del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale consumato il 30 giugno 1992; O s s e r v a 1. - All'udienza del 16 ottobre 1997 il tribunale, dichiarata la contumacia del Chieco, constatata l'assenza del Pasquali, letto il capo di imputazione e sentite le richieste delle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame degli imputati. Escusso l'unico teste indicato in lista, stante la contumacia del Chieco e l'assenza del Pasquali, il pubblico ministero chiedeva l'acquisizione dei verbali degli interrogatori resi dai medesimi alla polizia giudiziaria, espressamente all'uopo delegata dal suo ufficio. Il tribunale, respinta una eccezione sul punto, disponeva in conformita', indicando implicitamente tali atti come utilizzabili nei limiti previsti dalla legge. Ai difensori degli imputati veniva dato modo di esprimere le loro determinazioni circa l'utilizzabilita' degli atti in questione nei confronti dei loro assistiti e, in particolare, il difensore del Chieco non consentiva all'utilizzo nei confronti del suo assistito delle dichiarazioni del Pasquali, ed il difensore del Pasquali non consentiva l'utilizzo a carico del suo assistito delle dichiarazioni del Chieco (pp. 31-32, trascriz. ud. 16 ottobre 1997). 2. - Interpretazione dell'art. 513, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, della legge n. 267, dell'8 agosto 1997. L'art. 513 c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 dispone: "1) il giudice, se l'imputato e' contumace o assente ovvero rifiuta di sottoporsi all'esame, dispone, a richiesta di parte che sia data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell'udienza preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il loro consenso; 2) se le dichiarazioni sono state rese dalle persone indicate nell'art. 210, il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi, l'accompagnamento coattivo del dichiarante o l'esame a domicilio ... ovvero l'esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio. Se non e' possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere all'esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell'art. 512 qualora la impossibilita' dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni. Qualora il dichiarante si avvalga della facolta' di non rispondere, il giudice dispone la lettura dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l'accordo delle parti; 3) se le dichiarazioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo sono state assunte ai sensi dell'art. 392, si applicano le disposizioni di cui all'art. 511". La norma, con riferimento alla posizione dell'imputato, sembra finalizzata, nell'intenzione del legislatore, alla tutela del principio di separazione delle fasi processuali e, ma solo indirettamente, del contraddittorio: essa invero subordina l'utilizzabilita' nei confronti di ciascuno dei coimputati delle dichiarazioni rese da un imputato al p.m., alla polizia giudiziaria su delega di quello, al giudice nelle indagini preliminari o nell'udienza preliminare - qualora l'imputato medesimo, in dibattimento, resti contumace o assente, o si rifiuti di rispondere - al consenso, appunto, di ciascuno dei coimputati Indirettamente ma chiaramente, percio', la norma attribuisce a ciascun imputato il potere di vietare la utilizzazione contro se stesso delle dichiarazioni predibattimentali dei coimputati. Si tratta percio' di una disposizione che, nel procedimento probatorio, regola la fase della utilizzazione della prova. 3. - Rilevanza della questione di legittimita' concernente l'art. 513, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997 e l'art. 6, comma 5, legge n. 267 del 1997. Risulta evidente, nel caso di specie, la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale del disposto dell'art 513, comma 1, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, poiche' entrambi gli imputati hanno reso dichiazioni nel contempo auto ed etero accusatorie. Tali dichiarazioni appaiono importanti ai fini del decidere e, in particolare, al fine di definire in modo sufficientemente preciso l'andamento della vicenda che ne occupa, il ruolo concretamente assunto e l'attivita' effettivamente svolta da ciascun imputato nell'ambito della societa' fattita, e, quindi, la sussistenza delle responsabilita' individuali di ciascuno e, eventualmente, il loro spessore anche ai fini della commisurazione della pena. Il problema appare rilevante anzitutto in relazione ad altri elementi di prova acquisiti in dibattimento, ed in particolare le dichiarazioni del Chieco rese al curatore al di fuori del procedimento penale e da quest'ultimo riportate in dibattimento, dichiarazioni aventi come oggetto uno scarico totale delle proprie responsabilita' sul Pasquali (p. 13 e 25 trascrizioni ud. 16 ottobre 1997). Quanto affermato dal Chieco non sembra trovare conforto nelle dichiarazioni - allo stato inutilizzabili - rese dal Pasquali alla polizia giudiziaria con riferimento alla posizione assunta dal predetto all'interno della societa'. Ritiene altresi' questo collegio che, a fronte della ritenuta non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 513, comma 1, c.p.p., nella sua nuova formulazione, se ne ponga un'altra, di carattere preliminare, circa la conformita' al dettato costituzionale dell'art. 208 c.p.p., nella parte in cui attribuisce all'imputato che abbia reso alla polizia giudiziaria (operante su delega del p.m. dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro imputato, la facolta' di sottrarsi all'esame. Tale questione e' rilevante nel presente processo poiche', come si e' detto, gli imputati, l'uno assente e l'altro contumace, si sono sottratti all'esame. 4. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 513, comma 1, c.p.p., come sostituto dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina al consenso degli altri imputati l'utilizzabilita' nei confronti di ciascuno di esssi, delle dichiarazioni rese da un imputato alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, qualora, in dibattimento, questi rimanga contumace o assente. 4.1. - Giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di valutazione della prova e di regole di esclusione della prova. Occorre preliminarmente notare che le norme di cui si sospetta l'illegittimita' vanno ad inserirsi nel centro del processo disegnato dal codice vigente, laddove regolano da un lato i rapporti tra fase delle indagini e fase dibattimentale, dall'altro i poteri delle parti nella formazione dibattimentale della prova e, dall'altro ancora impongono limiti alla formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale. Non v'e' dubbio che le norme di cui si discorre siano ispirate ad un depotenziamento del valore probatorio delle acquisizioni avvenute in fase di indagini ed in assenza di contraddittorio mediante il conferimento alle parti di un potere discrezionale circa il loro ingresso nel fascicolo per il dibattimento e mediante l'introduzione di una nuova regola di esclusione della prova. Preso atto che la scelta del legislatore si e' mossa verso l'accentuazione di alcuni aspetti particolari del processo accusatorio come processo di parti - in particolare la positivizzazione, per la prima volta, del principio dispositivo in materia di prova -, occorre verificare se, in base alla giurisprudenza formatasi nelle materie coinvolte dall'innovazione normativa, non si siano ecceduti i limiti costituzionali che la Corte stessa ha individuato alla introduzione nel nostro ordinamento di un processo penale conforme ad un modello meramente astratto di processo penale di parti. Gia' con riferimento al piano metodologico, infatti, la Corte ha affermato che: " ... la considerazione dell'ordinamento processual-penale italiano va condotta, a prescindere da astratte modellistiche, sulla base del tessuto normativo positivo, la cui interpretazione e comprensione non puo' che derivare da un'attenta lettura dei principi e criteri direttivi enunciati dalla legge delega e dei principi costituzionali di cui questa ... richiede l'attuazione. Non va cioe' dimenticato che "il sistema processuale delineato nella legge delega e poi concretamente attuato nel codice e' tutt'affatto originale, dato che tende bensi' (art. 2, comma 1) ad attuare "i caratteri del sistema accusatorio'', ma ''secondo i principi ed i criteri specificati nelle direttive che seguono" (sent. n. 88 del 1991); e che, poiche' la stessa norma detta ancor prima l'obbligo di "attuare i principi della Costituzione", un'adeguata considerazione dell'ordinamento effettivamente vigente non puo' prescindere dagli interventi correttivi che questa Corte si e' trovata a dover apportare". Seguendo tale prospettiva occorrera' prendere le mosse da tutte quelle affermazioni e decisioni con cui in questi anni la Corte ha esplicitato i caratteri costituzionali della azione e della giurisdizione penale, la funzione assegnata al processo penale, il ruolo che gioca al suo interno il valore costituito dalla ricerca della verita' cosiddetta "reale" o "materiale" in contrapposto a quella "formale" o "processuale". Quanto al primo aspetto la Corte - pronunciandosi in tema di reiterazione di dichiarazioni di ricusazione fondate sui medesimi motivi -, ha di recente avuto modo di ribadire (sent. n. 11 del 1997) l'esistenza del "... principio di indefettibilita' della giurisdizione, ricollegabile a vari principi costituzionali, fra i quali l'art. 101 della Costituzione invocato dal giudice a quo (oltre alla sentenza n. 353 del 1996 e l'ordinanza n. 5 del 1997, v. le sentenze nn. 460 del 1995, 114 del 1994, 289 del 1992, 178 del 1991)". E la Corte, confrontando il principio suddetto a quello di uguaglianza inteso come "canone di coerenza dell'ordinamento giuridico, cui devono uniformarsi pure gli istituti processuali ...", ha immediatamente aggiunto: "E qui va riconosciuta, certo, la discrezionalita' del legislatore per quanto attiene alla individuazione delle scansioni processuali, tuttavia nel rispetto del principio di ragionevolezza perche' non venga compromessa, di fatto, la nozione stessa di processo. Si' che sono da censurare, pure alla luce del principio di razionalita' normativa, istituti o regole quando si prestino ad un uso distorto, recando cosi' lesione dell'efficiente svolgimento della funzione giurisdizionale". Quanto alla funzione ed al ruolo del pubblico ministero, la Corte si e' espressa in modo assai chiaro nella sentenza n. 88 del 1991: "Va innanzi tutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe ad affermare nella sent. n. 84 del 1979, cioe' che ''l'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale ad opera del p.m. ... e' stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato l'indipendenza del p.m. nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale''; sicche' l'azione e' attribuita a tale organo ''senza consentirgli alcun margine di discrezionalita' nell'esercizio di tale doveroso ufficio''. Piu' compiutamente: il principio di legalita' (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalita' del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non puo' essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorieta' dell'azione penale. Realizzare la legalita' nell'eguaglianza non e', pero', concretamente possibile se l'organo cui l'azione e' demandata dipende da altri poteri: sicche' di tali principi e' imprescindibile requisito l'indipendenza del p.m. Questi e' infatti, al pari del giudice, soggetto soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione) e si qualifica come ''un magistrato appartenente all'ordine giudiziario collocato come tale in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere'', che ''non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza della legge'' (sentt. nn. 190 del 1970 e 96 del 1975). Il principio di obbligatorieta' e', dunque, punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talche' il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo. Di conseguenza, l'introduzione del nuovo modello processuale non lo ha scalfito, ne' avrebbe potuto scalfirlo. ... Per altro verso, l'eliminazione di ogni contaminazione funzionale tra giudice e organo dell'accusa - specie in tema di formazione della prova e di liberta' personale -, non comporta che, sul piano strutturale ed organico, il p.m. sia separato dalla magistratura costituita in ordine autonomo ed indipendente. Nell'architettura della delega, infatti, il ruolo del p.m. non e' quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ''ivi compresi gli elementi favorevoli all'imputato'' (cfr. dir. n. 37...). Coerentemente a cio', il legislatore delegato ha sottolineato che il ''potere-dovere del p.m. di estendere le proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova per l'accusa o la difesa'' tende ''nel rispetto assoluto dei principi del sistema accusatorio e del ruolo di 'parte' del p.m. ad evidenziare la natura ordinamentale, giudiziaria e pubblica dell'istituto e della funzione'' (Relazione al progetto preliminare, 91); ed ha poi confermato tale natura nel redigere il nuovo art. 190 dell'ordinamento giudiziario (art. 29 testo allegato al d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449). 3. - Il principio di obbligatorieta' dell'azione penale esige che nulla venga sottratto al controllo di legalita' effettuato dal giudice: ed in esso e' insito, percio', quello che in dottrina viene definito favor actionis. Cio' comporta non solo il rigetto del contrapposto principio di opportunita' che opera, in varia misura, nei sistemi ad azione facoltativa ...; ma comporta, altresi', che in casi dubbi l'azione vada esercitata e non omessa". Proprio come aspetto della obbligatorieta' ed indisponibilita' nonche' dell'esercizio imparziale nei confronti di tutti dell'azione penale, la Corte ha evidenziato alcuni caratteri che essa ha assunto all'interno dello stesso codice del 1998 proprio come applicazione concreta della sua configurazione costituzionale: - il principio di tendenziale completezza delle indagini (v. anche sent. n. 92 del 1992); - il principio di tutela della effettivita' dell'azione, volto a contrastare i casi di suo esercizio meramente apparente, principio questo manifestatosi in istituti quali l'indicazione da parte del g.i.p. di ulteriori indagini ritenute necessarie (art. 409, comma 4, 415, 554, comma 2, c.p.p., sentt. n. 409 del 1990, 445 del 1990), l'opposizione dell'offeso alla richiesta di archiviazione, il potere di avocazione del procuratore generale, l'ordine di formulazione dell'imputazione. E' infine utile ricordare che le superiori considerazioni sono state riprese e valorizzate dalla Corte nella sentenza n. 111 del 1993 (par. 6), proprio quando si e' trattato di individuare i limiti costituzionali ad un processo penale inteso come"... ''processo di parti'', nella misura in cui evoca lo schema di una contesa tra parti contrapposte operanti sul medesimo piano ..." o come "... tecnica di risoluzione dei conflitti". Spostando l'attenzione dal tema dell'azione e della giurisdizione a quello, strettamente connesso, dello scopo del processo penale la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che esso deve individuarsi nell'"accertare i fatti onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale" e che, anche dopo l'entrata in vigore del codice del 1988 ad impianto tendenzialmente accusatorio, "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991). I presupposti costituzionali di tali affermazioni si rinvengono agevolmente leggendo le summenzionate pronunce, oltre che la sent. n. 88 del 1991: esse sono fatte derivare direttamente dalla lettura combinata del principio di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge penale, dal principio di legalita' "che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate" (sentt. nn. 111 del 1993, 88 del 1991) e di inviolabilita' della liberta' personale. Ma ad essi si potrebbero agevolmente aggiungere il principio di personalita' della responsabilita' penale (ciascuno risponde solo per il fatto commesso che gli sia psicologicamente imputabile, dunque sono il fatto e la sua imputabilita' l'oggetto del processo e dell'accertamento), il principio di presunzione di innocenza (l'onere della prova in capo all'accusa e' criterio nel contempo logico e garantistico che dimostra l'impegno dell'ordinamento nella ricerca della verita'), il principio di obbligatorieta' dell'azione penale (l'azione e' obbligatoria anche perche' non ad altro tende se non all'accertamento secondo verita' dell'ipotesi contenuta nella notizia di reato ed all'applicazione della legge, seppure in modi diversi da quelli processuali), nel principio di difesa (la verita' puo' essere affermata solo se "garantita" dalla presenza attiva della difesa nel processo), nel principio di indipendenza e liberta' morale del giudice in particolare nel momento del giudizio (principi questi ultimi inutili o dannosi se il giudizio dovesse servire a qualche cosa di diverso che alla ricostruzione del fatto ed all'applicazione della legge). Tanto premesso, la Corte ha riconosciuto che il legislatore aveva scelto, come metodo migliore per perseguire lo scopo costituzionalmente assegnato al processo, quello del contraddittorio dibattimentale che, insieme all'esigenza di accentuare la terzieta' del giudice, aveva "condotto ad introdurre, di massima, un criterio di separazione funzionale delle fasi processuali, allo scopo di privilegiare il metodo orale di raccolta delle prove, concepito come strumento per favorire la dialettica del contraddittorio e la formazione nel giudice di un convincimento libero da influenze pregresse" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha tuttavia immediatamente osservato che, proprio perche' lo scopo del processo penale non puo' che individuarsi nella ricerca della verita', "... l'oralita', assunta a principio ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento ... di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento" (sent. n. 255 del 1992) e, per altro aspetto: "... ad un ordinamento improntato al principio di legalita' (art. 25, secondo comma, della Costituzione) - che rende doverosa la punizione delle condotte penalmente sanzionate - nonche' al connesso principio di obbligatorieta' dell'azione penale (cfr. sent. n. 88 del 1991, cit.) non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire ad una giusta decisione (cfr. sent. n. 255 del 1992)" (sent. n. 111 del 1993). La Corte ha altresi' comprovato il fondamento di tali affermazioni elencando i numerosi casi di formazione della prova in deroga o al contraddittorio dibattimentale o all'altro aspetto dell'oralita' costituito dall'immediato contatto del giudice con la prova nel momento della sua formazione (artt. 392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6, 512, 513) (sent. n. 255 del 1992); ha individuato la ragion d'essere di quelle eccezioni nella necessita' di non disperdere elementi di prova "non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale"; ha infine denominato tale fenomeno, considerato il numero e la qualita' delle deroghe previste al metodo orale, "principio di non dispersione delle prove" (sent. n. 255 del 1992). La Corte ha dunque correttamente rilevato - qualificandolo "principio" a causa della sua obiettiva imponenza - la presenza in seno al codice un procedimento probatorio alternativo e sussidiario rispetto al principale fondato sul contraddittorio per la prova, procedimento attivabile quando quello principale sia o nell'impossibilita' di funzionare o nell'impossibilita' di produrre elementi di prova genuini. La presenza di tale procedimento alternativo e sussidiario, come reso evidente dalla lettura combinata delle pronunce che si vanno citando, e' fondata da un lato sulla configurazione costituzionale ed istituzionale del pubblico ministero e, dall'altro, sulla necessita' di affermare il principio di indefettibilita' della giurisdizione penale, principio anch'esso strettamente a sua volta collegato a quelli di uguaglianza e di legalita'. Proprio sviluppando il tema dell'ampiezza degli effetti di tali affermazioni con riferimento non solo alla fase procedurale dell'ammissione della prova, ma anche a quello della valutazione degli elementi acquisiti, la Corte ha avuto modo di affermare non solo che ad un ordinamento improntato ai principi suindicati non si confanno norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione, ma anche che simili regole di predeterminazione legale del valore persuasivo delle prove sono altresi' dissonanti rispetto ai principi di fondo del nuovo codice, che "''fa salvo (e, in aderenza ai principi costituzionali non poteva essere altrimenti) il principio del libero convincimento, inteso come liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento, con l'obbligo di dar conto in motivazione dei criteri adottati e dei risultati conseguiti'' (art. 192 c.p.p.; cfr. sent. n. 255 del 1992, cit.)" (sent. n. 111 del 1993). Anche con riferimento al tema del ruolo delle parti nel processo e dell'esistenza di un preteso principio dispositivo in materia di prova la Corte, nella sentenza n. 111 del 1993 si e' pronunciata con chiarezza cristallina: "La configurazione del potere istruttorio conferito al giudice dall'art. 507 come eccezionale, e quindi da escludere in caso di decadenza o inattivita' delle parti, discende, nella logica presupposta dai giudici remittenti, dall'assunzione dell'immanenza nel nuovo codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova. Si tratta, pero', di un assunto che non trova riscontro ne' nei principi della delega ne' nel tessuto normativo concretamente disegnato nel codice. E', per la verita', incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. Cio', invero, significherebbe, da un lato, recidere il legame strutturale e funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse sostanziale pubblico alla repressione dei fatti criminosi che quei principi intendono garantire; dall'altro, contraddire all'esigenza, ad essi correlata, che la responsabilita' penale sia riconosciuta solo per fatti realmente commessi, nonche' al carattere indisponibile della liberta' personale. Sotto questo profilo, e' significativo che il nuovo codice non conosca procedure in cui la concorde richiesta delle parti vincoli il giudice sul merito della decisione; prova ne sia che ad un simlle esito non conduce neanche l'istituto dell'applicazione di pena su richiesta (cfr. sent. n. 313 del 1990). Ma un principio dispositivo non puo' dirsi esistente neanche sul piano probatorio, perche cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Ed anche qui la riprova si ha nell'altro rito speciale in cui maggior spazio e' riservato alla volonta' delle parti, dato che in esso l'accordo di queste sulle prove utilizzabili non vincola il giudizio sulla loro concludenza; ed anzi non puo' neppure essere inteso - come ripetutamente segnalato da questa Corte (sentt. nn. 92 del 1992 e 56 del 1993) - come assolutamente preclusivo delle integrazioni probatorie eventualmente necessarie, pena la sua incompatibilita' con i principi costituzionali. Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova non trova riscontro nella normativa positiva neanche sul terreno del giudizio ordinario. il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale. Ma e' soprattutto dall'art. 507 che si desume l'inesistenza di un potere dispositivo delle parti in materia di prova. Questa Corte ha gia' avuto modo di dire, nella sentenza n. 241 del 1992, che tale norma - inserita ''in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti'' - ''conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione''. Richiamata quindi la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 11227 del 6 novembre - 21 novembre 1992 nonche' la direttiva n. 73 della legge delega - che prevede il "potere del presidente ... o del pretore di indicare alle parti temi nuovi od incompleti utili alla ricerca della verita' e di rivolgere domande dirette ....; potere del giudice di disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova - la Corte cosi' proseguiva": ".... Il legislatore delegante ha cioe' esattamente considerato - in armonia con l'obiettivo di eliminazione delle disuguaglianze di fatto posto dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione che la ''parita' delle armi'' delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si' che il fine di giustizia della decisione puo' richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate. Il potere conferito al giudice dall'art. 507 e', dunque, un potere suppletivo, ma non certo eccezionale ... E' del resto evidente che sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, negare al giudice dibattimentale il potere di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica" (sent. n. 111 del 1993). In sostanza, nella pronuncia appena indicata la Corte ha riconosciuto incompatibile con i principi costituzionali di uguaglianza, legalita', obbligatorieta' dell'azione penale, un processo penale ridotto a "... tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte, ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di un'accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola ''verita''' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello". Parimenti indicata come incompatibile con i suddetti principi e' stata considerata l'operativita' - propria di un processo di parti - "di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio", operativita' cui conseguirebbe "da un lato, l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte pubblica e l'accentuazione dell'oralita' come strumento della formazione della prova in dibattimento; dall'altro, la configurazione del potere di intervento del giudice in materia di prova come eccezionale ...". Giurisprudenza contraria a concedere rilevanza ed effetti sostanziali alla mera espressione della volonta' di una parte - seppure parte pubblica cui sono proprie logiche e finalita' esclusivamente istituzionali - si e' formata anche con riferimento alla originaria disciplina dell'applicazione della pena su richiesta e del giudizio abbreviato. Con riferimento al primo tipo di giudizio, infatti la Corte ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 444, comma 2, c.p.p., in quanto, "prevedendo che il giudice debba attenersi alla pena cosi' come indicata dalle parti, ... non consente di valutare la congruita' della pena ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione" (sent. n. 313 del 1990). Con riferimento al rito abbreviato la Corte, nella sentenza n. 81 del 1991, dichiarando l'illegittimita' parziale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p., ha affermato "E', invece, fondata la questione proposta in riferimento all'art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell'irrazionale disparita' cui la normativa impugnata, vista dall'interno della sua applicazione, darebbe luogo tanto nei rapporti fra p.m. ed imputato, quanto nei rapporti tra imputato ed imputato. Non risponde, infatti, alle esigenze di coerenza e ragionevolezza una disciplina che autorizza il p.m. ad opporsi non soltanto a una ''determinata scelta del rito processuale'' ..., ma anche a una consistente riduzione della pena da infliggere all'imputato in caso di condanna, senza neppure dover esternare le ragioni di tale opposizione, cosi' sottraendola all'''obiettiva ed imparziale valutazione del giudice''. Per giunta, in un sistema, come quello del nuovo codice, imperniato sul principio di ''partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parita' in ogni stato e grado del procedimento'' (art. 2, n. 3, legge 16 febbraio 1987, n. 81), non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il primo, con un semplice atto di volonta immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il secondo di un rilevante vantaggio sostanziale" (sent. n. 81 del 1991). Di tale sentenza e di quella n. 66 del 1990, la Corte ha reso interpret azione autentica nel momento in cui, in seno alla sentenza n. 92 del 1992, ha rilevato: "il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena". Traendo le conseguenze delle superiori affermazioni la Corte con riferimento alla fase dibattimentale e mediante la pronuncia di sentenze di accoglimento od interpretative di rigetto, ha considerato ostacoli irragionevoli o in se stessi o rispetto al sistema: a) il divieto di testimonianza de relato della polizia giudiziaria (sentenza n. 24 del 1992); b) l'omessa previsione dell'acquisizione delle dichiarazioni di imputati in procedimento connesso, anche se rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero, quando essi si fossero avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sentt. n. 254 del 1992 e n. 60 del 1995); c) l'utilizzo solo ai fini della valutazione di credibilita' delle dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni ai testimoni (sent. n. 255 del 1992). Inoltre la Corte ha: a) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni dei prossimi congiunti che si siano avvalsi in dibattimento della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994); b) riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni predibattimentali del teste affetto da amnesia assoluta sui fatti di causa, dovuta ad infermita' (ord. n. 20 del 1995). Sempre in forza dei summenzionati principi, inoltre, la Corte ha dichiarato legittimo l'art. 507 c.p.p., solo se interpretato nel senso che esso consentisse, nell'inerzia delle parti, l'impulso giudiziale nella acquisizione della prova (sent. n. 111 del 1993). 4.2. - Profili di non manifesta infondatezza della questione di legittimita'. Tracciato il quadro generale della giurisprudenza della Corte costituzionale rilevante in materia, occorre procedere a verificare se, rispetto alla disciplina dell'art. 513, comma 1, c.p.p., come sostituito dall'art. 1, legge n. 267 del 1997, siano ipotizzabili violazioni dei limiti costituzionali sopra indicati. Il tribunale rinviene alcune prospettive di violazione, quanto meno non manifestamente infondate. 4.2.1. - Ostacolo irragionevole alla formazione della prova, alla funzione conoscitiva del dibattimento ed all'esercizio della giurisdizione mediante l'introduzione di un meccanismo di disposizione della prova: contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma, 111, primo comma, della Costituzione. Per apprezzare i vari profili di dubbio sulla legittimita' della norma in questione, occorre premettere che questo tribunale considera le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero dagli imputati poi contumaci o assenti in dibattimento come atti divenuti imprevedibilmente irripetibili. Che si tratti di atti irripetibili risulta evidente sol che si consideri che l'esercizio della facolta' di non sottoporsi ad esame (implicitamente esercitata con la mancata partecipazione al dibattimento) da parte degli imputati che abbiano reso in sede di indagini dichiarazioni etero-accusatorie impedisce in toto la loro rinnovazione dibattimentale ed una nuova acquisizione nel contraddittorio delle parti di elementi probatori provenienti dalla stessa fonte. Percio', a precludere la possibilita' del contraddittorio, in astratto possibile, e' l'esercizio da parte dell'imputato in procedimento connesso di una facolta' riconosciutagli dalla legge. Che l'irripetibilita' dell'atto sia imprevedibile e' facilmente verificabile considerando la natura dell'atto che e' causa dell'irripetibilita' - la mancata comparizione al dibattimento - e i diversi e contrapposti interessi che possono muovere il soggetto che e' titolare di quella facolta' alla decisione di esercitarla. Si tratta, invero, di un atto discrezionale, immotivato, insindacabile, frutto di una personale valutazione che l'imputato fa dei propri interessi processuali ed anche extraprocessuali. D'altro canto, chi abbia reso in sede di indagini dichiarazioni a carico di altri ben si rende conto che esse possono avere gravi conseguenze, sia per lui medesimo nel caso di confessione di delitti ovvero di falsita' (artt. 367 e ss. c.p.), sia per il terzo che ne risulta coinvolto, conseguenze che vanno dal rinvio a giudizio all'applicazione di una misura cautelare. Una siffatta pregressa assunzione di responsabilita' indurrebbe a ritenere che l'imputato o l'imputato in procedimento connesso reiterera' le dichiarazioni a carico degli accusati. In forza di tali caratteristiche dell'esercizio della facolta' di non presenziare al dibattimento (e, indirettamente di non sottoporsi ad esame), del soggetto che la esercita, dei motivi che possono spingerlo a cio', ben si puo' affermare che non e' possibile prevedere, prima che il soggetto sia decaduto dalla possibilta' di sottoporsi all'esame, se la facolta' di sottoporvisi verra' esercitata o no (cosi' anche, con riferimento all'imputato in procedimento connesso, trib. minorenni Bologna, pres. Longo, imp. Ciavardini, ord. 19 settembre 1997, proc. n. 64/1992 r.g., n. 335/1989 r.n.r.; cfr. anche sent. Corte costituzionale n. 254 del 1992). Va comunque sottolineato con forza che non sarebbe razionale richiedere al pubblico ministero di prevedere i comportamenti delle controparti del processo, poiche', in tal caso ed in assenza di una disciplina generalizzata dei rapporti tra pubblico ministero e collaboranti, si finirebbe per riconoscere effetto giuridico (sub specie di eventuale inutilizzabilita' della prova) a possibili comportamenti ingannatori di tali soggetti nei confronti del pubblico ministero medesimo. Cio' premesso, il problema che si e' posto all'attenzione di questo tribunale e' se sia costituzionalmente corretto che, nell'ambito di un sistema accusatorio, il legislatore, allo scopo di tutelare il contraddittorio, introduca meccanismi che impediscono l'utilizzabilita' di elementi di prova raccolti dal pubblico ministero in assenza di contraddittorio e di cui sia imprevedibilmente sopravvenuta l'irripetibilita'. La soluzione da dare al quesito suddetto necessita di una ulteriore precisazione preliminare, e cioe' che, nel presente processo - come in ogni altro giudizio di primo grado in corso -, al pubblico ministero, attesa la fase processuale in cui il processo si trova, e' rimasta del tutto preclusa la possibilita' di chiedere, in fasi antecedenti, l'assunzione della prova con incidente probatorio, i cui presupposti di ammissione sono stati notevolmente ampliati solo con l'entrata in vigore della stessa legge n. 267 del 1997 (art. 4, comma 1, modificativo dell'art. 392, comma 1, lett. c) e d) c.p.p.). Ed invero, nel corso della celebrazione del dibattimento, non e' nemmeno prospettabile l'esigenza di anticipare le forme di assunzione della prova che gli sono proprie al fine di evitare la perdita di una prova presumibilmente non rinnovabile in futuro. Non mette conto percio' trattare qui della situazione in cui il pubblico ministero avrebbe effettivamente potuto chiedere l'incidente probatorio in fase di indagini e dell'efficacia (invero dubbia, atteso che anche in tale sede le persone sottoposte ad indagine possono avvalersi della facolta' di non rispondere, che il meccanismo puo' essere attivato anche dalla difesa addirittura in sede di udienza preliminare, che non si vede percio' perche' i risultati della sua omessa richiesta debbano ricadere esclusivamente sul pubblico ministero, che e' costituzionalmente discutibile che si abbandoni la formazione della prova a scelte di mera strategia processuale delle parti) che tale circostanza puo' spiegare sulla valutazione del superamento o meno dei limiti costituzionali con riferimento alla disciplina introdotta con il nuovo art. 513, c.p.p. Ad ogni buon conto, nel caso di specie - irripetibilita' sopravvenuta di un atto di acquisizione probatoria -, la regola generale e' quella della utilizzabilita' a condizione che la causa dell'irripetibilita' fosse imprevedibile, regola volta a spingere il pubblico ministero ad attivare istituti (incidente probatorio) che consentono la formazione anticipata della prova. Occorre pero' ulteriormente considerare che, nel caso che ne occupa, l'attivazione di tali istituti non era, come si e' detto, possibile. Percio', anche quando, per avventura, si volesse far incombere sul pubblico ministero l'onere di formulare previsioni circa l'esercizio o no della facolta' di non presenziare al dibattimento (e di non rispondere) rispondere da parte degli imputati e si volesse sostenere che quell'onere puo' essere ragionevolmente assolto, tuttavia l'eventuale ritenuta prevedibilita' dell'esercizio della facolta' di astensione non rileverebbe comunque perche', in ogni caso, la sopravvenuta irripetibilita' non poteva essere prevenuta innescando l'incidente probatorio. Cioe', anche se la sopravvenuta irripetibilita' fosse stata - per ipotesi - prevedibile, al pubblico ministero non sarebbe stato consentito porre rimedio ad una siffatta situazione anticipando l'acquisizione della prova in contraddittorio. Ne deriva la necessita' - ex art. 3 Cost. - di assimilare, quanto all'aspetto della loro utilizzabilita' dibattimentale, la disciplina degli atti divenuti irrimediabilmente irripetibili a quella degli atti divenuti imprevedibilmente irripetibili. Tanto precisato, occorre notare che al quesito sopra indicato era lo stesso legislatore del 1988 ad avere risposto negativamente, nel senso che - pressocche' in tutti i casi di imprevedibile irripetibilita' dell'atto - aveva previsto un meccanismo che consentiva il recupero degli atti divenuti irripetibili. Cio' aveva consentito alla Corte costituzionale di armonizzare il sistema, colmandone le lacune in forza dell'art. 3 Cost. - caso tipico, proprio quello di cui alla sent. n. 254 del 1992 - ed appianandone le piu' stridenti disarmonie. In tali occasioni, tuttavia, la Corte aveva enunciato i principi sopra indicati (par. 4.1), capaci di spiegare i loro effetti ben oltre lo stato della legislazione positiva al momento della loro enunciazione. In particolare, attualmente, il legislatore ha direttamente ed esplicitamente introdotto un meccanismo di blocco, a discrezione delle parti, del regime sussidiario ed alternativo di formazione della prova a fronte della sua irripetibilita' dibattimentale, fondato su due cardini: perdurante concessione all'imputato (ed imputato in procedimento connesso) che abbia (direttamente o indirettamente) accusato altri della facolta' di non rispondere in dibattimento; subordinazione al consenso dei soggetti attinti dall'efficacia indiziante di tali dichiarazioni dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni medesime. Cio' impegna, indubbiamente, ad un compito parzialmente nuovo, cioe' non meramente ricostruttivo del sistema in base al principio di ragionevolezza, ma alla valutazione diretta della sua compatibilita' con i principi costituzionali. Tuttavia, a fronte delle enunciazioni che la Corte costituzionale ha reso nelle sentenze sopra menzionate il sospetto di illegittimita' non puo' ritenersi manifestamente infondato. Se il processo deve tendere alla ricerca della verita' reale, se il processo in generale ed il dibattimento in particolare hanno una funzione conoscitiva del fatto che ne e' oggetto, se il pubblico ministero e' istituzionalmente organo di giustizia che si muove al fine di applicare la legge e compie validamente atti normativamente previsti su cui possono fondarsi per legge altri atti lesivi di diritti costituzionali primari, se il codice stesso prevede numerosi meccanismi di recupero dell'utilizzabilita' di atti formati dal pubblico ministero quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili cioe' quando il contraddittorio sia - per ragioni materiali o giuridiche - divenuto impossibile, allora sembra evidente dover dubitare di un meccanismo processuale che per un verso si risolve nel precludere l'esercizio dell'azione penale e, per altro verso, nel precludere l'utilizzazione da parte del giudice di atti che appartengono a quella categoria, in tal modo impedendogli di accertare il fatto con la necesaria precisione e compiutezza e, in base a tale accertamento, di pervenire ad una giusta decisione. I diversi aspetti di tale sillogismo necessitano di una spiegazione analitica. Anzitutto va vagliata la conformita' della disciplina in questione al principio di razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112 Cost.). A questo scopo devono essere pur sommariamente chiariti la natura ed il valore degli atti compiuti dal pubblico ministero (o, che e' lo stesso, degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero). Si tratta certamente di atti formati in assenza di contraddittorio ed in segreto, ma si tratta anche di atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico, indipendente, la cui azione e' rivolta esclusivamente all'applicazione imparziale della legge (sent. n. 88 del 1991). Si tratta altresi' di atti che godono di particolari garanzie quanto alla rispondenza alla realta' del loro contenuto, trattandosi di verbali. Proprio per questa loro particolare affidabilita', la legge conferisce utilizzabilita' agli elementi raccolti dal p.m. nelle indagini con riferimento sia ad atti che spiegano i loro effetti all'interno della fase delle indagini (es.: esercizio dell'azione penale nelle sue varie forme), sia ad atti che spiegano i loro effetti fuori dalla fase delle indagini (es.: al fine di emettere sentenza di non doversi procedere o decreto che dispone il giudizio), sia ad atti che incidono profondamente su diritti costituzionali primari dei cittadini (es.: emissione di decreti di perquisizione e sequestro, adozione di misure cautelari personali). Non solo, l'utilizzazione delle risultanze emergenti dalle indagini - tra le quali le dichiarazioni dei coimputati o degli imputati in procedimento connesso - non e', per il p.m., facoltativa, ma e', in base all'art. 112 Cost., obbligatoria. Ne deriva che costituisce un irragionevole ostacolo al razionale esercizio dell'azione penale, oltre che una evidente contraddizione ordinamentale, disporre che atti sui quali il pubblico ministero ha fondato il doveroso esercizio della sua funzione, quando siano divenuti imprevedibilmente irripetibili - con conseguente esclusione del contraddittorio non imputabile al pubblico ministero medesimo -, siano utilizzabili in dibattimento solo con il consenso degli imputati nei confronti dei quali il contenuto di tali atti ha gia' spiegato in base alla legge i propri dannosi effetti. Risulta cioe' irrazionale da un lato imporre al pubblico ministero di raccogliere, in modo tendenzialmente completo, elementi di prova circa il fatto, imporgli di chiedere misure cautelari eventualmente ottenendole, introdurre meccanismi di garanzia contro la sua inerzia, e poi, quando quegli elementi siano divenuti imprevedibilmente irripetibili, conferire al soggetto controinteressato il potere di disporre a suo piacimento della loro utilizzabilita' secondo logiche che, per la natura del soggetto investito del potere, non possono essere che strettamente egoistiche, privatistiche e comunque discrezionali, insindacabili ed immotivate. Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 81 del 1991 si potrebbe dire che "non dovrebbe essere consentito che i rapporti fra p.m. ed imputato si sbilancino al punto che il secondo, con un semplice atto di volonta' immotivato e, percio', incontrollabile, si trovi in grado di privare il primo degli elementi di prova, divenuti imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili, in base ai quali ha esercitato l'azione penale". Riformulando, adattato al caso che ne occupa, un passaggio della sentenza n. 111 del 1993 si potrebbe dire: "... sarebbe contraddittorio, da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del pubblico ministero conferendo al giudice per le indagini preliminari il potere di disporre che costui formuli l'imputazione ...; e, dall'altro, consentire che l'utilizzo di atti delle indagini, sui quali si e' fondato l'esercizio dell'azione penale sino a quel momento e divenuti imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili, possa essere impedito dallo stesso pubblico ministero o dalle altre parti con una nuda ed immotivata manifestazione di volonta'". Va altresi' data risposta negativa, per quanto qui e' possibile, circa la compatibilita' tra la disciplina di cui si discute e la funzione conoscitiva, di tendenziale accertamento della verita' reale, attribuita dalla Costituzione al processo penale (cfr. par. 4.1). E' indubbio, infatti, che la sottoposizione all'accordo delle parti della lettura e quindi dell'acquisizione di atti divenuti imprevedibilmente irripetibili costituisca un ostacolo alla formazione del convincimento giudiziale e quindi all'approssimarsi del risultato processuale alla verita', nella parte in cui consente che tali atti siano - senza alcuna possibilita' di recupero - sottratti al convincimento medesimo mediante una manifestazione di volonta' discrezionale, insindacabile ed immotivata. Occorre tuttavia valutare la ragionevolezza della introduzione di siffatto ostacolo. Certo, rispetto a situazioni identiche, si coglie con immediatezza una ingiustificabile differenza. Invero, solo rispetto a dichiarazioni di imputati contumaci o assenti o che si avvalgano della facolta' di non rispondere e' stato introdotto il potere dei coimputati di impedirne ad nutum l'utilizzo, mentre con riferimento ad altre identiche situazioni di imprevedibile irripetibilita' di atti dello stesso tipo, tale potere non e' riconosciuto. Di quest'ultima situazione costituiscono esempi i casi di imputato in procedimento connesso (o coimputato) di cui sia sopravvenuto il decesso, o di soggetto che decida di sottoporsi all'esame ma si astenga dal rispondere a singole domande (fatto che consente contestazione ed utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali: art. 503) e di testimone prossimo congiunto che si avvalga della facolta' di non rispondere (sent. n. 179 del 1994). Ne' pare che la diversa causa di irripetibilita' sopravvenuta - naturale (quale il decesso o l'infermita') o giuridica (quale l'esercizio della facolta' di non rispondere) - possa in alcun modo giustificare la diversificazione delle discipline dell'utilizzabilita' degli atti di cui si discute, poiche' l'effetto dell'azione di tali cause sull'atto e' identico (irripetibilita') e perche' l'unica differenza - diritto di difesa attuale rispetto al vivo ma non rispetto al morto - riguarda il dichiarante, ma non i soggetti attinti dalle sue dichiarazioni rispetto al cui diritto al contraddittorio le diverse cause di irripetibilita' agiscono in modo identico, rendendolo impossibile. Si tratta cioe' di casi identici - in cui il contraddittorio e' inibito senza che cio' sia imputabile al pubblico ministero - alcuni dei quali subiscono pero' un trattamento irragionevolmente diverso. Esiste un ulteriore profilo di irragionevolezza nell'ostacolo frapposto alla formazione della prova mediante il procedimento alternativo e sussidiario piu' volte menzionato, profilo attinente proprio alla devoluzione alle parti in generale, ed in particolare agli imputati, della decisione circa l'utilizzabilita' in dibattimento di elementi raccolti dal pubblico ministero in sede di indagini (elementi che possono spiegare una diretta od indiretta efficacia probatoria a loro carico) e di cui sia sopravvenuta imprevedibilmente l'irripetibilita'. La Corte costituzionale, come si e' detto, ha gia' avuto modo, ragionando su fattispecie di decadenza colposa o consapevolmente determinata del pubblico ministero dalla prova, di affermare come "incontroverso che sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale"; e, immediatamente dopo, che disporre della prova equivale, indirettamente, a disporre della stessa res iudicanda (sent. n. 111 del 1993). Parimenti incontroverso, a parere del tribunale e' che la normativa di cui si tratta abbia introdotto il potere di ciascuna delle parti di disporre della prova e, indirettamente, dell'oggetto del processo. Ulteriore conferma di tale conclusione si rinviene analizzando gli interessi tutelati dal tipo di atto di cui si discute. Trattandosi, come si e' detto, del potere attribuito alle parti del processo, di inibire l'uso di prove, l'aspetto di tutela del diritto di difesa appare prospettabile solo come stimolo per il p.m. a chiedere l'incidente probatorio. Nel caso di specie tuttavia - a prescindere dalla circostanza che sembra singolare attivare il potere di interdizione di una parte quando i motivi di prevedibilita' o meno dell'esercizio della facolta' di non rispondere sono gli stessi anche per la difesa degli imputati ed anch'essa ha, se le interessa, il medesimo potere di attivazione dell'incidente probatorio, che essi potevano chiedere di essere interrogati in sede di udienza preliminare, oggi anche nelle forme dell'esame incrociato - l'incidente probatorio era precluso, cosicche' la disciplina di cui si discute non puo' sortire nemmeno in astratto alcun effetto di tutela del contraddittorio ma solo l'effetto di sottrarre al giudizio, senza alcuna possibilita' di recupero, prove divenute imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibili. Deve altresi' osservarsi che la Corte costituzionale ha costantemente affermato che il diritto di difesa, per quanto inviolabile, non puo' non trovare contemperamento e bilanciamento rispetto ad altri concorrenti principi parimenti tutelati dalla costituzione e che, quindi, il suo livello di tutela deve essere rapportato alle singole, e diverse, situazioni processuali. Nel caso di specie, la disciplina originaria dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato (fatta propria, con riferimento all'imputo in procedimento connesso che si avvalga della facolta' di non rispondere, dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992), tendeva a bilanciare due valori diversi: l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto ed ancor di piu', l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da un lato, e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa, che non rimaneva affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, sub specie di diritto di non rispondere in dibattimento anche alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato. Impedito dall'imputato l'esercizio del diritto di difesa del coimputato nel momento di genesi della prova, veniva attivato il procedimento sussidiario ed altemativo di formazione della prova che comunque consentiva il tradizionale esercizio del diritto di difesa sulla prova formata (oltre ad introdurre, di fatto, argomenti sfavorevoli all'intrinseca credibilita' del dichiarante). Infine, quanto all'irragionevolezza dell'ostacolo frapposto dal nuovo art. 513, comma 1, c.p.p, alla formazione della prova, non sembra superfluo sottolineare che in caso di assenza al dibattimento dell'imputato dichiarante infatti - posto che le sue dichiarazioni predibattimentali non sono considerate ontologicamente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo anche in fase di indagini preliminari ed anche a fini cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale: i veti incrociati di soggetti privati - quali sono gli imputati - possono precludere l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale. Considerato che i soggetti predetti agiscono, come si notava, per interessi privatissimi e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La stessa Corte costituzionale (sent. n. 111 del 1993) ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sent. n. 88 del 1991) - di disporre del processo disponendo della prova (potere riconosciutogli dai giudici di merito remittenti grazie ad una interpretazione dell'art. 507, c.p.p. ritenuta illegittima). A questo punto non si puo' non considerare illegittimo a maggior ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge agli imputati che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente individualistiche. E' altresi' prospettabile, considerate le precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25, secondo comma, nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E 'invero quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente che l'imputato stesso, mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili, impedisca l'accertamento del fatto e percio' delle sue (eventuali) responsabilita'. In sostanza, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia' riconosciuta una volta dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 1993 con riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art. 507, c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25, secondo comma, 27, primo comma, Cost. Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, poiche' tale principio, se fosse interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione annullando il valore dei connessi principi. Va approfondito, seguendo prospettive gia' accennate, il contrasto della disciplina di cui si discute con gli artt. 101 e 111 della Costituzione. E' banale osservare che la formazione del razionale e motivato convincimento giudiziale - artt. 3, 101, secondo comma, 111 Cost. - non e' solo parte integrante dell'esercizio della funzione giurisdizionale, ma e' cio' in cui lo scopo stesso dl processo si invera. Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della prova - tale essendo lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento raccolto in sede di indagini dal pubblico ministero divenuto imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibile -, consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati, la decisone ultima e definitiva, oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla legge per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui. Si individuano, infine, contrasti della normativa in questione rispetto alla posizione della parte civile. Da un lato, infatti, la disciplina descritta contrasta anche con il diritto di difesa della parte civile (artt. 24, primo e secondo comma, Cost.), poiche' la devoluzione agli imputati della facolta' di impedire l'utilizzo di elementi di prova divenuti imprevedibilmente irripetibili, danneggia irragionevolmente - in base a quanto detto in precedenza - il suo diritto di veder tutelati gli interessi privatistici di cui assume avvenuta la lesione ad opera dell'imputato con la commissione del reato. Mette conto notare, in proposito, che la parte civile non puo', nella fase delle indagim preliminari, ne' chiedere ne' partecipare, come tale, all'incidente probatorio e, nell'udienza preliminare, puo' parteciparvi se chiesto da altri ma non chiederlo (art. 392, comma 1, c.p.p., non modificato, quanto a legittimazione alla richiesta dalla sentenza Corte cost. n. 77 del 1994). Percio', ammesso e non concesso che possa onerarsi la parte civile della previsione in ordine all'esercizio o no della facolta' di non rispondere da parte degli imputati od imputati in procedimento connesso, la parte in questione non potrebbe, anche se volesse, rimediare mediante l'anticipazione del contraddittorio all'(eventualmente) prevedibile esercizio di quella facolta'. Cioe', rispetto alla parte civile, le dichiarazioni rese al p.m. (od alla p.g. su delega) dall'imputato assente in dibattimento o che si avvalga della facolta' di non rispondere sono sempre irrimediabilmente irripetibili. Di qui l'irrazionalita' di consentire che gli imputati possano eliminare l'utilizzabilita', anche rispetto alla parte civile, delle dichiarazioni rese a loro carico dai coimputati prima del dibattimento e divenute irripetibili. 5. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 208, c.p.p., nella parte in cui prevede che l'imputato che abbia reso alla polizia giudiziaria operante su delega del p.m. dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di altri imputati, possa avvalersi, nel dibattimento, della facolta' di non sottoporsi all'esame e di non rispondere. Ritiene questo collegio che le discrasie e le contraddizioni in cui si involge la disciplina introdotta con l'art. 1 legge n. 267 del 1997 - ed in particolare quella di cui al comma 1, dell'art. 513, c.p.p., -, siano dovute alla creazione legislativa di un vero e proprio conflitto - in quano tale irragionevole - tra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisdizionale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale - entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del suo diritto al contraddittorio ciascun imputato puo' vietare ad nutum l'utilizzabilita' di dichiarazioni rese a suo carico di un altro imputato che, in nome del suo diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo avvalendosi ad nutum della facolta' di non rispondere. Da tale pur sintetica analisi emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del meccanismo poiche' gli artt. 2, 3, 25, secondo comma, 101, secondo comma, 102, 111 della Costituzione fondano il principio di indefettibilita' di una giurisdizione penale, ed in particolare di un dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo affinche' possa essere emessa una giusta decisione - per altro verso, che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti e, per altro verso ancora, che il conflitto in questione e' stato erroneamente risolto a danno della giurisdizione. E' evidente che il diritto al silenzio (e la facolta' di menzogna) possono essere indirettamente tutelati in tanto in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto dell'individuo ad astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposti non possono che essere ricercati su altri piani. Ed invero, il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita' - id est, formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice che decide nel merito del processo -. Cio', tra l'altro in armonia con il disposto dell'art 6, comma 2, lett. d) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. L'intendimento di una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, e' apparso uno degli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali irrazionali e' palese l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come diritto delle parti. Tanto premesso, e' pero' pure palese che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio, quando esso assume forma genetica della prova cioe' la forma dell'esame incrociato, e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e' scontato, almeno nel nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso, peraltro titolari, come tali, della facolta' di non rispondere. Ebbene, mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza contraddittorio dagli imputati in procedimento connesso divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, la acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione eo difesa delle parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte, dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle indagini attraverso le contestazioni. Cio' posto - considerando come fondamento della costruzione ordinamentale da un lato la stessa prospettiva del legislatore del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto al contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -, diviene irrazionale riconoscere, al coimputato od all'imputato in procedimento connesso che abbiano reso al pubblico ministero dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti. In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 208 c.p.p. E' superfluo sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma predetta e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli imputati in procedimento connesso l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. Dichiarazioni rese in sede di esame e contestazioni sarebbero ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, della funzione conoscitiva del processo, del diritto di difesa degli imputati e degli imputati in procedimento connesso - e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa - sub specie di diritto ad interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro -. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando in sede penale - indagini o dibattimento -, un soggetto sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 Cost.) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che comporti, quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in testimone, anche se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.) - la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. D'altro canto proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale - nelle quali il legislatore mostra di riporre la massima fiducia -, oltre che l'intero sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu' che a sufficienza dal pericolo che le menzogne dibattimentali vengano recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto al livello che esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni assunte da una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no essere equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovviamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati in procedimento connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti a carico di altri in loro assenza. Occorre infine notare che la questione di legittimita' di cui si discorre e' stata trattata per ultima per comodita' espositiva dei complessi problemi sottostanti a quelle dianzi considerate. Tuttavia essa si pone come preliminare sia rispetto a quella concernente l'art. 513, comma 1, come modificato dall'art. 1, legge n. 267 del 1997. E' chiaro infatti che, qualora venisse accolta la eccezione di cui qui si discorre, verrebbe meno uno dei presupposti fondamentali su cui e' costruita l'attuale disciplina dell'acquisizione delle dichiarazioni degli imputati e si determinerebbe immediatamente, in base a questo dato nuovo, la necessita' di verificare la compatibilita' costituzionale di una disciplina che affida alla volonta' delle parti il potere di interdire l'acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali di chi - a questo punto illegittimamente -, rifiuta di rispondere. Ritiene il collegio che tutti i motivi che rendono non manifestamente infondata la questione concernente l'attuale testo dell'art 513, comma 1, c.p.p., non possano che essere ribaditi con forza anche con riferimento a questa nuova situazione. Ed invero l'illegittimo rifiuto di rispondere puo' conferire in astratto alle precedenti dichiarazioni o particolare credibilita' - perche' sono acquisiti elementi dai quali si ricava che l'imputato ha rifiutato di rispondere a causa di minacce od offerte di utilita' ovvero "risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinita' dell'esame" (art. 500, comma 5, c.p.p.) - oppure particolare inaffidabilita', potendosi ipotizzare che l'illegittimo rifiuto di rispondere sia assimilabile ad una attendibile ritrattazione. Orbene, un problema del genere appare ovviamente irresolubile in astratto - cioe' mediante disciplina legislativa - e, per sua natura, non puo' che essere risolto caso per caso nell'ambito del singolo processo e, cioe', sottoposto prima al contraddittorio delle parti e poi al razionale e motivato convincimento giudiziale, affinche' sia resa una giusta decisione nella situazione concreta. Si deve concludere, quindi, che accolta quest'ultima eccezione, non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' dell'art 513, comma 1, c.p.p. - come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997 - nella parte in cui subordina al consenso degli altri imputati l'utilizzazione nei loro confronti delle dichiarazioni predibattimentali degli imputati che comunque si rifiutino di rispondere. 6. - Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 490, c.p.p., nella parte in cui esclude che il giudice possa disporre l'accompagnamento coattivo dell'imputato per l'assunzione dell'esame. Evidente appare che, qualora dovesse essere ritenuta fondata la questione prospetta al paragrafo che precede, diverrebbe immediatamente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 97, 112, 101 e 111 Cost., l'art. 490 c.p.p., nella parte in cui esclude che il giudice possa disporre l'accompagnamento coattivo d'imputato per l'assunzione dell'esame, nei casi in cui sia divenuto obbligatorio.