LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Vista la propria ordinanza n. 310/9/98 in data 6 giugno 1998 con cui, nel procedimento n. 6104/91, e' stata sollevata questione di costituzionalita' dell'art. 28 della legge 27 dicembre 1997 quale norma di interpretazione autentica dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600/1973; Rilevato che nel dispositivo e' stato erroneamente indicato il citato art. 3-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, quale norma da sottoporre a valutazione di costituzionalita', mentre risulta evidente dalla motivazione che la norma sospetta di incostituzionalita' e' appunto l'art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449; Dispone che la parte dispositiva del predetto provvedimento sia modificata come segue: "P.Q.M., visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, per violazione degli artt. 3, 97, primo comma, 101, secondo comma, 102, primo comma e 108 secondo comma, della Costituzione; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso fino all'esito del giudizio di legittimita' costituzionale; Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della segreteria al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente della Camera dei deputati". Per effetto della disposta correzione il testo dell'ordinanza deve intendersi pertanto cosi' formulato: "La commissione composta dal dott. Vittorio Zanichelli, presidente; avv. Amedeo Leoncini Bartoli, membro; dott. Ezio Ravasini, membro; Visti gli atti relativi al procedimento n. 6104/91; Premesso, in fatto, che Maurizio Frambati ha ritualmente impugnato la cartella esattoriale n. 2002395 emessa dalla S.E.I.T. Parma S.p.a. la quale, pur riferendosi alla dichiarazione dei redditi relativi all'anno 1988 (per cui liquida, per maggior imposta, interessi e soprattasse, L. 11.740.129), e' stata notificata solo in data 30 ottobre 1991 e quindi oltre il 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione (1989); Ritenuto che la questione relativa all'intervenuta decadenza per mancato rispetto del termine di cui all'art. 3-bis, d.P.R. n. 600/1973 possa essere rilevata d'ufficio (cfr. Cassazione 12 maggio 1992, n. 5620). O s s e r v a E' noto come l'art. 36-bis del d.P.R. n. 600/1973 abbia dato spunto a numerose questioni interpretative tra le quali quella che interessa la presente controversia attiene alla natura del termine previsto per gli uffici finanziari per la liquidazione delle imposte dovute. Mentre la norma in questione, infatti, indica nel 31 dicembre dell'anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione il termine per la liquidazione, l'art. 17 del d.P.R. n. 602/1973 prevede il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione per l'iscrizione a ruolo, a pena di decadenza, delle imposte liquidate in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti: si pone pertanto il problema della rilevanza dell'una o dell'altra norma al fine dell'individuazione del termine entro il quale deve essere attivata la procedura di cui al citato art. 36-bis. Tra le due opposte tesi, favorevoli l'una al carattere meramente ordinatorio della norma e l'altra al carattere perentorio, e quindi sanzionato con la decadenza, della stessa, si e' venuta progressivamente affermando la seconda sia nella giurisprudenza della commissione tributaria centrale che in quella della Corte di cassazione che in alcune sentenza del 1997 ha preso recisamente posizione sulla tesi maggiormente restrittiva. In tale quadro, ormai stabile, di orientamenti giurisprudenziali e' intervenuto l'art. 28 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 che ha dettato una norma interpretativa stabilendo che l'art. 36-bis "deve essere interpretato nel senso che il termine in esso indicato, avendo carattere ordinatorio, non e' stabilito a pena di decadenza". Ritiene la commissione che la norma interpretativa non sfugga alla censura di incostituzionalita'. Occorre premettere che la citata giurisprudenza della Corte di cassazione non ha preso posizione solo circa la natura ordinatoria o perentoria dell'art. 36-bis ma ha affrontato il piu' generale problema delle conseguenze del mancato rispetto delle norme di natura ordinatoria per giungere alla conclusione che anche la violazione di queste comporta la decadenza. Rileva, infatti, la Corte in primo luogo che "la qualificazione del termine in questione come ordinatorio (anziche' come perentorio) - del resto propria del diritto processuale piu' che di quello sostanziale - e' infatti tutt'altro che risolutiva, posto che i termini ordinatori possono essere prorogati solo prima della scadenza (art. 153 del cod. proc. civ.) e che, pertanto, il loro inutile decorso produce gli stessi effetti preclusivi di quelli perentori" (Cass. civ. 29 luglio 1997, n. 7088); ma aggiunge soprattutto che "l'affermazione tradizionalmente ripetuta (ma non da tutti condivisa) secondo cui le norme che stabiliscono termini a pena di decadenza sono di stretta interpretazione e non possono quindi essere applicate analogicamente, si fonda sul convincimento che tali disposizioni abbiano carattere eccezionale, derogando al generale principio della liberta' di esercizio dei diritti soggettivi. E, appunto per questo, non si presta a essere utilizzata nell'ambito del diritto pubblico, il quale e' caratterizzato dalla presenza di poteri, il cui esercizio da parte di chi ne e' titolare non e' libero ma e' sottoposto dalla legge a limiti diretti a garantire il soddisfacimento di finalita' di carattere istituzionale... (omissis). Tanto piu' che le attivita' accertative (e di conseguente rettifica delle dichiarazioni dei contribuenti) sono dalla legge vincolate al rispetto di rigorosi termini di decadenza, la cui esistenza e' da considerare pertanto connaturata al loro svolgimento, a tutela del buon andamento e dell'imparzialita' dell'amministrazione, oltre che degli interessi dei contribuenti". Pare chiaro come la Corte, prendendo lo spunto dalla questione relativa all'art. 36-bis, abbia inteso affermare un principio di carattere generale e cioe' che i termini posti alla pubblica amministrazione per l'esercizio dei suoi poteri, indipendentemente dalla loro qualificazione come perentori o ordinatori siano comunque posti a pena di decadenza e questo a maggior ragione nell'ambito dei poteri di accertamento in materia tributaria, siano essi tali anche formalmente oppure solo sostanzialmente come nel caso che ci occupa. Se tale e' il "diritto vivente" in tema di termini posti alla pubblica amministrazione in materia tributaria appare evidente come la norma interpretativa di cui al citato art. 28, legge n. 449/1997 non incide sul regime dei termini in generale ma solo con riferimento a quello di cui all'art. 36-bis. Detta norma, invero, non si limita a qualificare come ordinatorio il termine in questione ma, dando per scontata tale qualifica, dispone che lo stesso non sia sanzionato con la decadenza; cosi' operando, tuttavia, e cioe' disponendo che solo il termine di cui al citato art. 36-bis e non gia' ogni termine ordinatorio dettato per l'attivita' della pubblica amministrazione in generale non comporti decadenza, non incide sul principio affermato dalla richiamata giurisprudenza cosi' che si troveranno a convivere con il termine ordinatorio ma non posto a pena di decadenza per volere del legislatore) del 36-bis altri termini ordinatori dettati dalla stessa ratio a carico dello stesso soggetto pubblico che per giurisprudenza ormai costante sono diversamente sanzionati. Tale disparita' di trattamento con riferimento alla posiziorie dei soggetti nei cui confronti attivita' analoghe vengono poste in essere viola i principi di cui all'art. 3 della Costituzione, non ravvisandosi alcuna ragionevolezza in un norma dettata all'evidenza dalla volonta' di soccorrere l'incapacita' dell'amministrazione finanziaria di agire tempestivamente ma prevista solo per una determinata categoria di contribuenti. Sotto un diverso profilo la giurisprudenza della s.c. ha il merito di sancire un principio che, se correttamente interpretato, porta a porre un serio dubbio di legittimita' circa ogni termine che sia impunemente violabile da parte della p.a. (quale sarebbe quello in questione secondo la norma censurata): se infatti l'organizzazione dei pubblici uffici deve essere tale da assicurare "il buon andamento" dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) la conseguenza che se ne deve trarre e' nel senso che i termini posti a presidio della tempestivita' dell'azione amministrativa (soprattutto quando sono posti nell'interesse del cittadino sotto il profilo della certezza e stabilita' dei rapporti giuridici) non possono non essere tali da comportare, se violati, l'invalidita' dell'esercizio del potere, non apparendo sufficiente tutela la possibilita' di perseguire disciplinarmente i responsabili del ritardo. Le considerazioni sopra svolte inducono a sottoporre al vaglio di costituzionalita' la norma anche sotto un ulteriore profilo attinente alla violazione degli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma e 108, secondo comma della Costituzione. E' noto come la Corte costituzionale sia gia' intervenuta in merito alla legittimita' delle norme interpretative precisando come le stesse debbano comunque assicurare la salvaguardia "oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civilta' giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento, la tutela dell'affidamento sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico e il rispetto delle funzioni costituzionali riservate al potere giudiziario" (Corte costituzionale 23 novembre 1994, n. 397). Con particolare riferimento alla attitudine delle norme interpretative ad influire sui giudizi in corso e quindi, in definitiva, ad interferire nella sfera del potere giudiziario ha precisato la citata sentenza che "quando invece risulti l'intenzione della legge interpretativa di vincolare il giudice ad assumere una determinata decisione in specifiche ed individuate controversie, la funzione legislativa perde la propria natura ed assume contenuto meramente provvedimentale". Non pare dubbio che la norma in questione, contrastando l'interpretazione che ormai si era venuta affermando nella giurisprudenza di legittimita' circa la sanzione per l'inosservanza di termini anche solo ordinatori ma limitando la sua portata agli effetti della violazione del termine di cui all'art. 36-bis abbia inteso prevenire l'ormai inevitabile dichiarazione di decadenza di tutti gli atti impositivi emessi in base a tale disposizione e sottoposti al vaglio del giudice tributario, interferendo decisamente nella sfera del potere giudiziario con l'imposizione di una soluzione dettata non gia' da principi generali ma da un provvedimento destinato a valere per una singola ipotesi e non per casi analoghi. La singolarita' dell'intervento legislativo appare tanto piu' evidente se si considera che l'art. 13 del d.lgs. n. 241/1997 ha introdotto una nuova disciplina con la quale il procedimento in questione e' stato ridisegnato introducendo nuovi termini dettati sicuramente a pena di decadenza. La questione appare rilevante nella controversia sottoposta alla commissione in quanto, come e' stato evidenziato, e' pacifico il mancato rispetto, da parte dell'amministrazione finanziaria, del termine di cui al piu' volte citato art. 36-bis, per cui l'eventuale decadenza comporterebbe l'accoglimento del ricorso.