LA CORTE DI APPELLO
   Ha pronunziato la seguente ordinanza, nella causa civile di secondo
 grado iscritta  al  n.  203  del  r.g.c.  dell'anno  1998,  posta  in
 deliberazione  all'udienza  del  2  luglio  1998 e pendente tra Rizzo
 Giuseppe, Campagna Santo,  Cavallaro  Ignazio,  Pulvirenti  Antonino,
 Maglia  Alessandro,  Ventimiglia Edoardo, Insabella Giuseppe, Astolfo
 Giuseppe, Vittorio Carmelo, Zuccarello Salvatore,  Di  Dio  Giuseppe,
 Proto  Francesco,  Vitrano  Carmelo, Paladino Lorenzo, Patti Michele,
 Litrico  Eleonora,  Fallica  Girolamo,   Nicolosi   Nicola,   Vacirca
 Salvatore,  Musumeci  Salvatore,  Di  Maria  Vincenzo, Tripi Filippo,
 Giustolisi Giuseppe, Di Stefano Salvatore,  Rasa'  Salvatore,  Sorace
 Salvatore,  Maugeri  Santo,  elettivamente  domiciliati  in Roma, via
 Flaminia n. 109, presso l'avv. Biagio Bertolone, che li rappresenta e
 difende giusta delega in calce al  reclamo,  unitamente  agli  avv.ti
 prof. Adolfo di Majo del Foro di Roma, avv. Giuseppe Fontana del Foro
 di  Roma,  avv.  Giovanna  Monaco  del  Foro  di Catania e avv. Mario
 Barcellona del Foro di Catania, reclamanti, e Fallimento  Italimprese
 Industrie S.p.a. (Itin), in persona del curatore, elett.  domiciliato
 in  Roma,  via  Cirenaica  n.  15, presso lo studio dell'avv.   prof.
 Nicola Picardi, che lo rappresenta e difende in virtu'  di  delega  a
 margine della memoria di costituzione, reclamato;
   Oggetto:  Reclamo avverso decreto 25 febbraio 1998 del tribunale di
 Roma su richiesta di conversione  di  fallimento  in  amministrazione
 straordinaria.
   Conclusioni: come in atti.
                         Osservazioni in fatto
   A  seguito  di ricorso depositato il 30 luglio 1997 da un gruppo di
 dipendenti della S.p.a. Itin, con cui si chiedeva la conversione  del
 fallimento della societa' Itin (dichiarato in data 11 giugno 1997) in
 amministrazione  straordinaria  ex  art.  4,  legge  n.  95/1979,  il
 tribunale di Roma rigettava  l'istanza,  ritenendo  che  la  societa'
 fallita  non  versava nelle condizioni previste dall'art. 1, legge n.
 95/1979 in quanto difettava il requisito del debito qualificato  pari
 a  cinque  volte il capitale sociale versato e risultante dall'ultimo
 bilancio approvato.
   Avverso detto  provvedimento  proponevano  reclamo  alcuni  istanti
 (meglio  qualificati  in epigrafe), i quali chiedevano a questa Corte
 di  appello  che  fosse  considerata  la  sussistenza  dei  requisiti
 prescritti per la conversione richiesta alla luce di tali rilievi: a)
 il  tribunale  aveva  errato  a escludere dal totale dell'esposizione
 debitoria qualificata le fideiussioni nei confronti delle banche;  b)
 il parametro del multiplo del capitale sociale dev'essere inteso come
 riferito non al capitale nominale risultante dall'ultimo bilancio, ma
 bensi'  al  capitale  esistente  effettivamente  e  cioe' al capitale
 decurtato delle perdite accertate in bilancio.
   Il  fallimento,  a  mezzo  di  difensore,  depositava  memoria   in
 cancelleria,  eccependo  in  via  preliminare  l'inammissibilita' e/o
 l'improponibilita'  del  reclamo,  in  quanto  il  caso   di   specie
 esulerebbe dall'ambito della previsione legislativa di conversione, e
 contestando nel merito le ragioni del gravame.
   Comparse  le  parti all'udienza del 4 giugno 1998 e alla successiva
 del 2 luglio 1998, in esito  alla  discussione  orale,  la  Corte  si
 riservava la decisione.
                        Osservazioni in diritto
   L'eccezione pregiudiziale sollevata dal fallimento e' infondata.
   E' vero che la lettera della legge (art. 4, legge 3 aprile 1979, n.
 95)   sembra   ammettere   la   conversione   di   un  fallimento  in
 amministrazione straordinaria solo nel caso di fallimento  dichiarato
 nei  confronti  di una societa' appartenente a un gruppo che abbia le
 caratteristiche di cui all'art. 3 stessa legge e che  tale  caso  non
 ricorre  nella  specie.  Ma  e'  noto che la norma, gia' interpretata
 estensivamente dalla dottrina subito dopo la sua entrata  in  vigore,
 ha  ricevuto  applicazione  da parte della giurisprudenza anche al di
 fuori del ristretto ambito testuale, ritenendosi che la ratio  stessa
 della norma e il favor verso le soluzioni non liquidatorie dei grandi
 dissesti   imprenditoriali   debbano   portare   a   includere  nella
 possibilita' di conversione anche i casi di erronea dichiarazione  di
 fallimento  di un'impresa avente i requisiti di cui all'art. 1, legge
 n. 95/1979 o casi di ius superveniens (v. soprattutto trib.  Roma  22
 aprile  1983,  in Il fall., 1983, 1154; trib. Roma 6 gennaio 1982, in
 Il fall., 1982, 1494; trib. Roma 27 ottobre 1988, ivi, 1989, 922).
   Cio' posto, non  e'  ravvisabile  l'inammissibilita'  invocata  dal
 fallimento, dovendosi ricondurre l'istanza dei ricorrenti all'istanza
 di cui all'art. 4, legge cit. ("Il tribunale provvede sull'istanza di
 qualsiasi  interessato...."), e non richiedendosi percio' che l'esame
 dell'assoggettabilita'   della   societa'   Itin  ad  amministrazione
 straordinaria debba essere necessariamente fatto valere  in  sede  di
 opposizione  alla  dichiarazione  di  fallimento  ex  art.  18  legge
 fallimentare e nei termini perentori da detta norma imposti.
   Passando all'esame del merito,  si  osserva  che  le  questioni  da
 esaminare, sono, in ordine di pregiudizialita', le seguenti:
     se  nel  parametro generale dell'indebitamento debba essere fatto
 rientrare l'importo delle fideiussioni  prestate  dalle  banche  alla
 S.p.a. Itin, quali risultanti dal bilancio 1995;
     se  il  parametro  del  capitale  sociale  (che, moltiplicato per
 cinque,   dev'essere   inferiore   al    totale    dell'indebitamento
 qualificato)   dev'essere   considerato   nell'importo  nominale  del
 capitale  sociale  versato  o  nell'importo  effettivo  esistente  al
 momento  dell'accertamento  dell'insolvenza  e risultante dall'ultimo
 bilancio approvato.
   Entrambe   le   soluzioni   delle   due   questioni   condurrebbero
 all'infondatezza  del  reclamo.  Infatti,  gli importi corrispondenti
 alle fideiussioni - come ha ritenuto il tribunale - si trasformano in
 debiti  solo  a  seguito  dell'escussione  e  secondo  le  specifiche
 modalita'  concordate.    In  sostanza,  prima del pagamento da parte
 della banca che ha prestato fideiussione sarebbe improprio parlare di
 un debito verso la banca, in quanto fino a  quel  momento  il  debito
 esiste  soltanto  verso  il  creditore  garantito. Solo a seguito del
 pagamento e della conseguente surroga del  garante  nei  diritti  del
 creditore  garantito  (art.  1949 cod. civ.) si verifica il mutamento
 nella titolarita' del credito, con la nascita del diritto di regresso
 ai sensi dell'art. 1950.
   Diversamente opinando si eluderebbe il disposto dell'art. 1,  legge
 n.  95/1979  (la  cui  finalita'  e' quella di individuare la "grande
 impresa in crisi", oltre  che  attraverso  la  presenza  di  trecento
 addetti,    anche    attraverso    un    particolare    indebitamento
 quantitativamente e qualitativamente indicato), in quanto gli  stessi
 crediti  - ove si dovesse tener conto anche dell'eventuale diritto di
 regresso del fideiussore - verrebbero a essere computati  due  volte.
 Ne',  del resto - come rileva la difesa del fallimento - l'inclusione
 delle  fideiussioni   nel   totale   dell'indebitamento   qualificato
 cambierebbe  il  risultato  finale,  giacche' solo prudenzialmente il
 curatore,   nel   suo   parere,   ha   indicato   l'importo   di   L.
 256.463.584.826,  ricomprendendovi  anche i debiti verso l'erario (L.
 19.874.807.485) e verso i dipendenti (L. 21.370.695.712). In realta',
 escludendo tali ultime cifre dal calcolo  dell'esposizione  debitoria
 qualificata  -  che,  secondo  l'art.   1 cit., e' composta da debiti
 verso aziende di credito, istituti speciali di credito,  istituti  di
 previdenza  e  di assistenza sociale - e includendo gli importi delle
 fideiussioni pari a L. 49.618.499.127 si perverrebbe pur sempre a  un
 importo complessivo inferiore a L.  295.000.000.000 (che e' l'importo
 pari  a  cinque  volte  il  capitale  sociale versato calcolato in L.
 59.000.000.000).
   Il discorso pero' muterebbe  se  al  secondo  problema  (cosa  deve
 intendersi  per capitale sociale?) venisse data una soluzione diversa
 da quella accolta dal tribunale: in  tal  caso,  sulla  scorta  della
 situazione  patrimoniale  netta  corrispondente  al  capitale sociale
 decurtato delle perdite (pari a circa L.  30.000.000.000:  v.  parere
 del  curatore,  da cui risulta che le perdite di bilancio per il 1995
 ammontavano a oltre L. 28.000.000.000), il requisito del rapporto 1 a
 5 tra capitale  sociale  e  indebitamento  qualificato  sussisterebbe
 anche al netto delle fideiussioni. Vero e' che, secondo la difesa del
 fallimento,  dall'indebitamento qualificato andrebbero esclusi alcuni
 debiti  che  solo  prudenzialmente  il  curatore   -   pervenendo   a
 un'esposizione  debitoria  di L. 256.463.584.826 - ha incluso nel suo
 parere. Ma, a giudizio di questa Corte, l'inclusione del curatore  e'
 ingiustificata solo per alcuni importi segnalati.
   E precisamente:
     debiti  verso  l'erario  (pari  a  L.  19.874.807.485):  non sono
 previsti  dall'art.  1,   legge   n.   95/1979   tra   i   componenti
 dell'esposizione debitoria qualificata;
     debiti  verso i dipendenti (pari a L. 21.370.695.712): ugualmente
 non sono previsti;
     debiti verso istituti finanziatori non rientranti nelle categorie
 di aziende di credito e di istituti speciali  di  credito  (calcolati
 rispettivamente  in  L.  21.992.659.419  verso  il  Fercredit e in L.
 16.201.254.464 verso l'Irfis): ugualmente non sono previsti.
   Per   altri   importi,   invece,   appare   corretta   l'inclusione
 nell'indebitamento  qualificato:  cosi'  e'  a dirsi per gli anticipi
 bancari su fatture (che corrispondono pur  sempre  a  concessione  di
 credito)  e  per  le  sanzioni per debiti previdenziali (che, pur non
 ancora irrogate, costituiscono -  secondo  il  calcolo  effettuato  -
 debiti da liquidarsi).
   Pertanto,  l'esposizione  debitoria qualificata della societa' Itin
 e' di L.  176.924.167.746,  dovendosi  detrarre  dalla  somma  di  L.
 256.463.584.826  (come  prudenzialmente  calcolata dal curatore), gli
 importi  di  L.    19.874.807.485,  21.370.695.712,   21.992.659.419,
 16.201.254.464.     Tale     esposizione,    superiore    al    tetto
 dell'indebitamento assoluto di L.  82.857.000.000 (v. d.m. 30  aprile
 1997),   e'  inferiore  all'indebitamento  relativo  parametrato  sul
 capitale sociale da moltiplicare per  cinque  volte,  atteso  che  il
 capitale  sociale  versato  risultante dall'ultimo bilancio approvato
 ammonta a L.  59.000.000.000.  Ne'  questa  Corte  ritiene  di  poter
 aderire  alla tesi prospettata dalla difesa dei reclamanti (e accolta
 da parte della giurisprudenza), secondo cui il parametro del capitale
 sociale indicato dalla norma in esame  andrebbe  considerato  in  una
 misura inferiore a quella del capitale sociale nominale e cioe' nella
 misura  del  capitale  sociale  decurtato  delle  perdite (misura non
 indicata  in  cifre  dai  reclamanti,  indicata  dalla   difesa   del
 fallimento in L. 28.446.695.000 sulla scorta del parere del curatore,
 da  cui  peraltro  puo'  evincersi  che il capitale versato decurtato
 delle perdite ammonta  piuttosto  a  L.  30.554.305.000,  pari  a  L.
 59.000.000.000  -  28.446.695.000). Infatti, a sfavore della tesi dei
 reclamanti militano piu' di un argomento:
     a) osservando l'evoluzione della norma in esame,  si  rileva  che
 l'iniziale  formula  adottata  dal  legislatore ("capitale versato ed
 esistente  secondo  l'ultimo   bilancio   approvato")   era   apparsa
 insoddisfacente,    tant'e'    che,   dopo   qualche   tentativo   di
 interpretazione estensiva che faceva leva sulla parola "esistente"  e
 quindi   ammetteva   che   si   potesse  tener  conto  anche  di  una
 documentazione diversa dal bilancio (trib. Milano 26 marzo  1980,  in
 Il  fall.,  1980,  545; trib. Napoli 13 febbraio 1982, in Dir. fall.,
 1982,  849),  essa  fu  modificata  dalla  legge  n. 119/1982, la cui
 formulazione, con l'esclusione della parola "esistente",  sembrerebbe
 voler  ancorare  il  parametro  a un dato piu' meramente formale e di
 piu' facile rilevazione ("capitale versato e  risultante  dall'ultimo
 bilancio approvato;
     la  lettura restrittiva del nuovo criterio si armonizza con tutto
 lo spirito della riforma di cui alla legge 31 marzo 1992 n. 119, che,
 tra l'altro, ha introdotto il requisito occupazionale (300  addetti),
 ha  innalzato  la  soglia  dell'indebitamento minimo e ha previsto un
 meccanismo  automatico  di  adeguamento  della   soglia   minima   di
 indebitamento,  restringendo  in  tal modo le possibilita' di accesso
 alle  sole  imprese  caratterizzate  da  una  particolare   rilevanza
 economica e sociale.
   In  definitiva,  interpretando  correttamente la voluntas legis, il
 criterio del capitale sociale non puo'  che  essere  considerato  con
 riferimento  alla  posta iscritta in bilancio alla voce capitale, non
 essendo consentite detrazioni per le perdite,  pur  registrate  nello
 stesso esercizio, che non abbiano ancora comportato una riduzione del
 capitale  (v.  in  tal  senso  App.  Venezia 15 settembre 1984, in Il
 Fall., 1985, 846; trib. Padova 5  gennaio  1994,  assoggettamento  ad
 amministrazione  straordinaria della Fidia S.p.a.; in senso contrario
 v. trib. Verona 12 novembre 1994, assoggettamento ad  amministrazione
 straordinaria  della  S.p.a.  Sipa;  trib.  Trieste  2  luglio  1992,
 assoggettamento  ad  amministrazione   straordinaria   della   S.p.a.
 Altiforni  di Servola; trib. Velletri 18 aprile 1994, assoggettamento
 ad amministrazione straordinaria della societa' Siciet).
   A questo punto, pero', si impone una valutazione in  radice  di  un
 tale  sistema,  in  particolare  della sua ragionevolezza e coerenza,
 nell'intero contesto della legge n. 95/1979 e delle sue finalita'.
  Sulla non manifesta infondatezza  della  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 1 della legge n. 95/1979
   La  legge  Prodi  costituisce  il  piu'  significativo  esempio  di
 intervento pubblico nella crisi d'impresa,  introducendo  nel  nostro
 ordinamento  - con norme che nelle intenzioni si prefiggono di essere
 astratte  e  generali  -  una  procedura  concorsuale  che,  se   per
 definizione  non  puo'  trascurare  la tutela del ceto creditorio, in
 realta' nasce proprio dalla constatazione della  insufficienza  delle
 altre  procedure  concorsuali  rispetto  alla  soluzione dei problemi
 conseguenti  all'insolvenza  di  un'impresa  di  grandi   dimensioni.
 Infatti, la crisi dei grandi gruppi italiani sul finire degli anni 70
 pose  con  grande urgenza all'attenzione dei legiferatori il problema
 di regolamentare gli interessi pubblici sottesi alle crisi di  quelle
 imprese,  quali  la  conservazione  dell'organismo  produttivo  e  il
 mantenimento dei livelli occupazionali. Di qui nacque  la  spinta  ad
 approntare  uno  strumento  che non fosse soltanto concorsuale, ma si
 collocasse in un piu' ampio disegno  di  politica  industriale  e  di
 programmazione  economica. Insomma, la mutata realta' socio-economica
 del Paese - che in sede giudiziaria trovava gia' ampio riscontro  nel
 sempre  piu' frequente ricorso alle procedure concorsuali cd.  minori
 - indusse il Governo (e poi il Parlamento) a intervenire sulle grandi
 crisi  imprenditoriali  nella  direzione  della  conservazione  delle
 imprese   e  del  loro  risanamento.  Tali  finalita'  si  tradussero
 normativamente nell'amministrazione  straordinaria,  che  fu  appunto
 concepita  dal  d.-l.  30  gennaio 1979, n. 26 (convertito in legge 3
 aprile 1979, n. 95) come una nuova procedura concorsuale, a carattere
 sostanzialmente  amministrativo, da applicarsi obbligatoriamente, con
 esclusione  del  fallimento,  nei  confronti  di  tutte  le   imprese
 insolventi   aventi   determinati   requisiti   dimensionali;   e  il
 perseguimento  delle  finalita'   conservative   fu   affidato   alla
 continuazione   dell'esercizio   d'impresa   da   disporre   all'atto
 dell'assoggettamento su conforme parere del Cipi.
   I rischi del Tesoro dello Stato, derivanti dalla garanzia  ex  lege
 prevista  dall'art.  2-bis  e collegati agli esiti spesso incerti del
 tentativo di risanamento hanno imposto la necessita' di stabilire sin
 dall'inizio una griglia di presupposti per l'accesso alla  procedura.
 Detti  presupposti,  criticati  da tutta la dottrina per il loro alto
 coefficiente di arbitrarieta' e per la loro inadeguatezza a  cogliere
 il  fenomeno  del  tipo  di  insolvenza  meritevole  del  "beneficio"
 dell'amministrazione straordinaria, si  sono  successivamente  -  per
 effetto  di interventi normativi riformatori - ora ristretti (come si
 e' visto con la legge n. 119/1982) ora dilatati (come per esempio con
 la  legge  n.  696  del  1993,  che  ha  abrogato  il  requisito  del
 finanziamento   agevolato   inizialmente   richiesto  per  una  quota
 dell'indebitamento qualificato), senza un'organica visione  circa  le
 peculiarita' della pur necessaria griglia selettiva.
   Da  queste  considerazioni  generali  discende  l'interrogativo  di
 questa Corte circa la non manifesta infondatezza di una questione  di
 incostituzionalita'  dell'art. 1, legge n. 95/1979 nella parte in cui
 si richiede che l'indebitamento qualificato debba essere superiore  a
 cinque    volte   il   capitale   versato.   Invero:   il   parametro
 dell'indebitamento qualificato, e cioe' di  un  tetto  -  all'interno
 dell'indebitamento   globale  -  rappresentato  dalla  sommatoria  di
 particolari debiti (verso aziende di credito,  istituti  speciali  di
 credito,  istituti  di  previdenza  e  assistenza sociale) risponde -
 anche se non mancano  perplessita'  al  riguardo  -  all'esigenza  di
 limitare  l'accesso  solo  a  determinate  imprese, la cui dimensione
 dell'esposizione   verso   soggetti   ben    identificati    consente
 l'individuazione   della   rilevanza  sociale  dell'impresa  e  degli
 interessi pubblici  coinvolti  o  comunque  consente  di  prefigurare
 effetti  dannosi sul settore creditizio o sull'economia del Paese (in
 linea con tale impostazione sono la legge n. 80/1993 e  la  legge  n.
 111/1994,   che   hanno   introdotto   un  complesso  di  presupposti
 alternativi a quello disposto dal  primo  comma  dell'art.  1,  legge
 Prodi,  in cui sostanzialmente si privilegia un'esposizione debitoria
 verso il sistema pubblico); ma - in vista delle finalita' suddette  -
 appare piuttosto incongruo l'ulteriore parametro del capitale sociale
 versato,  che  per  un verso non e', di per se', ne' indicativo della
 rilevanza sociale dell'impresa in crisi ne'  indicativo  della  grave
 risonanza   sull'economia   nazionale   e   per  altro  verso  induce
 paradossalmente a premiare la corsa all'indebitamento o  l'attuazione
 di  procedure di riduzione del capitale sociale, essendo evidente che
 piu' e' esiguo il capitale sociale  piu'  sara'  facile  superare  il
 tetto aggiuntivo di indebitamento qualificato.
   L'applicazione  delle  norme  vigenti  potra'  quindi  condurre  al
 risultato sperequante e illogico che  non  sara'  considerata  grande
 impresa  in  crisi  un'impresa con un'altissima esposizione debitoria
 qualificata, che pero' non supera  il  quinto  del  capitale  sociale
 versato,  laddove dovra' essere considerata grande impresa quella che
 presenta  la  minima  esposizione debitoria qualificata che supera il
 quintuplo del capitale sociale.
   Ma il dubbio sulla costituzionalita' dell'art. 1,  primo  comma  si
 disvela  anche  sotto  altro profilo. E' evidente che il requisito in
 questione puo' richiedersi solo per le societa' di capitali, dato che
 le nozioni di capitale sociale versato e di  risultanze  di  bilancio
 sono   inammissibili  al  di  fuori  dell'ambito  delle  societa'  di
 capitali.  E' ravvisabile, pertanto, un contrasto con l'art. 3  della
 Costituzione  per disparita' di trattamento tra le imprese gestite in
 forma di societa' di capitali  e  le  altre  forme  di  imprese,  ivi
 comprese  le  imprese  individuali, che, superate le incertezze delle
 prime applicazioni della legge Prodi, sono ritenute - per consolidata
 giurisprudenza - assoggettabili  alla  procedura  di  amministrazione
 straordinaria  (app.  Roma  4  febbraio 1981, in II fall., 1981, 294;
 trib. Napoli 30 aprile 1982, in Dir. fall.,  1982,  II,  1647;  trib.
 Roma 3 novembre 1983, ivi, 1984, II, 881).
   E  poiche' nel caso di impresa individuale e di societa' di persone
 la mancata operativita' del requisito e' riconducibile esclusivamente
 a un dato strutturale  del  soggetto  e  non  a  una  giustificazione
 plausibile (ricorrendo per ogni tipo di impresa la stessa esigenza di
 una  preventiva  griglia  selettiva  che  possa  servire da parametro
 identificativo  dell'aspetto  dimensionale),  ne  consegue   che   in
 concreto  la  differenza  di  trattamento  e' rivelatrice di un vizio
 della norma sindacabile da parte della Corte costituzionale.
   La questione di  costituzionalita'  e'  rilevante,  ai  fini  della
 decisione  della  causa  de  qua,  atteso  che  la  societa' e' stata
 dichiarata fallita e che  l'applicabilita'  della  norma,  nella  sua
 attuale  formulazione,  comporterebbe  il  rigetto  della  domanda di
 conversione del fallimento in amministrazione straordinaria  ex  art.
 4,   legge   n.   95/1979,   mentre   l'eventuale   declaratoria   di
 incostituzionalita' determinerebbe l'accoglimento del reclamo.
   Pertanto la  questione  viene  sollevata  d'ufficio  e  rimessa  al
 giudice delle leggi, disponendosi l'immediata trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale e sospendendosi il giudizio in corso.