IL GIUDICE DI PACE
   Sciogliendo la riserva che precede;
   Premesso:
     che Pichelli Consalvo ha convenuto in giudizio  avanti  a  questo
 giudice  il  Ministero  delle  finanze,  chiedendone  la  condanna al
 pagamento della somma di L.  111.500  a  titolo  di  restituzione  di
 eguale  somma  versata  al  momento  del  deposito  in cancelleria di
 istanza per tentativo di conciliazione in sede non contenziosa  (art.
 322  c.p.c.)  in  quanto  a  parere  di esso attore, la somma non era
 dovuta;
     che per il convenuto  Ministero  si  e'  costituita  l'Avvocatura
 dello   Stato  che  ha  proposto  in  via  preliminare  eccezione  di
 incompetenza per materia del giudice  adito,  ai  sensi  dell'art.  9
 c.p.c.,  sostenendo che competente a decidere la controversia sarebbe
 il tribunale, e nel merito ha  richiesto  il  rigetto  della  domanda
 perche' infondata essendo l'obbligo del versamento della somma di che
 trattasi, sancito dall'art. 46 della legge 21 novembre 1991, n. 374;
   Ritenuto:
     che  e' necessario: a) esaminare, in via preliminare, la predetta
 eccezione  che  -  se  accolta  -  comporta   la   dichiarazione   di
 incompetenza  con  la conseguente rimessione degli atti al tribunale,
 b) in caso di eventuale rigetto della predetta  eccezione,  accertare
 la legittimita' costituzionale della'rormaori cui sopra;
                              O s s e r v a
   A. - In ordine all'eccezione di incompetenza per materia: la difesa
 del  Ministero  convenuto  ha  motivato  la  predetta  sua  eccezione
 affermando che "la controversia instaurata con  l'atto  di  citazione
 cui  resiste  ha  per  oggetto  la  debenza o meno di imposte e tasse
 dovute allo Stato" ed ha espressamente  richiamato  l'art.  46  delle
 legge n. 374/1991.
   Ai  fini  di  decidere  sulla  competenza  e'  necessario,  quindi,
 verificare l'esattezza di tale affermazione. A quanto, in  proposito,
 si  esporra'  appresso,  occorre premettere che e' stato rilevato che
 molto spesso la terminologia usata dal legislatore non e'  del  tutto
 coerente, per cui i diversi termini di "imposta" e "tassa" sono usati
 con  significati impropri o inesatti. Si impone, pertanto, un attento
 esame della natura della contribuzione  oggetto  della  controversia,
 per accertare che non ricorra una delle ipotesi predette.
   Nella  fattispecie  la  norma  gia'  richiamata  fa  riferimento al
 pagamento di "imposte, tasse, diritti e spese secondo quanto disposto
 per i giudizi di cognizione  dalle  tabelle  allegate  alla  legge  7
 febbraio  1979,  n. 59, come modificata dalla legge 6 aprile 1984, n.
 57 e dalla legge 21 febbraio 1989, n. 99"
   Considerato che la disposizione di cui sopra e' l'ultima in  ordine
 di  tempo di una lunga serie di provvedimenti legislativi che si sono
 succeduti nel tempo, per disciplinare la materia, ai fini  di  questa
 indagine, e' opportuno esaminare la normativa nel suo complesso.
   La  materia  cui  fare  riferimento  e'  quella relativa ai diritti
 riconosciuti  ai  cancellieri  per  la   loro   specifica   attivita'
 nell'ambito del processo civile. La prima norma della lunga serie cui
 sopra  si  e'  fatto riferimento risulta essere l'art. 38 del r.d. 18
 dicembre 1941, n. 1368 (Disposizioni  di  attuazione  del  codice  di
 produra  civile),  ancora  oggi  in  vigore,  nonostante  le numerose
 modifiche apportate al codice stesso.
   Dispone tale norma che "la parte che per prima  si  costituisce  in
 giudizio  ...deve  consegnare  al cancelliere la carta bollata per lo
 svolgimento del procedimento e una somma  per  spese  di  cancelleria
 ...".
   Anche  se  la disposizione in esame (art. 46) non fa riferimento al
 contenuto del predetto art. 38, la perdurante vigenza di quest'ultimo
 (art. 38) porta a concludere che  il  legislatore  non  abbia  voluto
 modificare  l'obbligo del versamento e la natura e destinazione delle
 somme da versare.
   Si puo', pertanto, concludere che la  contribuzione  in  esame  non
 puo'  qualificarsi  "imposta"    o  "tassa" avendo, invece, natura di
 "contributo" per cui si e' in presenza di una di quelle  ipotesi  cui
 gia'  si  e'  accennato di uso improprio da parte del legislatore dei
 termini di "imposta" e "tassa".
   Tale tesi  trova  anche  conforto  nello  stesso  art.  38  e  piu'
 specificamente  nel  secondo  comma  con  la  quale  disposizione  il
 legislatore ha legittimato il cancelliere a  "rifiutare"  l'atto  che
 non  sia  accompagnato  dal  deposito e, poi, il capo dell'ufficio ad
 emettere decreto con cui ordina il deposito, nel caso in cui la parte
 e il suo difensore non vi abbiano provveduto.
   La disposizione di cui sopra e' stata  confermata  dalla  legge  21
 dicembre  1989,  n.  99 che ne ha espressamente recepito il contenuto
 nell'art. 4.
   In ordine all'imposta di bollo, poi,  va  aggiunto  che  a  seguito
 della  c.d.  "forfettizzazione" delle spese di cui al gia' richiamato
 art. 3 D.A.C.P.C. la imposta  predetta  (per  la  quota  inclusa  nel
 totale   del  versamento  da  effettuare)  in  forza  della  predetta
 normativa,  e  piu'  in  particolare  dell'art.  46  della  legge  n.
 374/1991,  che  attualmente  disciplina la materia, ha perduto la sua
 peculiare caratteristica e non e' piu' disciplinata dalla legge sulla
 imposta  di bollo. Infatti, mentre la predetta legge sulla imposta di
 bollo, fa riferimento esclusivo alla imposta dovuta per  ogni  foglio
 (vedi  art.  20  della tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n.
 642 e successive modificazioni), la somma da  versare  unitamente  ai
 diritti   di  cancelleria  e  per  gli  adempimenti  degli  ufficiali
 giudiziari, e' disciplinata in  modo  autonomo  rispetto  all'imposta
 fissa,  e  quantificata  in  misura  forfettaria,  come  le somme per
 diritti di cancelleria ed altri. Ne deriva  che  la  contribuzione  a
 tale  titolo  non  e' piu' da considerarsi "imposta" ma acquisisce la
 caratteristica propria del "contributo".
   La  tesi  trova  conferma   nella   constatazione   che   l'aumento
 dell'imposta fissa da L. 15.000 a L. 20.000 per ogni foglio, disposto
 con l'art.  6 del d.-l. 30 dicembre 1994, n. 565, che richiama l'art.
 20  della  tariffa  del  d.P.R.  n.  642/1972,  non  e'  stato esteso
 all'ammontare di cui al piu' volte richiamato art. 46.
   Per tutto quanto sopra ritiene questo giudice che nella fattispecie
 non debba trovare applicazione il richiamato art. 9 del c.p.c. e che,
 quindi, sussiste e deve essere dichiarata la  propria  competenza  in
 ordine alla presente causa.
   B. - In ordine alla legittimita' costituzionale dell'art. 46, legge
 n. 374/1991.
   Prima pero' di adottare ogni provvedimento ordinatorio o decisorio,
 poiche'  l'attore  (se pure in forma non implicita) ha prospettato la
 illegittimita' della norma posta dal  convenuto  a  fondamento  della
 richiesta  di rigetto della domanda, appare necessario un esame della
 norma stessa sotto tale profilo.
   A parere del remittente ricorrono le condizioni di cui all'art.  23
 della legge 9 febbraio 1948 ed appare necessario,  quindi,  sollevare
 d'ufficio  la questione di legittimita' costituzionale del piu' volte
 richiamato art. 46 legge n. 374/1991, per violazione dellart. 3 della
 Costituzione.
   Infatti,  poiche'  la  controversia  tra  le  parti,  oggetto   del
 giudizio,  deve essere decisa proprio sulla base della applicabilita'
 o meno al caso di che trattasi della norma ora richiamata, sussistono
 sia la legittimazione del giudice, sia la rilevanza  della  questione
 ai fini della decisione.
   Il  motivo di contrasto che, a parere di questo giudice, inficia la
 norma impugnata e' costituito dalla illegittima parificazione fra  le
 cause   di  cognizione  e  l'attivita'  svolta  dall'ufficio  per  il
 tentativo di conciliazione in sede non contenziosa.
   La distinzione  tra  le  due  categorie  di  "affari"  (cosi'  sono
 definite le cause o procedimenti) non e' nuova, che' anzi nuova e' la
 loro parificazione.
   Invero  ogni  attivita' estranea al giudizio di cognizione e' stata
 da sempre tenuta distinta dalla prima, a tutti gli effetti.
    Fin dall'entrata in vigore del codice di procedura civile  emanato
 nel   1940,   la   prevalente   dottrina  nell'esaminare  l'attivita'
 giurisdizionale del  giudice  ha  fatto  una  netta  distinzione  tra
 l'attivita' "contenziosa" e tutte le altre attivita' od interventi di
 esso  giudice  non  riconducibili  alla  materia  predetta,  in  cio'
 confortata anche dal riferimento alle fonti  romane  nelle  quali  la
 predetta distinzione e' esplicitamente evidenziata, con la rispettiva
 qualificazione  di  jurisdictio  contentiosa e jurisdictio voluntaria
 (Dig. I, 16, 2pr.).
   Varie  sono  state  le  definizioni  e le teorie per individuare la
 materia esclusa dal "contenzioso"  e  per  definire  l'attivita'  del
 giudice in relazione alla seconda categoria.
   Si   e'   parlato   di  in  jus  vocatio  davanti  agli  uffici  di
 conciliazione unicamente all'effetto di un tentativo di componimento,
 senza che si chieda una pronunzia di carattere  giurisdizionale,  per
 il caso che il tentativo non riesca.
   Altri,  invece, hanno evidenziato la differenza nello affermare che
 la giuridizione si  concreta  in  un  atto  di  volonta'  dell'organo
 pubblico  e  la  conciliazione  in  un  atto  di volonta' delle parti
 (negozio)  cui  la  legge  riconosce  particolare  efficacia  per  la
 presenza del giudice nel momento della sua conclusione.
   Altri,  ancora,  hanno affermato che la funzione conciliativa e' da
 ritenere assolutamente stragiudiziale e semplicemente  amministrativa
 poiche'   non   produce   alcun   effetto   di   sovrana   attuazione
 dell'ordinamento esaurendosi nella mera cooperazione, con  impulso  e
 mediazione, in vista del componimento, e nella documentazione di esso
 non diversa da quella effettuata da altro pubblico ufficiale.
   Si  e',  infine,  rilevato  che  questa attivita' del giudice possa
 essere qualificata come punto di interferenza  tra  giurisdizione  ed
 amministrazione.
   Tutti,  comunque,  si sono trovati, pero', di accordo nel sostenere
 che in ogni caso la differenza piu' rilevante tra  le  due  categorie
 consiste  nel  riconoscere che il carattere distintivo della prima di
 esse (attivita' in sede contenziosa) e' dato  dalla  obbligatorieta',
 per il giudice stesso, di definire il procedimento con una pronunzia,
 che puo' essere favorevole o sfavorevole alla parte istante. Elemento
 questo  che manca nella seconda categoria per la quale alla attivita'
 del   giudice   e'   stato   negato   il   carattere   di   attivita'
 giurisdizionale.
   Proprio  dalla  particolare  caratteristica  di  ciascuna delle due
 categorie sopra esaminate e dalla conseguente possibilita' nel  primo
 caso di ottenere una pronunzia da parte del giudice, possibilita' che
 manca  per la seconda categoria, discende a parere del remittente, la
 lamentata violazione del principio costituzionale della uguaglianza.
   Ne' puo' trascurarsi che precedentemente alla riforma apportata con
 la norma in esame, e piu' specificamente fino alla  emanazione  della
 legge   2   dicembre   1991,  n.  399  (Delegificazione  delle  norme
 concernenti i registri che devono essere  tenuti  presso  gli  uffici
 giudiziari) le due categorie di procedimenti venivano iscritte in due
 diversi registri che la cancelleria aveva l'obbligo di tenere.
   Con  l'entrata  in vigore della legge sopra citata, non esiste piu'
 l'obbligo di tenere i due distinti registri e  le  due  categorie  di
 procedimenti  vengono  iscritti  in  un  unico  registro.  Va, pero',
 rilevato che la distinzione di cui sopra e' stata mantenuta  ai  fini
 statistici.  Infatti nel Prospetto M.210 predisposto dal Ministero di
 grazia e giustizia, e piu' specificamente nella Parte I, riservata al
 movimento   degli   affari  civili  ordinari  e  non  contenziosi,  i
 procedimenti   stessi   sono,   poi,   distintamente   indicati    in
 "procedimenti  ordinari"  "procedimenti  speciali" e "procedimenti di
 conciliazione in sede non contenziosa (art. 322 c.p.c.)".
   Va,  infine,  ricordato, sempre in ordine ai versamenti da eseguire
 al titolo che qui interessa che la norma  istitutiva  del  "deposito"
 (art.  38  D.A.C. P.C.) facendo riferimento alla "parte che per prima
 si costituisce in giudizio" disciplinava la materia dei  procedimenti
 "contenziosi".
   Per  tutti  gli  altri  procedimenti,  diversi  da  questi ultimi e
 genericamente definiti "speciali", il legislatore  aveva  dettato  la
 norma  del successivo art. 39 che, sempre disponendo la necessita' di
 un deposito, faceva riferimento  ad  una  diversa  natura  ed  ad  un
 diverso ammontare.
   Infatti,  mentre  la  prima  delle  norme  richiamate  (art. 38) fa
 riferimento alla "carta bollata per lo svolgimento del processo" e ad
 "una somma per spese  di  cancelleria",  il  successivo  art.  39  si
 riferisce  ancora  alla  carta  bollata  e "quando occorre anche alla
 somma reputata necessaria per le spese relative".
   Tale  distinzione   e'   stata   mantenuta   pur   dopo   la   c.d.
 "forfettizzazione".    Infatti,  nella  Tabella allegata alla legge 7
 febbraio 1979, n. 59, risulta evidenziata,  la  distinzione  relativa
 alla  "natura  e  grado  del procedimento" (col. 1) e quella relativa
 alla determinazione delle somme da versare e cioe' "imposta di bollo"
 (col 2) e "diritti di cancelleria ed altri" (col. 3).
   Piu' specificamente poi alla lettera E della  colonna  1  risultano
 indicati  i  procedimenti speciali distinti in 1) di ingiunzione e 2)
 "altri".
   Per entrambe le categorie gli importi  da  versare  risultano  pari
 alla  meta'  di  quelli  indicati  alla  lettera A, corrispondenti ai
 procedimenti di cognizione avanti al pretore. Tale normativa  risulta
 piu' aderente alla realta'.
   Infatti  e' facile dedurre che il procedimento di ingiunzione e gli
 altri (tra cui puo' ben comprendersi il tentativo di conciliazione in
 sede non contenziosa) comportano lo svolgimento  di  attivita'  molto
 ridotta rispetto al procedimento di cognizione. Nei primi l'attivita'
 si concretizza, rispettivamente, per la cancelleria, nella iscrizione
 della  pratica  nel  relativo  registro  e  nella  presentazione  del
 fascicolo al giudice e, per quest'ultimo, nella emanazione di un solo
 provvedimento di accoglimento o di rigetto. In ordine poi all'istanza
 art. 322 c.p.c., di cui ci si  occupa,  non  ricorre  neppure  questa
 ultima  ipotesi  in quanto il giudice e' chiamato soltanto a "cercare
 di conciliare" le parti (art. 6 D.A.C.P.C.) e, se la  parte  invitata
 non si presenta, a "darne atto nel processo verbale".
   Quanto  fin  qui evidenziato e' stato esplicitamente confermato dal
 legislatore con la legge  21 febbraio 1989, n. 99,  che,  con  l'art.
 5,  comma  2,  ha  precisato  che  il  disposto  da  effettuare per i
 procedimenti speciali, la cui misura e' indicata alla lett. e), n.  3
 della  tab.   D, si riferisce soltanto alla presentazione del ricorso
 ed emissione del provvedimento, mentre "per tutte le  eventuali  fasi
 successive,  l'imposta  di  bollo  ed  i  diritti  di  cancelleria si
 corrispondono  mediante  predisposizione  dei  fogli   necessari   ed
 applicazione  delle  marche,  od effettuazione di versamenti in conto
 corrente postale dei relativi importi".
   A diretto carico  della  parte  medesima  e'  altresi'  ogni  altra
 eventuale spesa necessaria al provvedimento.
   Va,  infine,  rilevato  - anche se la circostanza e' irrilevante ai
 fini di questo giudizio  di  legittimita'  costituzionale  -  che  la
 normativa  di cui ci si occupa risulta sostanzialmente confermata dal
 decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, in quanto con lo  stesso
 provvedimento,  mentre  e'  stata  confermata  la validita' del primo
 comma dell'art.  46 della legge n. 374/1991 (esenzione da  imposta  e
 tasse  per tutti i procedimenti davanti al giudice di pace, di valore
 non superiore a due milioni) e' stato abrogato il secondo comma dello
 stesso articolo.    L'abrogazione,  che  e'  stata  motivata  con  la
 considerazione  che la norma e' rimasta priva di significato pratico,
 essendo state espressamente previste le somme dovute  per  i  giudizi
 dinanzi  al  giudice  di  pace, ha un contenuto meramente formale, in
 quanto in sostanza nulla e' cambiato.
   Infatti, non essendo stato abrogato il  primo  comma  del  predetto
 art. 46 ne consegue che il regime fiscale dei procedimenti davanti al
 giudice  di  pace non ha subito alcuna modifica. E, pertanto, tutti i
 procedimenti di valore non superiore a lire due milioni continuano  a
 godere  della  esenzione  e  per  tutti gli altri le somme da versare
 risultano dagli allegati n. 1 e n. 2 al predetto decreto legislativo.
   Per tutto quanto sopra esposto si ritiene che sia stato violato  il
 diritto  di  cui  all'art. 3 della Costituzione in quanto la norma in
 esame ha previsto un eguale trattamento per due  diverse  situazioni.
 Si verifica, infatti, che il cittadino che presenta ricorso o istanza
 per uno dei procedimenti c.d. "speciali" o "non contenziosi" (e, piu'
 in  particolare  l'istanza  ex  art.  322 c.p.c.) per controversie di
 valore superiore a lire due milioni, e' obbligato a versare una somma
 uguale  a  quella  richiesta  a  chi  instaura  un  procedimento   di
 cognizione, per cause dello stesso valore.
   Per  concludere  e' lecito ritenere che il procedimento ex art. 322
 c.p.c. non puo' essere assoggettato allo stesso  regime  fiscale  del
 procedimento   contenzioso,   cosi'  come  disposto.  Si  puo'  anzi,
 affarmare che lo stesso procedimento dovrebbe essere esentato da ogni
 imposizione, cosi' come indicato  nel  disegno  di  legge  n.  2814/C
 presentato dal Ministro di grazia e giustizia, il 30 giugno 1995 alla
 Camera dei deputati.
   E,   comunque,   non   puo'   negarsi   allo   stesso  procedimento
 l'equiparazione,  ai  fini  fiscali  ai  procedimenti  speciali   con
 l'estensione allo stesso del piu' favorevole trattamento riservato ai
 procedimenti predetti.
   Ai fini della fondatezza della questione deve porsi in evidenza che
 il  parametro  della eguaglianza non si puo' tradurre in una astratta
 ed assoluta regola di omologazione di situazioni,  ma  deve,  invece,
 comportare   la   necessita'  di  verificare  se  sia  consentito  al
 legislatore  disciplinare  in  modo  uniforme  situazioni  tra   loro
 differenti.  Indagini che nella fattispecie, per quanto gia' esposto,
 porta alla conclusione che la norma in esame  costituisce  violazione
 del principio di eguaglianza enunciato dalla Costituzione.