IL MAGISTRATO SI SORVEGLIANZA
   Ha  emesso  la seguente ordinanza di sospensione di procedimento in
 tema di sospensione dell'esecuzione  pena relativamente a  condannato
 detenuto  proponente  istanza  di  affidamento  in  prova al servizio
 sociale per  elevazione di questione di legittimita' costituzionale.
   Letti gli atti relativi all'istanza  di  affidamento  in  prova  al
 servizio  sociale  -  pervenuta  in  cancelleria  il 25 giugno 1998 -
 avanzata da Fancello Valentino, nato  il  21  marzo  1971  a  Desulo,
 condannato  con sentenza del giudice per l'udienza preliminare presso
 il tribunale di Oristano alla pena  di  anni  quattro  di  reclusione
 oltre  pena  pecuniaria per i reati previsti dagli articoli 605 e 628
 del codice penale e altresi' dagli artt. 10, 12 e 14 della  legge  n.
 497/1974, detenuto in espiazione della predetta pena detentiva presso
 la  Casa  circondariale  di  Oristano, con inizio pena al 23 dicembre
 1996 e fine prevista al 22 dicembre 2000;
   Considerato che l'istanza, avanzata in data successiva  all'entrata
 in  vigore  della  legge  27  maggio 1998, n. 165, e' stata rivolta a
 questo magistrato ai sensi  dell'art.  47,  quarto  comma,  legge  n.
 354/1975,  come  modificato  dall'art.  2  della  predetta  legge  n.
 165/1998;
     che sono offerte concrete indicazioni in ordine alla  sussistenza
 dei  presupposti  per  l'ammissione all'affidamento, risultanti dalla
 relazione di  sintesi  e  relativi  aggiornamenti  in  atti,  e  alle
 allegazioni  inerenti la possibilita', per il condannato, di svolgere
 attivita' lavorativa a tempo indeterminato, in qualita' di bracciante
 agricolo, presso l'azienda d'allevamento  ovini  e  suini  di  Floris
 Basilio,  nato  a  Desulo  il 30 aprile 1967, ivi residente, di fatto
 domiciliato in San Basilio, localita' "Pala  de  Pardu",  riscontrate
 attraverso  le informazioni fornite dai Carabinieri della stazione di
 S. Basilio e attraverso la dichiarazione sostitutiva di atto  notorio
 sottoscritta dal Floris;
      che  non vi e' pericolo di fuga del condannato, stante l'assenza
 a suo carico di precedenti penali al di fuori di quelli  per  cui  e'
 condannato e, altresi', l'insussistenza di carichi pendenti presso le
 Procure  della  Repubblica  competenti  per  territorio  sul luogo di
 residenza del Fancello;
     che il Fancello ha altresi' asserito che dalla protrazione  dello
 stato  di  detenzione  deriverebbe  un grave pregiudizio, consistente
 negli "effetti negativi dal punto di vista caratteriale" che da  cio'
 potrebbero  derivare,  avuto  riguardo  al fatto che trattasi, per il
 condannato, della prima carcerazione;
     che vi e' fondato motivo di ritenere che l'art. 47, quarto comma,
 legge n.  354/1975,  nella  parte  in  cui  consente  la  sospensione
 dell'esecuzione  della  pena  nei  confronti  di  condannato detenuto
 proponente istanza di affidamento in prova al servizio  sociale,  sia
 costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3, 25, 27,
 101  e 112 della Costituzione nei termini e per i motivi che verranno
 di seguito evidenziati;
     che  al  condannato,  in  subordine  rispetto  alla   sospensione
 dell'esecuzione della pena, non puo' essere applicata, neppure in via
 provvisoria,  la  detenzione  domiciliare  prevista dall'art. 47-ter,
 commi 1  e  1-bis,  legge  n.  354/1975,  attesa  l'insussistenza  di
 allegazioni  inerenti alla sussistenza dei presupposti indicati dalla
 prima  norma  citata  e,   altresi',   l'ostativita'   all'ammissione
 provvisoria  alla  detenzione  domiciliare  del Fancello ai sensi del
 combinato disposto dell'ultima norma  citata  e  del  comma  1-quater
 stesso  articolo  dell'ammontare  della  pena residua che questi deve
 espiare, inferiore a tre anni ma superiore a due anni;
     che, anche riguardo al disposto dell'art.  47-ter,  comma  1-bis,
 legge  n.  354/1975 vi e' fondato motivo di ritenere che, nella parte
 in cui risulta ostativo a disporre l'applicazione  provvisoria  della
 detenzione  domiciliare  nei  confronti  del  Fancello,  la norma sia
 costituzionalmente illegittima per contrasto con l'articolo  3  della
 Costituzione;
     che  la  sollevanda questione di legittimita' costituzionale deve
 ritenersi provvista del requisito della rilevanza  avuto  riguardo  a
 quanto  sopra  evidenziato,  atteso che, se questo magistrato dovesse
 decidere  circa  la  sospensione  dell'esecuzione  della   pena   nei
 confronti  del  Fancello  o,  in  subordine,  circa la sua ammissione
 provvisoria alla detenzione domiciliare allo  stato  degli  atti,  si
 troverebbe   avanti   all'alternativa   di  applicare  senz'altro  la
 disposizione dell'art 47, quarto comma, legge n.  354/1975,  sospetta
 di  incostituzionalita'  nei  termini  che verranno enunciati, ovvero
 pronunciare il totale rigetto dell'istanza interinale;
   Riguardo   alla   non   manifesta   infondatezza   dei   dubbi   di
 incostituzionalita' delle due norme menzionate:
                             O s s e r v a
   L'art.  47,  quarto  comma, della legge n. 354/1975, nella versione
 modificata dall'art. 2 della legge 27 maggio 1998,  n.  165,  prevede
 che il magistrato di sorveglianza, cui deve essere rivolta l'istanza,
 avanzata  da  un  condannato  detenuto,  di  affidamento  in prova al
 servizio sociale puo', ove  siano  offerte  concrete  indicazioni  in
 ordine    alla   sussistenza   dei   presupposti   per   l'ammissione
 all'affidamento e sul grave pregiudizio derivante  dalla  protrazione
 dello  stato  di  detenzione,  nonche'  ove non consti il pericolo di
 fuga, sospendere l'esecuzione della pena e  ordinare  la  liberazione
 del  condannato  fino  alla  decisione  sull'istanza  del  competente
 tribunale di sorveglianza.
   La norma  in  commento  ha  quindi  introdotto,  nel  contesto  del
 procedimento  di sorveglianza relativo alla trattazione delle istanze
 di affidamento in prova e di ammissione alla  semiliberta'  nei  casi
 previsti  dal primo comma, dell'art. 50, legge n. 354/1975 (giusto il
 richiamo di questo articolo all'art.  47,  quarto  comma  citato)  un
 procedimento  interinale e cautelare, come dimostra la previsione del
 duplice  requisito  della  sussistenza  -  con  relativo   onere   di
 allegazione  da  parte del condannato - di concrete indicazioni sulla
 sussistenza dei presupposti per l'ammissione alla misura  alternativa
 (ovvero  del  c.d.  fumus  boni  iuris,  ravvisabile  allorquando sia
 offerto al giudice fondato motivo di ritenere fondata la richiesta di
 merito) e sul grave pregiudizio  derivante  dalla  protrazione  dello
 stato  di detenzione, dovendosi assimilare quest'ultima condizione di
 legge al c.d. periculum in mora.
   Cio' premesso, passando a valutare piu' in dettaglio la ratio della
 norma, risulta di immediata evidenza  la    profonda  diversita'  del
 meccanismo  normativo da essa contemplato rispetto a quelli delineati
 dalle  norme  che,  in  termini  generali  di   "sistema"   prevedono
 l'adozione  di  misure di tipo cautelare - con peculiare riferimento,
 quanto al sistema del diritto dell'esecuzione penale, al differimento
 provvisorio  dell'esecuzione della pena previsto dall'art. 684, comma
 2 c.p.p.    -  relativamente  alla  qualificazione  della  situazione
 pericolosa  dalla cui persistenza, che permarrebbe in caso di mancata
 adozione di misura cautelare idonea  ad  assicurare  provvisoriamente
 gli  effetti  del  diritto per cui si agisce in giudizio, deriverebbe
 grave pregiudizio all'interessato.
   E' incontestabile principio  generale  in  materia  cautelare  -  a
 prescindersi  dalle  misure  cautelari personali regolate dagli artt.
 272 e ss. c.p.p.,  ispirate  a  una  logica  affatto  diversa  -  che
 l'esigenza  di  protezione  interinale dell'interesse individuale per
 cui e' proposta domanda giudiziale intesa a ottenere la pronuncia  di
 un provvedimento idoneo al soddisfacimento di tale interesse sussiste
 quando,  nelle  more  della  definizione del relativo procedimento di
 merito, vi sia una situazione di  concreto  ed  attuale  pericolo  di
 menomazione   della  posizione  giuridica  soggettiva  che  l'istante
 intende far valere, derivante dalla protrazione di  una  contrastante
 situazione  di  fatto  astrattamente traente il proprio fondamento da
 una pretesa infondata.
   Cosi' e',  difatti,  anche  in  tema  di  differimento  provvisorio
 dell'esecuzione  della  pena,  laddove  la  tutela  interinale che il
 magistrato di sorveglianza puo' accordare al condannato detenuto,  ai
 sensi dell'art. 684, comma 2 c.p.p., e' azionata in rapporto al grave
 pregiudizio   che,  rispetto  alla  salvaguardia  dei  personalissimi
 interessi attinenti alla sfera del condannato  protetti  dagli  artt.
 146-147  c.p.,  puo' derivare dalla pretesa pubblica di dare comunque
 esecuzione alla pena, che deve ritenersi, in  tal  caso,  sicuramente
 infondata  in quanto contrastante col principio, sancito dall'art. 27
 della Costituzione,  per  cui  le  pene  non  possono  consistere  in
 trattamenti  contrari  al senso di umanita'.  E in ogni caso, in tema
 di sospensione cautelare dell'esecuzione della pena,  l'unico  limite
 ammissibile   all'esercizio   della   potesta'   punitiva   pubblica,
 indefettibile nei confronti di chi commette  reati,  pare  non  poter
 essere  altro  che  quello  da  ultimo enunciato, che, ai sensi della
 richiamata norma costituzionale,  configura  un  inderogabile  limite
 esterno allo stesso modo di essere della pena, dovendosi per il resto
 accordare  assoluta  prevalenza  all'esigenza  che le sanzioni penali
 abbiano  effettiva  esecuzione,   derivante   dall'irrinunciabile   e
 superiore    interesse    pubblico    alla    stessa    conservazione
 dell'ordinamento giuridico, reso  esplicito  in  termini  di  diritto
 costituzionale  positivo dal combinato disposto degli artt. 3, 25,101
 e 112 della Costituzione.  Segnatamente, il principio di  eguaglianza
 sancito  dall'art. 3 della Carta fondamentale, essenziale alla stessa
 conservazioni delle minime e  irrinunciabili  premesse  della  civile
 convivenza  nella  Nazione, non puo' che importare, avuto riguardo al
 disposto dell'art. 25, secondo comma della Costituzione -  giusto  il
 quale  nessuno  puo' essere punito se non per un fatto previsto dalla
 legge come reato - che, per converso, tutti  coloro  che  pongono  in
 essere fatti previsti dalla legge come reato vadano indefettibilmente
 assoggettati   alle  correlative  sanzioni.    In  denegata  ipotesi,
 lasciando costoro immuni da punizione, si commetterebbe gravissima  e
 irrazionale  disparita'  di  trattamento nei confronti di coloro che,
 osservando la legge penale, hanno ottemperato  all'essenziale  dovere
 civico  di  rispettare le leggi, e si porrebbero le premesse per dare
 corpo all'inammissibile rischio, intollerabile
  per  la stessa sopravvivenza dell'ordinamento, di non porre lo Stato
 in condizioni di garantire l'effettivita' delle leggi penali.
   Non casualmente, infatti, il Costituente ha  inteso  garantire  che
 l'attivita'  necessariamente  preliminare  al legale accertamento dei
 fatti nel rispetto del diritto  alla  difesa,  inviolabile  ai  sensi
 dell'art.   24,   secondo  comma  della  Costituzione,  debba  essere
 esercitato obbligatoriamente da un organo pubblico, quale il pubblico
 ministero, inserito nel contesto della Magistratura, in  quanto  tale
 partecipe  delle  garanzie  di  indipendenza e inamovibilita' proprie
 dell'ordine giudiziario, la cui natura, pur in presenza di un  Codice
 di  rito  ispirato  al c.d. sistema accu-satorio - quale il codice di
 procedura  penale  vigente  -  non   e'   riducibile,   meramente   e
 semplicemente, a
  quella  di  parte  processuale, trattandosi, viceversa, di organo di
 giustizia obiettiva (art. 112 della Costituzione); logico  corollario
 di  questa  ispirazione  e'  che  l'accertamento dei fatti penalmente
 rilevanti sia demandato, giusto l'art.  101  della  Costituzione,  ad
 organo  indipendente e imparziale, soggetto solo alla legge, quale il
 giudice, al quale, nel rispetto  dei  principi  dell'indefettibilita'
 della  sanzione  penale  per gli autori di reati dell'obbligatorieta'
 dell'azione penale, devono necessariamente essere sottoposte, purche'
 legalmente raccolte, tutte le fonti di prova al  riguardo  rilevanti,
 essendo viceversa doverosa, nel caso di eventuali inerzie dell'organo
 requirente, l'attivazione dello stesso giudice ai fini della raccolta
 di ogni elemento necessario al compiuto accertamento della verita'.
   La giurisprudenza della Corte costituzionale, con numerose sentenze
 portatrici  di  un  orientamento  consolidato,  ha avuto occasione di
 chiarire ampiamente i termini e la portata di tale  principio,  nelle
 occasioni  in  cui la Corte fu chiamata ad esercitare il sindacato di
 legittimita' costituzionale  sulle  norme  del  Codice  di  rito  che
 costituiscono  i  piu' significativi punti di emersione del principio
 in parola, per quanto concerne, in particolare, il potere conoscitivo
 del giudice (artt. 442, 444, 500, 513 c.p.p. e art.  125  disp.  att.
 c.p.p. in particolare).
   Ed  e'  del  tutto  evidente come dal rispetto di tali fondamentali
 precetti   costituzionali,   onde   non   vanificarne    del    tutto
 l'effettivita',  non possa prescindersi neppure in sede di esecuzione
 della pena, fatto salvo, quanto a  valorizzare  interessi  esterni  a
 quello sotteso all'esecuzione della pena, l'unico limite costituito -
 come  gia'  anticipato  - dal divieto che la pena abbia esecuzione in
 forma di trattamenti contrari al senso di  umanita',  in  adempimento
 del precetto di cui all'art. 27 della Costituzione.
   Orbene,  non  pare affatto a questo giudice che il legislatore, nel
 predisporre l'attuale formulazione dell'art. 47, quarto comma,  legge
 n.  354/1975,  si  sia  attenuto  a  questo  fondamentale  principio,
 diversamente  da  quanto  contemplato  dalle   norme   in   tema   di
 differimento  provvisorio  dell'esecuzione  della pena in pendenza di
 istanza di rinvio ai sensi degli artt. 146-147  c.p.  proveniente  da
 imputato  detenuto, come contemplato dall'art. 684, comma 2 c.p.p., o
 ancora da quanto ora disposto - sempre per effetto della novellazione
 disposta con la  c.d.,"Legge  Simeone-Saraceni"  -  dal  nuovo  comma
 1-quater,  dell'art.  47-ter,  legge n. 354/1975, laddove, in tema di
 detenzione domiciliare, il magistrato di sorveglianza  puo'  disporre
 l'applicazione  provvisoria  di tale misura alternativa ricorrendo, i
 medesimi presupposti contemplati dall'art. 47, comma 4, stessa legge,
 cui   e'   fatto   espresso   richiamo,   non  avendo  comunque  tale
 provvedimento interinale effetto sospensivo rispetto alla  decorrenza
 della   pena.     Ambedue  le  norme  da  ultimo  citate,  prevedendo
 l'adozione, da parte del magistrato di  sorveglianza,  di  rimedi  di
 evidente  natura  cautelare  in presenza di gravi situazioni inerenti
 alla sfera personalissima delle fondamentali  esigenze  di  vita  del
 condannato  -  tutela  della salute, della maternita', dell'infanzia,
 fino al limite delle "comprovate esigenze di salute,  di  studio,  di
 famiglia  e  di  lavoro"  relative  agli infraventunenni - null'altro
 importano che il coerente adeguamento del principio di effettivita' e
 indefettibilita'   dell'esecuzione   della   pena   all'esigenza   di
 conformita'  del  modo di essere e del tempo di esecuzione al divieto
 di trattamenti contrari al senso di umanita'.  Se per il differimento
 dell'esecuzione della pena  puo'  ritenersi  pacifico  che  la  ratio
 dell'art.  684,  comma  2,  c.p.p.  sia  proprio  questa,  per quanto
 concerne  la  detenzione  domiciliare,  la  Corte  costituzionale  ha
 recentemente avuto modo di chiarire che detta misura alternativa, pur
 rispondendo  almeno  in  parte  a esigenze trattamentali, e' comunque
 connotata da  un'ispirazione  prevalentemente  umanitaria,  correlata
 all'esigenza  irrinunciabile di tutela degli interessi del condannato
 relativi  alla  sussistenza  di  una  delle  situazioni   contemplate
 dall'art.  47-ter, primo comma, legge n. 354/1975.
   Neppure puo' dubitarsi, ad avviso di questo giudice, che di analoga
 ispirazione  partecipi  la nuova figura di detenzione domiciliare ora
 prevista dal nuovo comma 1-bis dell'art. 47-ter, legge n. 354/1975  -
 relativamente  alla  quale  e'  parimenti  concedibile l'applicazione
 provvisoria ai sensi del comma 1-quater,  stesso  articolo  -  atteso
 che,  ogni  qual  volta  lo  strumento  della  detenzione domiciliare
 risulti  sufficiente  a  garantire  l'esecuzione  della  pena   senza
 pregiudizio  delle  esigenze  di  tutela  della  collettivita'  e  di
 prevenzione del pericolo di fuga, l'esecuzione della pena  in  regime
 carcerario  si  prospetta  come  lato  sensu  contraria  al  senso di
 umanita', atteso che  il  modo  di  essere  della  pena,  per  essere
 conforme ai dettami dell'art. 27, terzo comma della Costituzione, non
 puo'  che escludere ogni aggravamento non strettamente indispensabile
 a esigenze di sicurezza e  di  tutela  della  collettivita',  che  si
 ripercuoterebbe in un illegittimo e inutile compressione della stessa
 personalita' del condannato.
   Tanto  e'  vero  che  il nuovo decimo comma dell'art. 656 esplicita
 questo principio, nell'imporre un  vero  e  proprio  divieto  che  al
 condannato sia applicato, in sede di esecuzione della pena, un regime
 restrittivo piu' grave di quello da ultimo a lui applicato in sede di
 misure   cautelari   prima   dell'irrevocabilita'   della   condanna,
 stabilendo che  in  tal  caso  il  pubblico  ministero  disponga  che
 l'esecuzione  della  pena prosegua in regime di arresti domiciliari -
 ove   tale   fosse   il   regime   restrittivo   cautelare   all'atto
 dell'irrevocabilita' della condanna - fino all'eventuale applicazione
 de  plano,  da  parte del tribunale di sorveglianza, della detenzione
 domiciliare.
   Tornando, invece,  sulla  possibilita'  di  sospensione  interinale
 dell'esecuzione  della  pena in pendenza di istanza di affidamento in
 prova al servizio sociale, trattasi di  una  norma  che,  nel  totale
 silenzio   del   legislatore   circa  l'individuazione  di  eventuali
 interessi  esterni, relativi alla sfera personale del condannato, cui
 debbasi accordare tutela cautelare a fronte della pretesa pubblica  a
 che  la  pena  continui ad avere effettiva esecuzione, pare del tutto
 esulare  dai  limiti  di  ammissibilita',  sopra  evidenziati,  della
 sospensione  dell'esecuzione,  correlando  il  grave  pregiudizio  al
 riguardo rilevante alla mera protrazione, sic et  simpliciter,  dello
 stato di detenzione, certo non comprensibile avuto riguardo alla mera
 alternativa  tra  la  detenzione e l'affidamento in prova al servizio
 sociale; cio' in  quanto,  giusto  il  disposto  dell'art.  27  della
 Costituzione  per cui la pena deve tendere alla rieducazione del reo,
 la stessa esecuzione in regime  penitenziario  non  puo'  che  essere
 improntata    ad    esigenze   di   reinserimento   e   di   graduale
 risocializzazione  del  condannato,  non  potendosi   formulare,   in
 astratto,  alcun  giudizio  di  inadeguatezza  a tali finalita' della
 detenzione e, viceversa, di adeguatezza del solo affidamento in prova
 alle finalita' stesse, trattandosi di modalita' meramente alternative
 di attuazione di un medesimo precetto costituzionale, e dovendosi far
 dipendere l'adozione dell'una o dell'altra misura -  ammissione  alla
 misura  alternativa  ovvero  prosecuzione  dell'esecuzione  in regime
 penitenziario - solamente da una valutazione  in  concreto  correlata
 alla   personalita'   e  alle  condizioni  personali  e  sociali  del
 condannato.
   Anzi, l'art. 47, quarto comma, legge n.  354/1975,  pur  modificato
 con  l'intendimento  di favorire la risocializzazione del condannato,
 risulta essere una norma dalla cui applicazione possono, in concreto,
 seguire effetti  irrazionali in rapporto alle  finalita'  perseguite.
 Detta  disposizione,  a  differenza dell'art. 47-ter, comma 1-quater,
 della  stessa  legge,  non  prevede  infatti  che  il  magistrato  di
 sorveglianza  possa, con proprio provvedimento interinale, anticipare
 gli effetti della richiesta misura alternativa, bensi' impone, sic et
 simpilciter,  nelle   more   della   decisione   del   tribunale   di
 sorveglianza,   la   sospensione   di   ogni   attivita'   di  ordine
 trattamentale e/o rieducativo, trattisi dell'ordinaria esecuzione  in
 regime  penitenziario  o  dell'esecuzione  dell'affidamento in prova,
 senza neppure consentire al magistrato di  sorveglianza  di  adottare
 provvedimenti   che   consentano   di  conciliare  l'indefettibilita'
 dell'esecuzione della pena con la sua  finalizzazione  alle  esigenze
 rieducative  e risocializzative del condannato (quale e' l'ammissione
 provvisoria alla detenzione domiciliare, contemplata dalla  norma  da
 ultimo  citata).    Le  conseguenze,  in termini di conformita' della
 norma contestata al dettato  costituzionale,  risultano  di  notevole
 gravita',  atteso che deve prendersi atto dell'assoluta inadeguatezza
 della disposizione ivi parimenti contenuta, secondo cui il  tribunale
 di   sorveglianza   "decide   entro   quarantacinque   giorni"  dalla
 trasmissione degli atti ad opera del magistrato  di  sorveglianza,  a
 conciliare  l'incongruita'  della  totale sospensione delle attivita'
 rieducative  o  comunque  trattamentali   con   l'esigenza   che   il
 procedimento  di sorveglianza relativo all'istanza di affidamento sia
 definito  quanto  prima,  rendendo  meramente  transitoria  l'anomala
 situazione sospensiva descritta.
   Trattasi,  infatti, di un termine del tutto privo di "sanzione" - a
 differenza,  ad  esempio,  del  termine  di  trenta  giorni  previsto
 dall'art.  51-ter, legge n. 354/1975 in tema di sospensione di misure
 alternative, in ogni caso in  concreto insufficiente a garantire  che
 il tribunale di sorveglianza possa effettivamente "decidere" entro il
 tempo indicato.
   Cio'   in   quanto,  in  primo  luogo,  l'istruttoria  relativa  al
 procedimento di sorveglianza in  tema  di  affidamento  in  prova  al
 servizio  sociale  -  a  differenza  dell'istruttoria  effettuata dal
 magistrato di sorveglianza in tema  di  sospensione  dell'esecuzione,
 per  propria  natura  necessariamente sommaria - non e' in alcun modo
 correlata,  quanto  a  stabilirne   i   tempi   di   espletamento   e
 completamento,   al   mero   fatto   del   competente   tribunale  di
 sorveglianza, essendo affidati gli accertamenti a organismi  autonomi
 -  centri  di  servizio  sociale  per  adulti,  autorita' di polizia,
 strutture sanitarie e altri - cui il tribunale non puo' in alcun modo
 prescrivere termini perentori per il compimento di tali accertamenti,
 stante il necessario, doveroso  rispetto  per  le  loro  esigenze  di
 servizio;   in   secondo   luogo,  non  appare  conforme  al  dettato
 costituzionale, e  segnatamente  al  principio  di  indipendenza  del
 giudice  di  cui  all'art.    101  della  Carta  fondamentale, che al
 tribunale di sorveglianza possa essere ingiunto di  "decidere"  entro
 un   termine   cosi'   ristretto   indipendentemente   dall'effettivo
 completamento dell'istruttoria necessaria a  deliberare  sull'istanza
 di affidamento.
   Ne'  puo',  comunque,  ritenersi  che  la  norma  in commento possa
 prevedere alcuna "sanzione processuale" in caso di mancata  decisione
 del  tribunale di sorveglianza entro il termine stabilito, atteso che
 trattasi non gia'  di  confermare  un  provvedimento  sfavorevole  al
 condannato  -  come,  ancora  ad  esempio,  la  revoca  di una misura
 alternativa a seguito di provvedimento sospensivo del  magistrato  di
 sorveglianza  -  bensi'  di  adottare  un  provvedimento  allo stesso
 favorevole, i cui effetti  non  potrebbero  certo  farsi  seguire  ad
 anomali  meccanismi  di  "silenzio  assenso"  incompatibili col modus
 decidendi proprio dell'autorita' giudiziaria - improntato all'obbligo
 di motivazione ai sensi dell'art.   111 della Costituzione  -  e,  in
 ultima  analisi,  ormai  divenuti  incompatibili  con lo stesso modus
 decidendi di  ogni  autorita'  amministrativa,  stante  l'obbligo  di
 motivazione  generalizzato  ora  previsto  dall'art. 3 della legge n.
 241/1990.  E' pertanto evidente che  la  sospensione  dell'esecuzione
 della  pena deliberata dal tribunale di sorveglianza potra' protrarre
 la propria efficacia per tempi anche considerevolmente lunghi -  come
 accade  sovente,  oltre  che  per  il  ritardo  nell'espletamento dei
 richiesti accertamenti da parte degli organi demandati dal tribunale,
 anche per  il  fatto  del  condannato  o  per  difficolta'  oggettive
 inerenti   al   reperimento   di   idonea   attivita'   lavorativa  o
 risocializzante -  determinando  un  effetto  di  tale  provvedimento
 interinale  che, oltre a vanificare la portata dell'evocato principio
 di indefettibilita' dell'esecuzione  della  pena  (stante  la  totale
 sospensione  di  ogni  misura  rieducativa  o  comunque trattamentale
 derivante dalla mera sospensione dell'esecuzione della pena) consente
 il potenziale  verificarsi  di  risultati  assolutamente  illogici  e
 irrazionali   proprio   in  rapporto  all'esigenza  di  garantire  la
 tendenzialita' rieducativa della pena.  Non puo'  infatti  escludersi
 che   il   tribunale  di  sorveglianza,  all'esito  dell'istruttoria,
 pronunci  il  rigetto  dell'istanza  di  affidamento,  al  che  segue
 l'immediato  ripristino  dell'eseguibilita'  della pena eventualmente
 sospesa dal magistrato di sorveglianza: e una simile conseguenza, ove
 abbia luogo in danno di condannato che abbia fruito di un piu' o meno
 lungo  periodo  di  sospensione  dell'esecuzione  dopo  un periodo di
 carcerazione, ben potrebbe determinare un risultato a  sua  volta  in
 contrasto  coi principi costituzionali, atteso che, pur tenendo conto
 delle  ampie  possibilita'  offerte  dall'ordinamento   penitenziario
 quanto  all'ammissibilita'  di condannati nei confronti dei quali non
 sussistano i presupposti per l'ammissione all'affidamento  alle  meno
 favorevoli  misure  alternative della semiliberta' (art.  50, secondo
 comma, legge  n.  354/1975)  e  della  detenzione  domiciliare  (art.
 47-ter,  comma  1-bis stessa legge), l'eventuale rigetto dell'istanza
 di affidamento importerebbe la necessaria attuazione del  trattamento
 in  modo frammentario e, in concreto, potenzialmente desocializzante,
 in stridente  contrasto col principio di gradualita' che, secondo  la
 piu'  autorevole  dottrina,  impronta il complesso delle disposizioni
 della  legge  n.  354/1975  sia  in  tema  di  esecuzione  in  regime
 carcerario  che  in  tema  di  successiva  eventuale  ammissione  del
 condannato a misure  alternative.    L'illogicita'  di  una  siffatto
 effetto  e'  resa  ancor  piu'  palese  dal  fatto  che l'ordinamento
 penitenziario,  pur  prevedendo  misure  importanti  la   provvisoria
 remissione   in   liberta'   del   condannato   anche  in  permanenza
 dell'esecuzione  -  ci  si  riferisce  ai  permessi  premio  previsti
 dall'art.  30-ter,  legge n. 354/1975 - contempla ben precise cautele
 in ordine ai limiti temporali di ammissibilita' di  tali  misure  sia
 quanto  alla  durata  del  singolo  permesso  che  quanto  ai  giorni
 complessivamente fruibili nel corso di ciascun anno di detenzione:  e
 la  norma  da  ultimo  citata,  col   prevedere   espressamente   che
 l'esperienza  dei  permessi  premio  costituisce parte integrante del
 trattamento (previsione resa concreta dalle restrizioni  che  possono
 essere imposte al condannato e dall'obbligo di mantenere contatti col
 servizio     sociale     territoriale),     sancisce    ex    adverso
 l'inconciliabilita' con l'esigenza di attuazione graduale e ponderata
 del trattamento stesso, irrinunciabile condizione perche' esso  possa
 effettivamente   conseguire   le   finalita'   di   reinserimento   e
 risocializzazione del condannato che vi sono proprie,  di  misure  in
 fatto  sospensive  dell'applicazione del trattamento penitenziario, o
 comunque di un trattamento di tipo detentivo, scollegate da finalita'
 trattamentali, qual'e', appunto, la sospensione  dell'esecuzione  che
 quivi  si censura.  Ma vi e' di piu': la disposizione quivi censurata
 concretizza una irrazionale e palese disparita' di trattamento  avuto
 riguardo   alla   ben   diversa  posizione  dei  condannati  detenuti
 proponenti istanza di ammissione  alla  detenzione  domiciliare,  nei
 confronti   dei  quali,  come  gia'  evidenziato,  il  magistrato  di
 sorveglianza, nelle more della definizione del procedimento da  parte
 del  competente  tribunale,  puo'  solamente  disporre l'applicazione
 provvisoria della richiesta misura alternativa, e non gia' sospendere
 l'esecuzione della pena.  Tale disparita' di trattamento e',  invero,
 reciproca,  atteso  che,  per  un  verso  i  condannati  istanti  per
 l'affidamento in prova al  servizio  sociale,  non  potendo  ottenere
 neppure l'applicazione provvisoria della misura alternativa richiesta
 o quantomeno l'ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare, si
 trovano  esposti  al  rischio  di  subire  gli effetti potenzialmente
 desocializzanti  e  in  contrasto  con   ogni   razionale   finalita'
 rieducativa  derivanti  dall'attuazione frammentaria del trattamento,
 che  si  avvererebbe  in  caso  di  rigetto dell'istanza da parte del
 tribunale  a  seguito  di  sospensione  dell'esecuzione  della   pena
 libertatis  a differenza dei condannati istanti per l'ammissione alla
 detenzione  domiciliare,  che  possono  ottenere  dal  magistrato  di
 sorveglianza  la  provvisoria  applicazione  della  richiesta  misura
 alternativa;  per  altro  verso,  questi   ultimi   condannati   sono
 collocati,  per  effetto  dell'eventuale provvedimento interinale del
 magistrato di sorveglianza, in una posizione  che  e,  dal  punto  di
 vista  dello status libertatis, sicuramente piu' sfavorevole rispetto
 a quella dei condannati istanti per l'affidamento,  cui  puo'  essere
 concessa  la sospensione dell'esecuzione.  Ad avviso dello scrivente,
 la sostanza dei dubbi di legittimita' costituzionale sollevata non e'
 punto incrinata dal possibile rilievo che il  nuovo  testo  dell'art.
 656  c.p.p.  prevede  ora  che  il  pubblico ministero, nell'emettere
 ordine di esecuzione nei confronti di condannati a carico  dei  quali
 risultino  eseguibili  condanne  rientranti  entro i limiti stabiliti
 dalla legge per l'ammissione all'affidamento  in  prova  al  servizio
 sociale  (cosi' come, in generale, per le altre misure alternative di
 cui al quinto comma del citato articolo),  salvo  che  sussistano  le
 cause  ostative di cui al settimo e nono comma dello stesso articolo,
 deve  contestualmente   sospendere   gli   effetti   dell'ordine   di
 esecuzione, con contestuale decorrenza di un termine di giorni trenta
 entro  il  quale il condannato puo' depositare, presso lo stesso p.m.
 istanza di ammissione alla misura alternativa e,  in  caso  positivo,
 ottenere  la  sospensione    dell'esecuzione  della  pena  fino  alla
 decisione del competente tribunale di sorveglianza sull'istanza.
   La suddetta norma, infatti, per un verso  inerisce  non  gia'  alla
 pena  detentiva  che  sia  gia'  in  esecuzione, bensi' alle medesime
 condizioni di esercizio del potere del pubblico ministero di porre in
 esecuzione le condanne - essendo l'efficacia dello stesso  ordine  di
 esecuzione  subordinata  alla  condizione  sospensiva  negativa della
 mancata  proposizione  di  istanza  di  affidamento  o  del   mancato
 accoglimento  della  stessa  - in nulla tangendo il principio per cui
 l'esecuzione di pena detentiva gia' in  atto  non  puo',  di  regola,
 subire sospensioni salvo che per ragioni correlate all'attuazione del
 trattamento  o, comunque, giusta l'esigenza di rispetto del principio
 costituzionale di non contrarieta' dei trattamenti  in  cui  la  pena
 consiste al senso di umanita'; per altro verso, null'altro importa se
 non   l'armonizzazione   del  previgente  meccanismo  di  sospensione
 dell'emissione dell'ordine  di  esecuzione  contemplato  dal  vecchio
 testo  dell'art.  47,  quarto  comma, legge n.   354/1975, da un lato
 incrementando le garanzie del condannato con l'impedire che  l'azione
 esecutiva  sia  posta  in  essere  dal p.m. senza previo accertamento
 sulla  pendenza  di  istanza  di  ammissione  a  misura  alternativa,
 dall'altro lato regolando la disciplina della sospensione dell'ordine
 di esecuzione in termini piu' restrittivi di quelli preesistenti.  E'
 quindi  palese,  ad  avviso  di questo giudice, che l'art. 47, quarto
 comma, legge  n.  354/1975,  nella  nuova    formulazione  introdotta
 dall'art.    2  della legge 27 maggio 1998, n. 165, viola non solo il
 combinato disposto degli artt. 3, 25, 101 e  112  della  Costituzione
 per  contrarieta'  al  principio  di  indefettibilita' delle sanzioni
 penali  da  detti  articoli  desumibili  e  l'art.  27  della   Carta
 fondamentale  per  manifesta irragionevolezza, ma ancora l'art. 3 per
 reciproca  disparita'  di   trattamento   tra   condannati   detenuti
 rispettivamente  istanti  per  l'affidamento  in  prova ovvero per la
 detenzione domiciliare.
   A tale "modo di  essere"  costituzionalmente  incompatibile,  della
 norma  censurata  non  puo' neppure ritenersi che possa porsi rimedio
 attraverso un'interpretazione - eventualmente accoglibile in sede  di
 pronuncia  di "sentenza additiva" da parte della Corte costituzionale
 -  secondo  cui,  per  effetto  del   provvedimento   interinale   di
 sospensione  dell'esecuzione  della  pena  da parte del magistrato di
 sorveglianza, il condannato detenuto trovisi non gia' rimesso, sic et
 simpliciter, in liberta', bensi' provvisoriamente ammesso alla misura
 alternativa  richiesta.    Una  simile   previsione   determinerebbe,
 infatti,  l'attribuzione  al  magistrato di sorveglianza di un potere
 diverso e ben piu' ampio rispetto a quello accordatogli  in  tema  di
 applicazione  provvisoria  della  detenzione domiciliare, atteso che,
 pur trattandosi della provvisoria esecuzione di  misura  alternativa,
 il  provvedimento  del  giudice  monocratico  incide, in questo caso,
 sulle modalita' di esecuzione della pena  senza  determinarne  alcuna
 sospensione,  mentre,  qualora  il  magistrato  di sorveglianza fosse
 autorizzato a disporre la provvisoria  applicazione  dell'affidamento
 in  prova al servizio sociale, l'effetto del provvedimento interinale
 consisterebbe in un'illogica  attribuzione  de  facto  al  magistrato
 stesso   del   potere  di  sottoporre  il  condannato  a  una  misura
 alternativa di natura indubitabilmente diversa dalla  "pena"  stricto
 sensu  intesa, atteso che la consolidata giurisprudenza della suprema
 Corte di cassazione, a prescindersi dalle  particolari  problematiche
 che  si pongono in tema di revoca dell'affidamento non determinata da
 condotte del condannato incompatibili con  la  sua  prosecuzione,  si
 esprime   pacificamente   nel  senso  che  non  puo'  esservi  alcuna
 equivalenza tra il tempo di esecuzione dell'affidamento e  quello  di
 espiazione  della  pena,  come e' reso palese dal fatto che l'art 47,
 legge n.  345/1975 prevede che il tribunale di sorveglianza, conclusa
 l'esecuzione dell'affidamento e  ritenutone  positivo  l'esito,  deve
 dichiarare  estinta  la  pena  per  cui  vi  e' stato affidamento con
 espresso provvedimento.  Orbene, non pare che una  simile  diversita'
 di  regime  tra  l'affidamento e le altre misure alternative - la cui
 applicazione non interrompe l'esecuzione della pena  -  sia  casuale,
 dovendosi  invece  ritenere  che  il  legislatore,  in armonia con le
 fondamentali esigenze di  valutazione  prevalentemente  personologica
 che  presiede all'attuazione dell'affidamento, abbia inteso riservare
 l'esclusivo  potere  di  pronunciare  sull'ammissione   alla   misura
 alternativa  in questione del condannato e sulla valutazione positiva
 della relativa esperienza ai fini dell'estinzione della pena al  solo
 tribunale  di  sorveglianza  quale organo collegiale opportunamente e
 necessariamente  composto,  oltre  che  da  magistrati  "togati",  da
 "esperti"  nelle  materie  rilevanti  ai  fini  trattamentali; e tale
 principio verrebbe sicuramente vanificato consentendo  al  magistrato
 di    sorveglianza    di   disporre   la   provvisoria   applicazione
 dell'affidamento, atteso che, in questo  caso,  si  attribuirebbe  di
 fatto  al giudice monocratico, in misura piu' o meno ampia, lo stesso
 potere di disporre in  via  definitiva  l'applicazione  della  misura
 alternativa in oggetto, potendosi oscillare dall'ipotesi della revoca
 dell'affidamento provvisorio determinato da cause diverse da condotte
 del  condannato  incompatibili con la prosecuzione - nel qual caso il
 periodo di affidamento comunque decorso dovrebbe  reputarsi  comunque
 equipollente  a  pena espiata - all'ipotesi, di facile avveramento in
 caso  di  pene  detentive  brevi,  dell'avvenuta  totale   esecuzione
 dell'affidamento  in forza di provvedimento interinale del magistrato
 di sorveglianza, riducendosi il  ruolo  del  tribunale  a  quello  di
 organo  di  mera  e  comunque  necessaria  ratifica  dell'operato del
 giudice monocratico.    L'art.  47,  quarto  comma,  della  legge  n.
 354/1975  non  pare quindi poter sfuggire, nella parte in cui prevede
 che il magistrato di sorveglianza puo' sospendere l'esecuzione  della
 pena  nei confronti del condannato istante per l'affidamento in prova
 al  servizio  sociale,  a  una  pronuncia  di  totale  illegittimita'
 costituzionale  nella  parte  in  cui  esso e' applicabile in tema di
 istanze di affidamento in prova  al  servizio  sociale  e  giusto  il
 rinvio  di  cui  all'art. 50 della stessa legge - altresi' in tema di
 istanze di ammissione alla semiliberta',  dovendosi  individuare,  ad
 avviso   di  questo  giudice,  l'unica  misura  interinale  idonea  a
 conciliare il principio dell'effettivita' ed indefettibilita'
  dell'esecuzione  della  pena   con   quello   della   tendenzialita'
 rieducativa   della   pena  stessa  e  dell'inammissibilita'    della
 sospensione dell'esecuzione di pena detentiva gia' in atto se non per
 esigenze trattamentali o comunque   umanitarie  -  senza  conseguire,
 proprio  avuto  riguardo  a  quest'ultimo fondamentale interesse, gli
 evidenziati  illogici e irrazionali risultati -  nell'ammissione  del
 condannato, nelle more della decisione del tribunale di  sorveglianza
 sull'istanza  di  affidamento,  alla  detenzione  domiciliare  in via
 provvisoria.  Al riguardo, tale facolta' deve  ritenersi  sicuramente
 accordata  al magistrato di sorveglianza nei confronti dei condannati
 che devono espiare una pena non superiore a due anni, avuto  riguardo
 al  combinato  disposto  dei commi 1-bis e 1-quater dell'art. 47-ter,
 legge n. 354/1975; infatti, se il presupposto dell'applicazione della
 detenzione domiciliare ai  sensi  della  prima  norma  richiamata  e'
 l'insussistenza  delle condizioni per l'ammissione all'affidamento in
 prova, pacifico che in tal caso il magistrato di  sorveglianza  possa
 disporre  l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare nei
 confronti del condannato detenuto che insta per ottenere tale  misura
 alternativa,  non  puo'  non  ritenersi,  in  omaggio all'esigenza di
 interpretare la legge in modo tale da farvi conseguire,  tra  diversi
 possibili  effetti,  quello piu' favorevole al reo, che il magistrato
 di sorveglianza non possa disporre l'applicazione  provvisoria  della
 detenzione  domiciliare,  ai sensi del predetto comma 1-bis anche nei
 confronti del  condannato  istante  per  l'affidamento  in  prova  al
 servizio  sociale,  allorquando abbia fondato motivo di ritenere che,
 pur   non sussistendo allo stato  -  anche  solo  per  la  necessaria
 sommarieta'   e   incompletezza  dell'istruttoria  avanti    a  detto
 magistrato -  i  presupposti  per  l'ammissione  all'affidamento,  la
 detenzione domiciliare appaia comunque idonea a prevenire il pericolo
 che  il  condannato  commetta  nuovamente  reati, ferma la necessaria
 assenza del   pericolo di fuga.   Questa  soluzione  e',  oltretutto,
 idonea   ad   armonizzare  la  congiunta  applicazione  dei  principi
 costituzionali finora evocati in modo da conseguire risultati  logici
 in  rapporto  alle  finalita'  che gli stessi principi perseguono: il
 principio di indefettibilita'  dell'esecuzione  della  pena,  poiche'
 l'applicazione    della   detenzione   domiciliare   non   interrompe
 l'esecuzione ma ne modifica unicamente le modalita'; il principio per
 cui la pena non puo' consistere in trattamenti contrari al  senso  di
 umanita',  essendo la detenzione domiciliare una misura alternativa -
 rectius una modalita' di  esecuzione  della  pena  -  tendenzialmente
 elastica,  con  prescrizioni che possono essere in concreto adeguate,
 in  qualsiasi  momento,  alle  essenziali  esigenze   di   vita   del
 condannato, senza per cio' consentire indiscriminate e irresponsabili
 aperture   verso   la   strumentalizzazione   di   un   provvedimento
 essenzialmente cautelare ai  fini  del  soddisfacimento  di  esigenze
 meramente voluttuarie o liceziose; e, infine, il principio per cui la
 pena   deve   tendere  alla  rieducazione  del  reo;  consentendo  al
 condannato rispetto al quale vi sia fondato motivo  di  ritenere  che
 possa  conseguire  l'ammissione all'affidamento di essere sottoposto,
 nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, a un regime
 restrittivo insieme meno duro di quello penitenziario  e  sicuramente
 piu' adeguato alle esigenze di un graduale reinserimento sociale.
   Tuttavia,  e'  evidente  che,  onde  potersi pervenire ad un simile
 risultato, il disposto del comma 1-quater, dell'art. 47-ter, legge n.
 354/1975, in omaggio all'esigenza costituzionale di  non  determinare
 disparita'   di  trattamento  tra  condannati  detenuti  istanti  per
 l'affidamento in prova al servizio  sociale  sulla  mera  base  della
 valutazione  del periodo di pena da espiare - due anni, come previsto
 dal comma 1-bis del citato articolo, ovvero tre anni,  come  previsto
 dal   primo   comma,   dell'art.   47,   legge   n.  354/1975  quanto
 all'ammissibilita'  del  condannato  all'affidamento   in   prova   -
 necessita  di  essere  opportunamente  armonizzato,  nel senso che il
 magistrato  di  sorveglianza  possa  applicare  provvisoriamente   la
 detenzione domiciliare, nei confronti del condannato detenuto istante
 per  l'affidamento  in  prova,  anche  quando  la pena da espiare sia
 superiore a  due  anni  ma  inferiore  a  tre,  ferma  la  necessaria
 sussistenza dei rimanenti presupposti indicati dal combinato disposto
 degli  artt.  47,  quarto  comma    e  47-ter,  comma 1-bis, legge n.
 354/1975.  Una simile lettura armonizzatrice delle norme in  commento
 si  rende  necessaria,  oltre  che  al  fine  di  evitare,    in sede
 cautelare, un trattamento imparitario dei condannati detenuti istanti
 per l'affidamento in prova sulla   mera  base  del  quantum  di  pena
 residua  da  espiare, cui non puo' attribuirsi alcun rilievo decisivo
 quanto alla  meritevolezza di tutela  dell'interesse  del  condannato
 alla  rieducazione  e  risocializzazione  se  non  sulla  base di una
 valutazione  in  concreto,  anche  al  fine  di   evitare   incongrue
 disparita'  di trattamento, anch'esse in contrasto con l'art. 3 della
 Costituzione,  tra  condannati  detenuti  con  pena   in   espiazione
 superiore  a  due anni ma inferiore a tre anni alla data dell'entrata
 in vigore della legge 27 maggio 1998, n.  165,  e  condannati  liberi
 trovantisi,  nello  stesso  momento  storico,  in analoga situazione,
 potendo questi ultimi, sulla base del combinato disposto dei commi  5
 e  10  dell'art.  656  c.p.p.,  essere ammessi in via interinale alla
 detenzione domiciliare, a condizione che si trovassero ristretti agli
 arresti domiciliari  all'atto  dell'irrevocabilita'  della  condanna,
 anche  se  la  pena da espiare, pur essendo inferiore a tre anni, sia
 superiore  a  due.    Infatti,  il  meccanismo  normativo  da  ultimo
 descritto  si fonda, evidentemente, su una presunzione di adeguatezza
 alle condizioni personali del condannato - avuto  riguardo  sia  alle
 esigenze  inerenti  al proprio reinserimento, sia all'esigenza che la
 pena abbia effettiva esecuzione -  anche  in  sede  di  esecuzione  a
 seguito  di condanna irrevocabile, dello stesso regime restrittivo in
 applicazione  in  sede  cautelare  a  prescindere  dai limiti di pena
 previsti dall'art. 47-ter, comma 1-bis, legge  n.  354/1975,  sicche'
 non  trova  alcuna  logica  giustificazione che analoga efficacia non
 debba  essere  riconosciuta  a  un   provvedimento   interinale   del
 magistrato  di  sorveglianza  nei  confronti  di  condannato detenuto
 istante per l'affidamento in prova al servizio sociale.    In  questi
 termini,   e   tenuto   conto  dell'interpretazione  evolutiva  quivi
 prospettata quanto alle altre norme citate, deve sollevarsi questione
 di legittimita' costituzionale riguardo al disposto  dell'art.    47,
 quarto  comma,    legge  n. 354/1975, quale modificato dall'art.   2,
 legge n. 165/1998, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 101
  e 112 della Costituzione,  nonche'  al  disposto  dell'art.  47-ter,
 comma  1-quater  della legge n. 354/1975, quale  modificato dall'art.
 4, legge n. 165/1998, per contrasto con l'art. 3  della  Costituzione
 nella  parte  in  cui non   prevede che il magistrato di sorveglianza
 puo' disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare
 nei  confronti  di  condannato   detenuto   proponente   istanza   di
 affidamento  in  prova al servizio sociale, sussistendo i presupposti
 indicati dalla norma, anche se la pena che il condannato deve espiare
 e' superiore a due anni ma non inferiore a tre.