IL MAGISTRATO SI SORVEGLIANZA Ha emesso la seguente ordinanza di sospensione di procedimento in tema di sospensione dell'esecuzione pena relativamente a condannato detenuto proponente istanza di affidamento in prova al servizio sociale per elevazione di questione di legittimita' costituzionale. Letti gli atti relativi all'istanza di affidamento in prova al servizio sociale - pervenuta in cancelleria il 25 giugno 1998 - avanzata da Fancello Valentino, nato il 21 marzo 1971 a Desulo, condannato con sentenza del giudice per l'udienza preliminare presso il tribunale di Oristano alla pena di anni quattro di reclusione oltre pena pecuniaria per i reati previsti dagli articoli 605 e 628 del codice penale e altresi' dagli artt. 10, 12 e 14 della legge n. 497/1974, detenuto in espiazione della predetta pena detentiva presso la Casa circondariale di Oristano, con inizio pena al 23 dicembre 1996 e fine prevista al 22 dicembre 2000; Considerato che l'istanza, avanzata in data successiva all'entrata in vigore della legge 27 maggio 1998, n. 165, e' stata rivolta a questo magistrato ai sensi dell'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, come modificato dall'art. 2 della predetta legge n. 165/1998; che sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'ammissione all'affidamento, risultanti dalla relazione di sintesi e relativi aggiornamenti in atti, e alle allegazioni inerenti la possibilita', per il condannato, di svolgere attivita' lavorativa a tempo indeterminato, in qualita' di bracciante agricolo, presso l'azienda d'allevamento ovini e suini di Floris Basilio, nato a Desulo il 30 aprile 1967, ivi residente, di fatto domiciliato in San Basilio, localita' "Pala de Pardu", riscontrate attraverso le informazioni fornite dai Carabinieri della stazione di S. Basilio e attraverso la dichiarazione sostitutiva di atto notorio sottoscritta dal Floris; che non vi e' pericolo di fuga del condannato, stante l'assenza a suo carico di precedenti penali al di fuori di quelli per cui e' condannato e, altresi', l'insussistenza di carichi pendenti presso le Procure della Repubblica competenti per territorio sul luogo di residenza del Fancello; che il Fancello ha altresi' asserito che dalla protrazione dello stato di detenzione deriverebbe un grave pregiudizio, consistente negli "effetti negativi dal punto di vista caratteriale" che da cio' potrebbero derivare, avuto riguardo al fatto che trattasi, per il condannato, della prima carcerazione; che vi e' fondato motivo di ritenere che l'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, nella parte in cui consente la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti di condannato detenuto proponente istanza di affidamento in prova al servizio sociale, sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 101 e 112 della Costituzione nei termini e per i motivi che verranno di seguito evidenziati; che al condannato, in subordine rispetto alla sospensione dell'esecuzione della pena, non puo' essere applicata, neppure in via provvisoria, la detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, commi 1 e 1-bis, legge n. 354/1975, attesa l'insussistenza di allegazioni inerenti alla sussistenza dei presupposti indicati dalla prima norma citata e, altresi', l'ostativita' all'ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare del Fancello ai sensi del combinato disposto dell'ultima norma citata e del comma 1-quater stesso articolo dell'ammontare della pena residua che questi deve espiare, inferiore a tre anni ma superiore a due anni; che, anche riguardo al disposto dell'art. 47-ter, comma 1-bis, legge n. 354/1975 vi e' fondato motivo di ritenere che, nella parte in cui risulta ostativo a disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare nei confronti del Fancello, la norma sia costituzionalmente illegittima per contrasto con l'articolo 3 della Costituzione; che la sollevanda questione di legittimita' costituzionale deve ritenersi provvista del requisito della rilevanza avuto riguardo a quanto sopra evidenziato, atteso che, se questo magistrato dovesse decidere circa la sospensione dell'esecuzione della pena nei confronti del Fancello o, in subordine, circa la sua ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare allo stato degli atti, si troverebbe avanti all'alternativa di applicare senz'altro la disposizione dell'art 47, quarto comma, legge n. 354/1975, sospetta di incostituzionalita' nei termini che verranno enunciati, ovvero pronunciare il totale rigetto dell'istanza interinale; Riguardo alla non manifesta infondatezza dei dubbi di incostituzionalita' delle due norme menzionate: O s s e r v a L'art. 47, quarto comma, della legge n. 354/1975, nella versione modificata dall'art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, prevede che il magistrato di sorveglianza, cui deve essere rivolta l'istanza, avanzata da un condannato detenuto, di affidamento in prova al servizio sociale puo', ove siano offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'ammissione all'affidamento e sul grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, nonche' ove non consti il pericolo di fuga, sospendere l'esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato fino alla decisione sull'istanza del competente tribunale di sorveglianza. La norma in commento ha quindi introdotto, nel contesto del procedimento di sorveglianza relativo alla trattazione delle istanze di affidamento in prova e di ammissione alla semiliberta' nei casi previsti dal primo comma, dell'art. 50, legge n. 354/1975 (giusto il richiamo di questo articolo all'art. 47, quarto comma citato) un procedimento interinale e cautelare, come dimostra la previsione del duplice requisito della sussistenza - con relativo onere di allegazione da parte del condannato - di concrete indicazioni sulla sussistenza dei presupposti per l'ammissione alla misura alternativa (ovvero del c.d. fumus boni iuris, ravvisabile allorquando sia offerto al giudice fondato motivo di ritenere fondata la richiesta di merito) e sul grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, dovendosi assimilare quest'ultima condizione di legge al c.d. periculum in mora. Cio' premesso, passando a valutare piu' in dettaglio la ratio della norma, risulta di immediata evidenza la profonda diversita' del meccanismo normativo da essa contemplato rispetto a quelli delineati dalle norme che, in termini generali di "sistema" prevedono l'adozione di misure di tipo cautelare - con peculiare riferimento, quanto al sistema del diritto dell'esecuzione penale, al differimento provvisorio dell'esecuzione della pena previsto dall'art. 684, comma 2 c.p.p. - relativamente alla qualificazione della situazione pericolosa dalla cui persistenza, che permarrebbe in caso di mancata adozione di misura cautelare idonea ad assicurare provvisoriamente gli effetti del diritto per cui si agisce in giudizio, deriverebbe grave pregiudizio all'interessato. E' incontestabile principio generale in materia cautelare - a prescindersi dalle misure cautelari personali regolate dagli artt. 272 e ss. c.p.p., ispirate a una logica affatto diversa - che l'esigenza di protezione interinale dell'interesse individuale per cui e' proposta domanda giudiziale intesa a ottenere la pronuncia di un provvedimento idoneo al soddisfacimento di tale interesse sussiste quando, nelle more della definizione del relativo procedimento di merito, vi sia una situazione di concreto ed attuale pericolo di menomazione della posizione giuridica soggettiva che l'istante intende far valere, derivante dalla protrazione di una contrastante situazione di fatto astrattamente traente il proprio fondamento da una pretesa infondata. Cosi' e', difatti, anche in tema di differimento provvisorio dell'esecuzione della pena, laddove la tutela interinale che il magistrato di sorveglianza puo' accordare al condannato detenuto, ai sensi dell'art. 684, comma 2 c.p.p., e' azionata in rapporto al grave pregiudizio che, rispetto alla salvaguardia dei personalissimi interessi attinenti alla sfera del condannato protetti dagli artt. 146-147 c.p., puo' derivare dalla pretesa pubblica di dare comunque esecuzione alla pena, che deve ritenersi, in tal caso, sicuramente infondata in quanto contrastante col principio, sancito dall'art. 27 della Costituzione, per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita'. E in ogni caso, in tema di sospensione cautelare dell'esecuzione della pena, l'unico limite ammissibile all'esercizio della potesta' punitiva pubblica, indefettibile nei confronti di chi commette reati, pare non poter essere altro che quello da ultimo enunciato, che, ai sensi della richiamata norma costituzionale, configura un inderogabile limite esterno allo stesso modo di essere della pena, dovendosi per il resto accordare assoluta prevalenza all'esigenza che le sanzioni penali abbiano effettiva esecuzione, derivante dall'irrinunciabile e superiore interesse pubblico alla stessa conservazione dell'ordinamento giuridico, reso esplicito in termini di diritto costituzionale positivo dal combinato disposto degli artt. 3, 25,101 e 112 della Costituzione. Segnatamente, il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Carta fondamentale, essenziale alla stessa conservazioni delle minime e irrinunciabili premesse della civile convivenza nella Nazione, non puo' che importare, avuto riguardo al disposto dell'art. 25, secondo comma della Costituzione - giusto il quale nessuno puo' essere punito se non per un fatto previsto dalla legge come reato - che, per converso, tutti coloro che pongono in essere fatti previsti dalla legge come reato vadano indefettibilmente assoggettati alle correlative sanzioni. In denegata ipotesi, lasciando costoro immuni da punizione, si commetterebbe gravissima e irrazionale disparita' di trattamento nei confronti di coloro che, osservando la legge penale, hanno ottemperato all'essenziale dovere civico di rispettare le leggi, e si porrebbero le premesse per dare corpo all'inammissibile rischio, intollerabile per la stessa sopravvivenza dell'ordinamento, di non porre lo Stato in condizioni di garantire l'effettivita' delle leggi penali. Non casualmente, infatti, il Costituente ha inteso garantire che l'attivita' necessariamente preliminare al legale accertamento dei fatti nel rispetto del diritto alla difesa, inviolabile ai sensi dell'art. 24, secondo comma della Costituzione, debba essere esercitato obbligatoriamente da un organo pubblico, quale il pubblico ministero, inserito nel contesto della Magistratura, in quanto tale partecipe delle garanzie di indipendenza e inamovibilita' proprie dell'ordine giudiziario, la cui natura, pur in presenza di un Codice di rito ispirato al c.d. sistema accu-satorio - quale il codice di procedura penale vigente - non e' riducibile, meramente e semplicemente, a quella di parte processuale, trattandosi, viceversa, di organo di giustizia obiettiva (art. 112 della Costituzione); logico corollario di questa ispirazione e' che l'accertamento dei fatti penalmente rilevanti sia demandato, giusto l'art. 101 della Costituzione, ad organo indipendente e imparziale, soggetto solo alla legge, quale il giudice, al quale, nel rispetto dei principi dell'indefettibilita' della sanzione penale per gli autori di reati dell'obbligatorieta' dell'azione penale, devono necessariamente essere sottoposte, purche' legalmente raccolte, tutte le fonti di prova al riguardo rilevanti, essendo viceversa doverosa, nel caso di eventuali inerzie dell'organo requirente, l'attivazione dello stesso giudice ai fini della raccolta di ogni elemento necessario al compiuto accertamento della verita'. La giurisprudenza della Corte costituzionale, con numerose sentenze portatrici di un orientamento consolidato, ha avuto occasione di chiarire ampiamente i termini e la portata di tale principio, nelle occasioni in cui la Corte fu chiamata ad esercitare il sindacato di legittimita' costituzionale sulle norme del Codice di rito che costituiscono i piu' significativi punti di emersione del principio in parola, per quanto concerne, in particolare, il potere conoscitivo del giudice (artt. 442, 444, 500, 513 c.p.p. e art. 125 disp. att. c.p.p. in particolare). Ed e' del tutto evidente come dal rispetto di tali fondamentali precetti costituzionali, onde non vanificarne del tutto l'effettivita', non possa prescindersi neppure in sede di esecuzione della pena, fatto salvo, quanto a valorizzare interessi esterni a quello sotteso all'esecuzione della pena, l'unico limite costituito - come gia' anticipato - dal divieto che la pena abbia esecuzione in forma di trattamenti contrari al senso di umanita', in adempimento del precetto di cui all'art. 27 della Costituzione. Orbene, non pare affatto a questo giudice che il legislatore, nel predisporre l'attuale formulazione dell'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, si sia attenuto a questo fondamentale principio, diversamente da quanto contemplato dalle norme in tema di differimento provvisorio dell'esecuzione della pena in pendenza di istanza di rinvio ai sensi degli artt. 146-147 c.p. proveniente da imputato detenuto, come contemplato dall'art. 684, comma 2 c.p.p., o ancora da quanto ora disposto - sempre per effetto della novellazione disposta con la c.d.,"Legge Simeone-Saraceni" - dal nuovo comma 1-quater, dell'art. 47-ter, legge n. 354/1975, laddove, in tema di detenzione domiciliare, il magistrato di sorveglianza puo' disporre l'applicazione provvisoria di tale misura alternativa ricorrendo, i medesimi presupposti contemplati dall'art. 47, comma 4, stessa legge, cui e' fatto espresso richiamo, non avendo comunque tale provvedimento interinale effetto sospensivo rispetto alla decorrenza della pena. Ambedue le norme da ultimo citate, prevedendo l'adozione, da parte del magistrato di sorveglianza, di rimedi di evidente natura cautelare in presenza di gravi situazioni inerenti alla sfera personalissima delle fondamentali esigenze di vita del condannato - tutela della salute, della maternita', dell'infanzia, fino al limite delle "comprovate esigenze di salute, di studio, di famiglia e di lavoro" relative agli infraventunenni - null'altro importano che il coerente adeguamento del principio di effettivita' e indefettibilita' dell'esecuzione della pena all'esigenza di conformita' del modo di essere e del tempo di esecuzione al divieto di trattamenti contrari al senso di umanita'. Se per il differimento dell'esecuzione della pena puo' ritenersi pacifico che la ratio dell'art. 684, comma 2, c.p.p. sia proprio questa, per quanto concerne la detenzione domiciliare, la Corte costituzionale ha recentemente avuto modo di chiarire che detta misura alternativa, pur rispondendo almeno in parte a esigenze trattamentali, e' comunque connotata da un'ispirazione prevalentemente umanitaria, correlata all'esigenza irrinunciabile di tutela degli interessi del condannato relativi alla sussistenza di una delle situazioni contemplate dall'art. 47-ter, primo comma, legge n. 354/1975. Neppure puo' dubitarsi, ad avviso di questo giudice, che di analoga ispirazione partecipi la nuova figura di detenzione domiciliare ora prevista dal nuovo comma 1-bis dell'art. 47-ter, legge n. 354/1975 - relativamente alla quale e' parimenti concedibile l'applicazione provvisoria ai sensi del comma 1-quater, stesso articolo - atteso che, ogni qual volta lo strumento della detenzione domiciliare risulti sufficiente a garantire l'esecuzione della pena senza pregiudizio delle esigenze di tutela della collettivita' e di prevenzione del pericolo di fuga, l'esecuzione della pena in regime carcerario si prospetta come lato sensu contraria al senso di umanita', atteso che il modo di essere della pena, per essere conforme ai dettami dell'art. 27, terzo comma della Costituzione, non puo' che escludere ogni aggravamento non strettamente indispensabile a esigenze di sicurezza e di tutela della collettivita', che si ripercuoterebbe in un illegittimo e inutile compressione della stessa personalita' del condannato. Tanto e' vero che il nuovo decimo comma dell'art. 656 esplicita questo principio, nell'imporre un vero e proprio divieto che al condannato sia applicato, in sede di esecuzione della pena, un regime restrittivo piu' grave di quello da ultimo a lui applicato in sede di misure cautelari prima dell'irrevocabilita' della condanna, stabilendo che in tal caso il pubblico ministero disponga che l'esecuzione della pena prosegua in regime di arresti domiciliari - ove tale fosse il regime restrittivo cautelare all'atto dell'irrevocabilita' della condanna - fino all'eventuale applicazione de plano, da parte del tribunale di sorveglianza, della detenzione domiciliare. Tornando, invece, sulla possibilita' di sospensione interinale dell'esecuzione della pena in pendenza di istanza di affidamento in prova al servizio sociale, trattasi di una norma che, nel totale silenzio del legislatore circa l'individuazione di eventuali interessi esterni, relativi alla sfera personale del condannato, cui debbasi accordare tutela cautelare a fronte della pretesa pubblica a che la pena continui ad avere effettiva esecuzione, pare del tutto esulare dai limiti di ammissibilita', sopra evidenziati, della sospensione dell'esecuzione, correlando il grave pregiudizio al riguardo rilevante alla mera protrazione, sic et simpliciter, dello stato di detenzione, certo non comprensibile avuto riguardo alla mera alternativa tra la detenzione e l'affidamento in prova al servizio sociale; cio' in quanto, giusto il disposto dell'art. 27 della Costituzione per cui la pena deve tendere alla rieducazione del reo, la stessa esecuzione in regime penitenziario non puo' che essere improntata ad esigenze di reinserimento e di graduale risocializzazione del condannato, non potendosi formulare, in astratto, alcun giudizio di inadeguatezza a tali finalita' della detenzione e, viceversa, di adeguatezza del solo affidamento in prova alle finalita' stesse, trattandosi di modalita' meramente alternative di attuazione di un medesimo precetto costituzionale, e dovendosi far dipendere l'adozione dell'una o dell'altra misura - ammissione alla misura alternativa ovvero prosecuzione dell'esecuzione in regime penitenziario - solamente da una valutazione in concreto correlata alla personalita' e alle condizioni personali e sociali del condannato. Anzi, l'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, pur modificato con l'intendimento di favorire la risocializzazione del condannato, risulta essere una norma dalla cui applicazione possono, in concreto, seguire effetti irrazionali in rapporto alle finalita' perseguite. Detta disposizione, a differenza dell'art. 47-ter, comma 1-quater, della stessa legge, non prevede infatti che il magistrato di sorveglianza possa, con proprio provvedimento interinale, anticipare gli effetti della richiesta misura alternativa, bensi' impone, sic et simpilciter, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, la sospensione di ogni attivita' di ordine trattamentale e/o rieducativo, trattisi dell'ordinaria esecuzione in regime penitenziario o dell'esecuzione dell'affidamento in prova, senza neppure consentire al magistrato di sorveglianza di adottare provvedimenti che consentano di conciliare l'indefettibilita' dell'esecuzione della pena con la sua finalizzazione alle esigenze rieducative e risocializzative del condannato (quale e' l'ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare, contemplata dalla norma da ultimo citata). Le conseguenze, in termini di conformita' della norma contestata al dettato costituzionale, risultano di notevole gravita', atteso che deve prendersi atto dell'assoluta inadeguatezza della disposizione ivi parimenti contenuta, secondo cui il tribunale di sorveglianza "decide entro quarantacinque giorni" dalla trasmissione degli atti ad opera del magistrato di sorveglianza, a conciliare l'incongruita' della totale sospensione delle attivita' rieducative o comunque trattamentali con l'esigenza che il procedimento di sorveglianza relativo all'istanza di affidamento sia definito quanto prima, rendendo meramente transitoria l'anomala situazione sospensiva descritta. Trattasi, infatti, di un termine del tutto privo di "sanzione" - a differenza, ad esempio, del termine di trenta giorni previsto dall'art. 51-ter, legge n. 354/1975 in tema di sospensione di misure alternative, in ogni caso in concreto insufficiente a garantire che il tribunale di sorveglianza possa effettivamente "decidere" entro il tempo indicato. Cio' in quanto, in primo luogo, l'istruttoria relativa al procedimento di sorveglianza in tema di affidamento in prova al servizio sociale - a differenza dell'istruttoria effettuata dal magistrato di sorveglianza in tema di sospensione dell'esecuzione, per propria natura necessariamente sommaria - non e' in alcun modo correlata, quanto a stabilirne i tempi di espletamento e completamento, al mero fatto del competente tribunale di sorveglianza, essendo affidati gli accertamenti a organismi autonomi - centri di servizio sociale per adulti, autorita' di polizia, strutture sanitarie e altri - cui il tribunale non puo' in alcun modo prescrivere termini perentori per il compimento di tali accertamenti, stante il necessario, doveroso rispetto per le loro esigenze di servizio; in secondo luogo, non appare conforme al dettato costituzionale, e segnatamente al principio di indipendenza del giudice di cui all'art. 101 della Carta fondamentale, che al tribunale di sorveglianza possa essere ingiunto di "decidere" entro un termine cosi' ristretto indipendentemente dall'effettivo completamento dell'istruttoria necessaria a deliberare sull'istanza di affidamento. Ne' puo', comunque, ritenersi che la norma in commento possa prevedere alcuna "sanzione processuale" in caso di mancata decisione del tribunale di sorveglianza entro il termine stabilito, atteso che trattasi non gia' di confermare un provvedimento sfavorevole al condannato - come, ancora ad esempio, la revoca di una misura alternativa a seguito di provvedimento sospensivo del magistrato di sorveglianza - bensi' di adottare un provvedimento allo stesso favorevole, i cui effetti non potrebbero certo farsi seguire ad anomali meccanismi di "silenzio assenso" incompatibili col modus decidendi proprio dell'autorita' giudiziaria - improntato all'obbligo di motivazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione - e, in ultima analisi, ormai divenuti incompatibili con lo stesso modus decidendi di ogni autorita' amministrativa, stante l'obbligo di motivazione generalizzato ora previsto dall'art. 3 della legge n. 241/1990. E' pertanto evidente che la sospensione dell'esecuzione della pena deliberata dal tribunale di sorveglianza potra' protrarre la propria efficacia per tempi anche considerevolmente lunghi - come accade sovente, oltre che per il ritardo nell'espletamento dei richiesti accertamenti da parte degli organi demandati dal tribunale, anche per il fatto del condannato o per difficolta' oggettive inerenti al reperimento di idonea attivita' lavorativa o risocializzante - determinando un effetto di tale provvedimento interinale che, oltre a vanificare la portata dell'evocato principio di indefettibilita' dell'esecuzione della pena (stante la totale sospensione di ogni misura rieducativa o comunque trattamentale derivante dalla mera sospensione dell'esecuzione della pena) consente il potenziale verificarsi di risultati assolutamente illogici e irrazionali proprio in rapporto all'esigenza di garantire la tendenzialita' rieducativa della pena. Non puo' infatti escludersi che il tribunale di sorveglianza, all'esito dell'istruttoria, pronunci il rigetto dell'istanza di affidamento, al che segue l'immediato ripristino dell'eseguibilita' della pena eventualmente sospesa dal magistrato di sorveglianza: e una simile conseguenza, ove abbia luogo in danno di condannato che abbia fruito di un piu' o meno lungo periodo di sospensione dell'esecuzione dopo un periodo di carcerazione, ben potrebbe determinare un risultato a sua volta in contrasto coi principi costituzionali, atteso che, pur tenendo conto delle ampie possibilita' offerte dall'ordinamento penitenziario quanto all'ammissibilita' di condannati nei confronti dei quali non sussistano i presupposti per l'ammissione all'affidamento alle meno favorevoli misure alternative della semiliberta' (art. 50, secondo comma, legge n. 354/1975) e della detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 1-bis stessa legge), l'eventuale rigetto dell'istanza di affidamento importerebbe la necessaria attuazione del trattamento in modo frammentario e, in concreto, potenzialmente desocializzante, in stridente contrasto col principio di gradualita' che, secondo la piu' autorevole dottrina, impronta il complesso delle disposizioni della legge n. 354/1975 sia in tema di esecuzione in regime carcerario che in tema di successiva eventuale ammissione del condannato a misure alternative. L'illogicita' di una siffatto effetto e' resa ancor piu' palese dal fatto che l'ordinamento penitenziario, pur prevedendo misure importanti la provvisoria remissione in liberta' del condannato anche in permanenza dell'esecuzione - ci si riferisce ai permessi premio previsti dall'art. 30-ter, legge n. 354/1975 - contempla ben precise cautele in ordine ai limiti temporali di ammissibilita' di tali misure sia quanto alla durata del singolo permesso che quanto ai giorni complessivamente fruibili nel corso di ciascun anno di detenzione: e la norma da ultimo citata, col prevedere espressamente che l'esperienza dei permessi premio costituisce parte integrante del trattamento (previsione resa concreta dalle restrizioni che possono essere imposte al condannato e dall'obbligo di mantenere contatti col servizio sociale territoriale), sancisce ex adverso l'inconciliabilita' con l'esigenza di attuazione graduale e ponderata del trattamento stesso, irrinunciabile condizione perche' esso possa effettivamente conseguire le finalita' di reinserimento e risocializzazione del condannato che vi sono proprie, di misure in fatto sospensive dell'applicazione del trattamento penitenziario, o comunque di un trattamento di tipo detentivo, scollegate da finalita' trattamentali, qual'e', appunto, la sospensione dell'esecuzione che quivi si censura. Ma vi e' di piu': la disposizione quivi censurata concretizza una irrazionale e palese disparita' di trattamento avuto riguardo alla ben diversa posizione dei condannati detenuti proponenti istanza di ammissione alla detenzione domiciliare, nei confronti dei quali, come gia' evidenziato, il magistrato di sorveglianza, nelle more della definizione del procedimento da parte del competente tribunale, puo' solamente disporre l'applicazione provvisoria della richiesta misura alternativa, e non gia' sospendere l'esecuzione della pena. Tale disparita' di trattamento e', invero, reciproca, atteso che, per un verso i condannati istanti per l'affidamento in prova al servizio sociale, non potendo ottenere neppure l'applicazione provvisoria della misura alternativa richiesta o quantomeno l'ammissione provvisoria alla detenzione domiciliare, si trovano esposti al rischio di subire gli effetti potenzialmente desocializzanti e in contrasto con ogni razionale finalita' rieducativa derivanti dall'attuazione frammentaria del trattamento, che si avvererebbe in caso di rigetto dell'istanza da parte del tribunale a seguito di sospensione dell'esecuzione della pena libertatis a differenza dei condannati istanti per l'ammissione alla detenzione domiciliare, che possono ottenere dal magistrato di sorveglianza la provvisoria applicazione della richiesta misura alternativa; per altro verso, questi ultimi condannati sono collocati, per effetto dell'eventuale provvedimento interinale del magistrato di sorveglianza, in una posizione che e, dal punto di vista dello status libertatis, sicuramente piu' sfavorevole rispetto a quella dei condannati istanti per l'affidamento, cui puo' essere concessa la sospensione dell'esecuzione. Ad avviso dello scrivente, la sostanza dei dubbi di legittimita' costituzionale sollevata non e' punto incrinata dal possibile rilievo che il nuovo testo dell'art. 656 c.p.p. prevede ora che il pubblico ministero, nell'emettere ordine di esecuzione nei confronti di condannati a carico dei quali risultino eseguibili condanne rientranti entro i limiti stabiliti dalla legge per l'ammissione all'affidamento in prova al servizio sociale (cosi' come, in generale, per le altre misure alternative di cui al quinto comma del citato articolo), salvo che sussistano le cause ostative di cui al settimo e nono comma dello stesso articolo, deve contestualmente sospendere gli effetti dell'ordine di esecuzione, con contestuale decorrenza di un termine di giorni trenta entro il quale il condannato puo' depositare, presso lo stesso p.m. istanza di ammissione alla misura alternativa e, in caso positivo, ottenere la sospensione dell'esecuzione della pena fino alla decisione del competente tribunale di sorveglianza sull'istanza. La suddetta norma, infatti, per un verso inerisce non gia' alla pena detentiva che sia gia' in esecuzione, bensi' alle medesime condizioni di esercizio del potere del pubblico ministero di porre in esecuzione le condanne - essendo l'efficacia dello stesso ordine di esecuzione subordinata alla condizione sospensiva negativa della mancata proposizione di istanza di affidamento o del mancato accoglimento della stessa - in nulla tangendo il principio per cui l'esecuzione di pena detentiva gia' in atto non puo', di regola, subire sospensioni salvo che per ragioni correlate all'attuazione del trattamento o, comunque, giusta l'esigenza di rispetto del principio costituzionale di non contrarieta' dei trattamenti in cui la pena consiste al senso di umanita'; per altro verso, null'altro importa se non l'armonizzazione del previgente meccanismo di sospensione dell'emissione dell'ordine di esecuzione contemplato dal vecchio testo dell'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, da un lato incrementando le garanzie del condannato con l'impedire che l'azione esecutiva sia posta in essere dal p.m. senza previo accertamento sulla pendenza di istanza di ammissione a misura alternativa, dall'altro lato regolando la disciplina della sospensione dell'ordine di esecuzione in termini piu' restrittivi di quelli preesistenti. E' quindi palese, ad avviso di questo giudice, che l'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, nella nuova formulazione introdotta dall'art. 2 della legge 27 maggio 1998, n. 165, viola non solo il combinato disposto degli artt. 3, 25, 101 e 112 della Costituzione per contrarieta' al principio di indefettibilita' delle sanzioni penali da detti articoli desumibili e l'art. 27 della Carta fondamentale per manifesta irragionevolezza, ma ancora l'art. 3 per reciproca disparita' di trattamento tra condannati detenuti rispettivamente istanti per l'affidamento in prova ovvero per la detenzione domiciliare. A tale "modo di essere" costituzionalmente incompatibile, della norma censurata non puo' neppure ritenersi che possa porsi rimedio attraverso un'interpretazione - eventualmente accoglibile in sede di pronuncia di "sentenza additiva" da parte della Corte costituzionale - secondo cui, per effetto del provvedimento interinale di sospensione dell'esecuzione della pena da parte del magistrato di sorveglianza, il condannato detenuto trovisi non gia' rimesso, sic et simpliciter, in liberta', bensi' provvisoriamente ammesso alla misura alternativa richiesta. Una simile previsione determinerebbe, infatti, l'attribuzione al magistrato di sorveglianza di un potere diverso e ben piu' ampio rispetto a quello accordatogli in tema di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, atteso che, pur trattandosi della provvisoria esecuzione di misura alternativa, il provvedimento del giudice monocratico incide, in questo caso, sulle modalita' di esecuzione della pena senza determinarne alcuna sospensione, mentre, qualora il magistrato di sorveglianza fosse autorizzato a disporre la provvisoria applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, l'effetto del provvedimento interinale consisterebbe in un'illogica attribuzione de facto al magistrato stesso del potere di sottoporre il condannato a una misura alternativa di natura indubitabilmente diversa dalla "pena" stricto sensu intesa, atteso che la consolidata giurisprudenza della suprema Corte di cassazione, a prescindersi dalle particolari problematiche che si pongono in tema di revoca dell'affidamento non determinata da condotte del condannato incompatibili con la sua prosecuzione, si esprime pacificamente nel senso che non puo' esservi alcuna equivalenza tra il tempo di esecuzione dell'affidamento e quello di espiazione della pena, come e' reso palese dal fatto che l'art 47, legge n. 345/1975 prevede che il tribunale di sorveglianza, conclusa l'esecuzione dell'affidamento e ritenutone positivo l'esito, deve dichiarare estinta la pena per cui vi e' stato affidamento con espresso provvedimento. Orbene, non pare che una simile diversita' di regime tra l'affidamento e le altre misure alternative - la cui applicazione non interrompe l'esecuzione della pena - sia casuale, dovendosi invece ritenere che il legislatore, in armonia con le fondamentali esigenze di valutazione prevalentemente personologica che presiede all'attuazione dell'affidamento, abbia inteso riservare l'esclusivo potere di pronunciare sull'ammissione alla misura alternativa in questione del condannato e sulla valutazione positiva della relativa esperienza ai fini dell'estinzione della pena al solo tribunale di sorveglianza quale organo collegiale opportunamente e necessariamente composto, oltre che da magistrati "togati", da "esperti" nelle materie rilevanti ai fini trattamentali; e tale principio verrebbe sicuramente vanificato consentendo al magistrato di sorveglianza di disporre la provvisoria applicazione dell'affidamento, atteso che, in questo caso, si attribuirebbe di fatto al giudice monocratico, in misura piu' o meno ampia, lo stesso potere di disporre in via definitiva l'applicazione della misura alternativa in oggetto, potendosi oscillare dall'ipotesi della revoca dell'affidamento provvisorio determinato da cause diverse da condotte del condannato incompatibili con la prosecuzione - nel qual caso il periodo di affidamento comunque decorso dovrebbe reputarsi comunque equipollente a pena espiata - all'ipotesi, di facile avveramento in caso di pene detentive brevi, dell'avvenuta totale esecuzione dell'affidamento in forza di provvedimento interinale del magistrato di sorveglianza, riducendosi il ruolo del tribunale a quello di organo di mera e comunque necessaria ratifica dell'operato del giudice monocratico. L'art. 47, quarto comma, della legge n. 354/1975 non pare quindi poter sfuggire, nella parte in cui prevede che il magistrato di sorveglianza puo' sospendere l'esecuzione della pena nei confronti del condannato istante per l'affidamento in prova al servizio sociale, a una pronuncia di totale illegittimita' costituzionale nella parte in cui esso e' applicabile in tema di istanze di affidamento in prova al servizio sociale e giusto il rinvio di cui all'art. 50 della stessa legge - altresi' in tema di istanze di ammissione alla semiliberta', dovendosi individuare, ad avviso di questo giudice, l'unica misura interinale idonea a conciliare il principio dell'effettivita' ed indefettibilita' dell'esecuzione della pena con quello della tendenzialita' rieducativa della pena stessa e dell'inammissibilita' della sospensione dell'esecuzione di pena detentiva gia' in atto se non per esigenze trattamentali o comunque umanitarie - senza conseguire, proprio avuto riguardo a quest'ultimo fondamentale interesse, gli evidenziati illogici e irrazionali risultati - nell'ammissione del condannato, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza sull'istanza di affidamento, alla detenzione domiciliare in via provvisoria. Al riguardo, tale facolta' deve ritenersi sicuramente accordata al magistrato di sorveglianza nei confronti dei condannati che devono espiare una pena non superiore a due anni, avuto riguardo al combinato disposto dei commi 1-bis e 1-quater dell'art. 47-ter, legge n. 354/1975; infatti, se il presupposto dell'applicazione della detenzione domiciliare ai sensi della prima norma richiamata e' l'insussistenza delle condizioni per l'ammissione all'affidamento in prova, pacifico che in tal caso il magistrato di sorveglianza possa disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare nei confronti del condannato detenuto che insta per ottenere tale misura alternativa, non puo' non ritenersi, in omaggio all'esigenza di interpretare la legge in modo tale da farvi conseguire, tra diversi possibili effetti, quello piu' favorevole al reo, che il magistrato di sorveglianza non possa disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare, ai sensi del predetto comma 1-bis anche nei confronti del condannato istante per l'affidamento in prova al servizio sociale, allorquando abbia fondato motivo di ritenere che, pur non sussistendo allo stato - anche solo per la necessaria sommarieta' e incompletezza dell'istruttoria avanti a detto magistrato - i presupposti per l'ammissione all'affidamento, la detenzione domiciliare appaia comunque idonea a prevenire il pericolo che il condannato commetta nuovamente reati, ferma la necessaria assenza del pericolo di fuga. Questa soluzione e', oltretutto, idonea ad armonizzare la congiunta applicazione dei principi costituzionali finora evocati in modo da conseguire risultati logici in rapporto alle finalita' che gli stessi principi perseguono: il principio di indefettibilita' dell'esecuzione della pena, poiche' l'applicazione della detenzione domiciliare non interrompe l'esecuzione ma ne modifica unicamente le modalita'; il principio per cui la pena non puo' consistere in trattamenti contrari al senso di umanita', essendo la detenzione domiciliare una misura alternativa - rectius una modalita' di esecuzione della pena - tendenzialmente elastica, con prescrizioni che possono essere in concreto adeguate, in qualsiasi momento, alle essenziali esigenze di vita del condannato, senza per cio' consentire indiscriminate e irresponsabili aperture verso la strumentalizzazione di un provvedimento essenzialmente cautelare ai fini del soddisfacimento di esigenze meramente voluttuarie o liceziose; e, infine, il principio per cui la pena deve tendere alla rieducazione del reo; consentendo al condannato rispetto al quale vi sia fondato motivo di ritenere che possa conseguire l'ammissione all'affidamento di essere sottoposto, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, a un regime restrittivo insieme meno duro di quello penitenziario e sicuramente piu' adeguato alle esigenze di un graduale reinserimento sociale. Tuttavia, e' evidente che, onde potersi pervenire ad un simile risultato, il disposto del comma 1-quater, dell'art. 47-ter, legge n. 354/1975, in omaggio all'esigenza costituzionale di non determinare disparita' di trattamento tra condannati detenuti istanti per l'affidamento in prova al servizio sociale sulla mera base della valutazione del periodo di pena da espiare - due anni, come previsto dal comma 1-bis del citato articolo, ovvero tre anni, come previsto dal primo comma, dell'art. 47, legge n. 354/1975 quanto all'ammissibilita' del condannato all'affidamento in prova - necessita di essere opportunamente armonizzato, nel senso che il magistrato di sorveglianza possa applicare provvisoriamente la detenzione domiciliare, nei confronti del condannato detenuto istante per l'affidamento in prova, anche quando la pena da espiare sia superiore a due anni ma inferiore a tre, ferma la necessaria sussistenza dei rimanenti presupposti indicati dal combinato disposto degli artt. 47, quarto comma e 47-ter, comma 1-bis, legge n. 354/1975. Una simile lettura armonizzatrice delle norme in commento si rende necessaria, oltre che al fine di evitare, in sede cautelare, un trattamento imparitario dei condannati detenuti istanti per l'affidamento in prova sulla mera base del quantum di pena residua da espiare, cui non puo' attribuirsi alcun rilievo decisivo quanto alla meritevolezza di tutela dell'interesse del condannato alla rieducazione e risocializzazione se non sulla base di una valutazione in concreto, anche al fine di evitare incongrue disparita' di trattamento, anch'esse in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, tra condannati detenuti con pena in espiazione superiore a due anni ma inferiore a tre anni alla data dell'entrata in vigore della legge 27 maggio 1998, n. 165, e condannati liberi trovantisi, nello stesso momento storico, in analoga situazione, potendo questi ultimi, sulla base del combinato disposto dei commi 5 e 10 dell'art. 656 c.p.p., essere ammessi in via interinale alla detenzione domiciliare, a condizione che si trovassero ristretti agli arresti domiciliari all'atto dell'irrevocabilita' della condanna, anche se la pena da espiare, pur essendo inferiore a tre anni, sia superiore a due. Infatti, il meccanismo normativo da ultimo descritto si fonda, evidentemente, su una presunzione di adeguatezza alle condizioni personali del condannato - avuto riguardo sia alle esigenze inerenti al proprio reinserimento, sia all'esigenza che la pena abbia effettiva esecuzione - anche in sede di esecuzione a seguito di condanna irrevocabile, dello stesso regime restrittivo in applicazione in sede cautelare a prescindere dai limiti di pena previsti dall'art. 47-ter, comma 1-bis, legge n. 354/1975, sicche' non trova alcuna logica giustificazione che analoga efficacia non debba essere riconosciuta a un provvedimento interinale del magistrato di sorveglianza nei confronti di condannato detenuto istante per l'affidamento in prova al servizio sociale. In questi termini, e tenuto conto dell'interpretazione evolutiva quivi prospettata quanto alle altre norme citate, deve sollevarsi questione di legittimita' costituzionale riguardo al disposto dell'art. 47, quarto comma, legge n. 354/1975, quale modificato dall'art. 2, legge n. 165/1998, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 101 e 112 della Costituzione, nonche' al disposto dell'art. 47-ter, comma 1-quater della legge n. 354/1975, quale modificato dall'art. 4, legge n. 165/1998, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il magistrato di sorveglianza puo' disporre l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare nei confronti di condannato detenuto proponente istanza di affidamento in prova al servizio sociale, sussistendo i presupposti indicati dalla norma, anche se la pena che il condannato deve espiare e' superiore a due anni ma non inferiore a tre.