IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  3187/1997
 proposto  da Danesin Bianca, Muffato Enrico, Scorsini Renzo, Vignotto
 Sergio e Galante  Gianni,  tutti  rappresentati  e  difesi  dall'avv.
 Nicola  Bardino,  con domicilio presso lo studio legale dello stesso,
 in Venezia, S.  Croce 466, come da mandato a margine del ricorso;
   Contro il comune di Venezia  in  persona  del  sindaco  pro-tempore
 rappresentato  e  difeso  dagli  avv.ti  Giulio Gidoni e M. Maddalena
 Morino, con elezione di domicilio presso la Civica  Avvocatura  nella
 sede municipale;
   Per  l'annullamento  della  deliberazione  della  Giunta comunale 7
 agosto 1997, n. 2131, con  cui  sono  stati  annullati  gli  atti  di
 inquadramento  dei  ricorrenti  e sono stati indetti concorsi interni
 per la copertura dei relativi posti resisi vacanti e  di  ogni  altro
 atto inerente e conseguente;
   Visto il ricorso, notificato il 3 novembre 1997 e depositato presso
 la segreteria il 4 novembre 1997 con i relativi allegati;
   Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio  dell'amministrazione
 intimata depositato il 10 novembre 1997 con i relativi allegati;
   Viste le memorie prodotte dalle parti;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Uditi alla  pubblica  udienza  del  30  aprile  1998  (relatore  il
 consigliere  Angelo  De  Zotti)  l'avv.to  Bardino per i ricorrenti e
 l'avv.to Morino per il comune di Venezia;
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   I ricorrenti sono dipendenti del comune di Venezia, presso il quale
 rivestono la settima qualifica (sig.ri Danesin, Muffato,  Scorsini  e
 Vignotto), ovvero l'ottava (sig. Galante).
   Per  ognuno  di  loro  tale  posizione  era  stata  definitivamente
 stabilita dall'amministrazione  con  la  delibera  n.  8490,  del  21
 dicembre 1990, della Giunta comunale, con la quale si era operata una
 rettifica dell'inquadramento di parte del personale, con decorrenza 1
 gennaio  1983,  secondo  le  declaratorie formalizzate nel d.P.R.  n.
 347/1983.
   Entrata in vigore la legge n. 127/1997, il  comune  di  Venezia  ha
 applicato  nei  loro  confronti la norma contenuta nell'art. 6, comma
 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento  del
 personale   effettuato  in  difformita'  dal  d.P.R.  n.  347/1983  e
 successive modificazioni ed integrazioni.
   A  sostegno  del  ricorso  in  epigrafe  vengono dedotti i seguenti
 motivi:
     1) eccesso di potere per falsita'  del  presupposto,  illogicita'
 manifesta,  errore  di diritto, carenza di motivazione; violazione di
 legge (art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997).
   Si sostiene che il procedimento previsto  dall'art.  6,  comma  17,
 della  legge n. 127/1997, puo' trovare applicazione solo in ordine ai
 provvedimenti   che    non    abbiano    acquisito    il    carattere
 dell'inoppugnabilita';  che  in  presenza  di  atti inoppugnabili non
 sussiste ne' la possibilita' e/o necessita' di  sanarli,  ne'  quella
 opposta  di rimetterne in discussione il contenuto una volta che essi
 abbiano acquisito il carattere di definitivita' e  che  abbiano  dato
 luogo a posizioni stabilmente formalizzate e consolidate in capo agli
 interessati;  che l'applicazione retroattiva della norma in questione
 incorre in evidenti profili di incostituzionalita' in relazione  agli
 artt. 3, 24, 97, 103 e 113 Cost.;
     2)  eccesso  di  potere  per  sviamento,  difetto di motivazione;
 falsita'  del  presupposto,   illogicita'   manifesta,   difetto   di
 istruttoria;  violazione  di  legge (art. 6, comma 17, della legge n.
 127/1997), violazione della circolare del Ministero  dell'interno  n.
 1, del 15 luglio 1997.
   Si   sostiene   che  la  Giunta  comunale,  pur  avendo  richiamato
 espressamente la circolare ministeriale in epigrafe, al cui contenuto
 rinvia per l'individuazione dei criteri di difformita' utilizzati  in
 sede  di  annullamento  degli inquadramenti assoggettati a sanatoria,
 non evidenzia  l'esatta  natura  degli  atti  annullati  evitando  di
 assumere una esplicita posizione circa la loro soggezione o meno alla
 sanatoria   ed   inoltre   si  discosta  in  maniera  evidente  dalle
 indicazioni   della   circolare   senza   allegare   alcuna   ragione
 giustificatrice;
     3)  eccesso  di  potere  per  sviamento,  difetto di motivazione;
 falsita' del presupposto; violazione  di  legge  (art.  3,  legge  n.
 241/1990).
   Si  sostiene che l'amministrazione ha disposto contraddittoriamente
 l'annullamento di atti che  essa  ha  contestualmente  dichiarato  di
 ritenere  legittimi, e cio' solo in quanto la procura della Corte dei
 conti ne ha prospettato l'illegittimita' facendo sorgere  quello  che
 si definisce "un ragionevole dubbio di irregolare istruttoria";
     4)  eccesso  di  potere  per  difetto  di istruttoria, difetto di
 motivazione; falsita' del presupposto; violazione di legge  (art.  3,
 legge n. 241/1990 e art. 6, comma 17, legge n. 127/1997).
   Si sostiene che l'accertamento della difformita' dell'inquadramento
 del      dipendente     costituisce     indefettibile     presupposto
 dell'annullamento dell'atto con cui l'inquadramento del dipendente e'
 stato disposto; che nella specie e'  stato  invece  omesso  qualsiasi
 accertamento istruttorio al fine di stabilire l'effettiva difformita'
 degli  inquadramenti  disposti  con  le deliberazioni annullate e che
 cio'  trova  conferma  nelle  stesse  formule  dubitative  utilizzate
 dall'amministrazione nell'atto impugnato;
     5)  eccesso  di  potere  per  difetto di motivazione e difetto di
 contraddittorio;  violazione  di  legge  (artt.  7  e  8,  legge   n.
 241/1990).
   Si  sostiene  che  nella  specie  e' stato violato il principio del
 contraddittorio   in   quanto   la   comunicazione   dell'avvio   del
 procedimento  e'  stata  inviata  in  prossimita' della deliberazione
 impugnata, senza  percio'  consentire  ai  dipendenti  una  effettiva
 partecipazione   al  procedimento  che  pure  li  vedeva  oggetto  di
 determinazioni  incidenti  in  senso  negativo   sulla   loro   sfera
 giuridica.
   L'amministrazione    resistente,   costituita   in   giudizio,   ha
 controdedotto concludendo per la reiezione del ricorso.
                             D i r i t t o
   Nel merito, occorre premettere che i ricorrenti sono dipendenti del
 comune di Venezia, i quali rivestono  la  settima  qualifica  (sig.ri
 Danesin, Muffato, Scorsini e Vignotto) e l'ottava (sig. Galante).
   Per  ognuno  di  loro  tale  posizione  era  stata  definitivamente
 stabilita dall'amministrazione  con  la  delibera  n.  8490,  del  21
 dicembre  1990,  della Giunta comunale, a mezzo della quale era stata
 disposta una rettifica dell'inquadramento di parte del personale, con
 decorrenza 1 gennaio 1983, secondo le declaratorie  formalizzate  nel
 d.P.R.  n.  347/1983 e tenendo conto del fatto che, a seguito di atti
 di formale attribuzione di mansioni  superiori,  i  dipendenti  erano
 stati  impiegati  su  posti vacanti della pianta organica finendo per
 occuparli stabilmente.  Entrata in vigore la legge  n.  127/1997,  il
 comune di Venezia ha applicato nei loro confronti la norma, contenuta
 nell'art. 6, comma 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di
 inquadramento  del  personale effettuato in difformita' dal d.P.R. n.
 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni.  La disposizione
 infatti recita: "entro e non oltre tre mesi dalla data di entrata  in
 vigore  della presente legge gli enti locali sono tenuti ad annullare
 i provvedimenti di  inquadramento  del  personale  adottati  in  modo
 difforme   dalle   disposizioni  del  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica 25 giugno 1983, n.  347,  e  successive  modificazioni  ed
 integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura
 dei  posti  resisi  vacanti  per effetto dell'annullamento. Fino alla
 data di copertura  dei  posti  resisi  disponibili  per  effetto  del
 presente  comma,  il  personale  destinatario  dei  provvedimenti  di
 inquadramento  ivi  indicati  continua   a   svolgere   le   mansioni
 corrispondenti  alla  qualifica  attribuita  con detti provvedimenti,
 mantenendo il relativo  trattamento  economico.  Alla  copertura  dei
 posti  resisi  vacanti  per  effetto  dell'annullamento  si  provvede
 mediante concorsi interni per titoli  integrati da colloquio ai quali
 sono ammessi a partecipare i dipendenti appartenenti  alla  qualifica
 immediatamente  inferiore  che  abbiano  svolto almeno cinque anni di
 effettivo servizio nella medesima qualifica, nonche' i dipendenti  di
 cui  al  presente  comma  anche  se  provvisti  del  titolo di studio
 immediatamente inferiore  a  quello  prescritto  per  l'accesso  alla
 qualifica corrispondente".  I ricorrenti hanno mosso svariate censure
 nei  confronti  degli  atti  che  applicano  la  norma  in  questione
 deducendo in sintesi che il procedimento previsto dall'art. 6,  comma
 17, della legge n. 127/1997, puo' trovare applicazione solo in ordine
 ai   provvedimenti   che   non   abbiano   acquisito   il   carattere
 dell'inoppugnabilita', atteso che in presenza di  atti  inoppugnabili
 non  sussiste  ne'  la  possibilita'  ne'  la  necessita' di sanarli.
 Sostengono, pertanto, che non e'  giuridicamente  ammissibile  ed  e'
 anzi  contrario  ai  principi  generali  che  si  possa  rimettere in
 discussione il contenuto di atti che hanno acquisito il carattere  di
 definitivita'   e  che  hanno  dato  luogo  a  posizioni  stabilmente
 formalizzate  e  consolidate  in  capo   agli   interessati   e   che
 l'applicazione  retroattiva  della  norma  in  questione  incorre  in
 evidenti molteplici profili di incotituzionalita' in  relazione  agli
 artt.  3,  24,  97,  103  e  113  Cost.   Hanno inoltre sollevato, in
 subordine, svariate censure con riferimento  alle  modalita'  con  le
 quali  il  procedimento di annullamento e' stato espletato e cio' sia
 nella forma che nella sostanza.   Cio' premesso  la  sezione  ritiene
 che,  poiche' la possibilita' di applicare la norma in questione alla
 fattispecie e' pregiudiziale rispetto alle censure che attengono alla
 legittimita' degli atti con  cui  detta  norma  e'  stata  applicata,
 occorra  valutare in primo luogo i profili di costituzionalita' che i
 ricorrenti hanno sollevato.  Profili che sono ammissibili  in  quanto
 ineriscono  alla  norma  applicata  nei provvedimenti impugnati e che
 sono rilevanti in quanto dall'essere fondati o meno  dipende  l'esito
 del  presente  giudizio.    Cio' stante, ritenendo non manifestamente
 infondate le  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  in  parte
 dedotte  dai  ricorrenti  in  parte  rilevate  d'ufficio, il Collegio
 intende sollevare - con riferimento agli artt. 3, 5, 24,  97,  103  e
 113  - la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma
 17, della legge 15  maggio  1997,  n.  127  nei  termini  di  cui  in
 appresso.
   La  disposizione  che  si  sospetta di incostituzionalita' e' stata
 introdotta, come e' noto,  sul  solco  della  pronuncia  della  Corte
 costituzionale 9 gennaio 1996, n. 1, con finalita' adeguatrice.
   Questa  sentenza  aveva  dichiarato l'illegittimita' costituzionale
 dell'art. 3, comma 6-bis, della  legge  24  dicembre  1993,  n.  537,
 introdotto  dalla  legge  28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del
 d.-l. 27 agosto 1994, n. 515.
   La  disposizione,   dichiarata   incostituzionale,   recitava:   "I
 provvedimenti  deliberativi  riguardanti il trattamento del personale
 degli enti locali che, adottati prima del  31  agosto  1993,  abbiano
 previsto  profili  professionali  od  operato  inquadramenti  in modo
 difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno  1983,  n.
 347,  e  successive  modificazioni  e  integrazioni,  sono  validi ed
 efficaci.
   La disposizione del presente comma  si  applica  agli  enti  locali
 ancorche' dissestati i cui organici, per effetto dei provvedimenti di
 cui  sopra,  non  superino i rapporti dipendenti-popolazione previsti
 dal comma 14 del presente articolo, cosi' come  modificato  dall'art.
 2, del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515".
   La   Corte   costituzionale   ha   ritenuto  che  l'ampiezza  della
 disposizione realizzava una sorta di "sanatoria in bianco" per  tutti
 i  provvedimenti illegittimi, cioe' non conformi al d.P.R. n. 347 del
 1983,  vanificandone  la   finalita'   di   operare   una   razionale
 organizzazione degli uffici.  Nonostante l'ampia discrezionalita' del
 legislatore  nella  strutturazione  degli uffici e nell'articolazione
 delle carriere e la possibilita', in astratto, che una  normativa  di
 sanatoria  si  possa  giustificare  in relazione al principio di buon
 andamento, la Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto che la citata
 disposizione  fosse  troppo  ampia  ed  indeterminata,  tale  da  non
 consentire  di  distinguere  i  provvedimenti  sanati e da realizzare
 invece una negazione del principio di buon andamento e  di  razionale
 organizzazione  dell'attivita'  amministrativa.    Inoltre  l'effetto
 premiale realizzava un ingiusto vantaggio per  autori  e  beneficiari
 dei  provvedimenti  illegittimi,  dava  un  esempio di "diseducazione
 civile"  e  causava  una  lesione  della  regola del concorso e delle
 relative garanzie di efficienza.  Effettivamente, come  ha  osservato
 la  stessa  Corte  costituzionale, non e' ben chiara l'ampiezza degli
 effetti della disposizione di sanatoria dichiarata  incostituzionale.
 Essa  sembrava applicabile soprattutto ai casi di provvedimenti degli
 enti locali annullati dagli  organi  di    controllo  o  dal  giudice
 amministrativo,   o   impugnati   davanti   a  quest'ultimo.     Piu'
 difficilmente e' ipotizzabile che la norma potesse applicarsi anche a
 provvedimenti esecutivi ormai   divenuti inoppugnabili.    Invece  il
 legislatore,  con  la  norma  contenuta  nell'art. 6, comma 17, della
 legge n. 127 del 1997, equivocando, come si  dira'  in  appresso,  la
 portata  ed il significato della pronuncia della Corte, ha rimesso in
 discussione tutti i  provvedimenti  di  inquadramento  del  personale
 degli  enti locali, ordinando a questi ultimi di autoannullare quelli
 difformi dal d.P.R. n. 347/1983 e dagli accordi collettivi successivi
 fino al d.P.R.  n.  333/1990  (che  e'  l'ultimo  accordo  collettivo
 adottato in base all'abrogata legge quadro del pubblico impiego n. 93
 del  1983,  prima della  privatizzazione e della contrattualizzazione
 disposta dal d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni).
   Una disposizione legislativa  cosi'  vincolante  e  cosi'  generale
 sembra  tuttavia  incorrere,  anch'essa, ed ancor piu' di quella gia'
 censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1/1996, nella
 violazione di alcuni principi costituzionali, e precisamente:
     1) degli artt. 3 e 97 Cost., perche' una norma di  tale  ampiezza
 ed impatto su posizioni giuridiche da tempo consolidate (la legge non
 contiene  limiti  di  tempo  per  l'operazione  di  autoannullamento)
 rappresenta essa stessa la negazione dei principi di buon andamento e
 di razionale e coerente azione amministrativa, che si esprimono nella
 regola per cui l'autotutela va esercitata non  solo  per  il  formale
 ripristino  della  legalita'  violata  ma  tenendo  conto anche delle
 esigenze di pubblico interesse e del consolidamento delle  situazioni
 giuridiche  soggettive,  come  effetto del tempo trascorso (in questo
 senso anche le sentenze nn. 459/1994 e 236/1992 della Corte cost.);
     2) degli artt. 5 e 128 Cost., perche' appare violato il principio
 di autonomia degli  enti  locali,  essendo  loro  imposto  l'utilizzo
 vincolato  di uno strumento, l'autotutela, che per principio dovrebbe
 essere affidato a valutazioni discrezionali nel suo esercizio;
     3) degli artt. 3 e 97 Cost., per la violazione  dei  principi  di
 efficienza  e  di  razionalizzazione  organizzativa,  essendo imposto
 autoritativamente uno strumento amministrativo ormai  difforme  dalla
 disciplina  privatistica  e contrattualistica che governa il pubblico
 impiego dopo il d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni;
     4) degli artt. 3 e 24 Cost., per la disparita' di  trattamento  e
 la  deteriore  tutela  giudiziaria  che  vengono a colpire coloro che
 hanno beneficiato di inquadramenti in base ai tre accordi  collettivi
 sopra citati ed il restante personale (inquadrato in base a normative
 diverse),  nonche'  tra  coloro  che  possono partecipare ai concorsi
 interni  per  la  copertura  dei  posti  resisi  vacanti  a   seguito
 dell'annullamento dei provvedimenti di inquadramento e coloro che non
 possono   parteciparvi   per   la  mancanza  dei  requisiti  previsti
 dall'ultimo comma dell'art.  6, comma 17.
   A tal riguardo si deve osservare:
     a)  che  la  finalita'  di giustizia sostanziale e di adeguamento
 alla pronuncia della Corte costituzionale appare eccessiva e comunque
 indeterminata nei suoi effetti, perche', mentre la  citata  norma  di
 "sanatoria  in  bianco",  dichiarata  incostituzionale,  incideva  su
 provvedimenti invalidi  o  inefficaci,  l'autotutela  obbligatoria  e
 straordinaria  incide  invece  su  provvedimenti allo stato validi ed
 efficaci, la cui invalidita' e' ancora da dimostrare;
     b)  che  la  valutazione  di  conformita'  o  difformita'   degli
 inquadramenti  rispetto  ai  citati  accordi collettivi e' pur sempre
 affidata ad interpretazioni delle norme  contrattuali  che  non  sono
 affatto scontate, che hanno prodotto a suo tempo notevole contenzioso
 e  che  in  prospettiva  altro  ne produrranno rinviando nel tempo la
 definizione di situazioni  sino  ad  oggi  basate  su  atti  ritenuti
 inoppugnabili;
     c)  che  l'esercizio  vincolato dell'autotutela va ad incidere su
 posizioni, come detto, ormai  consolidate  e  che  traggono  il  loro
 fondamento  da  provvedimenti  spesso  molto  risalenti nel tempo, in
 evidente violazione dei principi di affidamento  e  di  garanzia  che
 limitano l'esercizio dell'autotutela;
     d)  che  l'azzeramento di tali posizioni non puo' non riflettersi
 sulla  funzionalita'  degli  uffici  con  pregiudizio,  quindi,   del
 pubblico interesse;
     e)  che  neppure  l'obbligo  imposto  agli enti locali di bandire
 contestualmente all'annullamento dei provvedimenti di inquadramento i
 concorsi per posti resisi vacanti appare una misura equa ed idonea ad
 evitare un  irrimediabile pregiudizio alle posizioni  dei  dipendenti
 che  dopo  molti  anni,  in  una situazione ampiamente   consolidata,
 rischiano di perdere  il  posto  occupato,  in  quanto  non  tutti  i
 dipendenti  sono  (come  accade  nel  caso di specie) in possesso dei
 requisiti per partecipare a detti concorsi;
     f) che anche per  coloro  i  quali  possiedono  i  requisiti  per
 partecipare  ai concorsi interni il sistema di  ricopertura dei posti
 in tal modo resisi  vacanti  si  profila  alquanto  aleatorio  ed  il
 pregiudizio    irreparabile   non       e'   escluso,   atteso   che,
 nell'eventualita' che  essi  non  risultino  vincitori  dei  concorsi
 interni,  la  loro  sorte all'interno dell'amministrazione resterebbe
 indefinita, non essendo indicato  in  quale  posizione  della  pianta
 organica essi andrebbero a ricollocarsi;
     g)  che  il danno per chi non riuscisse a recuperare la posizione
 con il concorso interno e' comunque maggiore di  quello  che  avrebbe
 comportato  un annullamento tempestivo dell'inquadramento, in quanto,
 negli  anni  trascorsi  sino  ad  oggi,  l'affidamento   riposto   su
 provvedimenti  inoppugnabili  e  consolidati  puo'  averli  indotti a
 trascurare  altre  possibilita'  o  opportunita'  di   carriera   che
 altrimenti avrebbero potuto perseguire;
     h)  che  sussiste  disparita'  di trattamento tra i dipendenti in
 servizio, colpiti dalla revisione obbligata dell'inquadramento, ed  i
 colleghi  in  pensione  che non subiscono alcuna conseguenza negativa
 pur trovandosi nella  identica  situazione  rispetto  alla  finalita'
 della  norma  (ripristino  della legalita' violata).   In definitiva,
 mentre appare ragionevole e  giustificato  sul  piano  costituzionale
 paralizzare   sanatorie  destinate  a  perpetuare  la  pratica  della
 legittimazione a posteriori  di  atti  illegittimi,  appare  grave  e
 contrario  ai  principi  costituzionali obbligare l'amministrazione a
 rimettere in discussione, senza limiti di tempo, "i provvedimenti  di
 inquadramento   del   personale   adottati  in  modo  difforme  dalle
 disposizioni  del  decreto  del Presidente della Repubblica 25 giugno
 1983, n. 347 e successive modificazioni ed integrazioni", imponendole
 di rivedere ex novo atti consolidati il cui annullamento non  e'  una
 diretta   conseguenza   della   pronuncia   n.   1/1996  della  Corte
 costituzionale quanto piuttosto l'effetto, probabilmente mal valutato
 e dilatato, di  un  principio  (l'agire  secundum  legem  ed  il  suo
 corollario,  rappresentato  dalla  necessita'  del  ripristino  della
 legalita' violata) che la giurisprudenza amministrativa e  la  stessa
 Corte  costituzionale ritengono attuabile solo ove compatibile con il
 principio di pari dignita' e rilievo,  della  certezza  dei  rapporti
 giuridici  e della inoppugnabilita' degli atti amministrativi che non
 a caso sono assistiti dalla presunzione della loro  legittimita',  al
 punto   che   persino  per  l'esercizio  dell'autotutela  finalizzata
 all'annullamento di atti illegittimi si richiede  la  sussistenza  di
 ragioni  di  interesse  pubblico  concrete  ed  attuali che non siano
 rappresentate dal puro fine astratto di ristabilire ad ogni costo  la
 legalita'  violata.    Ne' il collegio ritiene si possa obiettare che
 chi ha violato la legge ha comunque conseguito un vantaggio  ingiusto
 a  danno di coloro i quali l'abbiano invece osservata, perche', anche
 a prescindere dalle situazioni, assai frequenti, in cui la violazione
 della  legge  non  e'  evidente   ma   rappresenta   l'esito   ultimo
 dell'applicazione  di  norme  confuse,  di  situazioni complesse e di
 orientamenti conflittuali della giurisprudenza,  che  magari  solo  a
 distanza di anni trovano una loro affermazione univoca, e' anche noto
 che  il  sistema  possiede  strumenti di controllo della legittimita'
 degli atti, certamente imperfetti e fallibili, ma comunque  idonei  a
 conferire ai provvedimenti amministrativi la stabilita' e la certezza
 che e' essenziale per fondare su di essi rapporti giuridici stabili e
 non esposti al mutevole orientamento delle amministrazioni, e sinanco
 del  legislatore.    Donde,  una  cosa e' impedire che si consolidino
 effetti di  provvedimenti  ancora  sub  iudice  o  che  si  creino  i
 presupposti  per  violare  le norme giuridiche (ipotesi alla quale si
 riferisce la pronuncia n. 1/1996 della Corte costituzionale) ed altra
 cosa, affatto diversa, e'  che,  ancorche'  per  finalita'  nobili  e
 valide  sul  piano  astratto (quale quella di non favorire l'idea che
 infrangere le norme sia consentito proprio  nella  prospettiva  della
 sanatoria  dei comportamenti illeciti), si possa pensare di rimettere
 in discussione anche cio' che ormai corrisponde (non per sanatoria ma
 per determinazione provvedimentale consolidata caso per caso) ad atto
 concluso nel rispetto delle regole e del procedimento amministrativo.
 Appare evidente d'altronde che, nel momento  in  cui  il  legislatore
 impone  all'amministrazione  di  rivedere  tutti i provvedimenti atti
 adottati in un determinato settore,  con  la  finalita'  generica  di
 annullare  gli  atti  illegittimi,  non solo egli ricade nello stesso
 errore  di  metodo  gia'   censurato   dalla   Corte   costituzionale
 (intervento  esteso  ad atti indefiniti ed indifferenziati), ma viene
 ad invadere i poteri riservati alla pubblica amministrazione sotto il
 duplice profilo del condizionamento della funzione di amministrazione
 attiva   (obbligo   di   provvedere),   di   quella   di    controllo
 (configurazione  di  vizi  ipotetici  non  riscontrati  da  alcuno  e
 sollecitazioni a rimuoverli), e di quella giurisdizionale, (se ed  in
 quanto  l'intervento comporti, com'e' possibile, la revisione di atti
 adottati in seguito a pronuncia giurisdizionale).
   Sotto  gli  anzidetti profili puo' quindi ravvisarsi una, ad avviso
 del collegio, evidente violazione dei principi   di  eguaglianza,  di
 ragionevolezza, di tutela dei diritti e degli interessi legittimi, di
 imparzialita'  e  di buon   andamento dell'amministrazione nonche' di
 autonomia degli enti locali: principi recati dagli artt. 3, 5, 24, 97
 e 128 della Costituzione.