IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 3187/1997 proposto da Danesin Bianca, Muffato Enrico, Scorsini Renzo, Vignotto Sergio e Galante Gianni, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Nicola Bardino, con domicilio presso lo studio legale dello stesso, in Venezia, S. Croce 466, come da mandato a margine del ricorso; Contro il comune di Venezia in persona del sindaco pro-tempore rappresentato e difeso dagli avv.ti Giulio Gidoni e M. Maddalena Morino, con elezione di domicilio presso la Civica Avvocatura nella sede municipale; Per l'annullamento della deliberazione della Giunta comunale 7 agosto 1997, n. 2131, con cui sono stati annullati gli atti di inquadramento dei ricorrenti e sono stati indetti concorsi interni per la copertura dei relativi posti resisi vacanti e di ogni altro atto inerente e conseguente; Visto il ricorso, notificato il 3 novembre 1997 e depositato presso la segreteria il 4 novembre 1997 con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata depositato il 10 novembre 1997 con i relativi allegati; Viste le memorie prodotte dalle parti; Visti gli atti tutti della causa; Uditi alla pubblica udienza del 30 aprile 1998 (relatore il consigliere Angelo De Zotti) l'avv.to Bardino per i ricorrenti e l'avv.to Morino per il comune di Venezia; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o I ricorrenti sono dipendenti del comune di Venezia, presso il quale rivestono la settima qualifica (sig.ri Danesin, Muffato, Scorsini e Vignotto), ovvero l'ottava (sig. Galante). Per ognuno di loro tale posizione era stata definitivamente stabilita dall'amministrazione con la delibera n. 8490, del 21 dicembre 1990, della Giunta comunale, con la quale si era operata una rettifica dell'inquadramento di parte del personale, con decorrenza 1 gennaio 1983, secondo le declaratorie formalizzate nel d.P.R. n. 347/1983. Entrata in vigore la legge n. 127/1997, il comune di Venezia ha applicato nei loro confronti la norma contenuta nell'art. 6, comma 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento del personale effettuato in difformita' dal d.P.R. n. 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni. A sostegno del ricorso in epigrafe vengono dedotti i seguenti motivi: 1) eccesso di potere per falsita' del presupposto, illogicita' manifesta, errore di diritto, carenza di motivazione; violazione di legge (art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997). Si sostiene che il procedimento previsto dall'art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997, puo' trovare applicazione solo in ordine ai provvedimenti che non abbiano acquisito il carattere dell'inoppugnabilita'; che in presenza di atti inoppugnabili non sussiste ne' la possibilita' e/o necessita' di sanarli, ne' quella opposta di rimetterne in discussione il contenuto una volta che essi abbiano acquisito il carattere di definitivita' e che abbiano dato luogo a posizioni stabilmente formalizzate e consolidate in capo agli interessati; che l'applicazione retroattiva della norma in questione incorre in evidenti profili di incostituzionalita' in relazione agli artt. 3, 24, 97, 103 e 113 Cost.; 2) eccesso di potere per sviamento, difetto di motivazione; falsita' del presupposto, illogicita' manifesta, difetto di istruttoria; violazione di legge (art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997), violazione della circolare del Ministero dell'interno n. 1, del 15 luglio 1997. Si sostiene che la Giunta comunale, pur avendo richiamato espressamente la circolare ministeriale in epigrafe, al cui contenuto rinvia per l'individuazione dei criteri di difformita' utilizzati in sede di annullamento degli inquadramenti assoggettati a sanatoria, non evidenzia l'esatta natura degli atti annullati evitando di assumere una esplicita posizione circa la loro soggezione o meno alla sanatoria ed inoltre si discosta in maniera evidente dalle indicazioni della circolare senza allegare alcuna ragione giustificatrice; 3) eccesso di potere per sviamento, difetto di motivazione; falsita' del presupposto; violazione di legge (art. 3, legge n. 241/1990). Si sostiene che l'amministrazione ha disposto contraddittoriamente l'annullamento di atti che essa ha contestualmente dichiarato di ritenere legittimi, e cio' solo in quanto la procura della Corte dei conti ne ha prospettato l'illegittimita' facendo sorgere quello che si definisce "un ragionevole dubbio di irregolare istruttoria"; 4) eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione; falsita' del presupposto; violazione di legge (art. 3, legge n. 241/1990 e art. 6, comma 17, legge n. 127/1997). Si sostiene che l'accertamento della difformita' dell'inquadramento del dipendente costituisce indefettibile presupposto dell'annullamento dell'atto con cui l'inquadramento del dipendente e' stato disposto; che nella specie e' stato invece omesso qualsiasi accertamento istruttorio al fine di stabilire l'effettiva difformita' degli inquadramenti disposti con le deliberazioni annullate e che cio' trova conferma nelle stesse formule dubitative utilizzate dall'amministrazione nell'atto impugnato; 5) eccesso di potere per difetto di motivazione e difetto di contraddittorio; violazione di legge (artt. 7 e 8, legge n. 241/1990). Si sostiene che nella specie e' stato violato il principio del contraddittorio in quanto la comunicazione dell'avvio del procedimento e' stata inviata in prossimita' della deliberazione impugnata, senza percio' consentire ai dipendenti una effettiva partecipazione al procedimento che pure li vedeva oggetto di determinazioni incidenti in senso negativo sulla loro sfera giuridica. L'amministrazione resistente, costituita in giudizio, ha controdedotto concludendo per la reiezione del ricorso. D i r i t t o Nel merito, occorre premettere che i ricorrenti sono dipendenti del comune di Venezia, i quali rivestono la settima qualifica (sig.ri Danesin, Muffato, Scorsini e Vignotto) e l'ottava (sig. Galante). Per ognuno di loro tale posizione era stata definitivamente stabilita dall'amministrazione con la delibera n. 8490, del 21 dicembre 1990, della Giunta comunale, a mezzo della quale era stata disposta una rettifica dell'inquadramento di parte del personale, con decorrenza 1 gennaio 1983, secondo le declaratorie formalizzate nel d.P.R. n. 347/1983 e tenendo conto del fatto che, a seguito di atti di formale attribuzione di mansioni superiori, i dipendenti erano stati impiegati su posti vacanti della pianta organica finendo per occuparli stabilmente. Entrata in vigore la legge n. 127/1997, il comune di Venezia ha applicato nei loro confronti la norma, contenuta nell'art. 6, comma 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento del personale effettuato in difformita' dal d.P.R. n. 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni. La disposizione infatti recita: "entro e non oltre tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge gli enti locali sono tenuti ad annullare i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni ed integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell'annullamento. Fino alla data di copertura dei posti resisi disponibili per effetto del presente comma, il personale destinatario dei provvedimenti di inquadramento ivi indicati continua a svolgere le mansioni corrispondenti alla qualifica attribuita con detti provvedimenti, mantenendo il relativo trattamento economico. Alla copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell'annullamento si provvede mediante concorsi interni per titoli integrati da colloquio ai quali sono ammessi a partecipare i dipendenti appartenenti alla qualifica immediatamente inferiore che abbiano svolto almeno cinque anni di effettivo servizio nella medesima qualifica, nonche' i dipendenti di cui al presente comma anche se provvisti del titolo di studio immediatamente inferiore a quello prescritto per l'accesso alla qualifica corrispondente". I ricorrenti hanno mosso svariate censure nei confronti degli atti che applicano la norma in questione deducendo in sintesi che il procedimento previsto dall'art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997, puo' trovare applicazione solo in ordine ai provvedimenti che non abbiano acquisito il carattere dell'inoppugnabilita', atteso che in presenza di atti inoppugnabili non sussiste ne' la possibilita' ne' la necessita' di sanarli. Sostengono, pertanto, che non e' giuridicamente ammissibile ed e' anzi contrario ai principi generali che si possa rimettere in discussione il contenuto di atti che hanno acquisito il carattere di definitivita' e che hanno dato luogo a posizioni stabilmente formalizzate e consolidate in capo agli interessati e che l'applicazione retroattiva della norma in questione incorre in evidenti molteplici profili di incotituzionalita' in relazione agli artt. 3, 24, 97, 103 e 113 Cost. Hanno inoltre sollevato, in subordine, svariate censure con riferimento alle modalita' con le quali il procedimento di annullamento e' stato espletato e cio' sia nella forma che nella sostanza. Cio' premesso la sezione ritiene che, poiche' la possibilita' di applicare la norma in questione alla fattispecie e' pregiudiziale rispetto alle censure che attengono alla legittimita' degli atti con cui detta norma e' stata applicata, occorra valutare in primo luogo i profili di costituzionalita' che i ricorrenti hanno sollevato. Profili che sono ammissibili in quanto ineriscono alla norma applicata nei provvedimenti impugnati e che sono rilevanti in quanto dall'essere fondati o meno dipende l'esito del presente giudizio. Cio' stante, ritenendo non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale, in parte dedotte dai ricorrenti in parte rilevate d'ufficio, il Collegio intende sollevare - con riferimento agli artt. 3, 5, 24, 97, 103 e 113 - la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127 nei termini di cui in appresso. La disposizione che si sospetta di incostituzionalita' e' stata introdotta, come e' noto, sul solco della pronuncia della Corte costituzionale 9 gennaio 1996, n. 1, con finalita' adeguatrice. Questa sentenza aveva dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515. La disposizione, dichiarata incostituzionale, recitava: "I provvedimenti deliberativi riguardanti il trattamento del personale degli enti locali che, adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano previsto profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni e integrazioni, sono validi ed efficaci. La disposizione del presente comma si applica agli enti locali ancorche' dissestati i cui organici, per effetto dei provvedimenti di cui sopra, non superino i rapporti dipendenti-popolazione previsti dal comma 14 del presente articolo, cosi' come modificato dall'art. 2, del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515". La Corte costituzionale ha ritenuto che l'ampiezza della disposizione realizzava una sorta di "sanatoria in bianco" per tutti i provvedimenti illegittimi, cioe' non conformi al d.P.R. n. 347 del 1983, vanificandone la finalita' di operare una razionale organizzazione degli uffici. Nonostante l'ampia discrezionalita' del legislatore nella strutturazione degli uffici e nell'articolazione delle carriere e la possibilita', in astratto, che una normativa di sanatoria si possa giustificare in relazione al principio di buon andamento, la Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto che la citata disposizione fosse troppo ampia ed indeterminata, tale da non consentire di distinguere i provvedimenti sanati e da realizzare invece una negazione del principio di buon andamento e di razionale organizzazione dell'attivita' amministrativa. Inoltre l'effetto premiale realizzava un ingiusto vantaggio per autori e beneficiari dei provvedimenti illegittimi, dava un esempio di "diseducazione civile" e causava una lesione della regola del concorso e delle relative garanzie di efficienza. Effettivamente, come ha osservato la stessa Corte costituzionale, non e' ben chiara l'ampiezza degli effetti della disposizione di sanatoria dichiarata incostituzionale. Essa sembrava applicabile soprattutto ai casi di provvedimenti degli enti locali annullati dagli organi di controllo o dal giudice amministrativo, o impugnati davanti a quest'ultimo. Piu' difficilmente e' ipotizzabile che la norma potesse applicarsi anche a provvedimenti esecutivi ormai divenuti inoppugnabili. Invece il legislatore, con la norma contenuta nell'art. 6, comma 17, della legge n. 127 del 1997, equivocando, come si dira' in appresso, la portata ed il significato della pronuncia della Corte, ha rimesso in discussione tutti i provvedimenti di inquadramento del personale degli enti locali, ordinando a questi ultimi di autoannullare quelli difformi dal d.P.R. n. 347/1983 e dagli accordi collettivi successivi fino al d.P.R. n. 333/1990 (che e' l'ultimo accordo collettivo adottato in base all'abrogata legge quadro del pubblico impiego n. 93 del 1983, prima della privatizzazione e della contrattualizzazione disposta dal d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni). Una disposizione legislativa cosi' vincolante e cosi' generale sembra tuttavia incorrere, anch'essa, ed ancor piu' di quella gia' censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 1/1996, nella violazione di alcuni principi costituzionali, e precisamente: 1) degli artt. 3 e 97 Cost., perche' una norma di tale ampiezza ed impatto su posizioni giuridiche da tempo consolidate (la legge non contiene limiti di tempo per l'operazione di autoannullamento) rappresenta essa stessa la negazione dei principi di buon andamento e di razionale e coerente azione amministrativa, che si esprimono nella regola per cui l'autotutela va esercitata non solo per il formale ripristino della legalita' violata ma tenendo conto anche delle esigenze di pubblico interesse e del consolidamento delle situazioni giuridiche soggettive, come effetto del tempo trascorso (in questo senso anche le sentenze nn. 459/1994 e 236/1992 della Corte cost.); 2) degli artt. 5 e 128 Cost., perche' appare violato il principio di autonomia degli enti locali, essendo loro imposto l'utilizzo vincolato di uno strumento, l'autotutela, che per principio dovrebbe essere affidato a valutazioni discrezionali nel suo esercizio; 3) degli artt. 3 e 97 Cost., per la violazione dei principi di efficienza e di razionalizzazione organizzativa, essendo imposto autoritativamente uno strumento amministrativo ormai difforme dalla disciplina privatistica e contrattualistica che governa il pubblico impiego dopo il d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni; 4) degli artt. 3 e 24 Cost., per la disparita' di trattamento e la deteriore tutela giudiziaria che vengono a colpire coloro che hanno beneficiato di inquadramenti in base ai tre accordi collettivi sopra citati ed il restante personale (inquadrato in base a normative diverse), nonche' tra coloro che possono partecipare ai concorsi interni per la copertura dei posti resisi vacanti a seguito dell'annullamento dei provvedimenti di inquadramento e coloro che non possono parteciparvi per la mancanza dei requisiti previsti dall'ultimo comma dell'art. 6, comma 17. A tal riguardo si deve osservare: a) che la finalita' di giustizia sostanziale e di adeguamento alla pronuncia della Corte costituzionale appare eccessiva e comunque indeterminata nei suoi effetti, perche', mentre la citata norma di "sanatoria in bianco", dichiarata incostituzionale, incideva su provvedimenti invalidi o inefficaci, l'autotutela obbligatoria e straordinaria incide invece su provvedimenti allo stato validi ed efficaci, la cui invalidita' e' ancora da dimostrare; b) che la valutazione di conformita' o difformita' degli inquadramenti rispetto ai citati accordi collettivi e' pur sempre affidata ad interpretazioni delle norme contrattuali che non sono affatto scontate, che hanno prodotto a suo tempo notevole contenzioso e che in prospettiva altro ne produrranno rinviando nel tempo la definizione di situazioni sino ad oggi basate su atti ritenuti inoppugnabili; c) che l'esercizio vincolato dell'autotutela va ad incidere su posizioni, come detto, ormai consolidate e che traggono il loro fondamento da provvedimenti spesso molto risalenti nel tempo, in evidente violazione dei principi di affidamento e di garanzia che limitano l'esercizio dell'autotutela; d) che l'azzeramento di tali posizioni non puo' non riflettersi sulla funzionalita' degli uffici con pregiudizio, quindi, del pubblico interesse; e) che neppure l'obbligo imposto agli enti locali di bandire contestualmente all'annullamento dei provvedimenti di inquadramento i concorsi per posti resisi vacanti appare una misura equa ed idonea ad evitare un irrimediabile pregiudizio alle posizioni dei dipendenti che dopo molti anni, in una situazione ampiamente consolidata, rischiano di perdere il posto occupato, in quanto non tutti i dipendenti sono (come accade nel caso di specie) in possesso dei requisiti per partecipare a detti concorsi; f) che anche per coloro i quali possiedono i requisiti per partecipare ai concorsi interni il sistema di ricopertura dei posti in tal modo resisi vacanti si profila alquanto aleatorio ed il pregiudizio irreparabile non e' escluso, atteso che, nell'eventualita' che essi non risultino vincitori dei concorsi interni, la loro sorte all'interno dell'amministrazione resterebbe indefinita, non essendo indicato in quale posizione della pianta organica essi andrebbero a ricollocarsi; g) che il danno per chi non riuscisse a recuperare la posizione con il concorso interno e' comunque maggiore di quello che avrebbe comportato un annullamento tempestivo dell'inquadramento, in quanto, negli anni trascorsi sino ad oggi, l'affidamento riposto su provvedimenti inoppugnabili e consolidati puo' averli indotti a trascurare altre possibilita' o opportunita' di carriera che altrimenti avrebbero potuto perseguire; h) che sussiste disparita' di trattamento tra i dipendenti in servizio, colpiti dalla revisione obbligata dell'inquadramento, ed i colleghi in pensione che non subiscono alcuna conseguenza negativa pur trovandosi nella identica situazione rispetto alla finalita' della norma (ripristino della legalita' violata). In definitiva, mentre appare ragionevole e giustificato sul piano costituzionale paralizzare sanatorie destinate a perpetuare la pratica della legittimazione a posteriori di atti illegittimi, appare grave e contrario ai principi costituzionali obbligare l'amministrazione a rimettere in discussione, senza limiti di tempo, "i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347 e successive modificazioni ed integrazioni", imponendole di rivedere ex novo atti consolidati il cui annullamento non e' una diretta conseguenza della pronuncia n. 1/1996 della Corte costituzionale quanto piuttosto l'effetto, probabilmente mal valutato e dilatato, di un principio (l'agire secundum legem ed il suo corollario, rappresentato dalla necessita' del ripristino della legalita' violata) che la giurisprudenza amministrativa e la stessa Corte costituzionale ritengono attuabile solo ove compatibile con il principio di pari dignita' e rilievo, della certezza dei rapporti giuridici e della inoppugnabilita' degli atti amministrativi che non a caso sono assistiti dalla presunzione della loro legittimita', al punto che persino per l'esercizio dell'autotutela finalizzata all'annullamento di atti illegittimi si richiede la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali che non siano rappresentate dal puro fine astratto di ristabilire ad ogni costo la legalita' violata. Ne' il collegio ritiene si possa obiettare che chi ha violato la legge ha comunque conseguito un vantaggio ingiusto a danno di coloro i quali l'abbiano invece osservata, perche', anche a prescindere dalle situazioni, assai frequenti, in cui la violazione della legge non e' evidente ma rappresenta l'esito ultimo dell'applicazione di norme confuse, di situazioni complesse e di orientamenti conflittuali della giurisprudenza, che magari solo a distanza di anni trovano una loro affermazione univoca, e' anche noto che il sistema possiede strumenti di controllo della legittimita' degli atti, certamente imperfetti e fallibili, ma comunque idonei a conferire ai provvedimenti amministrativi la stabilita' e la certezza che e' essenziale per fondare su di essi rapporti giuridici stabili e non esposti al mutevole orientamento delle amministrazioni, e sinanco del legislatore. Donde, una cosa e' impedire che si consolidino effetti di provvedimenti ancora sub iudice o che si creino i presupposti per violare le norme giuridiche (ipotesi alla quale si riferisce la pronuncia n. 1/1996 della Corte costituzionale) ed altra cosa, affatto diversa, e' che, ancorche' per finalita' nobili e valide sul piano astratto (quale quella di non favorire l'idea che infrangere le norme sia consentito proprio nella prospettiva della sanatoria dei comportamenti illeciti), si possa pensare di rimettere in discussione anche cio' che ormai corrisponde (non per sanatoria ma per determinazione provvedimentale consolidata caso per caso) ad atto concluso nel rispetto delle regole e del procedimento amministrativo. Appare evidente d'altronde che, nel momento in cui il legislatore impone all'amministrazione di rivedere tutti i provvedimenti atti adottati in un determinato settore, con la finalita' generica di annullare gli atti illegittimi, non solo egli ricade nello stesso errore di metodo gia' censurato dalla Corte costituzionale (intervento esteso ad atti indefiniti ed indifferenziati), ma viene ad invadere i poteri riservati alla pubblica amministrazione sotto il duplice profilo del condizionamento della funzione di amministrazione attiva (obbligo di provvedere), di quella di controllo (configurazione di vizi ipotetici non riscontrati da alcuno e sollecitazioni a rimuoverli), e di quella giurisdizionale, (se ed in quanto l'intervento comporti, com'e' possibile, la revisione di atti adottati in seguito a pronuncia giurisdizionale). Sotto gli anzidetti profili puo' quindi ravvisarsi una, ad avviso del collegio, evidente violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza, di tutela dei diritti e degli interessi legittimi, di imparzialita' e di buon andamento dell'amministrazione nonche' di autonomia degli enti locali: principi recati dagli artt. 3, 5, 24, 97 e 128 della Costituzione.