IL TRIBUNALE
   Letti  gli  atti del procedimento penale n. 244/1996 r.g., a carico
 di Giovanni Giannattasio ed altri;
   Premesso:
     che nel corso dell'odierna udienza e' comparso,  nella  veste  di
 imputato in procedimento collegato, l'ing. Bruno Lattanzi, per essere
 sentito  su  fatti  che avevano gia' formato oggetto di dichiarazioni
 rese nella fase delle indagini preliminari;
     che, avvertito della facolta' di non rispondere,  il  dichiarante
 ha rifiutato l'esame;
     che,  richiesta dal p.m. la lettura del verbale redatto nel corso
 della fase  investigativa,  i  difensori  degli  imputati  non  hanno
 prestato il consenso;
     che il tribunale non ha potuto che prendere atto, alla luce della
 nuova  formulazione  dell'art.  513 comma 2, c.p.p. (quale introdotta
 dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267), della mancanza di  accordo
 fra  le  parti, sicche' le dichiarazioni dell'ing. Lattanzi non hanno
 avuto ingresso nel procedimento;
     che il collegio ritiene  tuttavia  condivisibili  i  sospetti  di
 incostituzionalita'  della norma prospettati dal rappresentante della
 pubblica accusa;
                             O s s e r v a
   I. - La questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  513,
 comma 2, c.p.p., come novellato dalla legge n. 267/1997, e' anzitutto
 rilevante  ai  fini  della definizione del processo: il tribunale non
 conosce, ovviamente,  il  contenuto  delle  dichiarazioni  della  cui
 acquisibilita'  si  controverte,  ma  constata  che,  alla stregua di
 quanto  e'  possibile  desumere dalle richieste di prova formulate in
 apertura del dibattimento, esse riguardano una  vicenda  parallela  a
 quella  per  cui  e'  processo, che ha avuto come protagonisti taluni
 degli odierni imputati e che, sebbene sviluppatasi nel territorio  di
 un diverso circondario, concerne fatti analoghi, la cui conoscenza e'
 suscettiva  di  irrobustire,  sia pure in forma indiretta, l'impianto
 probatorio, e comunque di consentire una  migliore  e  piu'  completa
 valutazione  della  personalita'  degli  inquisiti,  ai fini indicati
 dall'art. 133 c.p.
   In ogni caso si tratta di dichiarazioni la cui rilevanza probatoria
 e' gia' stata positivamente apprezzata  in  sede  di  ammissione  dei
 mezzi  di  prova  richiesti  dalle parti, e che non e' stato tuttavia
 possibile introdurre nel processo; la questione di  costituzionalita'
 della  norma  che  ne  esclude  la  utilizzabilita',  in  assenza del
 consenso degli interessati (consenso che, per come gia' chiarito,  e'
 nella   specie   mancato),   e'  dunque  rilevante  per  definizione,
 all'interno del presente giudizio.
   II. - La questione e' anche, per altro  verso,  non  manifestamente
 infondata.
   E'  preliminare  il  rilievo  che la novella del 1997 ha introdotto
 regole legali di acquisizione della prova che si  pongono  in  aperto
 contrasto  con  i  principi  fissati dalla Corte costituzionale nelle
 note sentenze nn. 254 e 255 del 1992, la prima delle  quali  relativa
 alla  originaria  formulazione  dello  stesso  art.  513  c.p.p.:  e'
 superfluo ricordare che la norma fu ritenuta incostituzionale proprio
 nella parte in cui non consentiva la lettura delle dichiarazioni rese
 nella fase investigativa dalle persone indicate dall'art. 210  c.p.p.
 quando  queste,  comparse  al  dibattimento, si fossero avvalse della
 facolta' di non rispondere.
   Nelle sentenze richiamate, che per contestualita' cronologica e per
 analogia dell'oggetto possono considerarsi alla stregua di un  unicum
 logico-giuridico,   la  Corte  rilevo',  all'epoca,  come  il  canone
 dell'oralita'  non  rappresentasse,  nella  disciplina   codicistica,
 l'esclusivo  veicolo  di  formazione  della prova nel dibattimento, e
 rinvenne,  nell'ordinamento  penale,  anche  un  principio   di   non
 dispersione  dei  mezzi  di  prova,  che,  temperando  la tendenziale
 rigidezza del primo e consentendo un parziale recupero del  materiale
 conoscitivo   acquisito   nella  fase  investigativa,  permetteva  di
 armonizzare il sistema con quel complesso di norme costituzionali che
 individuano nella ricerca della verita' sostanziale il fine  primario
 ed  ineludibile  del  processo; pervenne dunque alla conclusione che,
 all'interno dell'impianto processuale positivamente instaurato, fosse
 irragionevole la regola che escludeva la possibilita' di dare lettura
 dei  verbali  contenti  le  dichiarazioni   rese   da   imputati   di
 procedimenti  connessi  o  collegati,  che avessero rifiutato l'esame
 dibattimentale.
   Al  riguardo,  il  tribunale  non  puo'  anzitutto  sottacere   che
 l'attuale    formulazione   dell'art.   513   cit.   sembra   dettata
 dall'intenzione di aggirare, grazie ad un artificio normativo  palese
 quanto  irriverente  nei  confronti  della Corte, i limiti che questa
 aveva fissato in tema di  ragionevolezza  del  sacrificio  di  talune
 conoscenze  acquisite  in costanza della fase investigativa: non puo'
 sfuggire, in proposito, che la norma  novellata  prevede  bensi'  una
 astratta  efficacia,  anche  eteroaccusatoria,  mediante lettura, del
 materiale dichiarativo raccolto nel corso delle indagini preliminari,
 ma  la subordina tuttavia alla ipotetica condizione che i chiamati in
 correita' prestino il proprio  consenso;  la  disposizione  e'  tanto
 paradossale   da  disvelare  immediatamente  l'intento,  davvero  mal
 celato, di rispettare solo formalmente i dettati della Corte,  ma  di
 eluderli grossolanamente nella sostanza: e' lecito chiedersi qual mai
 imputato che non soffra di limitazioni psichiche tali da impedirne la
 consapevole  partecipazione  al  dibattimento, potra' consentire alla
 lettura  di  dichiarazioni  a  lui  sfavorevoli,  soprattutto  quando
 queste,   come  non  di  rado  accade,  costituiscono  il  fondamento
 principale dell'accusa.
   III. - Un primo profilo di incostituzionalita' dell'art. 513, comma
 2, c.p.p., e' dunque individuabile nel contrasto con gli artt. 2 e 27
 della Carta fondamentale.
   Sebbene la Corte non abbia espressamente indicato, nelle richiamate
 sentenze n. 254 e 255 del 1992, le norme costituzionali  che  fissano
 nella  ricerca  della verita' materiale il fine primario del processo
 penale, sembra al tribunale di poter affermare che una di tali  norme
 sia,  in  primo  luogo,  l'art.  2 Cost., il quale, nel riconoscere e
 garantire  i  diritti  inviolabili  dell'uomo,   e   nel   richiedere
 l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di  solidarieta'  politica,
 economica e sociale, rimanda, per implicito ma non  per  questo  meno
 chiaramente,  alle  lesioni di quei diritti e di quei doveri che sono
 determinate da condotte di natura criminale.
   E' forse il caso di ricordare, al riguardo, che una autorevolissima
 dottrina, bensi' datata, ma a giudizio del  tribunale  non  superata,
 fondava proprio sull'art. 2 della Costituzione il criterio discretivo
 fra delitti e contravvenzioni, individuando i primi nelle aggressioni
 portate  ad  un diritto inviolabile, e le seconde nella violazione di
 un dovere di solidarieta'; e' dunque possibile enucleare dalla  norma
 costituzionale in esame il principio secondo cui uno dei fini primari
 dell'ordinamento   e'  costituito  dalla  tutela  dei  cittadini  nei
 confronti di  quei  comportamenti  penalmente  rilevanti  che  ledono
 diritti  inviolabili o doveri di solidarieta'; se cosi' e', peraltro,
 occorrera' pure che essa tutela abbia una propria effettivita', e che
 la ricerca e l'individuazione dei responsabili di un reato non soffra
 limitazioni che non siano imposte dal rispetto di  principi  di  pari
 rango.
   Per altro verso, l'art. 27 della Costituzione pone, innegabilmente,
 un rapporto di reciproca implicazione tra responsabilita' e pena:  se
 e'  vero  che  non  puo'  esservi pena senza responsabilita', e' vero
 anche che ogni responsabilita' penale deve tendenzialmente dar  luogo
 ad una pena, in ragione anzitutto delle potenzialita' rieducative che
 della   sanzione   criminale   sono  proprie  e  che  ne  legittimano
 l'applicazione.   Gli ostacoli frapposti  alla  individuazione  della
 responsabilita', che non siano giustificati da principi costituzionli
 di  segno  diverso,  non  appaiono  dunque compatibili con il sistema
 normativo.
   Nel disposto degli artt. 2 e 27 della Costituzione (o, quanto meno,
 anche in essi) e' allora possibile rinvenire il  fondamento  di  quel
 principio  piu'  ampio,  che  riconosce  nella  ricerca della verita'
 materiale  il  fine  principale  del  processo  penale.   Sembra   di
 conseguenza  lecito  dubitare  della  costituzionalita'  di una norma
 suscettiva di ostacolare la funzione stessa del processo, proprio nei
 casi  in cui si fa piu' pressante l'esigenza di difesa della societa'
 dal delitto (confr.  Corte cost., sent. n. 255/1992,  cit.):  non  e'
 possibile,  al  riguardo,  ignorare,  o  fingere  di ignorare, che il
 materiale probatorio penalizzato dalla riforma dell'art.  513,  comma
 2,  c.p.p.,  costituisce, di regola, l'elemento portante nei processi
 di  criminalita'  organizzata  e  per  reati  contro  la  p.a.,   con
 particolare riguardo al delitto di corruzione.  Si tratta di illeciti
 a  concorso  necessario,  rispetto  ai  quali proprio dalle modalita'
 collettive dell'azione deriva la rilevanza che nel  processo  possono
 assumere  le  dichiarazioni  di  coimputati  o, come nella specie, di
 imputati in procedimento separato, ma connesso o  collegato;  sicche'
 ne  risulta  ancor  piu'  palese  l'incostituzionalita'  della  norma
 denunciata.
   IV. - Un ulteriore aspetto di incostituzionalita' della novella  e'
 rinvenibile nel contrasto con l'art. 3 della Costituzione.
   E'  preliminare,  in proposito, il rilievo che la legge n. 267/1997
 non ha modificato il regime  delle  acquisizioni  dibattimentali  con
 riferimento  all'intero  spettro  del  materiale probatorio di natura
 dichiarativa raccolto nella fase  delle  indagini  preliminari;  sono
 rimaste  infatti  inalterate le regole concernenti la utilizzabilita'
 delle dichiarazioni propriamente testimoniali, e la riforma ha invece
 circoscritto le nuove restrizioni alle sole dichiarazioni provenienti
 da coimputati, o da imputati di reato connesso o collegato.
   E' allora agevole rilevare che  il  diverso  trattamento  riservato
 alle  due  fonti  probatorie e' privo di qualsivoglia ragionevolezza:
 l'esigenza  di  assicurare  la  pienezza  del  contraddittorio,   che
 costituisce  il  proclamato  obiettivo  della novella, si staglia con
 rilievo   ancor   maggiore   in   riferimento   alle    dichiarazioni
 testimoniali,  siccome  raccolte dal p.m. o dalla polizia giudiziaria
 in assenza anche di quel minimo requisito di  garanzia  rappresentato
 dalla   presenza   del   difensore  dell'imputato,  requisito  invece
 soddisfatto nell'ipotesi che la riforma ha inteso penalizzare.
    Ne' puo' sottacersi che le nuove limitazioni cadono su  una  fonte
 di  prova  la cui valutazione e' gia' sottoposta (ex art. 192 c.p.p.)
 a regole di giudizio assai piu' rigorose di  quelle  vigenti  per  la
 testimonianza;  sicche', in definitiva, se e' possibile dare lettura,
 a mente dell'art. 500  c.p.p.,  delle  dichiarazioni  precedentemente
 rese dal teste renitente o reticente, non e' ragionevole escludere la
 utilizzabilita'  dibattimentale  di  una  dichiarazione, quale quella
 dell'imputato in procedimento collegato che rifiuti l'esame, non solo
 piu' garantita sul piano del contraddittorio,  ma  anche  soggetta  a
 particolari e piu' stringenti cautele valutative.
   V.  -  Da  ultimo,  il  collegio  rileva  il contrasto tra la norma
 impugnata e gli artt. 101, secondo comma e 111 Cost.
   Al  riguardo,  la  formulazione  della  regola   censurata   sembra
 disattendere il duplice canone della soggezione del giudice alla sola
 legge, e del libero, motivato convincimento.
   L'sercizio  della giurisdizione risulta infatti condizionato non da
 un  apprezzamento  liberamente  ed   argomentatamente   fondato   sul
 materiale   probatorio  lecitamente  raccolto,  sia  pure  da  organi
 distinti ed in fasi processuali diverse, ma da un elemento del  tutto
 spurio  ed  arbitrario,  quale e' il consenso dell'imputato coinvolto
 dalle dichiarazioni della cui utilizzabilita' si tratta, vale a  dire
 dalle  interessate  valutazioni  di  quello  stesso  soggetto  la cui
 condotta costituisce il tema dell'accertamento penale.