IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunziato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  3330/97
 proposto  da  Schiavon  Renzo,  Greggio  Carlo,  Gobbo Claudio, Zorzi
 Antonio, Zavonello Dario, Gasparin Paolo,  Boscaro  Roberto,  Lunardi
 Elisa,  Franchin  Michela,  Maran  Cristina,  Sartorato Mario, Tosini
 Andrea,  Gaspari  Roberto,  Curto  Pasqualino,  Diego  Marin,  Turato
 Albino, Baldo Pierino, Ligustri Marco,  Marigo  Pierluigi,  Mandolaro
 Giuseppe,  Bedin  Luigi,  Minotto  Michele,  Berro Silvano, Santinato
 Rinaldo (che successivamente ha rinunciato), Piovan Roberto,  Boldrin
 Celestino,  Pittaro  Otello,  Riondato  Giorgio,  Campagnolo Camilla,
 Bacchin Maurizio, tutti  rappresentati  e  difesi  dall'avv.  Claudio
 Michelon,  con  domicilio  presso la segreteria del t.a.r. ex art. 35
 del r.d. 1054/24;
   Contro il comune di Padova  in  persona  del  sindaco  pro-tempore,
 rappresentato  e difeso dall'avv. Nicola Creuso, con domicilio presso
 la segreteria del t.a.r. ex art. 35 del regio decreto 1054/24;
   Per l'annullamento della deliberazione  della  Giunta  comunale  28
 luglio 1997, n. 855, con cui sono state annullate le deliberazioni n.
 321/95  e n. 912/95 relative agli inquadramenti dei ricorrenti e sono
 stati indetti concorsi interni per la copertura  dei  relativi  posti
 resisi vacanti.
   Visto  il  ricorso,  notificato  il  14  novembre 1997 e depositato
 presso la segreteria il 17 novembre 1997 con i relativi allegati;
   Visto  l'atto  di  costituzione  in  giudizio  dell'amministrazione
 intimata;
   Viste le memorie prodotte;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Uditi  alla  pubblica  udienza  del  30  aprile  1998  (relatore il
 consigliere Lorenzo Stevanato) l'avv. C. Michelon per i ricorrenti  e
 l'avv. Creuso per il comune di Padova.
   Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   I  ricorrenti  sono  dipendenti  del comune di Padova inquadrati ex
 art. 34 del  d.P.R.  n.  333/1990  nella  qualifica  funzionale,  con
 profili professionali di "collaboratore professionale terminalista" e
 di "conduttore di macchine operatrici complesse".
   Entrata  in  vigore  la  legge  n. 127/1997, il comune di Padova ha
 applicato nei loro confronti la norma, contenuta nell'art.  6,  comma
 17,  che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento del
 personale  effettuato  in  difformita'  dal  d.P.R.  n.  347/1983   e
 successive modificazioni ed integrazioni.
   A  sostegno  del  ricorso  in  epigrafe  vengono dedotti i seguenti
 motivi:
     1) violazione  di  legge  (art.  6,  comma  17,  della  legge  n.
 127/1997)   nel   rilievo  che  le  deliberazioni  autoannullate  non
 operavano un primo inquadramento secondo il d.P.R.  n.  347/1983,  ma
 una   riqualificazione   di  posizioni  funzionali  gia'  inquadrate,
 prevista da un accordo successivo, e precisamente  dall'art.  34  del
 d.P.R.  n.  333/1990  con  l'attribuzione  non  discrezionale  di una
 qualifica  superiore  collegata  allo  svolgimento   di   particolari
 funzioni (terminalisti e conduttori di macchine operatrici complesse,
 dalla quarta q.f. alla quinta q.f.).
     2)  violazione  di  legge  (art.  34  del  d.P.R. n. 333/1990) ed
 eccesso   di   potere   sotto   vari   profili,   nel   rilievo   che
 l'autoannullamento  e'  insufficientemente  motivato, non tiene conto
 che non si tratta del primo inquadramento e che il reinquadramento ex
 art. 34 del d.P.R.   n.  333/1990  e'  stato  operato  a  seguito  di
 un'attenta  istruttoria  con  la ricognizione puntuale delle mansioni
 svolte da ciascuno.
   L'amministrazione    resistente,   costituita   in   giudizio,   ha
 pregiudizialmente eccepito l'inammissibilita' del ricorso per mancata
 notifica ad almeno un controinteressato. Nel merito ha  controdedotto
 concludendo per la reiezione del ricorso.
                             D i r i t t o
   Va  pregiudizialmente  esaminata e decisa l'eccezione del comune di
 Padova, secondo cui il ricorso e' inammissibile per mancata  notifica
 ad almeno uno dei controinteressati, per tali intendendosi coloro che
 hanno titolo a partecipare, come riservatari, al concorso interno per
 la  copertura  dei  posti, resisi vacanti a seguito dell'annullamento
 degli inquadramenti dei ricorrenti.
   L'eccezione  e'  infondata  perche'  non  concorrono  entrambi  gli
 elementi  tipici  della  posizione  di  controinteressati, e cioe' la
 menzione  direttamente  contenuta  nel  provvedimento   impugnato   e
 l'interesse alla conservazione dell'atto. Ed e' principio consolidato
 che,  nei  giudizi  aventi  ad  oggetto l'impugnazione di un bando di
 concorso, non riveste posizione di controinteressato in senso tecnico
 il candidato che vanti un interesse qualificato e differenziato  solo
 a   seguito  del  superamento  del  relativo  concorso.  In  siffatta
 evenienza, l'interesse  alla  conservazione  dell'atto  impugnato  e'
 acquisito in un secondo momento e non alla presentazione del ricorso,
 con  conseguente  configurabilita' dell'ipotesi di "controinteressato
 successivo", che nel giudizio amininistrativo non assume la veste ne'
 di parte necessaria ne' di parte formale. Pertanto deve escludersi  a
 carico  del ricorrente l'onere di notificare il ricorso ai potenziali
 aspiranti al concorso (vd.  Cons. St., sez. V, 7 aprile 1992 n.  294;
 id.  20 settembre 1990 n.  684; Cons. giust. amm. Reg. Si. 19 ottobre
 1989, n. 416).
   L'eccezione va quindi disattesa.
   Nel merito, occorre premettere che i ricorrenti sono dipendenti del
 comune di Padova, gia' appartenenti alla quarta qualifica  funzionale
 e  che  furono  inquadrati  ex  art.  34 del d.P.R. n. 333/1990 nella
 quinta qualifica funzionale, in considerazione delle funzioni  svolte
 come  terminalisti  o  conduttori  di  macchine operatrici complesse.
 Cioe' l'amministrazione assegno' ai ricorrenti la qualifica superiore
 in base al citato art. 34, valorizzando le mansioni svolte.   Entrata
 in  vigore la legge n. 127/1997, il comune di Padova ha applicato nei
 loro confronti la norma, contenuta nell'art. 6, comma 17, che  impone
 l'annullamento  dei  provvedimenti  di  inquadramento  del  personale
 effettuato  in  difformita'  dal  d.P.R.  n.  347/1983  e  successive
 modificazioni  ed  integrazioni.    La  disposizione  infatti recita:
 "Entro e non oltre tre mesi dalla data di  entrata  in  vigore  della
 presente   legge   gli   enti  locali  sono  tenuti  ad  annullare  i
 provvedimenti  di  inquadramento  del  personale  adottati  in   modo
 difforme   dalle   disposizioni  del  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica 25 giugno 1983, n.  347,  e  successive  modificazioni  ed
 integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura
 dei  posti  resisi  vacanti  per effetto dell'annullamento. Fino alla
 data di copertura  dei  posti  resisi  disponibili  per  effetto  del
 presente  comma,  il  personale  destinatario  dei  provvedimenti  di
 inquadramento  ivi  indicati  continua   a   svolgere   le   mansioni
 corrispondenti  alla  qualifica  attribuita  con detti provvedimenti,
 mantenendo il relativo  trattamento  economico.  Alla  copertura  dei
 posti  resisi  vacanti  per  effetto  dell'annullamento  si  provvede
 mediante concorsi interni per titoli integrati da colloquio ai  quali
 sono  ammessi  a partecipare i dipendenti appartenenti alla qualifica
 immediatamente inferiore che abbiano svolto  almeno  cinque  anni  di
 effettivo  servizio nella medesima qualifica, nonche' i dipendenti di
 cui al presente  comma  anche  se  provvisti  del  titolo  di  studio
 immediatamente  inferiore  a  quello  prescritto  per  l'accesso alla
 qualifica corrispondente".  I ricorrenti hanno  aizitutto  contestato
 la    correttezza    dell'interpretazione    della    norma   seguita
 dall'amministrazione comunale. Essi infatti ritengono che la norma si
 applichi soltanto  agli  inquadramenti  operati  in  difformita'  dal
 d.P.R.  n.  347  del 1983 e non anche a quelli operati in difformita'
 peraltro in concreto contestata) dai successivi decreti presidenziali
 che hanno approvato gli accordi collettivi del comparto  enti  locali
 (d.P.R.  n.  268  del  1987;  d.P.R.  n.  333 del 1990). Tale assunto
 sarebbe avvalorato dal fatto  che  soltanto  il  d.P.R.  n.  347/1983
 operava  il  primo  inquadramento,  nel  nuovo  regime  degli accordi
 collettivi introdotto dalla legge-quadro sul pubblico impiego  n.  93
 del   1983,   mentre   i  decreti  presidenziali  successivi,  ed  in
 particolare l'art. 34 del  d.P.R.  n.  33  del  1990,  hanno  attuato
 soltanto  limitate  riqualificazioni  di  posizioni  funzionali  gia'
 strutturate.  In tale prospettiva, il  riferimento  alle  "successive
 modificazioni  ed  integrazioni"  del  d.P.R.  n.  347  del  1983 non
 potrebbe essere inteso come  estensione  del  richiamo  agli  accordi
 collettivi  successivi, ma soltanto alle vere e proprie modifiche del
 d.P.R. n. 347 del 1983.  Questa tesi, per quanto suggestiva, non puo'
 essere accolta perche' l'inquadramento  nelle  qualifiche  funzionali
 con   la   configurazione   dei   profili   professionali   e'  stato
 organicamente e compiutamente disciplinato, per la prima  volta  dopo
 la legge-quadro n. 93 del 1983, dal d.P.R. n. 347 del 1983 ragion per
 cui  ogni  norma  contenuta  negli accordi collettivi successivi, che
 abbia disciplinato settorialmente e particolarmente alcune  posizioni
 di  inquadramento,  no'n  puo'  non  qualificarsi come una modifica o
 un'integrazione del citato d.P.R.  n. 347 del 1983.   Cio'  premesso,
 il  collegio tuttavia nutre seri dubbi - in riferimento agli artt. 3,
 5,  24,  97  e  128  della  Costituzione  -  circa  la   legittimita'
 costituzionale  del  citato  art.  6, comma 17, della legge 15 maggio
 1997,  n.  127.  La  questione,   che   il   collegio   ritiene   non
 manifestamente  infondata, e' pregiudiziale rispetto alle censure che
 tengono alla legittimita' della deliberazione con cui detta norma  e'
 stata  applicata ed e' rilevante in quanto dall'essere fondata o meno
 dipende l'esito del  presente  giudizio.    La  disposizione  che  si
 sospetta  di  incostituzionalita'  e' stata introdotta, come e' noto,
 sul solco della pronuncia della Corte costituzionale 9 gennaio  1996,
 n.  1,  con finalita' adeguatrice.   Questa sentenza aveva dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis, della legge
 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge 28 ottobre 1994,  n.
 596,   di   conversione  del  d.-l.  27  agosto  1994  n.  515.    La
 disposizione, dichiarata incostituzionale, recitava: "I provvedimenti
 deliberativi riguardanti il  trattamento  del  personale  degli  enti
 locali  che,  adottati  prima  del  31  agosto 1993, abbiano previsto
 profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle
 disposizioni  contenute  nel  d.P.R.  25  giugno  1983,  n.  347,   e
 successive modificazioni e integrazioni, sono validi ed efficaci.  La
 disposizione del presente comma si applica agli enti locali ancorche'
 dissestati  i  cui  organici,  per  effetto  dei provvedimenti di cui
 sopra, non superino i rapporti  dipendenti-popolazione  previsti  dal
 comma  14  del  presente articolo, cosi' come modificato dall'art.  2
 del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515".
   La  Corte  costituzionale  ha   ritenuto   che   l'ampiezza   della
 disposizione  realizzava una sorta di "sanatoria in bianco" per tutti
 i provvedimenti illegittimi, cioe' non conformi al d.P.R. n. 347  del
 1983,   vanificandone   la   finalita'   di   operare  una  razionale
 organizzazione degli uffici.  Nonostante l'ampia discrezionalita' del
 legislatore nella strutturazione degli  uffici  e  nell'articolazione
 delle  carriere  e la possibilita', in astratto, che una normativa di
 sanatoria si possa giustificare in relazione  al  principio  di  buon
 andamento, la Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto che la citata
 disposizione  fosse  troppo  ampia  ed  indeterminata,  tale  da  non
 consentire di distinguere i  provvedimenti  sanati  e  da  realizzare
 invece  una  negazione del principio di buon andamento e di razionale
 organizzazione  dell'attivita'  amministrativa.    Inoltre  l'effetto
 premiale  realizzava  un  ingiusto vantaggio per autori e beneficiari
 dei provvedimenti illegittimi,  dava  un  esempio  di  "diseducazione
 civile"  e  causava  una  lesione  della  regola del concorso e delle
 relative garanzie di efficienza.  Effettivamente, come  ha  osservato
 la  stessa  Corte  costituzionale, non e' ben chiara l'ampiezza degli
 effetti della disposizione di sanatoria dichiarata  incostituzionale.
 Essa  sembrava applicabile soprattutto ai casi di provvedimenti degli
 enti locali  annullati  dagli  organi  di  controllo  o  dal  giudice
 amministrativo,   o   impugnati   davanti   a  quest'ultimo.     Piu'
 difficilmente e' ipotizzabile che la norma potesse applicarsi anche a
 provvedimenti esecutivi ormai  divenuti  inoppugnabili.    Invece  il
 legislatore, con la norma contenuta nell'art. 6, comma 17 della legge
 n.  127  del 1997, equivocando, come si dira' in appresso, la portata
 ed  il  significato  della  pronuncia  della  Corte,  ha  rimesso  in
 discussione  tutti  i  provvedimenti  di  inquadramento del personale
 degli enti locali, ordinando a questi ultimi di autoannullare  quelli
 difformi dal d.P.R. n. 347/1983 e dagli accordi collettivi successivi
 fino  al  d.P.R.  n.  333/1990  (che  e'  l'ultimo accordo collettivo
 adottato in base all'abrogata legge quadro del pubblico impiego n. 93
 del 1983, prima della privatizzazione  e  della  contrattualizzazione
 disposta  dal  d.lgs.  n.  29/1993 e successive modificazioni).   Una
 disposizione legislativa cosi  vincolante  e  cosi'  generale  sembra
 tuttavia  non  incorrere,  anch'essa,  ed  ancor  piu' di quella gia'
 censurata dalla Corte costuzionale con la  sentenza  n.  1/96,  nella
 violazione di alcuni principi costituzionali, e precisamente:
      1)  degli artt. 3 e 97 Cost., perche' una norma di tale ampiezza
 ed impatto su posizioni giuridiche da tempo consolidate (la legge non
 contiene  limiti  di  tempo  per  l'operazione  di  autoannullamento)
 rappresenta essa stessa la negazione dei principi di buon andamento e
 di razionale e coerente azione amministrativa, che si esprimono nella
 regola  per  cui  l'autotutela  va esercitata non solo per il formale
 ripristino della legalita'  violata  ma  tenendo  conto  anche  delle
 esigenze  di pubblico interesse e del consolidamento delle situazioni
 giuridiche soggettive, come effetto del tempo  trascorso  (in  questo
 senso anche le sentenze nn. 459/94 e 236/92 della C. cost.);
     2) degli artt. 5 e 128 Cost., perche' appare violato il principio
 di  autonomia  degli  enti  locali,  essendo  loro imposto l'utilizzo
 vincolato di uno strumento, l'autotutela, che per principio  dovrebbe
 essere affidato a valutazioni discrezionali nel suo esercizio;
     3)  degli  artt.  3 e 97 Cost., per la violazione dei principi di
 efficienza e  di  razionalizzazione  organizzativa,  essendo  imposto
 autoritativamente  uno  strumento amministrativo ormai difforme dalla
 disciplina privatistica e contrattualistica che governa  il  pubblico
 impiego dopo il d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni;
     4)  degli  artt. 3 e 24 Cost., per la disparita' di trattamento e
 la deteriore tutela giudiziaria che  vengono  a  colpire  coloro  che
 hanno  beneficiato di inquadramenti in base ai tre accordi collettivi
 sopra citati ed il restante personale (inquadrato in base a normative
 diverse), nonche' tra coloro  che  possono  partecipare  ai  concorsi
 interni   per  la  copertura  dei  posti  resisi  vacanti  a  seguito
 dell'annullamento dei provvedimenti di inquadramento e coloro che non
 possono  parteciparvi  per  la  mancanza   dei   requisiti   previsti
 dall'ultimo comma dell'art.  6, comma 17.
   A tal riguardo si deve osservare:
     a)  che  la  finalita'  di giustizia sostanziale e di adeguamento
 alla pronuncia della Corte costituzionale appare eccessiva e comunque
 indeterminata nei suoi effetti, perche', mentre la  citata  norma  di
 "sanatoria  in  bianco",  dichiarata  incostituzionale,  incideva  su
 provvedimenti invalidi  o  inefficaci,  l'autotutela  obbligatoria  e
 straordinaria  incide  invece  su  provvedimenti allo stato validi ed
 efficaci, la cui invalidita' e' ancora da dimostrare;
     b)  che  la  valutazione  di  conformita'  o  difformita'   degli
 inquadramenti  rispetto  ai  citati  accordi collettivi e' pur sempre
 affidata ad interpretazioni delle norme  contrattuali  che  non  sono
 affatto scontate, che hanno prodotto a suo tempo notevole contenzioso
 e  che  in  prospettiva  altro  ne produrranno rinviando nel tempo la
 definizione di situazioni  sino  ad  oggi  basate  su  atti  ritenuti
 inoppugnabili.
     c)  che  l'esercizio  vincolato dell'autotutela va ad incidere su
 posizioni, come detto, ormai  consolidate  e  che  traggono  il  loro
 fondamento  da  provvedimenti  spesso  molto  risalenti nel tempo, in
 evidente violazione dei principi di affidamento  e  di  garanzia  che
 limitano l'esercizio dell'autotutela;
     d)  che  l'azzeramento di tali posizioni non puo' non riflettersi
 sulla  funzionalita'  degli  uffici  con  pregiudizio,  quindi,   del
 pubblico interesse;
     e)  che  neppure  l'obbligo  imposto  agli enti locali di bandire
 contestualmente all'annullamento dei provvedimenti di inquadramento i
 concorsi per i posti resisi vacanti appare una misura equa ed  idonea
 ad evitare un irrimediabile pregiudizio alle posizioni dei dipendenti
 che  dopo  molti  anni,  in  una  situazione  ampiamente consolidata,
 rischiano di perdere  il  posto  occupato,  in  quanto  non  tutti  i
 dipendenti  sono  in  possesso  dei requisiti per partecipare a detti
 concorsi.
     f) che anche per  coloro  i  quali  possiedono  i  requisiti  per
 partecipare  ai  concorsi interni il sistema di ricopertura dei posti
 in tal modo resisi  vacanti  si  profila  alquanto  aleatorio  ed  il
 pregiudizio    irreparabile    non    e'    escluso,    atteso   che,
 nell'eventualita' che  essi  non  risultino  vincitori  dei  concorsi
 interni,  la  loro  sorte  all'interno  dell'ammistrazione resterebbe
 indefinita,  non  essendo  indicato  in  quale posizione della pianta
 organica essi andrebbero a ricollocarsi.
     g) che il danno per chi non riuscisse a recuperare  la  posizione
 con  il  concorso  interno e' comunque maggiore di quello che avrebbe
 comportato un annullamento tempestivo dell'inquadramento,  in  quanto
 negli   anni   trascorsi  sino  ad  oggi,  l'affidamento  riposto  su
 provvedimenti inoppugnabili  e  consolidati  puo'  averli  indotti  a
 trascurare   altre   possibilita'  o  opportunita'  di  carriera  che
 altrimenti avrebbero potuto perseguire;
     h) che sussiste disparita' di trattamento  tra  i  dipendenti  in
 servizio,  colpiti dalla revisione obbligata dell'inquadramento, ed i
 colleghi in pensione che non subiscono  alcuna  conseguenza  negativa
 pur  trovandosi  nella  identica  situazione  rispetto alla finalita'
 della norma (ripristino della legalita'  violata).    In  definitiva,
 mentre  appare  ragionevole  e  giustificato sul piano costituzionale
 paralizzare  sanatorie  destinate  a  perpetuare  la  pratica   della
 legittimazione  a  posteriori  di  atti  illegittimi,  appare grave e
 contrario ai principi costituzionali  obbligare  l'amministrazione  a
 rimettere  in discussione, senza limiti di tempo, "i provvedimenti di
 inquadramento  del  personale  adottati  in   modo   difforme   dalle
 disposizioni  del  decreto  del Presidente della Repubblica 25 giugno
 1983, n. 347 e successive modificazioni ed integrazioni", imponendole
 di rivedere ex novo atti consolidati il cui annullamento non  e'  una
 diretta   conseguenza   della   pronuncia   n.   1/96   della   Corte
 costituzionale quanto piuttosto l'effetto, probabilmente mal valutato
 e dilatato, di  un  principio  (l'agire  secundum  legem  ed  il  suo
 corollario,  rappresentato  dalla  necessita'  del  ripristino  della
 legalita' violata) che la giurisprudenza amministrativa e  la  stessa
 Corte  costituzionale ritengono attuabile solo ove compatibile con il
 principio di pari dignita' e rilievo,  della  certezza  dei  rapporti
 giuridici e della inoppugnabilita' degli atti aministrativi che non a
 caso  sono  assistiti  dalla  presunzione della loro legittimita', al
 punto  che  persino  per  l'esercizio   dell'autotutela   finalizzata
 all'annullamento  di  atti  illegittimi si richiede la sussistenza di
 ragioni di interesse pubblico  concrete  ed  attuali  che  non  siano
 rappresentate  dal puro fine astratto di ristabilire ad ogni costo la
 legalita' violata.  Ne' il collegio ritiene si  possa  obiettare  che
 chi  ha violato la legge ha comunque conseguito un vantaggio ingiusto
 a danno di coloro i quali l'abbiano invece osservata, perche',  anche
 a prescindere dalle situazioni, assai frequenti, in cui la violazione
 della   legge   non   e'   evidente  ma  rappresenta  l'esito  ultimo
 dell'applicazione di norme confuse,  di  situazioni  complesse  e  di
 orientamenti  conflittuali  della  giurisprudenza,  che magari solo a
 distanza di anni trovano una loro affermazione univoca, e' anche noto
 che il sistema possiede strumenti  di  controllo  della  legittimita'
 degli  atti,  certamente imperfetti e fallibili, ma comunque idonei a
 conferire ai provvedimenti amministrativi la stabilita' e la certezza
 che e' essenziale per fondare su di essi rapporti giuridici stabili e
 non esposti al mutevole orientamento delle amministrazioni, e sinanco
 del legislatore.   Donde, una cosa e'  impedire  che  si  consolidino
 effetti  di  provvedimenti  ancora  sub  iudice  o  che  si  creino i
 presupposti per violare le norme giuridiche (ipotesi  alla  quale  si
 riferisce  la  pronuncia n. 1/96 della Corte costituzionale) ed altra
 cosa, affatto diversa, e'  che,  ancorche'  per  finalita'  nobili  e
 valide  sul  piano  astratto (quale quella di non favorire l'idea che
 infrangere le norme sia consentito proprio  nella  prospettiva  della
 sanatoria  dei comportamenti illeciti), si possa pensare di rimettere
 in discussione anche cio' che ormai corrisponde (non per sanatoria ma
 per determinazione provvedimentale consolidata caso per caso) ad atto
 concluso nel rispetto delle regole e del procedimento amministrativo.
 Appare evidente d'altronde che nel  momento  in  cui  il  legislatore
 impone all'amministrazione di rivedere tatti i provvedimenti adottati
 in un determinato settore, con la finalita' generica di annullare gli
 atti  illegittimi, non solo egli ricade nello stesso errore di metodo
 gia' censurato dalla Corte costituzionale (intervento esteso ad  atti
 indefiniti  ed  indifferenziati),  ma  viene  ad  invadere  i  poteri
 riservati alla pubblica amministrazione sotto il duplice profilo  del
 condizionamento  della funzione di amministrazione attiva (obbligo di
 provvedere), di quella di controllo (configurazione di vizi ipotetici
 non riscontrati da alcuno e sollecitazione a rimuoverli), e di quella
 giurisdizionale, (se  ed  in  quanto  l'intervento  comporti,  com'e'
 possibile,  la  revisione  di  atti  adottati  in seguito a pronuncia
 giurisdizionale).  Sotto gli anzidetti profili puo' quindi ravvisarsi
 una   evidente   violazione   dei   principi   di   eguaglianza,   di
 ragionevolezza, di tutela dei diritti e degli interessi legittimi, di
 imparzialita'  e  di  buon  andamento dell'amministrazione nonche' di
 autonomia degli enti locali:  principi recati dagli artt. 3,  5,  24,
 97  e 128 della Costituzione.  Va pertanto sottoposta all'esame della
 Corte costituzionale  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'anzidetta  norma legislativa.  Conseguentemente il processo deve
 essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale.