IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso n. 3330/97 proposto da Schiavon Renzo, Greggio Carlo, Gobbo Claudio, Zorzi Antonio, Zavonello Dario, Gasparin Paolo, Boscaro Roberto, Lunardi Elisa, Franchin Michela, Maran Cristina, Sartorato Mario, Tosini Andrea, Gaspari Roberto, Curto Pasqualino, Diego Marin, Turato Albino, Baldo Pierino, Ligustri Marco, Marigo Pierluigi, Mandolaro Giuseppe, Bedin Luigi, Minotto Michele, Berro Silvano, Santinato Rinaldo (che successivamente ha rinunciato), Piovan Roberto, Boldrin Celestino, Pittaro Otello, Riondato Giorgio, Campagnolo Camilla, Bacchin Maurizio, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Claudio Michelon, con domicilio presso la segreteria del t.a.r. ex art. 35 del r.d. 1054/24; Contro il comune di Padova in persona del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Creuso, con domicilio presso la segreteria del t.a.r. ex art. 35 del regio decreto 1054/24; Per l'annullamento della deliberazione della Giunta comunale 28 luglio 1997, n. 855, con cui sono state annullate le deliberazioni n. 321/95 e n. 912/95 relative agli inquadramenti dei ricorrenti e sono stati indetti concorsi interni per la copertura dei relativi posti resisi vacanti. Visto il ricorso, notificato il 14 novembre 1997 e depositato presso la segreteria il 17 novembre 1997 con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata; Viste le memorie prodotte; Visti gli atti tutti della causa; Uditi alla pubblica udienza del 30 aprile 1998 (relatore il consigliere Lorenzo Stevanato) l'avv. C. Michelon per i ricorrenti e l'avv. Creuso per il comune di Padova. Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue: F a t t o I ricorrenti sono dipendenti del comune di Padova inquadrati ex art. 34 del d.P.R. n. 333/1990 nella qualifica funzionale, con profili professionali di "collaboratore professionale terminalista" e di "conduttore di macchine operatrici complesse". Entrata in vigore la legge n. 127/1997, il comune di Padova ha applicato nei loro confronti la norma, contenuta nell'art. 6, comma 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento del personale effettuato in difformita' dal d.P.R. n. 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni. A sostegno del ricorso in epigrafe vengono dedotti i seguenti motivi: 1) violazione di legge (art. 6, comma 17, della legge n. 127/1997) nel rilievo che le deliberazioni autoannullate non operavano un primo inquadramento secondo il d.P.R. n. 347/1983, ma una riqualificazione di posizioni funzionali gia' inquadrate, prevista da un accordo successivo, e precisamente dall'art. 34 del d.P.R. n. 333/1990 con l'attribuzione non discrezionale di una qualifica superiore collegata allo svolgimento di particolari funzioni (terminalisti e conduttori di macchine operatrici complesse, dalla quarta q.f. alla quinta q.f.). 2) violazione di legge (art. 34 del d.P.R. n. 333/1990) ed eccesso di potere sotto vari profili, nel rilievo che l'autoannullamento e' insufficientemente motivato, non tiene conto che non si tratta del primo inquadramento e che il reinquadramento ex art. 34 del d.P.R. n. 333/1990 e' stato operato a seguito di un'attenta istruttoria con la ricognizione puntuale delle mansioni svolte da ciascuno. L'amministrazione resistente, costituita in giudizio, ha pregiudizialmente eccepito l'inammissibilita' del ricorso per mancata notifica ad almeno un controinteressato. Nel merito ha controdedotto concludendo per la reiezione del ricorso. D i r i t t o Va pregiudizialmente esaminata e decisa l'eccezione del comune di Padova, secondo cui il ricorso e' inammissibile per mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati, per tali intendendosi coloro che hanno titolo a partecipare, come riservatari, al concorso interno per la copertura dei posti, resisi vacanti a seguito dell'annullamento degli inquadramenti dei ricorrenti. L'eccezione e' infondata perche' non concorrono entrambi gli elementi tipici della posizione di controinteressati, e cioe' la menzione direttamente contenuta nel provvedimento impugnato e l'interesse alla conservazione dell'atto. Ed e' principio consolidato che, nei giudizi aventi ad oggetto l'impugnazione di un bando di concorso, non riveste posizione di controinteressato in senso tecnico il candidato che vanti un interesse qualificato e differenziato solo a seguito del superamento del relativo concorso. In siffatta evenienza, l'interesse alla conservazione dell'atto impugnato e' acquisito in un secondo momento e non alla presentazione del ricorso, con conseguente configurabilita' dell'ipotesi di "controinteressato successivo", che nel giudizio amininistrativo non assume la veste ne' di parte necessaria ne' di parte formale. Pertanto deve escludersi a carico del ricorrente l'onere di notificare il ricorso ai potenziali aspiranti al concorso (vd. Cons. St., sez. V, 7 aprile 1992 n. 294; id. 20 settembre 1990 n. 684; Cons. giust. amm. Reg. Si. 19 ottobre 1989, n. 416). L'eccezione va quindi disattesa. Nel merito, occorre premettere che i ricorrenti sono dipendenti del comune di Padova, gia' appartenenti alla quarta qualifica funzionale e che furono inquadrati ex art. 34 del d.P.R. n. 333/1990 nella quinta qualifica funzionale, in considerazione delle funzioni svolte come terminalisti o conduttori di macchine operatrici complesse. Cioe' l'amministrazione assegno' ai ricorrenti la qualifica superiore in base al citato art. 34, valorizzando le mansioni svolte. Entrata in vigore la legge n. 127/1997, il comune di Padova ha applicato nei loro confronti la norma, contenuta nell'art. 6, comma 17, che impone l'annullamento dei provvedimenti di inquadramento del personale effettuato in difformita' dal d.P.R. n. 347/1983 e successive modificazioni ed integrazioni. La disposizione infatti recita: "Entro e non oltre tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge gli enti locali sono tenuti ad annullare i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni ed integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell'annullamento. Fino alla data di copertura dei posti resisi disponibili per effetto del presente comma, il personale destinatario dei provvedimenti di inquadramento ivi indicati continua a svolgere le mansioni corrispondenti alla qualifica attribuita con detti provvedimenti, mantenendo il relativo trattamento economico. Alla copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell'annullamento si provvede mediante concorsi interni per titoli integrati da colloquio ai quali sono ammessi a partecipare i dipendenti appartenenti alla qualifica immediatamente inferiore che abbiano svolto almeno cinque anni di effettivo servizio nella medesima qualifica, nonche' i dipendenti di cui al presente comma anche se provvisti del titolo di studio immediatamente inferiore a quello prescritto per l'accesso alla qualifica corrispondente". I ricorrenti hanno aizitutto contestato la correttezza dell'interpretazione della norma seguita dall'amministrazione comunale. Essi infatti ritengono che la norma si applichi soltanto agli inquadramenti operati in difformita' dal d.P.R. n. 347 del 1983 e non anche a quelli operati in difformita' peraltro in concreto contestata) dai successivi decreti presidenziali che hanno approvato gli accordi collettivi del comparto enti locali (d.P.R. n. 268 del 1987; d.P.R. n. 333 del 1990). Tale assunto sarebbe avvalorato dal fatto che soltanto il d.P.R. n. 347/1983 operava il primo inquadramento, nel nuovo regime degli accordi collettivi introdotto dalla legge-quadro sul pubblico impiego n. 93 del 1983, mentre i decreti presidenziali successivi, ed in particolare l'art. 34 del d.P.R. n. 33 del 1990, hanno attuato soltanto limitate riqualificazioni di posizioni funzionali gia' strutturate. In tale prospettiva, il riferimento alle "successive modificazioni ed integrazioni" del d.P.R. n. 347 del 1983 non potrebbe essere inteso come estensione del richiamo agli accordi collettivi successivi, ma soltanto alle vere e proprie modifiche del d.P.R. n. 347 del 1983. Questa tesi, per quanto suggestiva, non puo' essere accolta perche' l'inquadramento nelle qualifiche funzionali con la configurazione dei profili professionali e' stato organicamente e compiutamente disciplinato, per la prima volta dopo la legge-quadro n. 93 del 1983, dal d.P.R. n. 347 del 1983 ragion per cui ogni norma contenuta negli accordi collettivi successivi, che abbia disciplinato settorialmente e particolarmente alcune posizioni di inquadramento, no'n puo' non qualificarsi come una modifica o un'integrazione del citato d.P.R. n. 347 del 1983. Cio' premesso, il collegio tuttavia nutre seri dubbi - in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 97 e 128 della Costituzione - circa la legittimita' costituzionale del citato art. 6, comma 17, della legge 15 maggio 1997, n. 127. La questione, che il collegio ritiene non manifestamente infondata, e' pregiudiziale rispetto alle censure che tengono alla legittimita' della deliberazione con cui detta norma e' stata applicata ed e' rilevante in quanto dall'essere fondata o meno dipende l'esito del presente giudizio. La disposizione che si sospetta di incostituzionalita' e' stata introdotta, come e' noto, sul solco della pronuncia della Corte costituzionale 9 gennaio 1996, n. 1, con finalita' adeguatrice. Questa sentenza aveva dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 6-bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dalla legge 28 ottobre 1994, n. 596, di conversione del d.-l. 27 agosto 1994 n. 515. La disposizione, dichiarata incostituzionale, recitava: "I provvedimenti deliberativi riguardanti il trattamento del personale degli enti locali che, adottati prima del 31 agosto 1993, abbiano previsto profili professionali od operato inquadramenti in modo difforme dalle disposizioni contenute nel d.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni e integrazioni, sono validi ed efficaci. La disposizione del presente comma si applica agli enti locali ancorche' dissestati i cui organici, per effetto dei provvedimenti di cui sopra, non superino i rapporti dipendenti-popolazione previsti dal comma 14 del presente articolo, cosi' come modificato dall'art. 2 del d.-l. 27 agosto 1994, n. 515". La Corte costituzionale ha ritenuto che l'ampiezza della disposizione realizzava una sorta di "sanatoria in bianco" per tutti i provvedimenti illegittimi, cioe' non conformi al d.P.R. n. 347 del 1983, vanificandone la finalita' di operare una razionale organizzazione degli uffici. Nonostante l'ampia discrezionalita' del legislatore nella strutturazione degli uffici e nell'articolazione delle carriere e la possibilita', in astratto, che una normativa di sanatoria si possa giustificare in relazione al principio di buon andamento, la Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto che la citata disposizione fosse troppo ampia ed indeterminata, tale da non consentire di distinguere i provvedimenti sanati e da realizzare invece una negazione del principio di buon andamento e di razionale organizzazione dell'attivita' amministrativa. Inoltre l'effetto premiale realizzava un ingiusto vantaggio per autori e beneficiari dei provvedimenti illegittimi, dava un esempio di "diseducazione civile" e causava una lesione della regola del concorso e delle relative garanzie di efficienza. Effettivamente, come ha osservato la stessa Corte costituzionale, non e' ben chiara l'ampiezza degli effetti della disposizione di sanatoria dichiarata incostituzionale. Essa sembrava applicabile soprattutto ai casi di provvedimenti degli enti locali annullati dagli organi di controllo o dal giudice amministrativo, o impugnati davanti a quest'ultimo. Piu' difficilmente e' ipotizzabile che la norma potesse applicarsi anche a provvedimenti esecutivi ormai divenuti inoppugnabili. Invece il legislatore, con la norma contenuta nell'art. 6, comma 17 della legge n. 127 del 1997, equivocando, come si dira' in appresso, la portata ed il significato della pronuncia della Corte, ha rimesso in discussione tutti i provvedimenti di inquadramento del personale degli enti locali, ordinando a questi ultimi di autoannullare quelli difformi dal d.P.R. n. 347/1983 e dagli accordi collettivi successivi fino al d.P.R. n. 333/1990 (che e' l'ultimo accordo collettivo adottato in base all'abrogata legge quadro del pubblico impiego n. 93 del 1983, prima della privatizzazione e della contrattualizzazione disposta dal d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni). Una disposizione legislativa cosi vincolante e cosi' generale sembra tuttavia non incorrere, anch'essa, ed ancor piu' di quella gia' censurata dalla Corte costuzionale con la sentenza n. 1/96, nella violazione di alcuni principi costituzionali, e precisamente: 1) degli artt. 3 e 97 Cost., perche' una norma di tale ampiezza ed impatto su posizioni giuridiche da tempo consolidate (la legge non contiene limiti di tempo per l'operazione di autoannullamento) rappresenta essa stessa la negazione dei principi di buon andamento e di razionale e coerente azione amministrativa, che si esprimono nella regola per cui l'autotutela va esercitata non solo per il formale ripristino della legalita' violata ma tenendo conto anche delle esigenze di pubblico interesse e del consolidamento delle situazioni giuridiche soggettive, come effetto del tempo trascorso (in questo senso anche le sentenze nn. 459/94 e 236/92 della C. cost.); 2) degli artt. 5 e 128 Cost., perche' appare violato il principio di autonomia degli enti locali, essendo loro imposto l'utilizzo vincolato di uno strumento, l'autotutela, che per principio dovrebbe essere affidato a valutazioni discrezionali nel suo esercizio; 3) degli artt. 3 e 97 Cost., per la violazione dei principi di efficienza e di razionalizzazione organizzativa, essendo imposto autoritativamente uno strumento amministrativo ormai difforme dalla disciplina privatistica e contrattualistica che governa il pubblico impiego dopo il d.lgs. n. 29/1993 e successive modificazioni; 4) degli artt. 3 e 24 Cost., per la disparita' di trattamento e la deteriore tutela giudiziaria che vengono a colpire coloro che hanno beneficiato di inquadramenti in base ai tre accordi collettivi sopra citati ed il restante personale (inquadrato in base a normative diverse), nonche' tra coloro che possono partecipare ai concorsi interni per la copertura dei posti resisi vacanti a seguito dell'annullamento dei provvedimenti di inquadramento e coloro che non possono parteciparvi per la mancanza dei requisiti previsti dall'ultimo comma dell'art. 6, comma 17. A tal riguardo si deve osservare: a) che la finalita' di giustizia sostanziale e di adeguamento alla pronuncia della Corte costituzionale appare eccessiva e comunque indeterminata nei suoi effetti, perche', mentre la citata norma di "sanatoria in bianco", dichiarata incostituzionale, incideva su provvedimenti invalidi o inefficaci, l'autotutela obbligatoria e straordinaria incide invece su provvedimenti allo stato validi ed efficaci, la cui invalidita' e' ancora da dimostrare; b) che la valutazione di conformita' o difformita' degli inquadramenti rispetto ai citati accordi collettivi e' pur sempre affidata ad interpretazioni delle norme contrattuali che non sono affatto scontate, che hanno prodotto a suo tempo notevole contenzioso e che in prospettiva altro ne produrranno rinviando nel tempo la definizione di situazioni sino ad oggi basate su atti ritenuti inoppugnabili. c) che l'esercizio vincolato dell'autotutela va ad incidere su posizioni, come detto, ormai consolidate e che traggono il loro fondamento da provvedimenti spesso molto risalenti nel tempo, in evidente violazione dei principi di affidamento e di garanzia che limitano l'esercizio dell'autotutela; d) che l'azzeramento di tali posizioni non puo' non riflettersi sulla funzionalita' degli uffici con pregiudizio, quindi, del pubblico interesse; e) che neppure l'obbligo imposto agli enti locali di bandire contestualmente all'annullamento dei provvedimenti di inquadramento i concorsi per i posti resisi vacanti appare una misura equa ed idonea ad evitare un irrimediabile pregiudizio alle posizioni dei dipendenti che dopo molti anni, in una situazione ampiamente consolidata, rischiano di perdere il posto occupato, in quanto non tutti i dipendenti sono in possesso dei requisiti per partecipare a detti concorsi. f) che anche per coloro i quali possiedono i requisiti per partecipare ai concorsi interni il sistema di ricopertura dei posti in tal modo resisi vacanti si profila alquanto aleatorio ed il pregiudizio irreparabile non e' escluso, atteso che, nell'eventualita' che essi non risultino vincitori dei concorsi interni, la loro sorte all'interno dell'ammistrazione resterebbe indefinita, non essendo indicato in quale posizione della pianta organica essi andrebbero a ricollocarsi. g) che il danno per chi non riuscisse a recuperare la posizione con il concorso interno e' comunque maggiore di quello che avrebbe comportato un annullamento tempestivo dell'inquadramento, in quanto negli anni trascorsi sino ad oggi, l'affidamento riposto su provvedimenti inoppugnabili e consolidati puo' averli indotti a trascurare altre possibilita' o opportunita' di carriera che altrimenti avrebbero potuto perseguire; h) che sussiste disparita' di trattamento tra i dipendenti in servizio, colpiti dalla revisione obbligata dell'inquadramento, ed i colleghi in pensione che non subiscono alcuna conseguenza negativa pur trovandosi nella identica situazione rispetto alla finalita' della norma (ripristino della legalita' violata). In definitiva, mentre appare ragionevole e giustificato sul piano costituzionale paralizzare sanatorie destinate a perpetuare la pratica della legittimazione a posteriori di atti illegittimi, appare grave e contrario ai principi costituzionali obbligare l'amministrazione a rimettere in discussione, senza limiti di tempo, "i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347 e successive modificazioni ed integrazioni", imponendole di rivedere ex novo atti consolidati il cui annullamento non e' una diretta conseguenza della pronuncia n. 1/96 della Corte costituzionale quanto piuttosto l'effetto, probabilmente mal valutato e dilatato, di un principio (l'agire secundum legem ed il suo corollario, rappresentato dalla necessita' del ripristino della legalita' violata) che la giurisprudenza amministrativa e la stessa Corte costituzionale ritengono attuabile solo ove compatibile con il principio di pari dignita' e rilievo, della certezza dei rapporti giuridici e della inoppugnabilita' degli atti aministrativi che non a caso sono assistiti dalla presunzione della loro legittimita', al punto che persino per l'esercizio dell'autotutela finalizzata all'annullamento di atti illegittimi si richiede la sussistenza di ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali che non siano rappresentate dal puro fine astratto di ristabilire ad ogni costo la legalita' violata. Ne' il collegio ritiene si possa obiettare che chi ha violato la legge ha comunque conseguito un vantaggio ingiusto a danno di coloro i quali l'abbiano invece osservata, perche', anche a prescindere dalle situazioni, assai frequenti, in cui la violazione della legge non e' evidente ma rappresenta l'esito ultimo dell'applicazione di norme confuse, di situazioni complesse e di orientamenti conflittuali della giurisprudenza, che magari solo a distanza di anni trovano una loro affermazione univoca, e' anche noto che il sistema possiede strumenti di controllo della legittimita' degli atti, certamente imperfetti e fallibili, ma comunque idonei a conferire ai provvedimenti amministrativi la stabilita' e la certezza che e' essenziale per fondare su di essi rapporti giuridici stabili e non esposti al mutevole orientamento delle amministrazioni, e sinanco del legislatore. Donde, una cosa e' impedire che si consolidino effetti di provvedimenti ancora sub iudice o che si creino i presupposti per violare le norme giuridiche (ipotesi alla quale si riferisce la pronuncia n. 1/96 della Corte costituzionale) ed altra cosa, affatto diversa, e' che, ancorche' per finalita' nobili e valide sul piano astratto (quale quella di non favorire l'idea che infrangere le norme sia consentito proprio nella prospettiva della sanatoria dei comportamenti illeciti), si possa pensare di rimettere in discussione anche cio' che ormai corrisponde (non per sanatoria ma per determinazione provvedimentale consolidata caso per caso) ad atto concluso nel rispetto delle regole e del procedimento amministrativo. Appare evidente d'altronde che nel momento in cui il legislatore impone all'amministrazione di rivedere tatti i provvedimenti adottati in un determinato settore, con la finalita' generica di annullare gli atti illegittimi, non solo egli ricade nello stesso errore di metodo gia' censurato dalla Corte costituzionale (intervento esteso ad atti indefiniti ed indifferenziati), ma viene ad invadere i poteri riservati alla pubblica amministrazione sotto il duplice profilo del condizionamento della funzione di amministrazione attiva (obbligo di provvedere), di quella di controllo (configurazione di vizi ipotetici non riscontrati da alcuno e sollecitazione a rimuoverli), e di quella giurisdizionale, (se ed in quanto l'intervento comporti, com'e' possibile, la revisione di atti adottati in seguito a pronuncia giurisdizionale). Sotto gli anzidetti profili puo' quindi ravvisarsi una evidente violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza, di tutela dei diritti e degli interessi legittimi, di imparzialita' e di buon andamento dell'amministrazione nonche' di autonomia degli enti locali: principi recati dagli artt. 3, 5, 24, 97 e 128 della Costituzione. Va pertanto sottoposta all'esame della Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'anzidetta norma legislativa. Conseguentemente il processo deve essere sospeso e gli atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale.