ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 51, numero 4,
 del codice di procedura civile e degli artt. 25, n. 1, 23  e  26  del
 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
 preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della liquidazione
 coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 27  febbraio
 1997 dal Tribunale di Reggio Emilia sul reclamo proposto da S.A.I.PA.
 -  Societa' Agricola Industriale Padana s.r.l. iscritta al n. 458 del
 registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell'anno 1997.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di  consiglio  del  1  luglio  1998  il  giudice
 relatore Cesare Ruperto.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel  corso  di un giudizio di reclamo ex art. 26 della legge
 fallimentare, proposto avverso un provvedimento con  cui  il  giudice
 delegato  aveva  dichiarato l'inefficacia di un'offerta in aumento di
 sesto in un procedimento d'incanto, il Tribunale  di  Reggio  Emilia,
 con  ordinanza  emessa  il  27  febbraio  1997,  ha  sollevato  -  in
 riferimento agli artt. 3 e  24  della  Costituzione  -  questioni  di
 legittimita'  costituzionale:  a)  dell'art.  51, n. 4, del codice di
 procedura civile, nella parte in cui prevede l'obbligo di  astensione
 del  giudice  che  abbia  conosciuto  della  causa in altro grado del
 processo,  "in  quanto  non  applicabile  al  giudice   delegato   al
 fallimento chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso
 provvedimenti  decisori da lui stesso emessi"; b) dell'art. 25, n. 1,
 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina  del  fallimento,
 del  concordato  preventivo, dell'amministrazione controllata e della
 liquidazione coatta amministrativa), nella parte  in  cui  stabilisce
 che  il  giudice  delegato  riferisce  al  tribunale,  allorche'  sia
 richiesto un provvedimento collegiale, anche  nel  caso  in  cui  sia
 proposto  reclamo avverso provvedimenti da lui emessi; c) degli artt.
 23 e 26 della stessa legge  fallimentare,  nella  parte  in  cui  non
 escludono  che  del  collegio,  che decide in sede di reclamo avverso
 provvedimenti decisori su diritti  soggettivi,  possa  far  parte  il
 giudice delegato che tali provvedimenti ha emesso.
   Premette   il  rimettente  di  ritenere  come  "unica  ammissibile"
 l'interpretazione  della  Corte  di  cassazione,   secondo   cui   la
 partecipazione del giudice delegato al collegio decidente sul reclamo
 avverso  i  provvedimenti  da  lui  emessi,  trova la sua ragione nel
 principio di concentrazione processuale di  ogni  controversia  negli
 organi  della procedura, nonche' nella posizione del giudice delegato
 che garantisce la rapidita' delle fasi processuali, la continuita'  e
 conoscenza delle situazioni coinvolte, cosi' escludendo la violazione
 dell'art.  51,  n.  4,  del codice di procedura civile. E tale norma,
 peraltro -  secondo  una  giurisprudenza  ormai  consolidata  -,  non
 impedirebbe  comunque  la  partecipazione  del  giudice  delegato  al
 collegio   decidente   sul   reclamo   endofallimentare,    dovendosi
 restrittivamente intendere il concetto di "grado".
   Ma, secondo il giudice a quo le recenti affermazioni rese da questa
 Corte in materia di processo penale, con riferimento all'art. 34 cod.
 proc.  pen. - in particolare nella sentenza n. 131 del 1996 - rendono
 evidente il contrasto del suddetto art. 51 con gli evocati  parametri
 costituzionali.
   Osserva,  infatti, il rimettente come il reclamo previsto dall'art.
 26 della legge fallimentare abbia certamente natura  impugnatoria  di
 un  provvedimento  incidente  su  diritti  soggettivi,  la'  dove non
 rappresenta uno  sviluppo  o  completamento  di  questo,  bensi'  una
 reazione  vo'lta  ad  annullarlo  o  sostituirlo. Da cio', la lesione
 dell'art.    24  Cost.,  per  la  violazione  del   principio   della
 prevenzione  -  cosi'  come  lumeggiato dalla richiamata decisione di
 questa Corte - e dell'art.  3 della Costituzione per la disparita' di
 trattamento rispetto al regime che vale per i creditori al  di  fuori
 delle procedure fallimentari.
   2.  -  E'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che  ha  concluso
 per  l'inammissibilita'  ovvero  per  l'infondatezza della questione,
 ricordando anzitutto come, per quanto riguarda l'art. 51  cod.  proc.
 civ.,  il grado del processo indica il momento processuale al termine
 del quale il giudice si spoglia della controversia, di talche',  come
 nel sistema del processo esecutivo, la partecipazione del giudice che
 abbia  emesso  il  provvedimento  impugnato  ad  una  fase  decisoria
 successiva risulta conforme al  senso  della  norma,  in  particolare
 garantendo,  nel  caso  del fallimento, la rapidita' delle varie fasi
 processuali.
   Osserva  altresi'  l'Avvocatura  che  in  subiecta  materia   vanno
 conciliate   la   tutela   d'interessi  non  strettamente  privati  e
 l'esigenza di un giudice imparziale, con  sostanziali  differenze  di
 funzioni   e   caratteristiche  rispetto  al  procedimento  cautelare
 uniforme ma, soprattutto, con una "inestensibilita' al  caso  de  quo
 della giurisprudenza della Corte in materia di incompatibilita'".
                        Considerato in diritto
   1.  -  Il  Tribunale  di  Reggio  Emilia  dubita della legittimita'
 costituzionale dell'art. 51, n. 4, cod. proc.  civ.,  in  quanto  non
 prevede  l'obbligo  d'astensione  del giudice delegato al fallimento,
 chiamato a  comporre  il  collegio  in  sede  di  reclamo  avverso  i
 provvedimenti  decisori  da lui stesso emessi ed incidenti su diritti
 soggettivi. La censura - sollevata in riferimento agli artt. 3  e  24
 Cost.,  in  ragione del differente trattamento riservato ai creditori
 al di fuori delle procedure concorsuali, nonche'  della  compressione
 del diritto di difesa, cagionata dalla "forza della prevenzione" - e'
 dal  giudice  a  quo  estesa  agli artt. 23, 25, n. 1, e 26 del regio
 decreto 16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del
 concordato   preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della
 liquidazione coatta amministrativa), rispettivamente, nella parte  in
 cui  prevedono che il giudice delegato riferisca al tribunale in caso
 di richiesta di provvedimento collegiale anche quando  si  tratti  di
 reclamo  avverso provvedimenti da lui emessi e nella parte in cui non
 escludono, nella stessa ipotesi, la  partecipazione  al  collegio  di
 detto giudice.
   2. - Le questioni non sono fondate.
   2.1.  -  L'istituto del reclamo al tribunale fallimentare avverso i
 provvedimenti adottati dal giudice delegato nell'esercizio  dei  suoi
 molteplici poteri decisori e' stato oggetto di una serie d'interventi
 di  questa  Corte,  vo'lti ad assicurare le garanzie fondamentali del
 diritto di difesa.
   Le  decisioni  rese  con   riferimento   al   reclamo   avverso   i
 provvedimenti  incidenti  su  diritti  soggettivi  (ed in particolare
 avverso i decreti di ripartizione dell'attivo: cfr. sentenze  n.  118
 del  1963  e n. 42 del 1981) - attraverso le quali venivano censurate
 la brevita' dei termini, la decorrenza  degli  stessi  a  prescindere
 dalla   conoscenza  dell'interessato,  la  mancanza  dell'obbligo  di
 motivazione  nonche'  la  facoltativita'  della  motivazione  -   non
 trovavano una risposta nell'attivita' del legislatore. Tali sentenze,
 tuttavia,  inducevano  le  sezioni unite della Corte di cassazione ad
 una ricostruzione del sistema, intesa a colmare le  descritte  lacune
 procedimentali   rendendo  applicabile  al  reclamo  fallimentare  la
 normativa dettata dagli artt.  da 737 a 742-bis cod. proc. civ. per i
 procedimenti  camerali.  E   di   siffatta   "costituzionalizzazione"
 dell'istituto   prendeva  sostanzialmente  atto  questa  Corte  nelle
 successive decisioni concernenti ulteriori aspetti  del  reclamo  (v.
 sentenze n. 303 del 1965, n. 55 e, in particolare, n. 156 del 1986).
   La qualificazione del reclamo - risultante dall'art. 739 cod. proc.
 civ.  come  grado ulteriore del giudizio, non e' pero' estensibile al
 reclamo fallimentare, il  quale  rimane  infatti  nell'a'mbito  della
 stessa  fase  processuale,  essendo  da  considerarsi come un momento
 dell'iter della procedura concorsuale, le cui peculiarita'  impongono
 speciali esigenze di continuita'. Di queste esigenze - come meglio si
 dira'  -  il  giudice  delegato  e'  sostanzialmente il garante; e in
 funzione di tale ruolo viene previsto dal denunciato art. 25, n.   1,
 il  permanente  raccordo che lo lega al collegio attraverso l'obbligo
 di riferire ad esso su ogni affare per  il  quale  sia  richiesto  un
 provvedimento del collegio medesimo.
   E'  proprio  codesta  configurazione  del  reclamo  fallimentare, a
 comportare nella specie la non operativita' dell'art. 51, n. 4,  cod.
 proc.  civ.,  e quindi la mancanza di un obbligo di astensione; della
 quale appunto si duole il giudice  a  quo,  che  percio'  richiede  a
 questa  Corte  una  pronuncia  additiva,  argomentando  anche ex art.
 669-terdecies, comma 2, dello stesso codice.
   2.2.  -  Orbene,  a  proposito  di  quest'ultima  disposizione,  va
 osservato  che  con  essa  e'  stato  introdotto  un  diverso  e piu'
 articolato modello di reclamo nell'a'mbito del procedimento cautelare
 uniforme. Ma la scelta legislativa - intesa a realizzare una  maggior
 garanzia  in  sede  di controllo - nel senso di precludere al giudice
 che ha emesso il provvedimento di partecipare al  collegio  che  deve
 decidere  il reclamo, non rappresenta un archetipo assoluto cui debba
 uniformarsi  necessariamente  tutto  il   sistema   processuale.   Il
 legislatore  e'  libero di assicurare in forme diverse, a seconda dei
 vari modelli di processo, le garanzie  inerenti  all'esercizio  della
 giurisdizione,   purche'  rispetti  i  limiti  segnati  dai  precetti
 costituzionali.  E,   d'altronde,   appaiono   evidenti   i   profili
 distintivi,  destinati  a  riflettersi nella diversita' delle fasi di
 controllo, tra il  procedimento  cautelare  uniforme  e  il  processo
 fallimentare (anche con riguardo a momenti cautelari).
   2.3.   -   In  tale  processo,  anche  per  la  spiccata  rilevanza
 pubblicistica dell'istituto del  fallimento,  trova  un'accentuazione
 del   tutto  particolare  il  principio  di  concentrazione  di  ogni
 controversia presso gli organi del fallimento medesimo: il che - come
 si e' gia' sottolineato nella sentenza n. 158 del 1970  -  "determina
 collegamenti  ed  interferenze  processuali  inevitabili, percio' non
 rilevabili agli effetti della  legittimazione  del  giudice,  per  la
 prevalente  apprezzabile  esigenza  di  portare  allo  stesso  organo
 giurisdizionale tutto il procedimento e di ridurlo ad unita'".
   Il giudice delegato, attraverso la molteplicita'  dei  suoi  poteri
 (amministrativi,   decisori,  cautelari),  assicura  la  rapidita'  e
 continuita' delle fasi processuali -  valori  anch'essi  specifici  e
 prevalenti  nelle  procedure  concorsuali  -  grazie alla presumibile
 compiutezza della sua conoscenza  di  fatti,  rapporti  e  situazioni
 soggettive  ed  oggettive  della  procedura (cfr. sentenze n. 351 del
 1997 e n. 148 del 1996). Conoscenza, che non puo' andare dispersa,  e
 che  deve  rapportarsi  in  modo  costante e diretto (non bastando ad
 assicurare il valore della  celerita'  -  allo  stato  attuale  della
 disciplina  complessiva  della  procedura  de  qua - una relazione in
 forma diversa, meno immediata) con il  tribunale  fallimentare,  alla
 cui  collegialita' non a caso la recente novella ha riservato anche i
 giudizi contemplati dal denunciato art. 23, ed  i  cui  decreti  sono
 certamente  ricorribili ex art. 111 della Costituzione ogni volta che
 questi siano connotati dalla decisorieta' propria  della  sentenza  e
 vengano cosi' ad incidere definitivamente su diritti soggettivi.
   2.4.  -  Valutando  la  posizione  del giudice delegato in una tale
 prospettiva, tutta endofallimentare (e  coerente  con  l'impostazione
 dell'intero  regio  decreto  n.  267  del 1942), appare evidente come
 dall'unita' funzionale  della  sua  complessa  figura  non  sia  dato
 scorporare   singoli   profili,   onde  costruire  riguardo  ad  essi
 l'invocato obbligo di astensione.
   Un'operazione siffatta,  che  verrebbe  ad  incidere  profondamente
 nella  struttura  del  processo  fallimentare,  non  puo'  non essere
 riservata al legislatore. E dunque, in questa sede,  rimane  solo  da
 ribadire  l'auspicio  che sia provveduto senza ulteriore ritardo alla
 tanto attesa riforma legislativa dell'istituto fallimentare  nel  suo
 insieme,   secondo   forme   meglio  rispondenti  ad  un  equilibrato
 bilanciamento tra i diversi  valori  costituzionali  che  vengono  in
 considerazione con riguardo all'istituto stesso.
   2.5. - Quanto sopra osservato, in coerenza con tutto l'orientamento
 giurisprudenziale  di  questa Corte in tema di processo fallimentare,
 non risulta certo smentito dall'enunciazione di  princi'pi  contenuta
 nelle pronunce relative all'art. 34 cod. proc. pen., e in particolare
 nella  sentenza  n.  131 del 1996, richiamata dal rimettente per dare
 consistenza  al  suo  dubbio  di  illegittimita'  costituzionale   in
 riferimento all'art. 24 Cost.
   Nella  sentenza  n. 326 del 1997 - non ancora pubblicata al momento
 della pronuncia dell'ordinanza di rimessione - si e'  gia'  precisato
 che    le    caratteristiche   del   processo   penale,   finalizzato
 all'accertamento  del  fatto  ascritto  all'imputato,  a  sua   volta
 costantemente assistito dal favor rei non consentono di trasporre sic
 et   simpliciter   nel   processo  civile  le  considerazioni  svolte
 relativamente a quello.  Qui basta aggiungere che cio' non  puo'  non
 valere  a  maggior  ragione  con  riguardo  alla peculiare disciplina
 fallimentare.
   2.6.  -  Proprio  codesta  peculiarita',  che  si manifesta anche e
 segnatamente sul piano  degli  effetti  sostanziali  del  fallimento,
 rende  parimenti impossibile comparare la posizione dei creditori che
 agiscono esecutivamente al di fuori  delle  procedure  concorsuali  -
 richiamata   quale   tertium   comparationis   dal   rimettente   nel
 prospettare, peraltro in  via  del  tutto  marginale,  la  violazione
 dell'art.  3  della  Costituzione  -  con  la posizione dei creditori
 fallimentari.
   Come questa Corte ha  di  recente  affermato,  la  declaratoria  di
 fallimento,  cui  consegue la necessitata concorsualita' delle azioni
 esecutive  dei  creditori,  "vale  a  legittimare  la  diversita'  di
 disciplina  che  il  legislatore  detta  in relazione alle situazioni
 poste (come sopra) a raffronto" (sentenza n. 234 del 1998).