ha pronunciato la seguente Ordinanza nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 323 cod. pen. nel testo vigente prima della modifica apportata dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell'articolo 323 del codice penale in materia di abuso d'ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), promossi: 1) con ordinanze emesse il 5 febbraio 1998 e il 7 maggio 1998 dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, iscritte ai nn. 206 e 454 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 14 e 26, prima serie speciale, dell'anno 1998; 2) con ordinanze emesse il 13 gennaio 1998, 2 dicembre 1997, 27 gennaio 1998, 23 gennaio 1998, 27 febbraio 1998 e 24 febbraio 1998 dal Tribunale di Sondrio, iscritte ai nn. 249, 250, 251, 252, 409 e 410 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 24, prima serie speciale, dell'anno 1998. Udito nella camera di consiglio del 14 ottobre 1998 il giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto che, con cinque ordinanze emanate fra il 2 dicembre 1997 e il 27 febbraio 1998 (r.o. nn. da 249 a 252 e 409 del 1998), il Tribunale di Sondrio ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 323 cod. pen. (Abuso d'ufficio), nel testo vigente prima della novella recata dall'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica dell'articolo 323 del codice penale in materia di abuso d'ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del codice di procedura penale), per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione; che analoga questione, in riferimento, oltre che all'art. 25, secondo comma, anche all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, e' stata sollevata dal Tribunale di Sondrio con una ulteriore ordinanza emessa il 24 febbraio 1998 (r.o. n. 410 del 1998); che, a sua volta, il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Sondrio, con due ordinanze emesse rispettivamente il 5 febbraio e il 7 maggio 1998 (r.o. nn. 206 e 454 del 1998), ha sollevato analoga questione di legittimita' costituzionale del medesimo art. 323 cod. pen., nel testo previgente, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma, nonche' - nell'ordinanza iscritta al n. 454 del 1998 - all'art. 97 della Costituzione; che la rilevanza della questione e' ritenuta dai remittenti sulla base della considerazione che i fatti di cui e' giudizio, commessi all'epoca in cui era in vigore la norma denunciata, appaiono astrattamente sussumibili anche nella fattispecie dell'art. 323 cod. pen. come sostituito dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997, onde non potrebbe pervenirsi ad una pronuncia di non doversi procedere perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, del codice penale; e che d'altra parte la soluzione del dubbio di legittimita' costituzionale del precedente testo dell'art. 323 e' necessaria, a giudizio dei giudici a quibus dovendosi, in caso di dichiarazione di illegittimita' costituzionale della predetta norma, cui conseguirebbe la caducazione ex tunc della medesima, pervenire ad una pronuncia di proscioglimento perche' il fatto non costituiva reato all'epoca in cui fu commesso, ai sensi dell'art. 2, primo comma, del codice penale; che, quanto alla non manifesta infondatezza, le ordinanze richiamano il principio di tassativita' delle norme incriminatrici - derivante dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione - che esprimerebbe l'esigenza di evitare la genericita' e l'indeterminatezza della fattispecie, in modo che sia assicurata al giudice la possibilita' di individuare, a mezzo degli usuali metodi ermeneutici, la condotta penalmente rilevante, nonche' (secondo le ordinanze nn. 206, 410 e 454 del 1998) in modo che sia consentito ai consociati di conoscere preventivamente cio' che e' reato e cio' che non lo e'; che, cio' premesso, i remittenti osservano che, secondo l'interpretazione corrente dell'art. 323 cod. pen. nel testo previgente, venivano ricompresi nella condotta incriminata ogni violazione del parametro di doverosita' quale risulta dalle regole normative improntate ai principi di legalita', imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione, ogni comportamento esplicantesi in un'illecita deviazione dai fini istituzionali, nonche' gli atti viziati da eccesso di potere; che, ad avviso dei giudici a quibus siffatta interpretazione, che costituirebbe "diritto vivente", non consentirebbe di escludere dubbi sull'indeterminatezza della fattispecie penale, in relazione ad espressioni quali "parametro di doverosita'" o "fini istituzionali", o alla figura normativamente non definita, e in costante evoluzione, dell'eccesso di potere; che, inoltre, secondo le ordinanze nn. 206, 410 e 454 del 1998, la incertezza della norma non permetterebbe un efficace esercizio del diritto di difesa garantito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione; che, infine, secondo l'ordinanza n. 454 del 1998, la insufficiente determinatezza della fattispecie, anche per il "ruolo centrale" del dolo specifico, che finirebbe per decidere della stessa illiceita' di una condotta di per se' neutra, comprometterebbe il buon andamento della pubblica amministrazione, poiche' "le incursioni del giudice penale nella sfera amministrativa, in assenza di univoci criteri oggettivi idonei a delimitare il confine fra lecito ed illecito", rischierebbero di paralizzare anche le piu' ordinarie attivita' dei pubblici funzionari, dal che discenderebbe altresi' la violazione dell'art. 97 della Costituzione; che non vi e' stata ne' costituzione di parti ne' intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri. Considerato che i giudizi, aventi lo stesso oggetto, possono essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia; che la questione proposta si appalesa manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza; che, infatti, le censure mosse al testo previgente dell'art. 323 cod. pen. attengono alla asserita indeterminatezza della fattispecie, a cui sono riconducibili, nella prospettazione degli stessi remittenti, anche i profili sollevati di violazione degli artt. 24, secondo comma, e 97 della Costituzione; che, peraltro, gli stessi remittenti premettono che i fatti sui quali sono chiamati a giudicare appaiono sussumibili anche nella fattispecie descritta dal nuovo testo dell'art. 323 cod. pen., riguardo alla quale non sollevano alcun dubbio di insufficiente determinatezza, ancorche' si tratti di norma piu' favorevole, destinata in ipotesi a trovare applicazione ai sensi dell'art. 2, terzo comma, cod. pen; che l'asserita indeterminatezza della preesistente fattispecie riguarderebbe dunque non gia' l'intera area delle condotte punibili, ma solo quelle connotate da elementi di incerta definizione, come la generica antidoverosita', il contrasto con i fini istituzionali e il vizio di eccesso di potere, non, quindi, le condotte di abuso connotate da violazione di specifiche norme di legge o di regolamento e tali da causare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale all'agente o ad altri, ovvero un danno ingiusto ad altri, quali quelle descritte nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen, come modificato dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997; che, pertanto, il giudizio sui fatti sottoposti ai remittenti non verrebbe in alcun modo influenzato dalla eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale del testo previgente dell'art. 323 cod. pen. nella parte in cui conteneva - in ipotesi - l'indicazione di ulteriori condotte punibili non sufficientemente determinate, in quanto connotate dai predetti elementi di incerta definizione; che ove, per converso, i fatti risultassero riconducibili a tale ultimo tipo di condotte, e non a quelle indicate dal nuovo testo dell'art. 323, la questione sollevata apparirebbe comunque irrilevante in quanto, come ammettono gli stessi remittenti, in questo caso la norma sopravvenuta imporrebbe di prosciogliere gli imputati perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato; che risulta dunque in ogni caso inapplicabile quella parte della norma incriminatrice - non piu' in vigore - sulla quale si appuntano i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati dai giudici a quibus. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.