IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha pronunciato  nella  pubblica  udienza  del  7  ottobre  1998  la
 seguente ordinanza nel procedimento a carico di Colombo Fabio, nato a
 Cernusco  sul Naviglio (Milano), il 27 ottobre 1976, ed ivi residente
 in via Trieste n. 39, imputato del reato p.e.p. dall'art. 8,  secondo
 comma,  legge n. 727/1972 e successive modifiche perche', con scritto
 pervenuto a questa procura militare in data 8 maggio 1996,  rifiutava
 prima  di  assumerlo, il servizio di leva presso il 7 rgt F. Cuneo di
 Udine il 15 maggio 1996, adducendo motivi di coscienza  attinenti  ad
 una  concezione  generale della vita basata su profondi convincimenti
 filosofici e morali.
   Rilevato che il reato per cui si procede nei confronti  di  Colombo
 Fabio,  a  seguito della entrata in vigore della legge 8 luglio 1998,
 n. 230, deve inquadrarsi nella ipotesi di cui  all'art.  14,  secondo
 comma,  della  indicata  legge,  attesa  la  identita' degli elementi
 costitutivi;
   Considerato che la nuova  legge  sull'obiezione  di  coscienza,  al
 comma  3 del citato art. 14, attribuisce al  pretore del luogo ove il
 servizio di leva doveva essere svolto, la competenza a giudicare  dei
 reati  in  questione  e  che,  pertanto,  in stretta applicazione del
 principio della immediata operativita' delle disposizioni processuali
 e in  assenza  di  norme  transitorie  derogatorie,  rientrano  nella
 giurisdizione    dell'autorita'    giudiziaria   ordinaria   sia   le
 fattispecie verificatesi in data successiva all'entrata    in  vigore
 della  legge  sia  quelle  realizzate in data antecendente per cui il
 procedimento penale risulti ancora pendente;
   Valutato che e' rilevante, nel giudizio  in  corso,  verificare  se
 quanto  disposto  dall'art.  14,  comma  3,  legge  n.  230/1998  sia
 costituzionalmente illegittimo, per le evidenti conseguenze circa  la
 individuazione della autorita' giurisdizionale competente;
   Considerato  che  le  parti hanno cosi' concluso: il p.m. chiedendo
 che venga sollevata la  questione  di    legittimita'  costituzionale
 dell'art.  14,  comma 3, legge n. 230/1998 e la difesa associandosi a
 tali richieste, il tribunale osserva quanto segue:
   Il collegio ritiene che la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  14,  comma  3, legge n. 230/1998 sollevata dal p.m. non si
 manifestamente infondata per contrasto con gli  artt.  3,  25,  primo
 comma, e 103, terzo comma, della Costituzione nei seguenti termini.
   Preliminarmente  occorre  rilevare  che  la ipotesi di reato di cui
 all'art. 14, comma 2  della  indicata  legge,  per  i  suoi  elementi
 costitutivi  e  le  modalita' di esecuzione, nonche' per la sanzione,
 non  si  differenzia,  sostanzialmente,  da  quella   precedentemente
 prevista   dall'art.   8,  secondo  comma,  legge  n.  772/1972  come
 specificata dagli interventi dalla Corte costituzionale.
   Con la citata  disposizione  viene  punito  colui  che  rifiuta  il
 servizio  militare,  prima o dopo averlo assunto, adducendo motivi di
 coscienza.
   Tale fattispecie di reato, come quella di cui  all'art.  8  citata,
 configura un'ipotesi di reato militare, che puo' essere commesso solo
 da soggetto appartenente alle Forze armate.
   Quanto   alla   natura  di  reato  militare  della  fattispecie  in
 questione, cio' si sostiene in considerazione del fatto che la  legge
 n. 230/1998 disciplina lo svolgimento di un servizio di leva, seppure
 diverso da quello armato, e prevede all'art. 14, una ipotesi di reato
 che  intende  impedire la realizzazione di una condotta violatrice di
 interessi militari.
   In merito, in virtu' di quanto disposto dall'art. 37  c.p.m.p.,  si
 considera reato militare ogni violazione della legge penale militare,
 dovendosi  intendere  per tale, seguendo anche le indicazioni fornite
 dal  legislatore  nei  lavori  preparatori  del  codice,  ogni  fonte
 normativa,  sia  pure  non  codificata, che tuteli l'ordine giuridico
 militare prevedendo l'applicazione di una sanzione penale nel caso di
 sua violazione.
   Orbene, la nozione fornita dall'art.  37  c.p.m.p.,  non  puo'  che
 imporre  una  attenzione  anche  agli elementi "contenutistici" della
 singola norma.
   Cio' ha affermato la stessa Corte  costituzionale  allorquando,  al
 fine   di   specificare  l'ambito  applicativo  dell'art.  103  della
 Costituzione, ha ritenuto che la nozione di carattere  contenutistico
 del   reato   militare  consente  all'art.  103  citato  di  svolgere
 effettivamente  la  sua  funzione  limitatrice  della   giurisdizione
 militare (Corte costituzionale sent. n. 81 del 1980).
   Nella  medesima  decisione  ha  altresi'  specificato  che  "... la
 definizione contenuta nell'art. 37 deve essere a sua  volta  valutata
 nel  sistema  in  cui  si  colloca...  tanto... da riscontrare che il
 legislatore non ha certo configurato ad   arbitrio i  reati  militari
 bensi'  ha  tenuto  conto  del  fatto che nei loro elementi materiali
 costitutivi essi non sono   previsti  dalla  legge  penale  comune  o
 comunque offendono, accanto ad interessi tutelati dalla legge stessa,
 interessi  aventi  natura  militare"  (e  nel  medesimo  senso  anche
 sentenza n. 298 del 6 luglio 1995).
   Di talche', pur nell'ambito della c.d. concezione formale di  reato
 militare,  non puo' prescindersi, sia pure  attraverso valutazioni da
 effettuarsi  caso  per  caso,   dall'accertamento   della   effettiva
 violazione  di  beni-interessi di rilevanza militare a cui la singola
 norma, inserita in legge penale militare, e' rivolta.
   Tanto premesso, in applicazione dei principi esposti, non puo'  non
 considerarsi  l'aspetto  "contenutistico"  del  reato  di rifiuto del
 servizio di leva per motivi di coscienza, al fine di comprenderne  la
 natura.
   La  stessa  Corte  costituzionale  ha  individuato  la oggettivita'
 giuridica  di  tale  fattispecie  nella  tutela   della      regolare
 incorporazione  ...    "Per  quanto  subiettivamente diversificati, i
 delitti di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di
 mancanza alla chiamata ex art.  151  c.p.m.p.  ledono  con  modalita'
 oggettive  analoghe  uno  stesso  interesse  quello  ad  una regolare
 incorporazione    degli    obbligati    al    servizio    di     leva
 nell'organizzazione militare" (sentenza n. 409 del 1989).
   Quindi,  il giudice delle leggi ha ritenuto che il reato di rifiuto
 per motivi di coscienza offende un interesse esclusivamente  militare
 al  pari  della ipotesi di cui all'art. 151 c.p.m.p. riconoscendo, in
 tal modo, la natura di reato militare dello stesso deducibile da  una
 valutazione   contenutistica,   quale   appunto   quella   legata  al
 beneinteresse tutelato.
   Seppure tale intervento  della  Corte  ha  riguardato  la  abrogata
 ipotesi  di  cui  all'art. 8 legge n. 772/1972,  purtuttavia non puo'
 porsi in dubbio che la valutazione si applicabile  anche  alla  nuova
 ipotesi  delittuosa vista la identita' del fatto di reato, come prima
 indicato.
   Cio' posto, attesi anche i  citati  interventi  della  Consulta  in
 merito  al  reato  di cui all'art. 8 legge n. 772/1972, pacificamente
 ritenuto reato militare anche dalla  giurisprudenza  della  Corte  di
 Cassazione,  l'ipotesi di cui all'art. 14 legge 230/1998 non puo' che
 considerarsi reato militare al pari di quello  di  cui  all'art.    8
 legge n. 772/72.
   Quanto  al  soggetto  attivo  del reato, va osservato che tale puo'
 essere solo colui che ha acquisito lo status di  militare  a  seguito
 dell'arruolamento, nell'attualita' dell'obbligo di leva.
   Cio'  in quanto lo stesso art. 14, valutato comparatisticamente con
 l'art. 1 della medesima legge, pur nel   rivolgersi  genericamente  a
 "chi  non  ha  chiesto  o  non  ha  ottenuto l'ammissione al servizio
 civile", delimita  l'ambito applicativo della norma alle  ipotesi  di
 condotta  posta  in  essere  da  coloro  che risultino gia' arruolati
 atteso che, ai sensi dell'art. 1 legge citata, la presentazione della
 istanza di ammissione al  servizio  sostitutivo  puo'  concretizzarsi
 solo dopo tale momento.
   Pertanto, li' dove l'art. 14 fa riferimento genericamente a chi non
 ha presentato la istanza o non ha ottenuto l'ammissione richiesta, si
 deve  intendere che il soggetto attivo non puo' che essere colui che,
 in quanto gia' arruolato, ha assunto lo status di militare.
   In definitiva, non essendo intervenuta alcuna modifica da parte del
 legislatore, il reato de quo puo' essere commesso solo da colui  che,
 arruolato e chiamato alle armi, nella attualita' del servizio, assume
 lo status di appartenente alle forze armate.
   Cio'  sia  ex art. 3 c.p.m.p., nel caso di presentazione al reparto
 per dichiarare il proprio rifiuto, sia ex art. 5 c.p.m.p.,  nel  caso
 di rifiuto concretizzatosi in arbitraria assenza dal servizio.
   Cio'  posto,  il  Collegio  non  puo' che rilevare la diversita' di
 disciplina prevista nel caso di reato  militare  ex  art.  14  citato
 commesso  dall'obiettore  e  di  altro  reato  militare  commesso  da
 appartenente alle forze armate.
   Mentre  nel  primo  caso  la giurisdizione e' attribuita al giudice
 ordinario; nel secondo al giudice militare.
   Tale  disparita'  di  trattamento  determina  la   violazione   del
 principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione.
   Non  appare  ragionevole, infatti, il diverso trattamento riservato
 agli obiettori di coscienza soprattutto li' dove  si  consideri  che,
 pur  nella  ormai  quasi  parificata  disciplina  dei processi penali
 comuni e quelli penali  militari,  si  applicherebbe,  comunque,  una
 disciplina  diversa  per  ipotesi  di  reato  accomunate dalla natura
 militare della
  fattispecie delittuosa nonche' dalla qualifica di appartenente  alle
 Forze armate del soggetto agente.
   La irragionevolezza di tale disposizione appare ancor piu' evidente
 qualora  si  faccia  riferimento  a  specifici reati, quale quello di
 mancanza alla chiamata (reato militare, previsto  dal  codice  penale
 militare  di  pace  commesso  da appartenente alle forze armate) che,
 seguendo l'assunto della  Corte  costituzionale  (sent.  n.  409  del
 1989),  presentano  il  medesimo  disvalore di quello di cui al nuovo
 art. 14, comma 2,  legge  n.230/1998  ma  che,  purtuttavia,  vengono
 giudicati da diversa autorita' giurisdizionale.
   La  norma  in  questione  appare ulteriormente in contrasto con gli
 artt. 25 e 103, terzo comma, della Costituzione in quanto  violerebbe
 il principio del giudice naturale precostituito per legge.
   L'art.   103,   terzo   comma,   della   Costituzione  sancisce  la
 giurisdizione dei tribunali militari in tempo di  pace  per  i  reati
 militari commessi da appartenenti alle forze armate.
   Orbene,  questo  Collegio,  non  ignora che tale disposizione debba
 intendersi quale delimitazione della indicata giurisdizione e che  la
 stessa  Corte  costituzionale  ha  piu'  volte  ribadito  che  quella
 militare e' una giurisdizione  "eccezionale",  purtuttavia  non  puo'
 altresi'  ignorare  che,  il  combinato disposto dell'art. 103, terzo
 comma, e 25, primo comma, della Costituzione individua, nei tribunali
 militari, il giudice  naturalmente  preposto  a  conoscere  di  reati
 militari commessi da appartenenti alle forze armate.
   Il  tribunale ritiene che questa indicazione e' derogabile da parte
 del legislatore solo in presenza di plausibili ragioni,  per  esempio
 la   connessione   con   procedimenti   per   reati   comuni   (Corte
 costituzionale sent. n. 206/1987) o  la  qualita'  di  minorenne  del
 soggetto attivo militare (Corte costituzionale sent. n. 222/1983); in
 mancanza,  come  nel caso di specie, la deroga alla giurisdizione dei
 tribunali militari concreta una  violazione  degli  artt.  25,  primo
 comma, e 103, terzo comma, della Costituzione.
   Il   legislatore,  infatti,  nell'intervenire  discrezionalmente  a
 regolare le fattispecie normative, non puo'  disattendere  il  canone
 della  ragionevolezza,  come  piu' volte ribadito dalla stessa Corte,
 ne'  puo'  ignorare  il  diritto,  costituzionalmente  garantito,  di
 ciascun cittadino a non essere distolto dal suo giudice naturale.