IL PRETORE Gli imputati sono stati tratti a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 110, 81 c.p., 17, legge n. 107/1990 in relazione all'art. 31, d.m. 27 dicembre 1990 perche' nelle qualita' di direttore sanitario dell'ospedale e di primario responsabile dei rispettivi reparti, omettevano di restituire al centro trasfusionale competente, talune unita' di sangue non utilizzate. In particolare risulta contestata agli imputati la violazione dell'obbligo, introdotto dalI'art 31 del d.m. 27 dicembre 1990, di restituire nel piu' breve tempo possibile al servizio trasfusionale le unita' di sangue o di emocomponenti non utilizzate, accompagnate da un'attestazione del reparto richiedente circa le modalita' con cui le stesse sono state conservate. Tale condotta pare rientrare nella fattispecie introdotta della legge n. 107 del 4 maggio 1990 che all'art. 17 punisce con la reclusione da uno a tre anni e la multa da L. 400.000 a L. 20.000.000 "chiunque preleva, procura, raccoglie, conserva o distribuisce sangue umano, o produce e mette in commercio derivati del sangue umano in violazione delle norme di legge o per fini di lucro" ed aggiunge la pena accessoria dell'interdizione dall'esercizio della professione se il colpevole e' persona che esercita la professione sanitaria. La formulazione della norma incriminatrice che sanziona non le violazioni della presente legge ma le violazioni delle norme di legge pare confermare l'ampiezza dell'ipotesi sanzionatoria in quanto risulterebbero richiamate non solo le disposizioni contenute nella legge 107 da cui scaturiscano degli obblighi, ma anche quelle che non siano in esse contenute. Il legislatore, cioe', ha ritenuto che solo la scrupolosa osservanza di tutte le disposizioni, anche di dettaglio che regolano le diverse fasi dalla raccolta alla distribuzione del sangue umano, o la produzione e commercializzazione dei suoi derivati, possa garantire la tutela della salute pubblica. Sembrano quindi integrare reato, anche le violazioni degli obblighi precisati nei decreti ministeriali collegati alla legge 107, primo tra tutti il fondamentale d.m. 27 dicembre 1990 emanato in attuazione della previsione degli artt. 1 e 3, comma 2 della legge n. 107/1990, in quanto trovino il loro presupposto nei principi espressi nella legge stessa che deve indicare, con sufficiente specificazione, le condizioni e i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa, alla cui trasgressione e' collegata la norma penale. La legge n. 107/1990, cioe', e' una legge quadro per la disciplina delle attivita' trasfusionali, da cui risulta che le operazioni relative a tali attivita' sono di esclusiva competenza delle pubbliche strutture del Servizio nazionale le quali sono preposte alla raccolta, conservazione e distribuzione del sangue, promuovono e praticano l'autotrasfusione, garantiscono il buon uso del sangue stesso. I successivi decreti ministeriali, tra cui in primo luogo il d.m. 27 dicembre 1990, hanno introdotto la disciplina tecnica di dettaglio che consente la puntuale attuazione delle direttive impartite dalla legge, prevedendo tutta una serie di obblighi e di adempimenti, anche formali, finalizzati ad evitare il rischio che, sottraendo il sangue al controllo della struttura pubblica in una qualsiasi delle fasi che vanno dalla raccolta alla distribuzione, possa determinarsi un uso illegittimo dello stesso. Proprio per realizzare il massimo grado di cautela, sentita come particolarmente necessaria per il momento di emergenza in cui la legge e' stata introdotta, si e' prevista la sanzione penale, e di considerevole entita', per qualsiasi violazione di legge che venga compiuta da chi preleva, procura, raccoglie, conserva o distribuisce sangue umano, con cio' evidentemente rimandando alla normativa secondaria, di contenuto piu' squisitamente tecnico, per l'individuazione di quelle specifiche condotte che la legge intende sanzionare, pur sempre pero' nell'ambito delle suddette fasi di gestione del sangue e nel rispetto dei criteri ispiratori e delle direttive fissate della legge. Tale tecnica legislativa non e' inusuale, soprattutto nelle materie che richiedono la soluzione di problemi tecnici che il legislatore non sarebbe in grado di affrontare, e viene ritenuta in generale perfettamente compatibile con i precetti costituzionali della riserva di legge e tassativita', purche' la legge o un atto equiparato, che costituiscono ex art. 25 Cost. le esclusive fonti delle norme penali, abbiano indicato con sufficiente specificazione le condizioni e i limiti dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa, alla trasgressione dei quali e' ricollegata la sanzione penale. Non possono invece rientrare nella fattispecie criminosa violazioni di precetti contenuti in atti o decreti amministrativi non previsti espressamente, direttamente o indirettamente da una legge, o completamente avulsi dai suoi principi base. La stessa Corte costituzionale (v. sent. 23 marzo 1966, n. 26; 25 marzo 1972, n. 69 e 12 marzo 1975, n. 58) ha avuto occasione di affermare la compatibilita' di una simile tecnica di produzione delle norme giuridiche penali con la riserva di legge ex art. 25 Cost., purche', appunto, venga rispettato il requisito della "sufficiente specificazione", la dove, cioe', dal complesso della legge si evincano direttive vincolanti alle quali dovra' attenersi l'autorita' amministrativa. Tale integrazione del precetto penale trova d'altronde giustificazione nell'esigenza di introdurre una disciplina di dettaglio su aspetti strettamente tecnici, che il legislatore non potrebbe adeguatamente considerare e per i quali si pone anche la necessita' di uno strumento piu' duttile e piu' facilmente adeguabile al mutamento delle situazioni e delle conoscenze tecnico-scientifiche. Non pare quindi dubitabile che le condotte contestate agli imputati nel presente procedimento, in quanto costituenti violazione di specifici obblighi imposti, dall'art. 31 del citato d.m. 27 dicembre 1990, rientrino nella fattispecie incriminatrice di cui all'art. 17, legge n. 107, ne' tale integrazione della norma penale attraverso la disciplina di dettaglio dei decreti ministeriali puo' essere ritenuta illegittima in quanto trova comunque i suoi presupposti nei principi chiaramente espressi dalla legge che mira a garantire "il buon uso del sangue", l'ottimizzazione della raccolta e della distribuzione sul territorio dello Stato, in condizioni di massima sicurezza per la salute della collettivita' e al di fuori da ogni logica di mercato, imponendo, per il perseguimento di tali finalita', la riserva di competenza alle strutture pubbliche tassativamente indicate, con individuazione specifica delle rispettive competenze, e la massima trasparenza, attraverso l'imposizione di modalita' operative e obblighi di documentazione molto particolareggiati, nelle procedure di "gestione del sangue e suoi derivati". Pertanto, la' dove il d.m. impone, ad esempio, che le richieste di sangue indichino le generalita' del paziente, che i centri trasfusionali distribuiscano il sangue solo dopo aver svolto accertamenti sulla compatibilita', che le unita' di sangue non utilizzato vengano restituite al servizio trasfusionale nel piu' breve tempo possibile, non fa che dare concreta attuazione alla riserva della gestione del sangue alle strutture pubbliche del S.s.n., a cio' espressamente preposte dalla legge, e alla necessaria puntuale documentazione che la legge stessa impone per perseguire i suoi obbiettivi. Poco chiaro e quindi non convincente appare pertanto l'inciso contenuto nell'ordinanza n. 31 del 9-22 luglio 1998 della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su analoga questione di legittimita', la' dove afferma che "anche volendo prescindere dal considerare che i fatti contestati nell'imputazione alla quale il giudice a quo si riferisce non appaiono integrare alcuna delle fattispecie legali di cui alla norma che viene denunciata come sospetta di illegittimita' costituzionale, non essendo possibile ricostruire alcuna ''violazione delle norme di legge'' sulla base di norme secondarie come quelle indicate". La Corte, invero, sembra aver risolto con una mera affermazione di principio non sorretta da alcun tipo di argomentazione, il tanto dibattuto problema della norma penale in bianco e della sua integrazione da parte di fonti secondarie quali il decreto ministeriale, generalmente ammessa da dottrina e giurisprudenza pur con le dovute limitazioni, di fatto utilizzata e ritenuta legittima nella legislazione che regola altri settori. Non ritiene quindi questo pretore di poter senz'altro escludere la rilevanza penale delle condotte ascritte agli imputati, che pure trovano la disciplina di dettaglio in fonti secondarie, apparendo invece ricorrenti i presupposti generalmente riconosciuti come necessari perche' possa ritenersi, ammissibile l'integrazione della norma penale.