Ricorso per questione di legittimita' costituzionale proposto dalla
 regione Piemonte, in persona del Presidente pro-tempore della  giunta
 regionale,  giusta  deliberazione giuntale del 15 marzo 1999, n. 54 -
 26867, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del
 presente atto, degli avv.ti prof. Mario Bertolissi di Padova e  Luigi
 Manzi   di  Roma,  elettivamente  domiciliata  presso  lo  studio  di
 quest'ultimo in Roma, via F. Confalonieri, 5;
   Contro  la  Presidenza  del  Consiglio dei Ministri, in persona del
 Presidente pro-tempore del Consiglio dei  Ministri,  rappresentato  e
 difeso  ex  lege  dalla  Avvocatura  generale  dello  Stato,  per  la
 declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  14  della
 legge 18 febbraio 1999, n. 28 (Disposizioni in materia tributaria, di
 funzionamento   dell'Amministrazione   finanziaria   e  di  revisione
 generale del catasto), pubblicata nella  Gazzetta  Ufficiale  del  22
 febbraio  1999,  avente ad oggetto l'"interpretazione autentica della
 disciplina concernente le richieste sugli interessi e sui redditi  di
 capitale".
                            Fatto e diritto
   1.  -  Per  inquadrare in modo adeguato il problema di legittimita'
 costituzionale di cui qui si discute, vale la pena  di  riprendere  -
 alla   lettera,   a  scanso  di  equivoci  -  una  recente,  misurata
 annotazione di Livio Paladin ("Il principio di eguaglianza tributaria
 nella  giurdisprudenza  costituzionale  italiana",  relazione  svolta
 nell'ambito  del  "Confronto  tra  Italia,  Germania  e  Spagna  come
 contributo per l'armonizzazione del diritto  tributario  in  Europa",
 dedicato  alla  "Tassazione del reddito", Padova, 5-6 maggio 1997, 11
 ss. del dattiloscritto), secondo cui, "malgrado il molteplice ricorso
 all'eguaglianza  tributaria,   riscontrabile   nella   giurisprudenza
 costituzionale,  non  si  puo'  dire che esso sia valso a sanare - in
 modo sistematico ed approfondito - le troppe storture che  affliggono
 il  diritto tributario italiano.  Si pensi nuovamente - fra i tanti -
 al caso delle leggi tributarie retroattive ...", le quali sicuramente
 concorrono a rendere - come rileva poco oltre  -  "quello  tributario
 come un ''diritto di secondo grado''" (ivi, 13).
   Infatti,  "in  primissima linea, spicca in tal senso il lamentevole
 stato del diritto tributario italiano:  cioe'  la  frantumazione  che
 contraddistingue  l'intero quadro (se di quadro si vuole parlare); la
 tecnica  legislativa  casistica,  per  definizione  refrattaria  alla
 formulazione ed al rispetto di principi o criteri comuni, che De Mita
 denunciava pur dopo l'entrata in vigore del testo unico sulle imposte
 dirette,  sottolineando invece l'esigenza di una vera ''codificazione
 fiscale'' (De Mita, "Interesse fiscale e  tutela  del  contribuente",
 Milano,  1995,  XVI,  25 ss., 141); e dunque il carattere intimamente
 asistematico che in questo  campo  presenta  il  nostro  ordinamento,
 secondo  i  rilievi  piu' volte fatti propri dalla Corte. In effetti,
 nella  giurisprudenza  costituzionale  degli  ultimi   anni   ricorre
 l'assunto che quell'ordinamento sia retto da una sorta di ''principio
 della  plurisistematicita''';  che  dunque  sia  arduo  ricavarne  un
 ''modello  generale'',  in  vista  del  quale  applicare  il   canone
 dell'eguaglianza;  e  che  sia sovente impossibile - nelle piu' varie
 situazioni - ''invocare la comparazione  trasversale  di  istituti  e
 normative  di  altri  settori'',  in  quanto caratterizzati da regole
 diverse''" (come codesta Corte ha precisato,  rispettivamente,  nella
 sentenza n. 121/1985, nella ord. n. 392/1993 e nella sent. n. 14 e n.
 430/1995, secondo quanto riferisce l'autorevole costituzionalista).
   D'altra   parte,   di   questo   significativo   tenore   sono   le
 considerazioni prospettate da altri illustri studiosi, che tendono ad
 affermare  un'idea  di  Costituzione  piu'  prossima  a  un   sistema
 codificato  di  valori  che  - per parafrasare Mariano D'Antonio, "La
 Costituzione di  carta",  Milano,  1997  -  una  "carta  (straccia)",
 studiosi  i  quali hanno lamentato il pericolo che "la giurisprudenza
 della Corte in materia tributaria si appiattisca  sulla  legislazione
 in  vigore"  (cosi',  ad  es.,  sulla  scorta  di  talune, essenziali
 puntualizzazione di De Mita, Elia, "Prefazione" a De Mita,  "Fisco  e
 Costituzione. II. 1984-1992", Milano, 1993, XXIII).
   In   breve,   preliminarmente,   le  leggi  tributarie  retroattive
 complicano e disarticolano quello che forse neppure e' un sistema: il
 c.d. ordinamento tributario; a maggior ragione, cio' e' causato dalle
 leggi interpretative, spesso concepite - come nel caso -  al  puro  e
 semplice   scopo  di  aggirare  limiti  costituzionali  all'attivita'
 impositiva; e la dissoluzione  del  senso  e  della  struttura  degli
 istituti  (ad  es.:  della  esclusione  dall'imposta,  della ritenuta
 d'imposta ecc., in generale  della  soggettivita'  tributaria  e  dei
 connessi corollari) finisce per comprimere l'area di operativita' del
 sindacato  del giudice delle leggi, che qui tuttavia puo' dispiegarsi
 in ogni sua potenzialita', dal momento che la legge impugnata (l'art.
 14 della legge n. 28/1999), proprio  in  ragione  del  suo  carattere
 dichiaratamente interpretativo, non riesce a fare sistema: a) ne' con
 le  leggi  tributarie  vigenti  b)  ne'  -  loro  tramite  -  con  le
 proposizioni costituzionali di riferimento, ivi comprese  quelle  del
 titolo V.
   2. - Il dato - fattuale e normativo, ad un tempo - cui si ricollega
 la presente vicenda e' rappresentato dalla circostanza che - stando a
 quando  dispone  l'art.  26,  quarto  comma,  del  d.P.R. n. 600/1973
 ("Ritenute sugli  interessi  e  sui  redditi  di  capitale")  -  "nei
 confronti  dei soggetti esenti dall'imposta sul reddito delle persone
 giuridiche e in ogni altro caso le ritenute sono applicate  a  titolo
 di  imposta";  mentre,  a  sua  volta  (ed  in forza dell'innovazione
 introdotta - con effetto dal 1 gennaio 1991 - dall'art. 4,  comma  3,
 del  decreto-legge  n.  310/1990,  convertito,  con modificazioni, in
 legge dalla legge n. 403/1990), l'art. 88, comma  1,  del  d.P.R.  n.
 917/1986  stabilisce,  sempre  in  tema  di imposta sul reddito delle
 persone giuridiche, che "gli organi e le amministrazioni dello Stato,
 compresi  quelli  ad  ordinamento  autonomo,  anche  se   dotati   di
 personalita' giuridica, i comuni, le comunita' montane, le province e
 le  regioni  non  sono  soggetti  all'imposta" (sul punto, per tutti,
 Falsitta, "Manuale di diritto tributario", II, Padova, 1997, 302).
   3. - E' appena il caso di osservare che il citato  art.  88,  nella
 sua  definitiva  formulazione,  si e' venuto ad iscrivere nell'ambito
 dell'annoso  ed  articolato  dibattito  dedicato  alla  soggettivita'
 tributaria  degli  enti  pubblici  ed  alle relative norme interne di
 attuazione della VI direttiva  CEE  del  17  maggio  1997,  la  quale
 prevede  che  gli Stati, le regioni, le province ed i comuni non sono
 considerati soggetti passivi  per  le  attivita'  od  operazioni  che
 pongono  in  essere  in  quanto  pubbliche  autorita'  (in argomento,
 Mancini, "Manuale Iva degli enti locali", Campobasso, 1986, 19).
   Volendo limitarsi ad un pura e semplice ripresa delle  disposizioni
 legislative  succedutesi nel tempo, rilevanti ai nostri fini, si puo'
 ricordare che, in tema di soggettivita' passiva, l'art. 2 del  d.P.R.
 n. 598/1973 ("Istituzione e disciplina dell'imposta sul reddito delle
 persone   giuridiche")   operava   una  netta  distinzione  tra  enti
 commerciali e non commerciali, e cio' ai  sensi  di  quanto  previsto
 dall'art.  51  del  d.P.R.  n.  597/1973  ("Istituzione  e disciplina
 dell'imposta sul reddito delle persone fisiche"),  secondo  il  quale
 "per  esercizio  di  imprese  commerciali  si intende l'esercizio per
 professione  abituale,  ancorche'  non  esclusiva,  delle   attivita'
 commerciali  di  cui  all'art.    2195 del codice civile anche se non
 organizzate in forma di imprese".
   Donde la conseguenza - confermata pure dal disposto dell'art. 4 del
 d.P.R. n. 633/1972, modificato, per coerenza con la VI direttiva CEE,
 con d.P.R. n. 24/1979 - che l'attivita' commerciale  degli  enti  non
 commerciali - tra i quali va annoverata, ovviamente, la regione - per
 assumere   significativita'  tributaria,  non  dovesse  presentare  i
 caratteri  dell'impresa  anche  ai   fini   civili,e   cioe'   essere
 organizzata  in  forma di impresa ed essere svolta abitualmente (cio'
 gia' sulla  scorta  di  quanto  stabilito  dal  d.P.R.  n.  687/1974:
 Mancini,  op.  cit.,  20).  E' in questo contesto che ebbe a situarsi
 l'importante,    ancorche'    criticata,    presa    di     posizione
 dell'amministrazione  finanziaria (si allude alla circolare 22 maggio
 1976, n. 18/360068: in Corr. trib., n. 24/1986, 1626 ss.),  la  quale
 ebbe  ad elencare, sia pure senza alcuna pretesa di tassativita', una
 serie di operazioni imponibili a fini Iva e, quindi, Irpeg ed Ilor.
   Senonche', sulla scorta degli enunciati normativi e degli indirizzi
 assunti dal fisco  -  stando  ai  quali,  relativamente  ai  soggetti
 pubblici,   doveva  ritenersi  essenziale  la  natura  dell'attivita'
 svolta: meglio ancora, la natura del singolo atto od operazione posti
 in  essere  -,  la  situazione  rimane  comunque  contraddistinta  da
 incertezza:  perche',  se  era  chiaro,  da  un  lato,  che  gli enti
 pubblici, in specie territoriali, nel momento  in  cui  intervenivano
 come  parti  di  rapporti economici in alternativa con i privati, non
 dovevano godere di un trattamento  privilegiato  che  avrebbe  potuto
 alterare  le  regole  del  mercato,  era  chiaro,  d'altro  lato, che
 molteplici perplessita' potevano insorgere circa  la  qualificazione,
 come  atto  di  commercio,  di  singole operazioni svolte da regioni,
 province,  comuni  ...  (al  riguardo,  ad  es.,  Mazzaro,   "Mancata
 applicazione   dell'Iva   sulle   cessioni   delle  aree  edificabili
 effettuate dai comuni a favore delle cooperative edilizie", in  Corr.
 trib.,   n.   18/1984,  795  ss.;  Avantaggiati,  "I  canoni  per  la
 concessione  di  un  pubblico  servizio  nel  riflessi   dell'Iva   e
 dell'Irpeg",  ivi,  n.  35/1986,  2405 ss.; ID., "Concessione di aree
 cimiteriali:  una  discutibile  risoluzione  ministeriale",  ivi,  n.
 17/1990,  1168  ss.;  Mancini,  "L'Iva e le unita' sanitarie locali",
 ivi, n. 40/1986, 2760 ss.; soprattutto, Tosi,  "L'assoggettamento  ad
 imposta  sul  valore  aggiunto  delle  operazioni  commerciali  delle
 amministrazioni   comunali:      considerazioni   generali   e   casi
 particolari",   in  "La  fin.  loc.",  n.    7-8/1988,  779  ss.).  E
 perplessita' insorgevano, tant'e' che si era  andato  accumulando  un
 nutrito  contenzioso,  variamente risolto dal giudice tributario (v.,
 ad es., Corr. trib., n. 36/1986, 2444 ss.  e, ivi, n.  26/1990,  1838
 ss.).
   Il   contenzioso   che   segui'  produsse,  oltretutto,  un  rinvio
 pregiudiziale alla Corte di giustizia CEE (Comm. trib. di primo grado
 di Piacenza, sez. III, ord. 28 aprile 1988, n. 2, in Corr. trib.,  n.
 26/1988, 1917 ss.), risolto dalla Corte medesima con sent. 17 ottobre
 1989  (in  Corr. trib., n. 43/1989, 3007 ss., rettificata, a causa di
 un errore materiale, con ord. 15  novembre  1989,  ivi,  n.  50/1989,
 3547),  il  cui  assunto  e'  stato ribadito alla successiva sent. 15
 maggio 1990 (in Corr. trib., n. 23/1990, 1580 ss.).
   Tra  le  varie massime estrapolabili, vale la pena di ricordare, in
 questa sede, il  seguente,  conclusivo  passo  della  prima  sentenza
 citata,  in ragione della sua significativita': "... l'art. 4, n.  5,
 secondo comma, della VI direttiva va interpretato nel senso  che  gli
 Stati  membri sono tenuti a garantire l'assoggettamento degli enti di
 diritto pubblico per le attivita' che esercitano in quanto  pubbliche
 autorita' allorche' tali attivita' possono essere del pari esercitate
 da   privati   in   concorrenza  con  essi  e  qualora  il  loro  non
 assoggettamento sia atto a provocare distorsioni  di  concorrenza  di
 una   certa   importanza,   ma   non   hanno  l'obbligo  di  recepire
 letteralmente tale  criterio  nel  loro  diritto  nazionale,  ne'  di
 precisare  limiti  quantitativi  di  non  assoggettamento"  (in Corr.
 trib., n. 43/1989, 3009.  A  proposito  di  tutto  cio'  v.  ad  es.,
 Bertolissi,   "Gli  enti  pubblici  tra  Corte  di  giustizia  CEE  e
 legislatore nazionale", ivi, n. 47/1989, 3274  ss.;  Cerretelli,  "Il
 comune  paghera' l'Iva solo se fa l'imprenditore", in Il Sole 24 Ore,
 18 ottobre 1989; Rizzardi, "Iva in comune: la censura CEE  spinge  il
 Parlamento a decidere, ivi; M. Mas", "A questo punto un caos completo
 per  la  sanatoria  degli enti locali", ivi; Giacalone, "Il commento"
 alla sent. 17 ottobre 1989, in Corr. giur., n. 2/1990, 134 ss.).
   Rebus sic stantibus, non aveva  di  certo  contribuito  a  dipanare
 l'intricata  matassa  il  testo originario dell'art. 88 del d.P.R. n.
 917/1986 (antecedente quello risultante  dalle  modifiche  introdotte
 nel 1990 con il decreto legge n. 310, convertito dalla legge n. 403),
 perche'   cosi'   concepito  nel  suo  comma  1:  "Gli  organi  e  le
 amminstrazioni dello Stato, compresi quelli ad  ordinamento  autonomo
 anche  se  dotati  di  personalita' giuridica, non sono soggetti alla
 imposta": infatti, quale ruolo assegnare agli enti pubblici in genere
 e, in particolare, ai comuni, alle comunita' montane, alle province e
 alle regioni per le operazioni poste in essere  non  quali  pubbliche
 autorita'? Certo, sul punto era intervenuta la Corte di giustizia CEE
 (v., ancora, Avantaggiati, "La normativa comunitaria per le attivita'
 commerciali  degli  enti  pubblici", in Corr. trib., n. 32/1989, 2190
 ss., nonche' Tesauro, "Ancora sull'Iva degli enti  pubblici  e  sulla
 sentenza della Corte di giustizia", in "La fin. loc.", n. 2/1990, 159
 ss.),  ma  l'esperienza si era incaricata di dimostrare le gravissime
 inadempienze degli enti: per i  quali  fu  concepita  una  sanatoria,
 mediante  la  riapertura  dei  termini  di  legge,  entro  i quali si
 sarebbero potute sanare appunto le situazioni  pregresse  nell'ambito
 dell'imposizione  sia  indiretta che diretta (e' da dire, poi, che la
 disciplina fu posta con una serie impressionante di  atti  normativi:
 v.  decreto-legge  n.  70/1988,  convertito, con modificazioni, nella
 legge  n.  154/1988;  decreto-legge  n.  511/1988,  convertito,   con
 modificazioni,  nella  legge  n.  20/1989;  decreto-legge n. 66/1989,
 convertito, con modificazioni, nella legge n. 144/1989; decreto-legge
 n. 69/1989, convertito, con modificazioni, nella legge  n.  154/1989;
 decreto-legge n. 202/1989, convertito, con modificazioni, nella legge
 n.    288/1989;    legge    n.    384/1989    ...    In    argomento,
 Avantaggiati-Lamedica-Mancini,  "L'esercizio  della   rivalsa   nella
 sanatoria  per  gli  enti  locali",  in  "Le  circolari  del Corriere
 tributario", n.  4/1989;  Circolare  ministeriale  19  ottobre  1989,
 n.44/551269,  della  Direzione  generale  tasse,  in  Corr. trib., n.
 43/1989, 3033 ss.; Del Monaco, "Il comune affida  alla  sanatoria  la
 regolarizzazione  delle  ritenute",  in  Il  Sole 24 Ore, 8 settembre
 1989; Massaro, "Per gli enti  locali  si  profila  un  condono  Irpeg
 oneroso",  ivi,  18 settembre 1991; Trimeloni, "Il condono tributario
 per gli enti locali. Quali le modalita'  di  applicazione?",  in  "La
 fin.  loc.",  n.  9/1988,  IV  ss.;  ID.,  "Ancora in tema di condono
 tributario  a  favore  degli  enti  locali.   Le   dimenticanze   del
 legislatore",  ivi, n. 12/1988, V. ss.; Lamedica, "La sanatoria degli
 enti locali e' entrata in zona calda", in Corr.  trib.,  n.  27/1989,
 1809;  ID.,  "Enti  locali:  la sanatoria per una rivalsa difficile",
 ivi, n. 28/1989, 1885);  e  fu  concessa,  inoltre,  un'amnistia  per
 specifici reati commessi dagli amministratori e dipendenti degli enti
 non  commerciali  (ai  sensi della legge n.   73/1990 e del d.P.R. n.
 75/1990: v. Corr. trib., n. 18/1990, 1241 ss.).
   Dunque, per troncare davvero non simile stato di cose -  quantomeno
 a  partire  dal  momento  di  entrata in vigore dei nuovi disposti: i
 citati decreto-legge n. 310/1990 e legge n. 403/1990: pertanto, dal 1
 gennaio 1991, "i comuni, le  comunita'  montane,  le  province  e  le
 regioni"  furono  equiparati  tout  court  allo  Stato: tant'e' che -
 commentando la innovazione, senza nutrire in proposito alcun dubbio -
 si  scrisse  che  tali  enti  "non  sono  piu'  considerati  soggetti
 d'imposta.  Quindi, anche se svolgono attivita' commerciali non sorge
 alcun obbligo impositivo" (Lamedica, "comuni: una sanatoria  per  una
 resa dei conti", in Corr.  trib., n. 39/1991, 2885).
   4.  - La fuoriuscita dall'ambito di applicazione delle disposizioni
 regolatrici dell'Irpeg (e dell'Ilor)  rappresenta  l'epilogo  di  una
 complessa  vicenda  - qui riassunta per sommi capi - e la risposta ad
 un'esigenza elementare: quella di non rendere oltremodo  complesso  e
 difficoltoso  l'operato  degli  enti  pubblici  territoriali,  le cui
 eventuali  omissioni  avrebbero  potuto  dar  luogo  ad   azioni   di
 responsabilita'  nei  confronti dei propri agenti (v., per l'appunto,
 la relazione unita alla deliberazione n.  330/1989  della  Corte  dei
 conti   -   Sezione   enti   locali,  dedicata  ai  "Profili  fiscali
 dell'attivita' privatistica degli enti locali", pubblicata in La fin.
 loc., n. 1/1990, n. 123 ss.).
   D'altra parte, la soluzione infine accolta dal legislatore - quella
 codificata nel vigente art. 88, comma  1,del  d.P.R.  n.  917/1986  -
 risulta   sostanzialmente  omogenea  a  tante  altre,  normativamente
 disposte, che hanno variamente escluso innanzi tutto le regioni dalla
 sfera di applicazione di molteplici tributi: cosi' e'  stabilito  per
 l'Ilor  (art. 116, comma 1, d.P.R. n. 917/1986 e, gia' in precedenza,
 art.   5, d.P.R. n.  601/1973),  per  l'Invim  (art.  25,  d.P.R.  n.
 643/1972),  per  l'imposta  di  registro (art. 1, tabella allegata al
 d.P.R. n.  131/1986), per l'imposta successioni e donazioni  (art.  3
 d.lgs.  n.  346/1990), per l'Isi (art. 7, decreto-legge n. 333/1992),
 per l'Ici (art. 7,  lett.  a),  legge  n.  505/1992),  per  le  tasse
 pubbliche  affissioni (art. 21, lett, c), d.lgs. n. 504/1992), per la
 tassa occupazione aree  pubbliche  (art.  49,  lett.  a),  d.lgs.  n.
 504/1992.
   Si   puo'   affermare,   pertanto,   che  esiste  un  principio  di
 equiparazione della regione allo Stato,  secondo  il  quale  entrambi
 sono  esclusi dall'applicazione delle imposte, dirette e indirette, e
 da ulteriori forme di prelievo patrimoniale imposto, quando cio'  non
 risulti  contrario  al  mercato  e  alla  libera  concorrenza  che lo
 caratterizza (in questa circostanza la soggettivita' passiva discende
 dalle norme comunitarie).
   5.  -  Nessuna  meraviglia,  allora,  se  -  in  un primo momento -
 l'Amministrazione finanziaria, richiesta di esprimere un parere circa
 la portata del nuovo testo dell'art.  88,  comma  1,  del  d.P.R.  n.
 917/1986,  ha  ritenuto  -  con  risoluzione ministeriale 11 novembre
 1991, n. 11/733, e 8  gennaio  1993,  n.  8/645/92,  della  direzione
 generale  imposte  dirette  -  "di  poter confermare che, per effetto
 delle modifiche apportate all'art.  88 del testo unico delle  imposte
 sui  redditi approvato con d.P.R.  n. 917/1986, dall'art. 4 del d.-l.
 31 ottobre 1990, n. 310, convertito, con modificazioni,  dalla  legge
 22 dicembre 1990, n. 403, i comuni (le province, le comunita' montane
 e  le  regioni), non essendo piu' soggetti all'Irpeg ed all'Ilor, non
 debbono subire ritenute per tali imposte,  fermo  restando  l'obbligo
 per  essi  di  operare  le  ritenute,  sui  contributi  corrisposti a
 soggetti diversi, ai sensi dell'art.   28  del  d.P.R.  29  settembre
 1973,  n.  600".  Ed  ha aggiunto che, "nel caso in cui, tuttavia, il
 sostituto d'imposta abbia comunque effettuato a monte la ritenuta nei
 confronti degli enti locali, gli stessi dovranno attivare l'ordinaria
 procedura per il rimborso ex art.  37  o  art.    38  del  d.P.R.  29
 settembre 1973, n. 602".
   6.  -  Il significato di questa nuova disciplina - che si e' inteso
 rendere esplicito illustrando le relative cause  di  giustificazione,
 ignorando  le  quali  si potrebbe finire col risolvere il problema di
 legittimita'   costituzionale   considerando   dati   di    carattere
 eminentemente  testuale, ai quali va tuttavia riconosciuta, oggi, una
 rilevanza ermeneutica assai scarsa (v., sul punto,  l'annotazione  di
 Tosi, "Assoggettamento a ritenuta degli interessi bancari corrisposti
 ai  comuni"  in  Giur.    trib.,  n.  4/1995,  384, a proposito della
 equivoca dizione dell'art.   3, comma  3,  del  d.P.R.  n.  917/1986,
 stando  al quale "sono in ogni caso esclusi dalla base imponibile: a)
 i redditi esenti dall'imposta ...") - e' stato ben delineato  innanzi
 tutto  dalla  giurisprudenza  tributaria,  la quale ha affermato, tra
 l'altro:
     a) dopo aver precisato che "gli interessati su somme di spettanza
 degli enti non soggetti all'Irpeg ... non debbono subire la  ritenuta
 di  cui  all'art. 26 del d.P.R. n. 600/1973" - in sede di valutazione
 critica degli orientamenti ministeriali -, che "a tale conclusione  -
 legata  alla  chiara  lettura  della  legge - era giunto d'acchito lo
 stesso  Ministero  delle  finanze,  il   quale,   nella   risoluzione
 ministeriale  n.  8/645  dell'8  gennaio 1993 ..., stabili' che ''per
 effetto delle modifiche apportate dall'art. 88 del d.P.R. n. 917/1986
 i comuni, le province, le comunita' montane e le regioni, non essendo
 piu' soggetti all'Irpeg e Ilor, non debbono subire ritenute per  tali
 imposte''.    Che,  poi,  il  Ministero  delle  finanze,  pressato da
 esigenze di cassa, abbia prontamente  fatto  proprio  un  parere  del
 Ministero  del  tesoro  a  sua  volta  diramato  agli enti locali dal
 Ministero dell'interno (circolare ministeriale dell'interno 19  marzo
 1993,  n.  11)  non  meraviglia,  mentre  meraviglia  che nella nuova
 risoluzione (risoluzione ministeriale 8 dicembre 1993, n.  III-5-846)
 si  affermi  -  senza  che  la  carta  si colori di rosso - che ''non
 sussiste alcun contrasto fra quanto  affermato  nella  risoluzione  e
 nella circolare sopra richiamate''.
   Il  riferimento  e',  ovviamente, alla risoluzione n. 8/645 ed alla
 circolare   ministeriale   dell'interno.   Secondo   l'autore   della
 risoluzione  ministeriale  n. III-5-846, dunque, nella risoluzione n.
 8/645 si era fatto ''generico riferimento ai redditi di  capitale  ed
 ai  dividendi,  senza fornire alcun particolare chiarimento in ordine
 al regime applicabile agli interessi derivanti da  depositi  e  conti
 correnti  bancari  e postali intestati agli enti in oggetto. Trattasi
 di un travisamento cosi' palese e sfrontato che soltanto  l'anonimato
 delle risoluzioni puo' spiegare. Nella risoluzione de qua, invero, si
 partiva  dalla richiesta di conoscere ''se possano essere operate nei
 confronti del comune  ritenute  sugli  interessi  e  sui  redditi  di
 capitale,  nonche'  sui  dividendi  percepiti per la partecipazione a
 societa' e, infine, sui contributi dal comune stesso ricevuti'' e  si
 concludeva  come  sopra riportato.   Ne' puo' parlarsi, nella specie,
 come  pure  fa  per  primo  il   Ministero   del   tesoro   e,   poi,
 pappagallescamente,    il    Ministero   dell'interno,   di   imposta
 sostitutiva, dato che l'istituzione di questa  con  riferimento  agli
 interessi su somme depositate non e' prevista dalla legge di delega e
 sarebbe, dunque, palesemente incostituzionale.
   Comunque,  le  conclusioni  alle quali e' pervenuto questo Collegio
 sono condivise ormai dalla stessa Commissione tributaria di  1  grado
 che inizialmente era di contrario avviso e trovano puntuale riscontro
 anche  nella  decisione  30  settembre 1994, n. 661 della Commissione
 tributaria di 1 grado di Roma e nella dottrina"  (Comm.  trib.  di  2
 grado  di  Bolzano,  sez.  I,  dec.  26 settembre 1995, n. 586, in il
 fisco, n. 44/1995, 10623-10624, nonche' in Corr. trib.,  n.  17/1996,
 1367);
     b)  dopo  aver  ribadito  che  "gli  interessi  su conti correnti
 bancari e postali di spettanza degli enti non soggetti all'Irpeg,  ai
 sensi  dell'art.  88  del  d.P.R.  n.  917/1986, non devono subire la
 ritenuta di cui all'art. 26 del d.P.R. n.  600/1973"  -  in  sede  di
 definizione  dei  capisaldi del sistema e delle incogruenze causative
 di  illegittimita'  che   ne   deriverebbero   ove   si   accogliesse
 l'orientamento  infine puntualizzato dall'Amministrazione finanziaria
 -, che "il vigente (nuovo)  sistema  tributario  per  gli  organi  ed
 Amministrazioni  dello  Stato  e' basato:   - sul non assoggettamento
 all'Irpeg (non si parla di esenzione); -  sulla  non  presentabilita'
 della dichiarazione annuale dei redditi.
   Il  non  assoggettamento  all'imposta  vuol  dire  che:  a)  questi
 soggetti debbono rimanere estranei al tributo; b)  l'estraneita'  non
 si riferisce esclusivamente alla fase di dichiarazione dei redditi ma
 ad  ogni  momento  in  cui  ci sono manifestazioni di imponibilita' a
 carico di questi soggetti; c) se l'estraneita' dovesse riferirsi solo
 in  sede  di  dichiarazione  il  legislatore  avrebbe  dovuto   usare
 l'espressione  di  esonero dalla presentazione e non invece quella di
 ''non assoggettamento all'Irpeg''.
   Opinando diversamente, in caso di assoggettamento  all'imposta  nel
 corso  della  formazione di singoli redditi, si avrebbero le seguenti
 incongruenze: - non potendo riportare  alla  fine  dell'esercizio  le
 ritenute  subite,  in  quanto  non e' prevista la presentazione della
 dichiarazione annuale, si viene a creare una evidente  disparita'  di
 trattamento  con  i  soggetti  privati  che  in sede di dichiarazione
 riportano in detrazione le ritenute subite nel corso  dell'esercizio;
 -  si  aggraverebbe  la situazione fiscale degli enti locali rispetto
 alla situazione previgente laddove per una parte  erano  tenuti  alla
 presentazione  della  dichiarazione  ed al recupero delle ritenute ad
 aliquota ridotta (cioe' 18,5% a fronte  dell'aliquota  ordinaria  del
 30%)"  (Comm.  trib.  reg.  Emilia-Romagna,  sez. V, sent. 18 marzo-5
 maggio 1997, n. 5, in Guida normativa, 14 ottobre  1997,  36-37,  con
 nota adesiva di De Simoni-Guidi, "Esecuzione estensibile a consorzi e
 aziende  speciali", ivi, 39-39. La stessa sentenza la si puo' leggere
 in Corr. trib., n. 27/1997, con commento  favorevole  di  Ielo,  2001
 ss.).
   In breve, dopo qualche esordio perplesso, l'indirizzo consolidatosi
 e'  nel  senso  poc'anzi  esposto,  senz'altro  favorevole a regioni,
 province, comuni e comunita' montane, in  evidente  aderenza  con  la
 soluzione  data al problema della soggettivita' tributaria degli enti
 pubblici territoriali dal legislatore del 1990: si  vedano,  infatti,
 quanto  al  primo grado, Comm. trib. Roma, sez. XV, dec. 12 settembre
 1994, n. 478 e n. 479; sez. XL, dec. 5 novembre 1994, n.  661;  Comm.
 trib.    Belluno,  sez.  I,  dec.  5  agosto 1994, n. 22; Comm. trib.
 Firenze, dec. 17 dicembre 1994, n. 585, Comm. trib. Bolzano, sez. IV,
 dec.  14 aprile 1994, n. 278, e dec. 7 novembre 1994, n.  509;  Comm.
 trib.    Venezia,  sez.  VII,  dec. 23 luglio 1994, n. 882, e dec. 23
 agosto 1994, n. 867; sez. I, dec. 21 settembre 1995 n. 123 e n.  124;
 sez.    VII, sent. 29 ottobre 1996, n. 267, n. 268 e n. 269; sez. VI,
 sent.  15 settembre 1997; n. 97; Comm. trib. Ferrara, sent. 4  luglio
 1997,  n.  267;  Comm. trib. Udine, sez. VII, sent. 8 giugno 1998, n.
 193; quanto al secondo grado, Comm. trib. Bolzano, sez.  I,  dec.  20
 febbraio 1995, n. 19; sez. I, dec. 26 settembre 1995, n. 586; sez. I,
 sent.    6  novembre  1995,  n.  297  e  n.  298;  Comm.  trib.  reg.
 Emilia-Romagna, sez. V, sent. 8 maggio 1997, n. 4 e n. 5; Comm. trib.
 reg. Veneto, sez. XXXII, sent. 2 luglio-17 settembre 1998, n.  140  e
 n. 141.
   7.  -  Per  parte sua, la dottrina e' stata ancor piu' drastica nel
 recensire criticamente le pretese dell'Amministrazione finanziaria.
   Per limitarsi ad una rapida rassegna di questioni - che  qui  vanno
 riprese  per  quel  tanto  che  serve  ad  evidenziare  la denunciata
 aberratio -, vale la pena di ricordare  che  non  si  e'  mancato  di
 indicare,  con estrema chiarezza, la ratio del vigente art. 88, comma
 1, del d.P.R.   n. 917/1986 ("E'  opportuno  oltretutto  sottolineare
 come   un'esclusione   da   imposizione  per  detti  enti  comportava
 l'eliminazione di una  serie  di  adempimenti  burocratici,  come  ad
 esempio l'obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi ex
 art.  13,  primo  comma,  lettera b), del d.P.R. n. 600/1973, nonche'
 l'obbligo della tenuta di una contabilita' come prevista dall'art. 14
 del citato d.P.R.  n. 600/1973 ...": Terzani, "I proventi  finanziari
 degli  enti  locali  esenti  da  ritenute  fiscali?", in il Fisco, n.
 23/1996, 5767), il quale comporta - al di  la'  di  ogni  ragionevole
 dubbio  -  l'esclusione  della soggettivita' tributaria (anche) delle
 regioni a fini Irpeg ("Non e' superfluo in propostito  ricordare  che
 il  concetto  di  esenzione  soggettiva  si distingue nettamente e si
 oppone a quello di non soggettivita'.
   Infatti, l'esenzione soggettiva ricorre nei soli  casi  in  cui  la
 legge  dichiara  non  obbligata al pagamento dell'imposta una persona
 che secondo  le  disposizioni  piu'  generali  della  medesima  legge
 rientrerebbe fra i soggetti passivi del tributo.
   In altri termini, si puo' dire che il soggetto esente presuppone il
 soggetto  passivo".  Cio'  che  conta,  poi,  e'  "che  il richiamato
 principio generale ci porta a concludere che, poiche'  la  norma  del
 comma  4,  art.  26  preesisteva  alla  modifica introdotta dal testo
 unico,  non  poteva  prevedere  ipotesi  di  non soggettivita' allora
 inesistenti completamente, ma solo ipotesi  di  esenzione  dall'Irpeg
 tutte  disciplinate  dal  d.P.R. n. 601/1973": Napoli, "Gli interessi
 sui depositi degli enti pubblici sono soggetti a ritenuta", in  Corr.
 trib.  n.  11/1995, 707, cui adde Tosi, "Assoggettamento a ritenuta",
 cit. 383 ss.: Pettinato-Pugliese, "Sugli interessi maturati a  favore
 delle  municipalizzate non si applicano le ritenute", in Corr. trib.,
 n. 39/1994, 2585 ss.: Cipolla, in  Rass.    trib.,  n.  4/1996,  869,
 nonche'  Viotto,  "Ritenuta  d'imposta  sugli  interessi  bancari dei
 comuni.   Problemi    interpretativi    e    conseguenze    derivanti
 dall'inadempimento  del sostituto", in Riv. dir. trib., 1995, I, 1045
 ss.), esclusione che determina, ove si operi comunque un  prelievo  a
 carico   del   seggetto   escluso,   una   violazione   dei  principi
 costituzionali di eguaglianza  e  di  capacita'  contributiva  (Tosi,
 "Assoggettamento a ritenuta", cit., 385).
   D'altra   parte,   e'   solo   equivocando   circa  il  significato
 dell'espressione "in ogni altro caso" (di  cui  all'art.  26,  quarto
 comma,  del  d.P.R.    n. 600/1973, peraltro antecedente - come si e'
 sottolineato - al testo introdotto nel 1990) che si  puo'  pretendere
 di   annoverare   i  soggetti  esclusi  dall'ambito  di  operativita'
 dell'Irpeg tra quelli tenuti  a  subire  la  ritenuta  d'imposta  (in
 realta',  come ha ben spiegato Tiengo, "Illegittimita' della ritenuta
 alla fonte sui proventi finanziari di soggetti esclusi da Irpeg",  in
 Riv.  dir. trib., 1995, II 145 ss., tale locuzione vale ad integrare,
 in via residuale, l'elencazione di cui all'art. 26, commi 1 e 2,  del
 d.P.R. n. 600/1973: "Non sono ricompresi in tale elencazione gli enti
 non  residenti  che  abbiano  in  Italia  una stabile organizzazione,
 nonche' gli enti non commerciali di cui alla lett.  c)  dell'art.  2,
 d.P.R.  1973, n. 598. E proprio per questi soggetti il legislatore ha
 previsto, mediante la previsione di chiusura ''in ogni altro  caso'',
 una ritenuta a titolo d'imposta", a proposito della quale v. De Mita,
 "Ritenuta  d'imposta:  l'asso pigliatutto del diritto tributario", in
 Fisco e Costituzione, cit.: 902 ss. V.,  altresi',  De  Simoni-Guidi,
 op.  cit.,  39,  i  quali  sottolineano,  appunto, il fatto che "tale
 dizione  e'  riferibile  a   tutte   quelle   ipotesi   riconducibili
 nell'ambito  di  soggetti  unicamente esenti da imposta e non esclusi
 dalla stessa", nonche',  Ielo,  op.  cit.,  2003);  e  tale  equivoco
 produce  -  come  evidenziato  dal giudice tributario (Comm. trib. II
 grado di Bolzano, sez  I,  dec.  n.  586/1995,  cit.  sub  6)  -  una
 violazione della "legge delega per la riforma tributaria (legge 1971,
 n.  825),  la  quale  per  i  ''redditi derivanti da depositi e conti
 correnti bancari e postali e  da  obbligazioni  e  titoli  similari''
 corrisposti ai soli soggetti Irpeg volle prevedere all'art. 10, n. 5,
 una  ritenuta  a titolo d'acconto. Cosi' come, ancora, per i soggetti
 esenti da Irpeg e da  Ilor  venne  prevista  una  ritenuta  a  titolo
 d'imposta"  (Tiengo, "Illegittimita' della ritenuta alla fonte" cit.,
 147, e Pettinato-Pugliese, op. cit., 2587).
   Ma v'e' di piu' e di ancor piu' rilevante ai nostri fini.
   Si e' giustamente osservato, infatti, che "i fondi di tesoreria non
 sono  dopositi  bancari  per  mancanza  dei  requisiti  oggettivi   e
 soggettivi  e,  pertanto, anche per questo verso non devono subire la
 ritenuta alla fonte a titolo d'imposta prevista dal comma 4 dell'art.
 26": il tesoriere non e' da da considerare un'azienda di credito  (v.
 telegramma  del  Ministero  delle  finanze  del 14 settembre 1992, in
 Corr. trib., n. 38/1993,  2744)  e  "le  giacenze  di  tesoreria  non
 possono  essere oggettivamente qualificate depositi bancari" (Napoli,
 "Gli interessi sui depositi", cit., 708),  atteso  il  meccanismo  di
 finanziamento  delle  regioni ed il sistema di tesoreria unica di cui
 alla legge n. 720/1984 (se ne  parlera'  sub  12  e  in  un'eventuale
 successiva memoria).
   8.  -  Quanto esposto consente di precisare, in modo assai lineare,
 quali sono gli elementi  essenziali  di  un  settore  prevalentemente
 esposto e problematico della fiscalita' - quello riguardante gli enti
 pubblici,  in  specie  territoriali  -,  le  cui  soluzioni risultano
 condizionate da una serie molteplice di fattori: tra  l'altro,  dalla
 normativa  comunitaria;  dalle complicazioni di carattere gestionale;
 dal modo di essere di taluni istituti del diritto tributario, i quali
 vanno tra loro coordinati sul versante sia sostanziale (ad es.: della
 soggettivita' passiva) sia procedurale (ad es.: delle ritenute).
   Ad ogni buon conto, il quadro normativo di riferimento, colto nella
 descritta evoluzione, all'interno del quale e'  stato  calato  l'art.
 14 della legge n. 28/1999, e' il seguente:
     a) nella vigenza degli originari disposti dell'art. 51 del d.P.R.
 n.  597/1973,  dell'art. 2 del d.P.R. n. 598/1973, (e dell'art. 4 del
 d.P.R. n. 663/1972) e dell'art. 88, comma 1, del d.P.R. n.  917/1986,
 regioni,  province, comuni e comunita' montane erano soggetti passivi
 a fini Irpeg ed Ilor: in quanto tali, relativamente  alle  operazioni
 imponibili,  erano  tenuti  a  compilare una contabilita' separata, a
 presentare annualmente la relativa dichiarazione, esponendo - e,  con
 cio', recuperando - le somme per le quali avevano subito le ritenute;
     b)   perdurando   notevoli   incertezze  circa  la  natura  delle
 operazioni poste in essere da detti enti rilevanti ai fini  Irpeg  ed
 Ilor   -   incertezze   accentuate,   piuttosto  che  risolte,  dalla
 giurisprudenza della Corte di  giustizia  CEE  -  il  legislatore  ha
 assunto  due  differenti determinazioni:  da un lato, ha inteso porre
 la parola fine  sul  pregresso,  prevedendo  una  sanatoria  fiscale,
 accompagnata da amnistia (per le ovvie implicazioni penali dipendenti
 dalle omesse dichiarazioni e versamenti); d'altro lato, ha equiparato
 -  e,  qundi,  escluso  dalla  soggettivita' Irpeg ed Ilor - regioni,
 province, comuni e comunita' montane allo Stao:   con le  conseguenze
 espressamente sottolineate dalla giurisprudenza (v. sub 6, lett. b);
     c)  cio'  ha determinato un rapporto di assoluta indifferenza tra
 attivita' delle regioni e Irpeg, della quale si occupano  sia  l'art.
 26,  quarto  comma,  del  d.P.R.  n.  600/1973  (decreto  concernente
 "Disposizioni comuni in materia di  accertamento  delle  imposte  sui
 redditi")  sia  l'art.  88, comma 1, del d.P.R. n. 917/1986 (il quale
 detta le regole sostanziali in tema di "imposte sui redditi").
   9. - Senonche', il legislatore ha di recente stabilito - con l'art.
 14 della legge n. 28/1999, qui impugnato - che  "la  disposizione  di
 cui  all'art. 26 quarto comma, terzo periodo, del d.P.R. 29 settembre
 1973, n. 600, riguardante  l'applicazione  della  ritenuta  a  titolo
 d'imposta sugli interessi, premi ed altri frutti delle obbligazioni e
 titoli  similari  e  sui conti correnti deve intendersi nel senso che
 tale ritenuta si applica anche nei  confronti  dei  soggetti  esclusi
 dall'imposta sul reddito delle persone giuridiche".
   Come  appare  evidente  dalla pura e semplice lettura della rubrica
 dell'articolo, si tratta di una disposizione che pretende  di  essere
 meramente  interpretativa  e,  quindi,  dotata,  per  cio'  solo,  di
 efficacia retroattiva. Ma, piu' radicalmente ancora, simile  disposto
 pretende  di  inserirsi  nell'ordinamento  fiscale naturaliter - piu'
 esattamente:  senza colpo ferire - disinteressandosi  delle  storture
 che  ne conseguono:  non trascurabili, ne' sul piano quantitativo ne'
 sul piano qualitativo.
   Gia' ha osservato taluno -  in  sede  di  primo  commento  e  nella
 prospettiva del quivis de populo - che dovra' "essere chiarita ... la
 portata della disposizione contenuta nell'art. 14 del decreto omnibus
 che, con censurabile tecnica giuridica, inteviene, con effetto - pare
 -  retroattivo,  a definire l'ambito di applicazione di una norma che
 dovrebbe limitarsi a definire  le  modalita'  di  applicazione  delle
 imposte,  una  volta  definiti  aliunde i soggetti a cui le stesse si
 applicano", ed il chiarimento e' tanto piu' necessario in quanto  "la
 soluzione   dell'interpretazione   autentica,  retroattiva,  dopo  le
 sconfitte ripetute in contenzioso", e' "un regalo  poco  corretto  in
 favore del fisco" (Buscaroli-Saccapo, "Interessi: la ritenuta finisce
 in Cassazione", in Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 1999).
   Quest'ultima annotazione - piaccia o non piaccia - e' indubbiamente
 grave  e  ripropone  questioni essenziali (destinate a rimanere sullo
 sfondo di questo giudizio, perche' si infrangono contro luoghi comuni
 consolidati in tema di leggi interpretative e di retroattivita'), che
 attengono alla separazione dei poteri, per  un  verso  (e'  il  piano
 proprio  della  forma  di  governo),  e  al senso piu' generale della
 liberta', per altro verso (e' il profilo che attiene  alla  forma  di
 Stato).  Ma, anche prescindendo da cio', rimane comunque il fatto che
 l'art.    14 della legge n. 28/1999 - come si e' gia' rilevato sub 1,
 in fine - non riesce a fare sistema: a) ne' con le  leggi  tributarie
 vigenti  b)  ne', loro tramite, con le proposizioni costituzionali di
 riferimento, ivi comprese quelle del Titolo V.
   10. - Sotto il  primo  profilo,  l'esito  cui  il  citato  disposto
 conduce  e'  scontato, risolvendosi in puntuali violazioni di legge e
 in fenomeni di manifesta irrazionalita', ulteriormente devastante  il
 c.d.  ordinamento  tributario  (v.  sub  1, la' dove si e' ripresa la
 significativa opinione di Livio Paladin).
   Quanto alla asserita  violazione  di  legge,  l'art.  14  dell'atto
 impugnato  collide  con  l'art.  10,  n.  5, della legge di delega n.
 825/1971, nel senso indicato sub 6, lett. a)(da Comm. trib. II  grado
 di   Bolzano,   sez.  I,  dec.  26  settembre  1995,  n.  586,  cit.,
 10623-10624) e sub 7 (come sottolineato  da  Tiengo,  "Illegittimita'
 della   ritenuta  alla  fonte",  cit.,  147):  il  che  configura  la
 violazione dell'art. 76 Cost.
   Quanto ai  denunciati  fenomeni  di  manifesta  irrazionalita',  e'
 sufficiente  riprendere,  ancora  una  volta,  gli  spunti offerti da
 dottrina e giurisprudenza, che qui si possono brevemente  riassumere.
 Stando  ad essi - come si e' visto - e' contraddittorio prevedere, ad
 un tempo, la non assoggettabilita' a tributo di un  dato  soggetto  e
 l'obbligo,  per  questo,  di  sottoporsi  ad  una ritenuta d'imposta.
 Infatti, la soggettivita' passiva implica adeguamenti coerenti con la
 struttura del tributo e adempimenti specifici (di  cui  si  e'  detto
 passim),  i  quali  hanno  la  funzione di regolare ed equilibrare il
 rapporto giuridico d'imposta: tant'e' che le ritenute sono recuperate
 - ove si guardi al regime del prelievo di cui trattasi - in  sede  di
 dichiarazione  annuale del soggeto passivo; non, invece, del soggetto
 escluso e, dunque della regione, paradossalmente  colpita  -  innanzi
 tutto  il  punto  di  vista  del  diritto  tributario  -  dal dettato
 dell'art. 26 del d.P.R. n. 600/1973.
   Oltretutto, cio'  determina  -  quale  naturale  conseguenza  -  la
 reviviscenza  di  una  soggettivita'  tributaria passiva (che ci deve
 essere, ove si ritenga conforme  a  sistema  la  ritenuta  in  esame)
 letteralmente  negata  dal  dettato (oltre che dalla ratio) dell'art.
 88,  comma  1,  del  d.P.R.  n.   917/1986:   il   che   comporta   -
 contraddittorialmente  ancora  -  che  la  regione  sia colpita da un
 prelievo relativamente ad un'imposta - l'Irpeg - alla quale e'  stata
 sottratta, avendo lo stesso legislatore ritenuto insussistente (o, se
 si preferisce, irrilevante) una capacita' contributiva.
   A  tale  riguardo,  si  deve aggiungere che l'art. 26 del d.P.R. n.
 600/1973 non puo' riferirsi a  fattispecie  riconducibili  all'Irpeg:
 pertanto,  le  somme  depositate  in  conto  corrente, generatrici di
 interessi sui quali  operare  la  ritenuta,  dovrebbero  derivare  da
 operazioni  svolte  nell'esercizio  di "imprese commerciali" (ex art.
 51,  d.P.R.    n.  917/1986),  comunque  non  ricollegabili  ai  fini
 istituzionali  dell'ente  inteso  (anche  dal  punto  di  vista della
 normativa comunitaria) come  "pubblica  autorita'".  Tutto  cio'  non
 accadeva quando la regione, soggetto passivo Irpeg, era tenuta - come
 si   e'   accennato  -  a  differenziare  le  proprie  operazioni,  a
 contabilizzare a parte quelle fiscalmente rilevanti, a  corrispondere
 il  relativo  tributo,  a  subire  la  ritenuta  a  titolo d'imposta,
 accompagnata dalla facolta' di recupero.
   11.  -  Proiettate  sul  piano  del  diritto  costituzionale,  tali
 manifeste  irrazionalita' rendono evidente l'eccesso di potere in cui
 e' caduto il legislatore,  quando  ha  -  volutamente  o  meno,  poco
 importa - concorso a disarticolare, una volta di piu', il sistema.
   Infatti, le denunciate incogruenze comportano tout court:
     a)  la  violazione  del principio di eguaglianza (art. 3, Cost.),
 dal momento che la regione  non  puo'  -  diversamente  da  qualunque
 soggetto  passivo Irpeg - recuperare in sede di dichiarazione annuale
 (che non solo non e' tenuta, ma non  puo'  presentare,  in  forma  di
 quanto  dispone  l'art.  88,  comma  1,  del  d.P.R.  n. 917/1986) le
 ritenute operate a suo carico sugli  interessi  relativi  alle  somme
 giacenti in conto corrente;
     b)  la  violazione  del principio di capacita' contributiva (art.
 53 Cost.), poiche' la ritenuta  a  titolo  d'imposta  cade  su  somme
 depositate in conto corrente che non sono correlate al presupposto in
 base  al quale un soggetto e' colpito dall'Irpeg: infatti, la regione
 non compie - per definizione ex art.  88,  comma  1,  del  d.P.R.  n.
 917/1986  -  le  attivita'  di  cui  all'art. 51 del medesimo decreto
 presidenziale e, nondimeno, e' tenuta a subire  un  prelievo  che  si
 traduce in un esborso sine titulo;
     c)  la  violazione del principio costituzionale di buon andamento
 (art. 97 Cost.), in quanto -  senza  spedendere  molte  parole  -  e'
 intuitivo  che  simili  aberrazioni finiscono per rendere sempre meno
 attendibile e credibile la funzione legislativa: con quel che  segue,
 sul piano dell'azione ammnistrativa e finanziaria.
   Ancorche'  questa  difesa  sia dell'opinione che il legislatore non
 puo' mai interferire, con disposizioni  retroattive  e,  soprattutto,
 con   atti   (falsamente)   interpretativi,   sulle   pronunce   rese
 dall'autorita' giurisdizionale (le ragioni condivise sono  illustrate
 -  a  prescindere  dall'opinione espressa dall'autore - da Quadri R.,
 "Applicazione della legge in generale", Bologna-Roma, 1974, cui  adde
 Verde  G.,  "L'interpretazione  autentica della legge", Torino, 1997,
 nonche' Bin, "La Corte costituzionale tra potere e  retorica:  spunti
 per la costruzione di un modello ermeneutico dei rapporti tra Corte e
 giudici  di  merito",  in "La Corte costituzionale e gli altri poteri
 dello Stato", Torino 1993, 8  ss.,  e  Guastini,  "Il  giudice  e  la
 legge",   Torino,   1995,),   tuttavia,  nella  circostanza,  non  e'
 neccessario dire alcunche'  circa  il  contrario  avviso  di  codesta
 ecc.ma  Corte, visto che sono sufficienti - a fondare l'impugnativa -
 le massime formulate in tema di ragionevolezza,  che  rappresenta  il
 profilo  alla  stregua  del  quale  va  operato  il  sindacato  sulla
 fattispecie dedotta (alla luce di cio' che si dira', fra un  istante,
 sub 12).
   Dunque, "il giudizio di eguaglianza" - secondo le relazioni esposte
 nella sequenza: artt. 3, 53 e 97 Cost., come precisato poc'anzi - "e'
 in se' un giudizio di ragionevolezza, vale a dire un apprezzamento di
 conformita'  tra la regola introdotta e la ''causa'' normativa che la
 deve assistere: ove la disciplina positiva si discosti dalla funzione
 che la stessa e' chiamata a svolgere nel sistema e ometta, quindi, di
 operare  il  doveroso  bilanciamento  dei  valori  che  in   concreto
 risultano  coinvolti, sara' la stessa ''ragione'' della norma a venir
 meno, introducendo una selezione di regime giuridico priva  di  causa
 giustificativa   e,   dunque,   fondata   su  scelte  arbitrarie  che
 ineluttabilmente perturbano il canone dell'eguaglianza. Ogni  tessuto
 normativo   presenta,   quindi,   e   deve   anzi   presentare,   una
 ''Motivazione''  obiettivata  nel  sistema,  che  si  manifesta  come
 entita'  tipizzante  del  tutto  avulsa  dai ''motivi'', storicamente
 contingenti, che possono avere indotto il legislatore a formulare una
 specifica opzione: se dall'analisi di tale motivazione scaturira'  la
 verifica  di  una carenza di ''causa'' o ''ragione'' della disciplina
 introdotta, allora e soltanto allora potra' dirsi realizzato un vizio
 di legittimita' costituzionale della norma, proprio  perche'  fondato
 sulla  ''irragionevole''  e  per  cio'  stesso  arbitraria  scelta di
 introdurre un regime che necessariamente finisce  per  omologare  fra
 loro  situazioni  diverse  o,  al  contrario,  per  differenziare  il
 trattamento di situazioni analoghe"  (Corte  cost.,  sent.  28  marzo
 1996,  n.  89, in Giur. cost., 1996, 824, V., altresi', tra le tante,
 sent. n. 432/1997, ivi, 1997, 3858 ss., nonche',  soprattutto,  sent.
 n. 6/1994, ivi, 1994, spec. 69 ss.).
   Nel  caso  in  questione, la preoccupazione di acquisire allo Stato
 disponibilita' finanziarie,  accompagnata  dal  metodo  concretamente
 prescelto  -  ricorso alla legge interpretativa, perche' retroattiva,
 incidente non sulla soggettivita' tributaria sostanziale,  ma  su  un
 meccanismo  procedurale,  qual  e'  lo  strumento della ritenuta - ha
 portato alla manipolazione artificiosa del sistema creato con  l'art.
 88,  comma 1, del d.P.R. n. 917/1986 ed alle conseguenti - denunciate
 - inevitabili ed obiettive distorsioni.
   12. - Tali distorsioni (di cui si dira' amplius in  una  successiva
 memoria,  dopo  aver  preso  visione  dell'eventuale contrario avviso
 della Avvocatura  generale  dello  Stato)  rifluiscono  sullo  status
 costituzionale  della  regione,  come  definito dall'art. 119 e dalla
 connesse  disposizioni  riguardanti  le   funzioni   legislative   ed
 amministrative,  di  cui  agli  artt.  117  e  118  Cost., ovviamente
 condizionate dalla finanza.
   E'  evidente,   infatti,   che   la'   dove   il   legislatore   ha
 surrettiziamente  assoggettato  ad  Irpeg,  attraverso una ritenuta a
 titolo d'imposta,  la  regione,  dopo  averla  esclusa  dall'area  di
 operativita' del tributo, in violazione tra l'altro degli artt. 3, 53
 e  97  Cost.  (nei  limiti precisati sub 11), ha disposto un prelievo
 coatto   a   carico   di   disponibilita'    regionali    costitutive
 dell'autonomia finanziaria dell'ente, garantita dall'art. 119 Cost. A
 cio'  si  aggiunga  che  le somme generatrici degli interessi colpiti
 dalla  ritenuta  concernono  risorse  che  affluiscono  alla  regione
 nell'ambito  del  sistema di tesoreria unica, previsto dalla legge n.
 720/1984, risorse che sono della regione e  che  nulla  hanno  a  che
 vedere  con  il  presupposto  dell'Irpeg:  tant'e'  che,  anche se la
 regione fosse inclusa - com'era prima della riforma del 1990 - tra  i
 soggetti  passivi  di  detta  imposta,  comunque  i cespiti de quibus
 risulterebbero sottratti al prelievo tributario in questione, essendo
 i medesimi riferibili alle voci di cui si compone  -  ex  art.    119
 Cost.  - il sistema delle entrate della regione (in proposito, v., ad
 es.,  Paladin,  "Diritto  regionale",  Padova,  1997,  245   ss.,   e
 Pescatore-Felicetti-Marziale-Sgroi,   "Costituzione   e   leggi   sul
 processo costituzionale e sui referendum", Milano, 1992, 1359 ss.).
   13. - E poi si parla di "federalismo fiscale"|