IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha emesso il seguente provvedimento a seguito di reclamo proposto da Cualbu Pierino Gianni, nato in Fonni il 28 giugno 1951 e detenuto presso la C.C. di Nuoro, avverso il decreto di diniego di permesso premio emesso dal magistrato di sorveglianza di Nuoro in data 26 ottobre 1998 nei confronti del predetto detenuto; O s s e r v a Con provvedimento in data 26 ottobre 1998 il magistrato di sorveglianza di Nuoro dichiarava inammissibile l'istanza volta ad ottenere un permesso premio proposta da Cualbu Pierino, argomentando come lo stesso, condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione, non fosse stato riconosciuto collaboratore di giustizia ai sensi dell'art. 58-ter, ordinamento penitenziario. Nel censurato conflitto di norme tra l'art. 4-bis, comma 1, e l'art. 30-ter, comma 4, lett. c), ordinamento penitenziario indicava, inoltre, quale norma applicabile perche' speciale, quella contenuta nell'art. 4-bis. Avverso tale provvedimento proponeva tempestivo reclamo al tribunale il Cualbu rilevando di essere detenuto dal luglio del '91, aver sofferto custodia cautelare per anni due e mesi quattro, aver fruito di liberazione anticipata per l'intero arco della detenzione e di permessi per gravi motivi anche senza l'ausilio della scorta, nonche' di aver raggiunto attualmente un grado di rieducazione adeguato anche a misure alternative da fruirsi in ambiente esterno. I difensori del Cualbu, inoltre, con memoria depositata in cancelleria, lamentano l'antinomia del nuovo quadro normativo, quale quello risultante dal combinato disposto degli artt. 4-bis, 30-ter e 58-ter, legge n. 354/1975, che regola l'accesso alle misure premiali per i condannati per taluni gravi reati. L'art. 4-bis, infatti, nell'attuale formulazione, per i condannati della "prima fascia" introduce l'assoluta preclusione della collaborazione, laddove il comma 4, lett. c) dell'art. 30-ter subordina la concessione del permesso premio, per tutti i condannati del 4-bis, all'espiazione di una maggiore quota di pena. La difesa, sostiene, pertanto, che nel conflitto tra le due norme, nel rispetto del superiore principio del favor libertatis, debba trovare applicazione quella piu' favorevole al condannato e, pertanto, quella contenuta nell'art. 30-ter, comma 4, lett. c). Diversamente ne deriverebbe un'incostituzionalita' della normativa in esame sotto il triplice profilo della violazione: a) dell'art. 27 della Costituzione poiche' senza collaborazione per alcune categorie di autori, non vi sarebbe spazio per la rieducazione; b) dell'art. 3 della Costituzione in quanto si creerebbe una disparita' di trattamento rispetto a chi e' ammesso a fruire del permesso premio soltanto perche' concesso anteriormente all'entrata in vigore della norma censurata; c) dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione in quanto si vorrebbe applicare al Cualbu una norma peggiorativa entrata in vigore successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna e, quindi, all'inizio della sua esecuzione. E' doversoso osservare preliminarmente come quello che viene censurato dalla difesa del Cualbu quale conflitto di norme tra l'art. 4-bis ordinamento penitenziario e l'art. 30-ter, comma 4, lett. c) sia un conflitto soltanto apparente e non reale. L'art. 30-ter, infatti si applica ai condannati del 4-bis che abbiano commesso il reato successivamente all'entrata m vigore della norma stessa (quindi al maggio del 1991) e, pertanto, non e' invocabile nel caso del Cualbu per avere lo stesso commesso il reato ostativo nel 1983. Risolto il conflitto e individuata nell'art. 4-bis, primo comma, prima parte, l'unica norma applicabile al caso in esame, non rimane che affrontare il problema relativo ai contenuti di tale normativa e alla prospettata violazione dei principi costituzionali di uguglianza, irretroattivita' della legge penale e finalita' rieducativa della pena. Orbene, la norma nella sua attuale formulazione, dopo la modifica introdotta con la legge n. 356/1992, attribuisce una portata esclusiva alla condotta collaborativa quale unica idonea a dimostrare l'avvenuta rescissione dei legami con la criminalita' organizzata, sicche' in difetto di tale presupposto per i condannati della cosidetta "prima fascia" del 4-bis ordinamento penitenziario non c'e' possibilita' di accesso agli strumenti premiali previsti dall'ordinamento penitenziario. Cio' posto, in ordine alle eccepite questioni di costituzionalita' di detto precetto normativo si rileva: A) contrasto fra l'art. 4-bis, primo comma, prima parte e gli artt. 3 e 27 della Costituzione. Le diverse sentenze della Corte costituzionale intervenute negli anni imniediatamente successivi all'introduzione della norma e quindi al suo progressivo inasprimento, hanno consentito di ricondurla nell'alveo della costituzionalita' relativamente ai precetti di uguaglianza e della finalita' rieducativa della pena. La Corte infatti, affermato il principio che la legittimita' e' salvaguardata purche' la condotta collaborativa richiesta sia oggettivamente esigibile, lo ha poi sviluppato nelle note sentenze che hanno equiparato, sotto il profilo degli effetti, ad una collaborazione fattiva, la collaborazione impossibile o inutile per integrale accertamento dei fatti o perche' il condannato, per il ruolo marginale svolto, non sia in grado di fornire alcun contributo. La Corte ha avuto modo di interloquire ulteriormente sul tema della pregnante compressione della finalita' rieducativa della pena scaturita dalle scelte del legislatore dell'emergenza da ultimo con la sentenza del dicembre del '97, nella quale ha ritenuto tutelabile l'aspettativa del detenuto alla concessione di un beneficio penitenziario (nel caso di specie la semiliberta') qualora l'istante, all'epoca dell'entrata in vigore della disciplina restrittiva, avesse raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso. Sotto questo profilo, pertanto, la questione deve essere dichiarata mainfestamente infondata. B) contrasto fra l'art. 4-bis, primo comma, prima parte e l'art. 25, secondo comma della Costituzione. La Corte costituzionale, al contrario, non si e' mai pronunciata in ordine al lamentato conflitto con l'art. 25, secondo comma della Costituzione per difetto di rilevanza della questione, pur sottolineando incidentalmente che l'assunto potrebbe meritare una seria riflessione (sent. n. 206/1993). Si osserva in proposito come il principio di irretroattivita' della norma penale incriminatrice (del cosi' detto diritto penale punitivo) gia' disciplinato nell'art. 2 c.p. e quindi assurto a principio di rango costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.) vada riferito, secondo antorevole dottrina, non soltanto alle norme che disciplinano le fattispecie astratte di reato e le conseguenze sanzionatorie (quindi durata e specie della pena, misure disicurezza, pene accessorie e altri effetti penali, circostanze, qualifica del fatto, cause giustificative o estintive, insomma tutti quegli elementi che concorrono a formare il giudizio di disvalore astratto che il legislatore riconduce ad una determinata condotta) ma anche a quelle norme che formano il diritto dell'esecuzione della pena, e che incidono sulla qualita' e quantita' della pena da espiare in concreto. E se e' vero che e' criticabile la ricostruzione teorica di chi voglia fissare al momento della commissione del reato non solo l'entita' della pena che da questo puo' conseguire ma anche il tipo di trattamento penitenziario, e' peraltro innegabile che almeno con il passaggio in giudicato della sentenza si stabilisca tra lo stato e il condannato un "patto" che atterra' alla estensione della pretesa punitiva del primo e alle aspettative del secondo. Patto che non sembra, durante lo svolgimento del trattamento da esso disciplinato, possa essere modificato con una legge che stabilisca per il condannato condizioni deteriori e, pertanto, aggravi la punizione alla quale lo ha esposto la sua condotta. E poiche' la norma in esame, nel far discendere conseguenze favorevoli per il condannato da comportamenti per il passato non essenziali ai fini dell'ammissione ai benefici da essa indicati, opera un innegabile peggioramento del trattamento sanzionatorio, si reputa non manifestamente infondato il denunciato contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost. Detto questo ritiene inoltre il collegio che la questione sia rilevante nel caso in esame. Invero il Cualbu, condannato a venti anni di reclusione, per sequestro di persona commesso nel 1983, con sentenza divenuta esecutiva nel maggio del 1990, secondo la normativa in vigore all'epoca del passaggio in giudicato del titolo di condanna, si trova nelle condizioni di legge per accedere al beneficio richiesto. Il detenuto, infatti, in esecuzione di pena dal luglio del 1991 (dopo aver sofferto anni due e mesi quattro di custodia cautelare) ha abbondantemente espiato un quarto della pena inflitta, e potrebbe ottenere il permesso premio anche in ragione della positiva evoluzione della personalita' nel corso di circa dieci anni di detenzione. Il comportamento intramurario del Cualbu nel corso degli anni e' stato connotato da correttezza e adesione alle regole istituzionali e il gruppo di osservazione ha rilevato convinta partecipazione al trattamento e volonta' di superare il passato deviante. Anche in considerazione di questi risultati il detenuto ha fruito di numerosi permessi per gravi motivi senza l'ausilio della scorta e nell'altimo programma di trattamento approvato nel 1998 si ipotizza come valida l'eventuale concessione di una misura alternativa da fruirsi in ambiente esterno. Si osserva, inoltre, come questo tribunale abbia avuto modo di esaminare (ordinanza 4 luglio 1996) l'eventuale sussistenza del requisito della collaborazione sotto tutti gli indicati profili della collaborazione effettiva o, diversamente, di quella inesigibile per l'integrale accertamento dei fatti o per il ruolo marginale svolto, concludendo per l'insussistenza della medesima. Tutto quanto sopra esposto induce il collegio a richiedere l'intervento del giudice delle leggi perche' accerti se la disposizione sia conforme ai dettami costituzionali in materia di irretroattivita' della legge penale.