IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza su appello proposto  nell'interesse
 di  Alfiero  Vincenzo,  Conte  Andrea,  Conte  Vincenzo,  Cacciapuoti
 Alfonso, Lanza Benito e Pellegrino  Valentino  avverso  ordinanza  14
 agosto 1998 della Corte di Assise di S. Maria C. V., sezione feriale,
 con  la quale veniva rigettata istanza di scarcerazione per scadenza,
 nella fase delle indagini  preliminari,  del  termine  massimo  della
 custodia cautelare;
                             O s s e r v a
   1. - Come risulta dagli atti trasmessi dall'A.G. procedente e dalle
 "posizioni  giuridiche"  successivamente acquisite, Alfiero Vincenzo,
 Conte Andrea, Conte Vincenzo, Cacciapuoti  Alfonso,  Lanza  Benito  e
 Pellegrino  Valentino sono sottoposti a custodia cautelare in carcere
 per reato di associazione mafiosa in forza  di  ordinanza  coercitiva
 emessa   dal   g.i.p.   del   tribunale  di  Napoli  nell'ambito  del
 procedimento  c.d.  Spartacus  (Alfiero,  Conte   Andrea,   Lanza   e
 Pellegrino  dal  5  dicembre  1995,  Cacciapuoti dal 22 maggio 1996 e
 Conte Vincenzo continuativamente dal  15  settembre  1996,  dopo  tre
 precedenti  periodi  di  custodia che complessivamente non superano i
 quattro  mesi  e  che  venivano  interrotti   da   provvedimenti   di
 scarcerazione  ex art. 309/10 c.p.p.). Gli appellanti furono rinviati
 a giudizio avanti alla Corte di Assise di Napoli, la quale, pero' con
 sentenza 22 ottobre  1997,  dichiaro'  la  propria  incompetenza  per
 territorio  e rimise gli atti al p.m. della d.d.a.  di Napoli perche'
 promuovesse l'azione penale avanti alla Corte di Assise di  S.  Maria
 C.  V.  A  tanto il p.m. ha poi provveduto e in data 4 aprile 1998 e'
 stato emesso dal g.i.p. nuovo decreto di rinvio a giudizio.
   La  difesa  ha  formulato  istanza   di   scarcerazione   invocando
 l'applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale con
 sentenza  n.  292/98 e, con l'appello proposto ai sensi dell'art. 310
 c.p.p. avverso il provvedimento di rigetto della Corte di  Assise  di
 S.  Maria  C.    V., deduce: "Preliminarmente va osservato che quanto
 ritenuto dalla Corte, circa  la  limitata  efficacia  delle  sentenze
 interpretative   di   rigetto  della  Corte  costituzionale  (assunto
 opinabile, soprattutto nei casi, come quello oggetto  della  sentenza
 n.  292/98,  in cui la Corte indica l'unica interpretazione che rende
 la norma coerente con i principi costituzionali) si osserva che se  i
 criteri   utilizzati   dal  giudice  delle  leggi  si  riferiscono  a
 situazioni  generali,  costituiscono una valida guida per l'operatore
 del diritto; non solo, ma il  mancato  adeguamento  a  tali  criteri,
 imporrebbe  onde  evitare  che identiche situazioni siano regolate in
 modo  diverso  ai  giudici  di  merito  di  rivolgersi   alla   Corte
 costituzionale,  onde  verificare  la  corretta interpretazione della
 norma applicata.
   D'altronde,  la  Corte  costituzionale,  nell'evidenziare  che   le
 decisioni  del  giudice  delle  indagini  preliminari,  relative alla
 erronea individuazione del giudice di merito, non possono determinare
 una incontrollata dilatazione  dei  termini  di  custodia  cautelare,
 esprime un'affermazione coerente con il principio del giusto processo
 (d'altra  parte non deve essere trascurata la necessita' avvertita in
 tutta la sua gravita' dalla Corte costituzionale,  di  recuperare  la
 funzione    di   controllo   del   g.i.p.,   il   quale,   rigettando
 immotivatamente  istanze  di  incompatibilita'  giustamente  avanzate
 dalla  difesa,  oppure  ignorando la patologia di un atto processuale
 che  potrebbe  determinare,  in  una  fase  o  grado  successivo,  la
 regressione del procedimento, puo', a danno dell'imputato, dilatare i
 tempi processuali.
   Pertanto,  le  considerazioni  della  Corte  appaiono trascurare la
 stessa funzione del processo, che deve offrire a chi  lo  subisce  la
 certezza  della  legittimita'  delle  procedure applicate, nonche' la
 trasparenza nell'esercizio del potere coercitivo.
   Valuteranno i giudici del gravame la logicita' delle argomentazioni
 addotte nella sentenza della Corte costituzionale; ebbene, i  criteri
 adottati nella citata sentenza appaiono applicabili, contrariamente a
 quanto  immotivatamente  sostenuto  dalla Corte di Assise di S. Maria
 C.V., anche nel caso di specie, con le relative conseguenze. Inoltre,
 la difesa avverte l'esigenza di evidenziare la contraddittorieta' che
 contraddistingue la premessa della  parte  motiva  dell'ordinanza  de
 qua.  Infatti,  la  Corte d'Assise ritiene che "le statuizioni di cui
 all'art. 304 c.p.p. (Sospensione dei termini di durata massima  della
 custodia cautelare) ... vanno ritenute di carattere eccezionale ed in
 quanto   tali  sono  insuscettibili  di  interpretazione  analogica";
 ebbene, subito dopo, a pag.  4  dell'ordinanza,  si  ritiene  che  la
 citata  normativa  abbia  una valenza generale, in quanto costituisce
 una regola di chiusura applicabile in tutti  i  casi  in  cui  (ossia
 anche  al di fuori della sospensione) "i termini di cui all'art. 303,
 comma 4, possono essere della meta' oppure, ma anche che gli  stessi,
 se  piu  favorevoli  all'imputato, vanno parametrati ai due terzi del
 massimo della pena temporanea prevista  per  il  reato  contestato  o
 ritenuto in sentenza".
   La   generalizzazione  del  carattere  eccezionale  attribuita  dal
 giudice cautelare all'intera disciplina dell'art. 304  c.p.p.  appare
 evidentemente erronea. Se puo' condividersi la natura eccezionale dei
 prima  quattro  commi  del  citato articolo, superando essi la regola
 generale dell'art.  303, non puo' dirsi altrettanto dei commi 5 e  6,
 che  recuperano  la  funzione  di  tutela  della  liberta' personale,
 costituzionalmente garantita, tanto da porre degli  sbarramenti  alle
 eccezioni   poste   con  l'istituto  della  sospensione.  Sicche'  il
 riferimento  alla  impossibilita'  di  estendere   per   applicazione
 analogica la regola del comma 6 dell'art.  304 c.p.p. e' infondato.
   Inoltre,  si  evidenzia  che la citata A.G. ha tratto dalla rubrica
 dell'art. 304 c.p.p.: "sospensione  dei  termini  di  durata  massima
 della  custodia cautelare", l'esclusivo elemento interpretativo della
 norma, e quindi ha ritenuto nella premessa che  poi  ha  contraddetto
 applicabile  la  disciplina  del sesto comma unicamente a statuizioni
 relative    all'istituto    della    sospensione;    tale    criterio
 interpretativo,  oltre a non essere suffragato da alcuna disposizione
 di legge, e' in evidente contrasto con lo stesso tenore letterale del
 comma 6, dell'art. 304  c.p.p.,  che  trova  la  sua  giustificazione
 proprio  nella  necessita'  di  offrire  un  limite  all'istituto dei
 "termini di durata  massima  della  custodia  cautelare"  diverso  da
 quello disposto nell'art.  303 c.p.p.
   D'altronde,  va  anche  considerato che una diversa interpretazione
 della norma la renderebbe  priva  di  efficacia,  posto  che,  se  si
 esclude dal computo il periodo di "giacenza" del procedimento innanzi
 al  giudice  incompetente,  sarebbe  certamente  applicabile la norma
 relativa alla decorrenza dei termini di fase,  ex  art.  303  c.p.p.,
 determinando  l'evidente inutilita' del comma 6 dell'art. 304 c.p.p.,
 tale   considerazione   evidenzia   l'assoluta   illogicita'    delle
 argomentazioni sostenute nell'impugnato provvedimento ...".
   2.  - Va subito rilevato che l'appello relativamente alle posizioni
 di Cacciapuoti e Conte Vincenzo e' palesemente infondato,  in  quanto
 per  essi  la  durata  della  custodia  cautelare  nella  fase  delle
 indagini, pur computata secondo la prospettazione difensiva - vale  a
 dire  dall'esecuzione  del  provvedimento  coercitivo  alla  data del
 rinvio a giudizio avanti alla Corte di Assise di S. Maria  C.  V.  (4
 aprile  1998  - non ha comunque superato i due anni, cioe' il preteso
 "limite finale" pari al doppio del termine di fase.
   Al rigetto dell'appello consegue la condanna del Cacciapuoti e  del
 Conte Vincenzo al pagamento delle spese della procedura incidentale.
   Passando  all'esame  della  posizione  degli  altri  appellanti, va
 osservato che non  e'  dubbio  che  nella  specie,  a  seguito  della
 sentenza di incompetenza pronunciata dalla Corte di Assise di Napoli,
 si  e'  verificata  la  regressione del procedimento nella fase delle
 indagini preliminari e la nuova decorrenza del termine della custodia
 cautelare relativo a tale fase,  secondo  quanto  previsto  dall'art.
 303/2  c.p.p. La norma citata dispone, infatti, che "nel caso in cui,
 a seguito  di  annullamento  con  rinvio  da  parte  della  Corte  di
 cassazione o per altra causa, il procedimento regredisca a una fase o
 a  un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice,
 dalla data del provvedimento che dispone  il  regresso  o  il  rinvio
 ovvero   dalla   sopravvenuta  esecuzione  della  custodia  cautelare
 decorrono di nuovo i termini previsti dal  comma  1  relativamente  a
 ciascuno stato e grado del procedimento".
   La  previsione  dell'art.  303/2  era  stata  piu' volte oggetto di
 questioni di incostituzionalita', ma la Corte di cassazione ne  aveva
 sempre  ritenuto la manifesta infondatezza, osservando: che la norma,
 nel parificare, agli effetti dell'allungamento del termine  di  fase,
 la regressione del procedimento per nullita' (anche nel caso di gravi
 vizi  di  costituzione delle parti) alle altre ipotesi di regressione
 stabilite dalla legge, non contrasta con i principi di ragionevolezza
 e di uguaglianza (art. 3 Cost.), poiche' essa intende  in  ogni  caso
 bilanciare  le  conseguenze  negative  del  riprendere ex novo l'iter
 processuale con il permanere delle  esigenze  cautelari,  consentendo
 l'allungamento  del  termine di fase, ma comunque entro il termine di
 durata  complessiva  della custodia stabilito dall'art. 303/4 (Cass.,
 sez.  VI,  n.  915/1993,  Esposito);  che  non  sussiste   violazione
 dell'art.  13, ultimo comma, Cost., in quanto la norma costituzionale
 impone  che  la  legge  ordinaria  stabilisca,  per  il completamento
 dell'intero  procedimento,  il  limite  massimo   alla   carcerazione
 preventiva,  ma non esige anche che sia fissato altro limite parziale
 interno a ciascuna fase del procedimento stesso (Cass., sez.  VI,  n.
 3525/1993, Massidda); che non sussiste violazione degli artt. 13 e 24
 della  Costituzione perche', da un lato, e comunque previsto un tetto
 massimo della custodia  cautelare,  conformemente  a  quanto  dispone
 l'art.  13  Cost.,  che riserva alla discrezionalita' del legislatore
 ordinario i casi e i modi della detenzione  e,  in  genere,  di  ogni
 forma di restrizione della liberta' personale e, dall'altro, non puo'
 farsi  commistione tra il diritto di difesa inviolabile in ogni stato
 e grado del procedimento, che consente di eccepire una nullita', e  i
 riflessi  che  il  suo  esercizio  puo' avere in materia di liberta',
 essendo rimessa alla discrezionalita' difensiva la valutazione  della
 convenienza  di  esercitare, o meno, una certa facolta', anche per le
 implicazioni, le conseguenze e  le  interferenze  di  fatto  in  ogni
 direzione  (Cass.,  sez.  I,  n. 421/1994, Gigliotti ed altri; Cass.,
 sez. I, n. 1431/1996, Affuso, aveva poi escluso la sussistenza di una
 violazione dell'art. 76 Cost., per eccesso di  delega  rispetto  alla
 direttiva n. 61 dell'art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81).
   Peraltro,  con  ordinanza  22  novembre 1996 il tribunale di Reggio
 Calabria, in funzione di giudice di appello de libertate, rilevava di
 ufficio "questione di costituzionalita' dell'art. 303/4 c.p.p., nella
 parte in cui non  prevede  che,  oltre  al  superamento  del  termine
 complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento
 del  doppio del termine di fase, allorche' si verifichi la situazione
 descritta nel comma due di detto art. 303".
   Nel caso che dava occasione  alla  questione  vi  erano  state  due
 successive  regressioni  del  procedimento  nella fase delle indagini
 preliminari, a seguito di  sentenze  di  incompetenza,  e  la  difesa
 istante  aveva invocato l'applicazione dell'art. 304/6, rilevando che
 dalla data dell'arresto degli imputati alla data dell'ultimo rinvio a
 giudizio era decorso un periodo di  tempo  superiore  al  doppio  del
 termine   di   fase.  Il  g.i.p.  aveva  rigettato  la  richiesta  di
 scarcerazione sul  rilievo  che  la  situazione  degli  imputati  era
 disciplinata  unicamente  dai  commi  2 e 4 dell'art. 303 e non anche
 dall'art. 304.
   Con l'atto di appello la difesa aveva riproposto  la  questione  al
 tribunale   e  nella  discussione  aveva  poi,  in  via  subordinata,
 denunciato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 304/6 in  quanto
 applicabile  al  solo  caso di sospensione dei termini e non anche ai
 casi di regressione,  con  conseguente  irragionevole  disparita'  di
 trattamento.  Il  tribunale  di  Reggio  Calabria  con l'ordinanza di
 rimessione rilevava che la questione  era  mal  posta  dalla  difesa,
 poiche'  la  fattispecie  del  regresso  "e' disciplinata dalle norme
 contenute nell'art. 303 c.p.p., e non da quelle  contenute  nell'art.
 304   c.p.p.   ...   ogni  riferimento  all'art.  304  c.p.p.  e  ...
 inconferente, poiche' disciplina situazioni  affatto  differenti  ...
 attiene  all'istituto  della  sospensione  del  termine  di  custodia
 cautelare ed ai suoi limiti cronologici".
   Peraltro,  anche  il tribunale riteneva irragionevole la disparita'
 di disciplina tra istituti - quali appunto la sospensione dei termini
 e la interruzione dovuta a regressione o rinvio del procedimento, che
 presentano  una  "sostanziale  omogeneita'"   in   quanto   "entrambi
 rappresentano  degli  accidenti  che  si  verificano  nel cammino del
 procedimento, perlopiu' indipendenti dalla  volonta'  dell'imputato";
 pertanto  sollevava  la  questione  di  costituzionalita' nei termini
 sopra riportati (v.   ord. 22  novembre  1996,  tribunale  di  Reggio
 Calabria,  Ardizzone ed altro in Gazzetta Ufficiale n. 45/1997, prima
 serie speciale, n.  756).
   La Corte costituzionale con la sentenza n. 292/1998  ha  dichiarato
 la   questione   non   fondata,   affermando  in  motivazione  che  -
 contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo - "il  superamento
 di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la
 fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della
 custodia  anche  se  quei  termini  ...  sono  cominciati a decorrere
 nuovamente a seguito  della  regressione  del  processo".  La  Corte,
 infatti,  ha ritenuto che il "limite finale" di durata della custodia
 cautelare nelle singole fasi, fissato dall'art. 304/6 nel doppio  del
 termine  di fase, trovi applicazione non solo nei casi di sospensione
 dei termini, come sembrerebbe indicare la collocazione  della  norma,
 ma  anche  in  quelli  di  proroga  o  di interruzione determinata da
 regressione o rinvio del procedimento ad altro giudice.
   3.   -   La   soluzione   interpretativa   adottata   dalla   Corte
 costituzionale   non   e'   giuridicamente  vincolante  nel  presente
 procedimento.
   Le sentenze interpretative di rigetto  della  Corte  costituzionale
 non  sono  infatti  munite  dell'efficacia  erga  omnes propria delle
 decisioni   con   le   quali   viene   dichiarata    l'illegittimita'
 costituzionale  di  una  disposizione  di  legge, per cui assumono il
 valore di mero precedente, certamente autorevole, ma  non  vincolante
 per il giudice (ss.uu. 930/1996, Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Nel  caso della sentenza n. 292/1998, la soluzione interpretativa -
 ispirata  dall'intento  di  superare  la   denunciata   irragionevole
 disparita'  di  disciplina  tra  i casi di sospensione dei termini di
 custodia e quelli di interruzione dovuta  a  regresso  o  rinvio  del
 procedimento  -  finisce per creare una omogeneita' di disciplina tra
 tali casi, nei quali l'allungamento della durata  della  custodia  e'
 per lo piu' indipendente dalla volonta' dell'imputato, e quello della
 evasione,  nel  quale  l'allungamento deriva invece dal comportamento
 dell'imputato, per di piu'  penalmente  illecito  nella  sentenza  n.
 292/1998,  in  verita',  non  vi  e'  menzione  del  caso di evasione
 dell'imputato, ma anch'esso rientra tra i "i  fenomeni  che  comunque
 possono  interferire con la disciplina dei termini di fase", ai quali
 tutti si riferirebbe il "limite finale" di  cui  all'art.  304/6,  e,
 d'altro  canto,  l'art.  303/3  e' espressamente richiamato dall'art.
 304/6).
   Anche prescindendo da tale rilievo, il Collegio ritiene di  doversi
 discostare  dalla  soluzione interpretativa, pur cosi' autorevolmente
 indicata, per ragioni che attengono alla origine e alla ragione della
 norma di cui  all'art.  304/6,  alla  sua  collocazione  e  alla  sua
 letterale formulazione.
   Invero, l'esigenza di introdurre un "limite finale" di durata della
 custodia  cautelare  e'  stata  avvertita  dal legislatore proprio in
 relazione all'istituto della sospensione dei termini, che  nelle  sue
 concrete  applicazioni  avrebbe potuto determinare la quiescenza sine
 die   del   decorso   dei   termini.  il  "limite  finale"  e'  stato
 originariamente introdotto per la durata complessiva  della  custodia
 cautelare  (art.   272/9 c.p.p. abrogato; art. 304/4 nuovo c.p.p. nel
 testo  vigente  anteriormente  alla  legge   532/1995)   e   la   sua
 collocazione  (subito  dopo  le norme sulla sospensione dei termini e
 nel nuovo codice proprio nell'articolo intitolato  alla  sospensione)
 rende chiara l'intenzione del legislatore nel senso sopra indicato.
   Prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge n. 532/1995, non pare
 fosse, in realta', neppure ipotizzabile  l'applicazione  del  "limite
 finale"  ai  casi  del  regresso o del rinvio del procedimento (salvo
 quando - beninteso - dopo tali vicende  fosse  intervenuta  anche  la
 sospensione    dei    termini):    infatti,   nel   codice   abrogato
 l'irragionevole prolungamento della custodia nei casi di  regressione
 o  rinvio  del  procedimento, disciplinati dal comma quinto dell'art.
 272, era assicurato dalla specifica previsione del comma sesto  dello
 stesso  articolo  che  fissava  limiti  massimi di durata complessiva
 della custodia inferiori al "limite finale" di cui al comma nono; nel
 nuovo codice, anteriormente alla   legge n. 532/1995,  i  termini  di
 durata   complessiva   della  custodia  previsti  dall'art.  303/4  -
 applicabili nei casi di  regressione  o  rinvio  del  procedimento  -
 risultavano  sempre  inferiori  al  "limite  finale"  di cui all'art.
 304/4.
   Cade, quindi, l'argomento "storico" prospettato per  sostenere  che
 il  "limite  finale"  abbia  portata  non  circoscritta  ai  casi  di
 sospensione dei termini.
   L'art. 15/1 della legge  n.  532/1995,  nel  riformulare  il  testo
 dell'art.    304,  ha  introdotto  un "limite finale" di durata della
 custodia anche per le singole fasi (il doppio dei termini di fase)  e
 ha  piu'  favorevolmente  disciplinato  il  "limite finale" di durata
 complessiva della custodia, prevedendo che questa non puo' superare i
 termini di cui all'art.  303/4 aumentati della  meta'  e  richiamando
 comunque  il  previgente  "limite"  (due terzi del massimo della pena
 temporanea), da applicarsi pero' solo se piu' favorevole.
   Che tali previsioni riguardino unicamente i casi di sospensione dei
 termini della custodia si desume  dalla  scelta  del  legislatore  di
 tener  ferma  la  collocazione  della  norma  nell'articolo  dedicato
 appunto alla sospensione. Ne' pare che l'uso dell'avverbio "comunque"
 nell'art. 304/6  confermi  l'ipotesi  che  i  "limiti  finali"  siano
 riferiti a tutti i fenomeni che possono interferire con la disciplina
 dei  termini,  e  percio'  anche  ai  casi  di  proroga dei termini e
 regressione  del  procedimento.  Ben  puo'  ritenersi,  infatti,  che
 l'avverbio  valga  invece a sottolineare la correlazione tra la norma
 sui "limiti finali" e tutte  le  varie  ipotesi  di  sospensione  dei
 termini  previste nei cinque commi che precedono, nel senso cioe' che
 i limiti operano quale che sia la causa della sospensione.
   Ma vi e' una ragione  ulteriore  che  induce  a  escludere  che  il
 "limite  finale"  di  cui  all'art.  304/6  sia riferibile ai casi di
 regressione o rinvio del procedimento.
   Occorre infatti  considerare  che  l'art.  304/6,  come  sostituito
 dall'art.    15/1  della  legge n. 332/1995, fissa il "limite finale"
 relativo alla fase disponendo che "la durata della custodia cautelare
 non puo' comunque superare il doppio dei termini  previsti  dall'art.
 303, commi 1, 2 e 3". La norma, dunque, richiama espressamente i casi
 di  regressione  o rinvio del procedimento e il caso di evasione, nei
 quali  i  termini  decorrono  ex  novo,  e  la   previsione   risulta
 perfettamente  giustificata  anche  per  chi  ritenga,  come  qui  si
 sostiene, che l'art. 304/6 si applichi solo in  caso  di  sospensione
 dei  termini:  infatti,  ben  puo'  darsi il caso che il procedimento
 regredisca nella fase del giudizio e intervenga poi  sospensione  dei
 termini di custodia.
   Orbene,  il significato del richiamo dell'art. 304/6 ai commi 2 e 3
 dell'art. 303 non puo' che essere quello di confermare, anche ai fini
 della individuazione del "limite finale"  di  durata  della  custodia
 nella fase, la diversa decorrenza dei termini nei casi del regresso o
 rinvio  del  procedimento  e  della  evasione.  Cio' comporta che, ad
 esempio, regredito il procedimento nella fase del giudizio  di  primo
 grado  ed  essendo stati poi sospesi i termini, la custodia cautelare
 non potra' superare il doppio del termine di fase, calcolato pero'  a
 partire  dalla  data  del provvedimento che ha disposto il regresso e
 non dalla  emissione  del  provvedimento  che  originariamente  aveva
 disposto  il  giudizio  (in  tal senso si e' pronunciata la I Sezione
 della Corte di cassasione, con sentenza n. 1063/1996, Sarno,  che  ha
 confermato  l'orientamento  espresso da questo tribunale, IV sezione,
 con ordinanza ex art. 310 c.p.p. in data 21 dicembre 1995).
    Se il legislatore  del  '95,  ai  fini  della  individuazione  del
 "limite  finale"  di  durata della custodia nella fase, avesse inteso
 invece equiparare alle altre le situazioni di regresso o  rinvio  del
 procedimento  e  di evasione, si sarebbe limitato a prevedere che "la
 durata della custodia cautelare non puo' comunque superare il  doppio
 dei  termini  previsti  dall'art.  303,  comma  1...",  eventualmente
 aggiungendo, per maggior chiarezza: "anche nei casi di cui ai commi 2
 e 3 dello stesso articolo".
   Il dato testuale appare dunque chiaro e il Collegio e' obbligato  a
 tenerne  conto,  poiche' "nell'applicare la legge non si puo' ad essa
 attribuire altro  senso  che  quello  fatto  palese  dal  significato
 proprio  delle  parole,  secondo  la  connessione  di  esse,  e dalla
 intenzione del legislatore".
   Peraltro, cosi' interpretato il richiamo dell'art. 304/6 ai commi 2
 e 3 dell'art. 303, appare ancor piu' evidente che il "limite  finale"
 non  si  riferisce ai casi di regressione o rinvio del procedimento e
 di  evasione,  nei  quali  potrebbe   trovare   rarissima,   se   non
 impossibile,  applicazione. Infatti, se detto limite nelle ipotesi di
 cui ai commi 2 e 3 dell'art. 303 va computato a partire  dal  momento
 di nuova decorrenza del termine, esso (salva l'ipotesi eccezionale in
 cui si verifichino tre o piu' regressi) non puo' concretamente essere
 superato  (in quanto ben prima viene a scadere l'ordinario termine di
 fase) se non intervenga, dopo la regressione,  anche  la  sospensione
 dei   termini.  Sicche',  in  definitiva,  trova  ulteriore  conforto
 l'interpretazione secondo  cui  il  "limite  finale"  della  custodia
 cautelare  nelle singole fasi pari al doppio del termine ordinario di
 cui all'art. 304/6 e' riferibile unicamente ai  casi  di  sospensione
 dei termini.
   4. - Le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ripetutamente
 affermato  che,  sebbene  la sentenza interpretativa di rigetto della
 Corte costituzionale non sia munita di efficacia erga omnes,  facendo
 essa  sorgere  un  vincolo  solo  nel giudizio a quo, non si puo' mai
 giungere a sostenere che per gli altri  giudici  la  decisione  della
 Corte  costituzionale  sia  da  ritenersi inutiliter data. Sicche' il
 giudice  che,   in   un   diverso   giudizio,   intenda   discostarsi
 dall'interpretazione    proposta    nella    sentenza   della   Corte
 costituzionale non ha  altra  alternativa  che  quella  di  sollevare
 ulteriormente la questione di legittimita', non potendo mai assegnare
 alla  formula  normativa un significato ritenuto incompatibile con la
 Costituzione (ss.uu. 930/1996, Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Il Collegio, uniformandosi  a  tale  principio,  ritiene  di  dover
 sollevare  nuovamente  la  questione  di legittimita' dell'art. 303/4
 c.p.p. per le medesime ragioni gia' disattese, all'uopo richiamando e
 facendo proprie le motivazioni dell'ordinanza 22  novembre  1996  del
 tribunale di Reggio Calabria.