LA CORTE MILITARE DI APPELLO
   Ha  pronunciato  in  pubblica  udienza  la  seguente  ordinanza nel
 procedimento penale a carico di Di Luzio Davide,  nato  il  6  maggio
 1978  a  Carmagnola  (Torino),  (atto  di  nascita  n. 3 p. 1 s. a) e
 residente a Nichelino (Torino) in via Polveriera n. 22,  recluta  nel
 26, Btg. ''Castelfidardo'' in Pordenone. Libero.
     In seguito all'appello proposto dal difensore avverso la sentenza
 in data 12 novembre 1997 emessa dal tribunale militare di Padova;
   Sentito   il   pubblico   ministero,   il   quale  ha  eccepito  la
 illegittimita' costituzionale della  norma  contenuta  nell'art.  14,
 comma  3,  della  legge  n. 230/1998, a tenore della quale appartiene
 alla competenza del pretore la cognizione del reato  di  rifiuto  del
 servizio  militare  previsto dal comma 2 dell'anzidetta disposizione,
 con riferimento ai parametri costituiti dagli artt. 3  e  103,  terzo
 comma, secondo periodo, della Costituzione;
   Sentita la difesa che si e' rimessa.
                             O s s e r v a
   1. - Svolgimento del processo;
   Con sentenza pronunciata il 12 novembre 1997 dal tribunale militare
 di  Padova,  Di Luzio Davide veniva dichiarato colpevole del reato di
 rifiuto del servizio militare di leva, commesso il 22 aprile 1997  in
 Pordenone,  e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, con
 concessione di entrambi i  benefici  della  sospensione  condizionale
 della pena e non menzione della condanna.
   Avverso  la  sentenza  interponeva  tempestivo  appello  la  difesa
 dell'imputato, rilevando  che  il  suo  assistito  aveva  chiesto  la
 applicazione   della  pena  di  mesi  tre  di  reclusione,  senza  la
 sospensione condizionale, e che sia il p.m. che il tribunale  non  vi
 avevano   aderito,   ritenendo  che  fosse  inibito  all'imputato  di
 rinunciare alla condizionale  e  dedurre  tale  rinuncia  nel  quadro
 dell'accordo   sulla   pena.   Deduceva  il  difensore  che  siffatto
 ragionamento era erroneo e  che  doveva  riformarsi  la  sentenza  di
 condanna  ed  applicarsi  la  pena  richiesta dall'imputato, senza il
 beneficio della condizionale.
   Nelle more del procedimento di appello ed esattamente  in  data  30
 luglio 1998, e' entrata in vigore la legge n. 230/1998, recante nuove
 norme  in  materia  di  obiezione  di  coscienza,  che  ha  in  parte
 ridisegnato la fisionomia  del  tradizionale  reato  di  rifiuto  del
 servizio militare per motivi di coscienza ed espressamente attribuito
 alla  autorita' giudiziaria ordinaria la competenza a conoscerne, con
 cio' radicalmente discostandosi dalla disciplina  pregressa,  che  ne
 aveva attribuito la cognizione alla autorita' giudiziaria militare.
   In  conseguenza  di  tale  novazione  legislativa ed a motivo della
 assoluta inesistenza di norme intese  a  disciplinare  la  sorte  dei
 procedimenti  pendenti,  ritiene  questa  Corte  territoriale che sia
 doveroso applicare il principio generale del  tempus  regit  actum  e
 concludere,  senza  porsi  in  alcun modo il problema di quale sia la
 norma  sostanziale  piu'  favorevole,   che   la   nuova   disciplina
 processuale si applichi anche ai procedimenti in corso e trasmetterne
 gli  atti al giudice divenuto competente (Cass., sez. I, sentenze nn.
 02487 e 01737 del 25 e 24 giugno 1992, in C.E.D.)
   2.  -  A  parere  di questo Collegio, la norma processuale che deve
 trovare applicazione, e che costituisce l'indispensabile  presupposto
 del  provvedimento di declinatoria di giurisdizione, appare essere in
 contrasto con le disposizioni contenute negli artt. 3  e  103,  terzo
 comma, ultimo periodo, della Costituzione.
    E'  certo  noto  come  in  varie occasioni la Corte costituzionale
 abbia  fornito  una  interpretazione   dell'ultimo   degli   indicati
 parametri nel senso di escludere che con essa si sia inteso garantire
 la  giurisdizione  militare  nella  sua  configurazione  preesistente
 all'entrata  in  vigore  della  Carta  fondamentale   ed   abbia   di
 conseguenza  rimarcato  come  la  sua essenziale ragion d'essere vada
 ravvisata  nella  esigenza  di  circoscrivere   i   limiti   massimi,
 soggettivi ed oggettivi, della suddetta giurisdizione ed impedire che
 gli  stessi possano essere superati a detrimento della competenza del
 giudice ordinario, espressamente considerato come l'organo su cui  e'
 incardinata la giurisdizione normale in tempo di pace.
   La predetta linea giurisprudenziale nasce con la sentenza numero 29
 del  1958 e trova modo di essere ulteriormente ribadita nell'arco del
 successivo periodo di tempo, si' da concludersi con  la  fondamentale
 sentenza 429 del 1992, che ha chiaramente espresso il concetto che la
 giurisdizione  normalmente da adire e' quella dei giudici ordinari ed
 ancora una volta affermato che la giurisdizione militare ha carattere
 eccezionale ed e' circoscritta entro limiti rigorosi.
   Nel periodo che collega le due sentenze, il giudice delle leggi  ha
 avuto  piu' volte modo di affrontare una serie di questioni attinenti
 alle evenienze in cui si consumava una  sottrazione  alla  competenza
 del  giudice speciale di reati militari ed ogni volta ha concluso nel
 senso che  costituisse  insindacabile  prerogativa  del  legislatore,
 entro  i limiti della ragionevolezza, rinvenire e sottoporre a tutela
 preminenti ragioni di interesse generale ed optare  in  tali  ipotesi
 per la giurisdizione ordinaria.
   Lasciando  da  parte  i  casi  in cui si e' appurato che mancava il
 presupposto soggettivo, (sentenze n. 112 e  113  del  1986,  207  del
 1987),  torna  in  questa  sede utile, per meglio impostare i termini
 della sollevata questione,  soffermarsi  sulle  decisioni  che  hanno
 affrontato  situazioni  in cui era indubbia la ricorrenza di entrambi
 gli indicati presupposti e concluso per la legittimita'  delle  norme
 di  legge  che  avevano  statuito la competenza in merito del giudice
 ordinario.
   Buona  parte  degli  anzidetti  quesiti  ruotavano   attorno   alla
 disciplina  della  connessione  e  miravano  ad  ottenere che venisse
 dichiarata la illegittimita' delle  disposizioni  che  in  tali  casi
 stabilivano  la  assorbente  ed  esclusiva competenza della Autorita'
 giudiziaria ordinaria.
   Come e' noto, la Corte costituzionale ha in tali casi decretato  la
 infondatezza  delle medesime ed ogni volta sulla base del rilievo che
 la norma costituzionale invocata come parametro non  consacrasse  una
 assoluta  riserva  di giurisdizione a favore del giudice speciale, ma
 ponesse  rigorosi  limiti  al  suo  legittimo  delinearsi   e   fosse
 preordinata  ad  una  funzione di garanzia contro la eventualita' che
 essa ne valicasse i confini massimi.
   3.  - La valutazione d'insieme delle predette decisioni consente di
 enuclearne il motivo ispiratore e di intendere appieno il significato
 degli argomenti posti direttamente a base della conclusione cui  sono
 pervenute.  E'  agevole rilevare come il filo conduttore consista nel
 principio secondo cui la disposizione contenuta nell'art. 103,  terzo
 comma,  ultimo  periodo,  non  configura  una  ineludibile riserva di
 giurisdizione a favore del giudice militare, ma  detti  soltanto  una
 norma   di  carattere  tendenziale,  da  calare  nel  contesto  delle
 concorrenti disposizioni processuali e sostanziali e da  contemperare
 con le esigenze alla cui tutela quest'ultime risultano preordinate.
   Da  cio'  deriva  la  conseguenza che, anche con limitato e stretto
 riferimento ai  reati  militari  commessi  da  militari  in  servizio
 attivo, non potra' giammai sostenersi la esistenza di una invincibile
 riserva  di  giurisdizione,  ma andra' di volta in volta stabilito se
 tali reati coinvolgano interessi ulteriori rispetto a quelli militari
 ed  indi  chiedersi  se  questi  ultimi  manifestino   una   spiccata
 attitudine ad essere tutelati in forme o con congegni procedurali che
 comportano la attribuzione alla autorita' giudiziaria ordinaria della
 competenza a conoscere dei fatti che li abbiano violati.
   Esattamente  questo e' accaduto ed accade tuttora con riguardo alla
 disciplina del fenomeno della connessione di procedimenti  e  proprio
 questa  argomentazione  ha ispirato la declaratoria di illegittimita'
 costituzionale della norma  che  sottrasse  al  giudice  speciale  la
 cognizione  dei  reati  militari  commessi da militari minorenni e la
 attribui' al tribunale dei minori. Venne  in  tale  ultima  evenienza
 espressamente  detto  che  "non  puo' essere impedito, per principio,
 alla  giurisdizione  ordinaria  d'assumere  la  cognizione  di  reati
 militari  allorche' esistano preminenti ragioni d'interesse generale"
 e si sottolineo', con intuizione che si rivela di  determinante  peso
 ai fini che interessano in questa sede, che debba essere di "volta in
 volta  stabilito  se particolari esigenze, beni o valori (come ad es.
 quelli a garanzia dei quali e' stato istituito  il  tribunale  per  i
 minorenni)   possano   essere   considerati  preminenti  rispetto  ad
 esigenze, beni e valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione
 dei tribunali di pace".
   4. - Come puo' dunque agevolmente notarsi, non e'  in  realta'  mai
 stato  affermato,  ancorche' incomplete massime ne abbiano alimentato
 l'equivoco, che l'unico significato della norma costituzionale  sulla
 giurisdizione dei tribunali militari sia rappresentato dalla rigorosa
 predisposizione  di cio' che ad essi e' precluso e come per contro si
 sia chiaramente asserito che esistono beni e  valori  tutelati  dalla
 speciale giurisdizione militare. Va da se' che la suddetta tutela non
 assume carattere assoluto e che debba di volta in volta darsi rilievo
 alle  concorrenti  esigenze che si palesino meritevoli di particolare
 protezione, con la conseguenza che senza alcun dubbio potranno  darsi
 deroghe   al   principio   tendenziale   e   quindi   previsioni  che
 legittimamente  sottraggano  al  giudice  militare  la  competenza  a
 conoscere  dei reati militari commessi dai soggetti che pur abbiano i
 necessari requisiti soggettivi.
   Sotto  quest'ultimo  profilo  merita  particolare   attenzione   la
 sentenza  della  Corte  costituzionale n. 429 del 10 novembre 1992. A
 prima vista essa appare esaltare la sola funzione di  limite  massimo
 contenuta nella disposizione di cui all'art. 103 della Costituzione e
 quindi  escludere che in questa sia ravvisabile anche una garanzia di
 speciale giurisdizione per i  militari  che  abbiano  commesso  reati
 lesivi  di  interessi militari. Ove le cose stessero in tali termini,
 la disposizione costituzionale avrebbe la  connotazione  di  un  mero
 divieto  e  l'unica  sua  funzione  sarebbe  quella  di precludere la
 eventualita' che  la  speciale  giurisdizione  sia  attivata  per  la
 cognizione  di  reati non rientranti nella prefigurata tipologia. Con
 la singolare conseguenza che basterebbe  una  articolata  sequela  di
 leggi  ordinarie  per trasformare in un guscio vuoto la giurisdizione
 militare ed azzerare totalmente la sua competenza.
   Ma se si va oltre la apparenza, non si tardera' a comprendere  come
 la  indicata  sentenza  non  abbia  affatto  invertito la rotta delle
 precedenti, ma soltanto calibrato alla specificita' del caso concreto
 la decisione adottata. In essa si esaminava se  fosse  conforme  alla
 Costituzione la norma che assegnava al giudice militare la competenza
 ad  occuparsi dei reati militari commessi da persone che, pur facendo
 parte delle Forze armate, erano cessate  dal  servizio  attivo  e  si
 trovavano  nella  posizione  intermedia  tra  questo  ed  il  congedo
 assoluto (congedo illimitato, ausiliaria, riserva).
   La Corte, muovendo dall'ispirazione  che  presiedette  il  processo
 formativo  del parametro costituzionale invocato e sottolineando come
 la norma in esso racchiusa fosse nata con il  piu'  volte  menzionato
 duplice  limite  oggettivo  e  soggettivo,  espresse  l'avviso  che i
 militari ivi contemplati non potessero essere altri  che  coloro  che
 avessero  le  stellette  e  quindi  fossero in "servizio attuale alle
 armi" o legittimamente  considerati  tali  al  momento  del  commesso
 reato.  In  sede di motivazione asseri' che la diversita' di piani di
 giurisdizione e legge confortasse il principio che  la  giurisdizione
 normalmente  da  adire  e'  quella  dei  giudici ordinari anche nella
 materia militare e ribadi'  che  la  giurisdizione  ordinaria  e'  da
 considerare, per il tempo di pace, come la giurisdizione normale.
   Infine  aggiunse  che  la  indicata  relazione logica tra regola ed
 eccezione verrebbe scompensata se si assumesse che la cognizione  dei
 reati  militari  commessi  da coloro che sono assoggettati alla legge
 penale militare spetti esclusivamente  ai  giudici  militari  e,  nel
 sottolineare  il  principio  che  essa  compete  invece  di regola ai
 giudici ordinari, espressamente pose la importante riserva "salvo che
 non si tratti di reati commessi sotto le armi".
   A parere di questa Corte remittente,  dall'insieme  delle  indicate
 pronunce  del giudice delle leggi puo' trarsi il seguente corollario,
 nel contempo misura e limite della disposizione contenuta nella norma
 di cui all'art. 103, terzo comma, Cost.
   La  giurisdizione  militare  contemplata  e  protetta  dalla  norma
 costituzionale   concerne  soltanto  i  reati  militari  commessi  da
 militari in servizio attivo,  o  considerati  tali,  e'  circoscritta
 entro  rigorosi  confini  soggettivi  ed oggettivi e non ha carattere
 assoluto ed indeclinabile,  potendo  essere  derogata  da  una  legge
 ordinaria  che  risulti  preordinata  alla tutela di preminenti beni,
 interessi e valori. Cio'  sta  a  significare  che  la  giurisdizione
 militare, correttamente eccezionale rispetto al generico universo dei
 reati commessi da tutti coloro che appartengono alle Forze armate, e'
 invece da considerarsi normale rispetto ai reati militari commessi da
 militari in servizio attivo (o considerati tali).
   In riferimento a questo ristretta tipologia di reati, essa non solo
 e'   giurisdizione   normale  ma  e'  anche  giurisdizione  di  rango
 costituzionale.  Ed  e'  proprio  per  tali  ragioni  che  la   Corte
 costituzionale  ha  di  recente  (ordinanza n. 441 del 14-23 dicembre
 1998)   dichiarato  la  manifesta  infondatezza  della  questione  di
 legittimita' dell'art.  13, comma 2, del codice di procedura  penale,
 sollevata in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione e nella
 parte   in  cui  non  prevede  la  operativita'  dell'istituto  della
 connessione in tutte le ipotesi in  cui  tra  reati  comuni  e  reati
 militari  sussista  il particolare vincolo delineato dall'articolo 12
 del codice di rito.
   A prescindere dalle ulteriori argomentazioni adoperate dal  giudice
 delle   leggi   per  escludere  la  ipotizzata  lesione  ai  principi
 costituzionali, torna qui utile considerare e soffermarsi  su  quello
 che  appare  contrassegnato da una valenza generale e che e' espresso
 nei seguenti testuali termini:  "con riferimento ai  rapporti  tra  i
 procedimenti  per reati comuni e militari, non puo' dirsi imposto dal
 principio di  ragionevolezza  un  assetto  normativo  che,  in  vista
 dell'interesse  dell'imputato  a un (del tutto eventuale) simultaneus
 processus travalichi in ogni caso i limiti entro  cui  ordinariamente
 si esercitano le due distinte giurisdizioni".
   A parere di questo Collegio, l'espresso riferimento al principio di
 ragionevolezza,  cioe' ad uno dei fondamentali criteri di valutazione
 della legittimita' costituzionale delle  norme  di  legge  ordinaria,
 chiarisce   il  significato  della  successiva  proposizione  (quella
 sull'ordinario riparto delle giurisdizioni) e consente  di  affermare
 che  con  essa  il  giudice  delle  leggi  ha inteso sottolineare che
 l'ambito entro cui si  esercita  la  giurisdizione  militare  ha  una
 diretta  tutela costituzionale.   Solo in tal modo acquista pregnanza
 la affermazione della Corte e solo in tal modo si comprende come  non
 possa  dirsi  imposto  dal  principio  di  ragionevolezza  un  quadro
 normativo che, per il fatto di comportare una immotivata deroga  alla
 competenza  del  giudice  militare  per  i  reati  militari,  viene a
 risolversi in una violazione  dei  limiti  entro  cui  si  esercitano
 ordinariamente le due distinte giurisdizioni.
   5.  -  La  recente  legge  8  luglio 1998, n. 230, pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale n. 163 del  15  luglio  1998),  contenente  "nuove
 norme  in  materia  di  obiezione di coscienza" contempla, al secondo
 comma dell'articolo 14, una fattispecie penale che recupera  l'intero
 contenuto  di  quella  prevista  dall'art.  8 della abrogata legge n.
 772/1972 e configura altresi' ulteriori ipotesi tipiche. Essa  amplia
 lo  spettro  dei  motivi  di  coscienza  che possono porsi a base del
 rifiuto e consente che quest'ultimo possa intervenire anche nel corso
 dello svolgimento del servizio militare.
   Il comma 3  del  medesimo  art.  14  attribuisce  la  competenza  a
 giudicare  del  predetto  reato  al  pretore del luogo nel quale deve
 essere svolto il servizio militare.
   A parere di questo Collegio, la norma che stabilisce la  competenza
 del   pretore  e'  in  contrasto  con  le  previsioni  costituzionali
 contenute negli art. 103, terzo comma, e 3, della Costituzione.
   E' indubbio che i militari chiamati a presentarsi alle  armi  siano
 militari  in servizio attivo. Lo sono a partire dal momento stabilito
 per la loro presentazione e permangono  in  tale  posizione  fino  al
 giorno  in cui vengono inviati in congedo illimitato. La qualifica di
 militare in servizio attivo discende dalla oggettiva circostanza  che
 risulta  emanato  un  provvedimento che ne dispone la precettazione e
 stabilisce il giorno ed il luogo di presentazione al reparto. Essa e'
 del  tutto  indipendente dall'eventuale ottemperanza a tale ordine ed
 in  alcun  modo  subisce  modifiche  in  dipendenza   della   mancata
 presentazione   o   delle  particolari  ragioni  che  possono  averla
 determinata.
   In ordine al suddetto profilo, e' incontestabile che il giovane  Di
 Luzio   era   stato   chiamato  alle  armi,  a  seguito  di  regolare
 procedimento di arruolamento, ed aveva l'obbligo  di  presentarsi  al
 reparto di assegnazione alla data del 22 aprile 1997.
   Quanto alla natura del reato in tal modo commesso, e' convincimento
 unanime  che sia da qualificarsi come reato militare. Esso offende un
 interesse esiziale per un ordinamento incentrato sulla ferma di  leva
 e  si  profila,  come sottolineato nella fondamentale sentenza n. 409
 del 1989  della  Corte  costituzionale,  ontologicamente  identico  a
 quello  di mancanza alla chiamata e come questo lesivo, con identiche
 modalita',  dello  stesso  interesse,   "quello   ad   una   regolare
 incorporazione     degli    obbligati    al    servizio    di    leva
 nell'organizzazione del servizio militare". Le ragioni  di  coscienza
 addotte  a spiegazione del contegno di oggettiva omessa presentazione
 non intaccano la natura dell'interesse leso e non attenuano in  alcun
 modo  i  suoi  connotati di fondamentale interesse delle Forze armate
 dello Stato.
   Questa  Corte,  allo  scopo  di  sottolineare  come  i   dubbi   di
 costituzionalita'   investano  la  norma  sulla  giurisdizione  nella
 totalita' della sua sfera di efficacia e non solo nella parte in  cui
 si  presta  a  disciplinare  i  fatti pregressi, ritiene che anche il
 nuovo reato di rifiuto del servizio militare sia  reato  militare  ed
 abbia  una  struttura  sostanzialmente  identica a quello di cui alla
 abrogata legge ed oggetto del presente giudizio di gravame. Le uniche
 modifiche  introdotte  dalla  nuova  normativa  sul  punto  specifico
 costituiscono  puntuali  riscontri  di  importanti decisioni rese dal
 giudice delle leggi con  riguardo  all'abrogato  reato  e  l'impianto
 complessivo,  soprattutto  per  il  fatto  di  aver reso possibile il
 rifiuto dopo la assunzione del servizio, consente senza alcun  dubbio
 di  affermare  che  sono  stati addirittura accentuati i connotati di
 militarita'  della  fattispecie  incriminatrice  e  che   questa   e'
 diventata  una  variante  applicativa  non solo del reato di mancanza
 alla chiamata, ma anche di quello di diserzione.
   Sia il vecchio reato, quindi,  che  quello  delineato  dalla  nuova
 legge  costituiscono  tipici ed evidenti reati militari, tanto che in
 relazione ad entrambi e' stata prevista  e  continua  ad  operare  la
 particolare causa di estinzione rappresentata dall'accoglimento della
 domanda  di prestare servizio nelle Forze armate (art. 14, commi 6 ed
 8, legge n.  230/1998),  a  definitiva  conferma  di  come  non  solo
 l'interesse leso faccia capo all'ordinamento militare, ma addirittura
 sia  stato considerato talmente importante e delicato da giustificare
 una previsione che  assegna  un  radicale  effetto  estintivo  ad  un
 contegno  che,  risolvendosi  in  un fattivo ed operoso ripensamento,
 annulla la lesione in un primo momento inflitta al bene protetto.
   6.  -  Acclarato  che  e'  fuori  discussione  la  rilevanza  della
 questione  prospettata dalla Procura generale militare e chiarito che
 in relazione ai fatti commessi sotto il vigore della  abrogata  legge
 non  si  ravvisa  alcun  ragionevole motivo per la brusca deroga alla
 giurisdizione del giudice  militare,  rimane  da  verificare  se  nel
 passaggio  dalla vecchia alla nuova normativa la fisionomia del reato
 di  rifiuto  del  servizio  militare  abbia  per  caso fatto emergere
 necessita'  di  tutela  che  si  prestano  ad  essere   adeguatamente
 realizzate  soltanto con la previsione della giurisdizione ordinaria.
 E cio' nella condivisibile prospettiva che assegna carattere relativo
 alla giurisdizione del giudice speciale e la espone alla  soccombenza
 nel  caso  in  cui  il  reato  militare  commesso  coinvolga  beni ed
 interessi di preminente  valore  e  suscettibili  di  tutela  per  il
 tramite di una deroga alla giurisdizione militare.
   Questa  Corte  ritiene  che  all'interrogativo debba darsi risposta
 negativa.
   Nessun ruolo svolge la circostanza che la previsione delittuosa sia
 contenuta in un contesto normativo che si  distingue  dal  precedente
 per  il  piu'  ampio  respiro assegnato al fenomeno dell'obiezione di
 coscienza e per la configurazione di un servizio civile in termini di
 sostanziale  alternativa  al  servizio  militare.  Cio'  inerisce  al
 diverso  profilo  delle condizioni in presenza delle quali puo' darsi
 una  valida  ed  efficace  scelta  a  favore  del  servizio   civile,
 trasformate  in  presupposti  rigorosamente  delimitati  e  privi  di
 qualsivoglia elemento di discrezionalita'. Ma in alcun modo  ne  sono
 derivate ripercussioni in ordine alla struttura del particolare reato
 di  rifiuto,  che  e'  rimasto  ancorato alle tradizionali formule di
 adduzione dei motivi e che continua a profilarsi come un illecito che
 si commette a prescindere dalla verosimiglianza e autenticita'  delle
 ragioni  della  obiezione  e  che  non tollera in alcun modo disamine
 intese ad accertare che vi sia corrispondenza tra quanto dichiarato e
 gli autentici convincimenti della propria coscienza.
   Soltanto in quest'ultimo caso, e cioe' ove la norma  incriminatrice
 avesse richiesto come elemento essenziale del reato la sincerita' dei
 motivi di coscienza addotti a sostegno del rifiuto, si sarebbe potuto
 ipotizzare il coinvolgimento di un piu' ampio interesse, direttamente
 correlato   alla   manifestazione   dei  fondamentali  diritti  della
 personalita', e coerentemente concludere per la sottrazione della sua
 cognizione al giudice militare.
   Ma questo non e' accaduto ed il reato, oggi come  nel  passato,  e'
 rimasto del tutto agganciato alla mera adduzione dei rituali motivi e
 continua quindi a delinearsi come un oggettivo fatto di mancanza alla
 chiamata,  accompagnato  da espressioni che rilevano per il sol fatto
 di essere state  pronunciate  e  rispetto  alla  cui  veridicita'  ed
 attendibilita'  l'ordinamento  rimane  indifferente.  Non solo non si
 richiede alcuna preliminare  valutazione  della  verosimiglianza  dei
 motivi  addotti, ma e' finanche possibile che il reato venga commesso
 da persone che risultino aver riportato condanna per  reati  commessi
 con  l'uso delle armi o con contegni di violenza e quindi in presenza
 di quei rigorosi presupposti che rendono inammissibile la istanza  di
 svolgimento del servizio civile.
   7. - Per ragioni in parte coincidenti con quelle sopra esposte, non
 sembra  altresi'  manifestamente infondata la questione sollevata con
 riferimento all'art. 3 della Costituzione.
   La identita' sostanziale tra  il  reato  di  rifiuto  e  quello  di
 mancanza alla chiamata e la circostanza che entrambi ledono lo stesso
 interesse  rendono del tutto priva di giustificazione la norma che li
 discrimina ai fini della giurisdizione e lasciano emergere profili di
 intrinseca ed insanabile contraddittorieta' nell'ambito delle diverse
 statuizioni in ordine al giudice competente. Anche a tacere delle non
 levi  ripercussioni  che  si  avrebbero  nel caso si ritenesse che la
 nuova normativa abbia trasformato in  reato  comune  un  tradizionale
 reato militare (si pensi alla conseguente impossibilita' di concedere
 la  attenuante  prevista dall'art. 48 n. 2 c.p.m.p.), rimane priva di
 adeguate ragioni giustificatrici una disposizione che, a fronte della
 identita' sostanziale delle fattispecie in  raffronto,  sottrae  alla
 giurisdizione  del giudice speciale e collegiale uno dei due identici
 reati e lo assegna al giudice ordinario.
   In conclusione, la norma contenuta  nell'art.  14,  comma  3  della
 legge  n.  230/1998  appare costituzionalmente illegittima in quanto,
 senza che sussista alcuna necessita' di tutela di beni  ed  interessi
 di  preminente valore e in difetto di qualsiasi ulteriore ragionevole
 motivo,  sottrae  alla  cognizione  del  giudice   costituzionalmente
 competente  per  i reati militari commessi da militari in servizio il
 reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.