ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  323  cod.  pen.
 nel  testo  anteriore  alla  legge  16  luglio 1997, n. 234 (Modifica
 dell'articolo 323 del codice penale in materia di abuso d'ufficio,  e
 degli  articoli  289,  416  e  555  del  codice di procedura penale),
 promossi con ordinanze emesse il 25 giugno 1998 dal  giudice  per  le
 indagini  preliminari presso il tribunale di Sondrio ed il 2 dicembre
 1997 dal tribunale di Sondrio, iscritte, rispettivamente, ai nn.  655
 e  864  del  registro  ordinanze  1998  e  pubblicate  nella Gazzetta
 Ufficiale della  Repubblica  nn.  39  e  49,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1998.
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del  28 aprile 1999 il giudice
 relatore Valerio Onida.
   Ritenuto che, con ordinanza emanata il 25 giugno 1998, pervenuta  a
 questa Corte il 25 agosto 1998 (r.o. n. 655 del 1998), il giudice per
 le  indagini  preliminari presso il tribunale di Sondrio ha sollevato
 questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  323  cod.  pen.
 (Abuso  d'ufficio),  nel  testo  vigente  prima  della novella recata
 dall'art.    1  della  legge  16  luglio  1997,  n.   234   (Modifica
 dell'articolo  323 del codice penale in materia di abuso d'ufficio, e
 degli articoli 289, 416 e 555 del codice di  procedura  penale),  per
 contrasto  con  gli  artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 97
 della Costituzione;
     che la rilevanza della questione e' ritenuta dal remittente sulla
 base della considerazione che il fatto per cui e' giudizio,  commesso
 all'epoca   in   cui  era  in  vigore  la  norma  denunciata,  appare
 astrattamente sussumibile anche nella fattispecie dell'art. 323  cod.
 pen.  come  sostituito  dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997, onde
 non potrebbe pervenirsi ad una pronuncia  di  non  doversi  procedere
 perche'  il  fatto  non  e'  piu' previsto dalla legge come reato, ai
 sensi dell'art. 2, secondo comma, del codice penale;  e  che  d'altra
 parte  la  soluzione  del  dubbio  di legittimita' costituzionale del
 precedente testo dell'art.  323 e' necessaria, dovendosi, in caso  di
 dichiarazione  di illegittimita' costituzionale della predetta norma,
 cui conseguirebbe la caducazione ex tunc della medesima, pervenire ad
 una pronuncia  di  proscioglimento  perche'  il  fatto  non  e'  piu'
 previsto  come  reato,  in  ossequio al principio di irretroattivita'
 della legge penale, che impedirebbe di applicare la norma di  cui  al
 nuovo  art.  323  cod.  pen;  ovvero,  ove si ritenesse che tornino a
 rivivere gli originari artt. 323 e 324 cod. pen., come vigenti  prima
 della novella del 1990, dovendosi raffrontare queste ultime norme con
 quella attualmente vigente, per gli effetti dell'art. 2, terzo comma,
 cod. pen;
     che, quanto alla non manifesta infondatezza, l'ordinanza richiama
 il  principio  di  tassativita' delle norme incriminatrici, derivante
 dall'art. 25, secondo comma,  della  Costituzione,  che  esprimerebbe
 l'esigenza  di  evitare  la  genericita'  e  l'indeterminatezza della
 fattispecie, in modo che sia assicurata al giudice la possibilita' di
 individuare, a mezzo degli usuali  metodi  ermeneutici,  la  condotta
 penalmente   rilevante,   nonche'  in  modo  che  sia  consentito  ai
 consociati  di conoscere preventivamente cio' che e' reato e cio' che
 non lo e';
     che,  cio'  premesso,  il   remittente   osserva   che,   secondo
 l'interpretazione   corrente   dell'art.  323  cod.  pen.  nel  testo
 previgente,  venivano  ricompresi  nella  condotta  incriminata  ogni
 violazione  del  parametro  di doverosita' quale risulta dalle regole
 normative improntate ai principi di legalita', imparzialita'  e  buon
 andamento   della   pubblica   amministrazione,   ogni  comportamento
 esplicantesi  in  un'illecita  deviazione  dai  fini   istituzionali,
 nonche' gli atti viziati da eccesso di potere;
     che,  ad  avviso  del giudice a quo siffatta interpretazione, che
 costituirebbe "diritto vivente", non consentirebbe di escludere dubbi
 sull'indeterminatezza  della  fattispecie  penale,  in  relazione  ad
 espressioni  quali "parametro di doverosita'" e "fini istituzionali",
 e alla figura normativamente non definita, e in costante  evoluzione,
 dell'eccesso di potere;
     che,  inoltre,  la  incertezza  della  norma non permetterebbe un
 efficace esercizio del diritto  di  difesa  garantito  dall'art.  24,
 secondo comma, della Costituzione;
     che,  infine,  la insufficiente determinatezza della fattispecie,
 anche per il "ruolo centrale" del dolo specifico, che  finirebbe  per
 decidere  della  stessa illiceita' di una condotta di per se' neutra,
 comprometterebbe il buon andamento  della  pubblica  amministrazione,
 poiche' "le incursioni del giudice penale nella sfera amministrativa,
 in  assenza  di  univoci  criteri  oggettivi  idonei  a delimitare il
 confine fra lecito ed illecito", rischierebbero di paralizzare  anche
 le   piu'  ordinarie  attivita'  dei  pubblici  funzionari,  dal  che
 discenderebbe altresi' la violazione dell'art. 97 della Costituzione;
     che, con ordinanza emessa il 2 dicembre 1997, pervenuta a  questa
 Corte  il  19  novembre  1998 (r.o. n. 864 del 1998), il tribunale di
 Sondrio  ha  sollevato  a  sua  volta   questione   di   legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  all'art.  25,  secondo comma, della
 Costituzione, dell'art.  323 cod. pen., nel testo vigente prima della
 modifica recata dalla legge n. 234 del 1997;
     che gli  argomenti  addotti  dal  remittente,  in  punto  di  non
 manifesta  infondatezza, sono analoghi a quelli svolti nell'ordinanza
 iscritta al n. 655 r.o. 1998, con riguardo al solo art.  25,  secondo
 comma,  della Costituzione; mentre, in punto di rilevanza, il giudice
 a  quo  afferma  che,  rientrando  astrattamente   il   fatto   nella
 fattispecie  come  delineata nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen.,
 la  norma  di  cui  al   testo   previgente   troverebbe   necessaria
 applicazione,  dovendo  il  giudice,  qualora accerti che la condotta
 ascritta all'imputato  rientra  anche  in  tale  ultima  fattispecie,
 verificare   quale  delle  due  norme  sia  piu'  favorevole;  e  che
 l'eventuale accoglimento della questione, con conseguente  espunzione
 ex  tunc  della  norma  dall'ordinamento,  determinerebbe,  ai  sensi
 dell'art. 2, primo comma, del codice penale, l'emanazione di sentenza
 di non doversi procedere perche' il fatto non era previsto come reato
 all'epoca in cui fu commesso;
     che tanto nel primo che nel secondo  giudizio  non  vi  e'  stata
 costituzione di parti ne' intervento del Presidente del Consiglio dei
 Ministri.
   Considerato che i giudizi, aventi lo stesso oggetto, possono essere
 riuniti per essere decisi con unica pronunzia;
     che questa Corte ha gia' dichiarato manifestamente inammissibili,
 per  difetto di rilevanza, questioni analoghe, sollevate dagli stessi
 remittenti, con ordinanze n. 252 e n. 427 del 1998;
     che anche le questioni oggi proposte si appalesano manifestamente
 inammissibili per difetto di rilevanza;
     che, infatti, le censure mosse al testo previgente dell'art.  323
 cod. pen. attengono alla asserita indeterminatezza della fattispecie,
 a  cui  sono  riconducibili,  nella   prospettazione   dello   stesso
 remittente,  anche  i  profili  di violazione degli artt. 24, secondo
 comma, e 97 della Costituzione, sollevati dalla sola  ordinanza  r.o.
 n. 655 del 1998;
     che  gli  stessi remittenti premettono che i fatti sui quali sono
 chiamati a giudicare appaiono  sussumibili  anche  nella  fattispecie
 descritta  dal  nuovo  testo  dell'art.  323 cod. pen., riguardo alla
 quale non sollevano alcun  dubbio  di  insufficiente  determinatezza,
 ancorche'  si tratti di norma piu' favorevole, destinata in ipotesi a
 trovare applicazione ai sensi dell'art. 2, terzo comma, cod. pen;
     che l'asserita indeterminatezza  della  preesistente  fattispecie
 riguarderebbe non gia' l'intera area delle condotte punibili, ma solo
 quelle connotate da elementi di incerta definizione, come la generica
 antidoverosita',  il contrasto con i fini istituzionali e il vizio di
 eccesso di potere: non, dunque, le condotte  di  abuso  connotate  da
 violazione  di  specifiche  norme di legge o di regolamento e tali da
 causare   intenzionalmente   un   ingiusto   vantaggio   patrimoniale
 all'agente o ad altri, ovvero un danno ingiusto ad altri, come quelle
 descritte  nel  nuovo  testo  dell'art. 323 cod. pen, come modificato
 dall'art. 1 della legge n. 234 del 1997;
     che, pertanto, il giudizio sui fatti sottoposti ai remittenti non
 verrebbe in alcun modo influenzato dalla eventuale  dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale del testo previgente dell'art. 323 cod.
 pen.  nella  parte  in  cui conteneva - in ipotesi - l'indicazione di
 ulteriori condotte  punibili  non  sufficientemente  determinate,  in
 quanto   connotate  dai  predetti  elementi  di  incerta  definizione
 (ordinanza n. 427 del 1998);
     che ove, per converso, i fatti risultassero riconducibili a  tale
 ultimo  tipo  di  condotte,  ma non a quelle indicate dal nuovo testo
 dell'art.  323,   la   questione   sollevata   apparirebbe   comunque
 irrilevante  in  quanto,  come  ammettono  gli  stessi remittenti, in
 questo caso la norma sopravvenuta  imporrebbe  di  prosciogliere  gli
 imputati perche' il fatto non e' piu' previsto come reato;
     che  risulta dunque in ogni caso inapplicabile quella parte della
 norma incriminatrice - non piu' in vigore - sulla quale si  appuntano
 i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  sollevati  dai  giudici a
 quibus;
     che, d'altra parte, il  raffronto  fra  la  norma  incriminatrice
 vigente all'epoca dei fatti e quella sopravvenuta, per determinare la
 norma  applicabile,  ai  sensi  dell'art.  2, terzo comma, del codice
 penale, non  comporta  alcuna  applicazione  giudiziale  delle  norme
 stesse,  ma  costituisce  una mera operazione logica di confronto fra
 due descrizioni di fattispecie, e fra ciascuna di esse e la  condotta
 contestata   all'imputato,   operazione   preliminare  e  strumentale
 rispetto alla scelta della norma  eventualmente  applicabile,  e  non
 condizionata  dall'eventuale  dubbio di illegittimita' costituzionale
 dell'una o dell'altra norma; mentre solo all'esito di tale operazione
 di raffronto il giudice individuera' quale sia la  norma  applicabile
 nel  giudizio,  in  ordine  alla  quale  possa proporsi una eventuale
 questione  di  legittimita'  costituzionale  rilevante  nel  giudizio
 stesso (ordinanza n. 252 del 1998).
   Visti  gli  artt.  26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.