ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 9, comma 2,
 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze,
 sospensione condizionale  della  pena  e  destituzione  dei  pubblici
 dipendenti),  promossi  con  quattro  ordinanze emesse il 21 aprile e
 altra il 20 giugno 1997 dal Consiglio di Stato, il  6  novembre  1997
 dal   tribunale  amministrativo  regionale  per  la  Liguria,  il  10
 gennaio-30 novembre 1997 dal Consiglio di Stato, il 2 aprile 1998 dal
 tribunale amministrativo regionale per il Piemonte  e  il  28  aprile
 1998  dal  Consiglio  di  Stato, rispettivamente iscritte ai nn. 828,
 829, 830 e 887 del registro ordinanze 1997 e ai nn. 5, 224, 480,  646
 e  806  del  registro  ordinanze  1998  e  pubblicate  nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 49,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1997  e  nn.  2,  4, 14, 27, 38 e 44, prima serie speciale, dell'anno
 1998.
   Visti gli atti di costituzione di Carlo D'Amico, Maria Rita Ghezzi,
 Savino Strippoli, Luciano Russo, dell'INAIL e del comune  di  Torino,
 nonche'  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 9 febbraio 1999 il giudice relatore
 Francesco Guizzi;
   Uditi gli avvocati Ugo Sgueglia per  Carlo  D'Amico  e  Maria  Rita
 Ghezzi,  Vincenzo  Pone per l'INAIL e l'Avvocato dello Stato Giuseppe
 Stipo per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1.1.  -  Con quattro ordinanze di analogo contenuto, adottate il 21
 aprile 1997, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria ha sollevato,
 in riferimento agli artt. 3 e 97  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  9,  comma  2,  della legge 7
 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di  circostanze,  sospensione
 condizionale  della  pena  e  destituzione  dei pubblici dipendenti),
 nella parte in cui dispone che il procedimento  disciplinare  per  la
 destituzione  del  pubblico  dipendente  a seguito di condanna penale
 debba concludersi entro il termine, non derogabile, di 90 giorni.
    Il Collegio osserva che non vi e' diritto vivente  sull'ambito  di
 operativita'  di  tale  articolo,  che  si presterebbe, invero, a due
 interpretazioni: secondo un primo  orientamento  sarebbero  abrogate,
 per   incompatibilita',   le   norme   previgenti  sul  procedimento;
 altrimenti, si dovrebbe concludere che la violazione del termine  non
 comporta   l'illegittimita'   della   sanzione  disciplinare,  quando
 sussistano adeguate ragioni che ne giustifichino il superamento.
   La premessa da cui muove l'Adunanza plenaria e' che questa  seconda
 linea  interpretativa  vada  disattesa,  essendo  chiara  la  lettera
 dell'art.  9, comma 2, nel disporre la conclusione del  procedimento,
 senza   deroghe,   entro   il   termine   di  90  giorni.  Sennonche'
 l'amministrazione, continua il rimettente,  non  puo'  rispettare  il
 termine dei 90 giorni, applicando le norme di garanzia introdotte dal
 testo  unico  n. 3 del 1957; onde la natura perentoria del termine fa
 si' che debbano intendersi abrogate  le  precedenti  norme  attinenti
 alle  diverse  fasi  endoprocedimentali.    In questo modo, pero', si
 recherebbe lesione agli articoli 3 e 97 della  Costituzione,  perche'
 il  termine ristretto impedisce la ponderata valutazione dei fatti. A
 un sistema normativo coerente e razionale sarebbe  dunque  subentrata
 una  normativa  che  non  puo'  trovare  pratica  applicazione se non
 violando principi di rango costituzionale.
   1.2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura dello Stato, nel
 senso della infondatezza - e, ancor prima, della  inammissibilita'  -
 osservando  preliminarmente  che  le  stesse  ordinanze di rimessione
 ammettono   la   mancata   formazione   di   un    diritto    vivente
 sull'operativita'  dell'art. 9. Si' che resta ampio spazio al giudice
 a quo per interpretare la norma in modo conforme  alla  Costituzione,
 come  avverrebbe  riconoscendo natura ordinatoria al termine previsto
 per la conclusione del procedimento disciplinare.
   Per altro verso, pero', la questione sarebbe inammissibile, perche'
 questa Corte dovrebbe sostituire il termine di 90  giorni  -  che  si
 asserisce  troppo  breve  -  con  altro piu' lungo, o con una diversa
 regola; ma un intervento di tal fatta  implicherebbe  l'esercizio  di
 scelte discrezionali, riservate al legislatore.
   1.3.  -  Si  sono  costituite nel senso della infondatezza le parti
 private, sostenendo che il termine concesso dal  legislatore  sarebbe
 piu' che congruo. Nella fattispecie in esame l'Amministrazione non e'
 in  realta'  tenuta  a  svolgere indagini sulle circostanze di fatto,
 dovendo  valutare  esclusivamente  la  rilevanza  disciplinare  della
 condotta accertata dal giudice penale.
   Le  garanzie  poste  a  tutela  dell'incolpato  non  sarebbero  mai
 vulnerate  dalla  introduzione  di  termini  per  il  compimento  del
 giudizio disciplinare, dal momento che il dipendente ha pur sempre la
 facolta'  di  chiedere  un  differimento:  in  questo  caso  egli non
 potrebbe invocare la perentorieta' di termini che sono stati superati
 su sua richiesta e, dunque, con sua acquiescenza.
   Con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, la materia della
 responsabilita'  dei dipendenti pubblici ha subito, poi, una radicale
 trasformazione: significativo in proposito e' l'art. 59 che statuisce
 nuove  norme  sul  procedimento  disciplinare,  con  un  rinvio  alla
 contrattazione collettiva. Ora, il contratto collettivo nazionale che
 vige  attualmente per i dipendenti delle regioni e degli enti locali,
 osservano  le  parti  private,  dispone  che  il  procedimento   deve
 concludersi   entro   120  giorni  dalla  data  della  contestazione;
 altrimenti si estingue (art. 24, comma 6, del C.C.N.L. del  6  luglio
 1995).   Sarebbe  dunque  incongruo  consentire  che  i  procedimenti
 disciplinari  siano  governati  da  norme  fra  loro  inconciliabili,
 giacche' - ove fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale della
 disposizione  in  esame  -  si  permetterebbe  la  coesistenza di due
 sistemi fra loro contraddittori:  l'uno per gli impiegati  sottoposti
 a   procedimenti   disciplinari  prima  dell'entrata  in  vigore  del
 contratto  collettivo  del  lavoro,  l'altro   per   i   procedimenti
 instaurati in base alla nuova disciplina contrattualistica.
   Si  e'  costituita  altra parte privata, chiedendo che la questione
 sia dichiarata irrilevante e, comunque,  infondata.
   2.1. -  Con  due  ulteriori  ordinanze  del  20  giugno  e  del  10
 gennaio-30  novembre  1997,  la  VI sezione del Consiglio di Stato ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale del citato art. 9,
 comma 2, della legge n. 19 del 1990, richiamando quali parametri  gli
 artt.  3, 24 e 97 della Costituzione.
   Il  Collegio  osserva,  in  via  preliminare,  che il termine di 90
 giorni vale anche per l'ipotesi di  condanna  su  patteggiamento,  ai
 sensi  dell'art.  444  del codice di procedura penale: tale sentenza,
 infatti, e'  equiparata  dal  codice  di  rito  a  una  pronuncia  di
 condanna,  e  deve quindi ritenersi applicabile la disciplina dettata
 dalla legge n.  19 del 1990, che  e'  successiva  all'emanazione  del
 nuovo codice di rito.
   Con altra ordinanza, emessa il 28 aprile 1998 e iscritta al n.  806
 del  registro  ordinanze  1998,  la  VI  sezione ha sollevato analoga
 questione in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.
   2.2. - Anche in  tali  giudizi  e'  intervenuto,  nel  senso  della
 inammissibilita'  e,  comunque,  dell'infondatezza, il Presidente del
 Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
 Stato.
   2.3. - Si sono costituite le parti del giudizio a quo.
   Il  dipendente  dell'INAIL  reputa  non  fondate  le  censure, e fa
 presente che il termine di 90 giorni assicura all'incolpato lo spazio
 temporale di cui godeva nella precedente disciplina (40 giorni).
   Si e' costituito l'INAIL, appellato e  ricorrente  incidentale  nel
 giudizio  a  quo,  ricordando  che  nell'applicazione  della  pena su
 richiesta delle  parti  (cosiddetto  patteggiamento)  non  vi  e'  un
 positivo   accertamento   della   responsabilita'   penale;   e   che
 l'Amministrazione non potra' giovarsene, per cui l'accelerazione  del
 procedimento   si   tradurrebbe  in  pregiudizio  per  il  dipendente
 inquisito. Conclude quindi per l'irrilevanza della questione, perche'
 nel caso  del  patteggiamento  non  opererebbero  i  termini  di  cui
 all'art. 9 e, in subordine, sostiene l'illegittimita' della norma.
   3.1. - Anche il tribunale amministrativo regionale per la Liguria e
 quello  per  il  Piemonte  hanno  sollevato questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 9, comma 2.
   Il  primo  ritiene  che  siano  violati  gli  artt. 3, 4 e 97 della
 Costituzione, e osserva che la perentorieta' del termine di 90 giorni
 non permette alle amministrazioni di rispettare le norme di  garanzia
 contenute  nel  testo  unico  n.  3  del  1957, si' che la disciplina
 denunciata contrasterebbe con ogni logica: per la necessita' di  "far
 presto"  potrebbe  secondare  una  tendenza  "colpevolista",  tale da
 nuocere  alla   prosecuzione   dell'attivita'   lavorativa   tutelata
 dall'art. 4 della Costituzione, o potrebbe addirittura sottrarre piu'
 agevolmente  i  soggetti  inquisiti alle sanzioni disciplinari, vista
 l'esiguita' dei tempi.
   Il TAR per il Piemonte insiste, a  sua  volta,  sulla  lesione  dei
 principi introdotti dagli articoli 3 e 97 della Costituzione.
   3.2.  -  Anche  in  questi giudizi e' intervenuto il Presidente del
 Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura  dello
 Stato,   nel   senso   della   inammissibilita'  e,  comunque,  della
 infondatezza.
   Ha depositato  tardivamente  atto  di  costituzione  il  comune  di
 Torino.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Il  Consiglio  di  Stato in adunanza plenaria, la VI sezione
 dello stesso Consiglio e i Tribunali amministrativi regionali per  la
 Liguria  e  il  Piemonte,  dubitano della legittimita' costituzionale
 dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n.  19  (Modifiche
 in  tema  di  circostanze,  sospensione  condizionale  della  pena  e
 destituzione dei pubblici dipendenti), nella parte in cui prevede che
 il  procedimento  disciplinare  per  la  destituzione  del   pubblico
 dipendente  a  seguito  di condanna penale debba concludersi entro 90
 giorni.
   Secondo i Collegi rimettenti va  disattesa  la  giurisprudenza  che
 ammetteva  la  deroga  del  termine  in  ragione di adeguati elementi
 giustificativi; nelle ordinanze si osserva che la  lettera  dell'art.
 9,  comma  2,  dispone  la  conclusione del procedimento disciplinare
 entro  90  giorni,  dovendosi   intendere   abrogata   la   normativa
 precedente.  Cosi'  interpretata, la norma contrasterebbe, pero', con
 gli  articoli  3,  24  e  97  (secondo  il  tribunale  amministrativo
 regionale  per  la  Liguria anche con l'art.   4 della Costituzione).
 Essa   risulterebbe,   alla   prova   dei   fatti,   irrazionale    e
 comprometterebbe  le garanzie difensive dell'incolpato e il principio
 di buon andamento dell'amministrazione.
   Le  ordinanze  di  rimessione   abbandonano   dunque   la   lettura
 "temperata"  con la quale si mirava a conciliare l'innovazione recata
 dalla legge n. 19  del  1990  con  l'articolazione  del  procedimento
 disciplinare  delineata  dal testo unico degli impiegati civili dello
 Stato.
   Il Consiglio di Stato, VI  sezione,  affronta  poi  il  tema  della
 destituzione   conseguente   alla   pronuncia   di  "patteggiamento",
 affermando la natura generale  della  disposizione  introdotta  dalla
 legge  n. 19 del 1990, in modo da riferirla anche a tale fattispecie;
 e sottolineando, d'altronde, che l'art. 445, comma 1, del  codice  di
 rito equipara l'applicazione della pena su richiesta delle parti alla
 pronuncia di condanna.
   2.  -  Si puo' convenire con i Collegi rimettenti che la deroga del
 termine in presenza di giustificati motivi consente, nella  sostanza,
 un  bilanciamento  caso  per  caso, che non trova espresso fondamento
 nella formulazione della disposizione: appare percio'  plausibile  la
 revisione,  che  si  e'  cosi'  intrapresa,  del  pregresso indirizzo
 giurisprudenziale. Ma e' altrettanto evidente che non puo' darsi  una
 lettura   parziale   della   norma  che  produrrebbe  l'effetto  d'un
 irrimediabile contrasto  con  le  disposizioni  fin  qui  vigenti  in
 materia  disciplinare,  determinandone  l'irrazionalita'.  Perche' il
 giudice di  merito  e'  tenuto  ad  adottare,  fra  piu'  significati
 normativi   che   si   possono   prospettare,   quello   che  risulti
 costituzionalmente  compatibile  (sull'interpretazione  conforme   ai
 principi  costituzionali  quale  obbligo del giudice a quo v., fra le
 varie, le sentenze nn. 354 del 1997, 356 del 1996, 456 del 1989 e, di
 recente, le ordinanze nn. 147 e 7 del 1998).
   3. - Occorre dunque una considerazione attenta di tutti  i  fattori
 normativi presenti nell'art. 9, comma 2.
   Il  disegno  di  legge  del  Governo  presentato il 19 ottobre 1987
 (Camera dei deputati, X legislatura, n. 1707) intendeva circoscrivere
 la   "destituzione   di   diritto",    escludendone    l'operativita'
 nell'ipotesi  di  sospensione  condizionale  della pena. Intervenuta,
 pero', la sentenza n. 971 del 1988, risulto' chiaro che  il  progetto
 governativo  avrebbe reintrodotto, nei fatti, l'automatismo censurato
 da  questa  Corte,  sia  pure  con  l'eccezione   della   sospensione
 condizionale  della  pena  (v.  il  dibattito  in  seno  alla seconda
 Commissione permanente del Senato, Giustizia, seduta del 20  dicembre
 1988).  Le  Camere  mutarono cosi' la proposta governativa, alla luce
 della pronuncia ora ricordata, mettendo a punto il testo vigente.
   In tale  laborioso  processo  redazionale,  la  soppressione  della
 destituzione  di  diritto  trovava  un  ragionevole svolgimento nella
 previsione di un termine per la conclusione  del  procedimento,  come
 mostra  il  margine  di  180  giorni  dalla cognizione della sentenza
 irrevocabile di condanna  che  si  accordo'  all'amministrazione  per
 decidere,  in  via  preliminare,  sull'azione  disciplinare. E che vi
 siano  due  distinte   scansioni   temporali   risulta   dai   lavori
 parlamentari (v. l'esame degli emendamenti nella seduta della seconda
 Commissione   del   Senato  del  2  febbraio  1989)  e  dalla  stessa
 formulazione dell'art. 9, che pone un primo  termine  di  180  giorni
 dalla notizia della sentenza di condanna e ulteriori 90 giorni per la
 conclusione  della procedura (la legge parla, infatti, di "successivi
 novanta giorni").
   L'amministrazione ha dunque un congruo lasso di tempo per esaminare
 le  risultanze  processuali  che  hanno  portato  alla  condanna  del
 dipendente,  e  cio'  prima  dell'atto  con  cui si promuove l'azione
 disciplinare; seguono poi i 90 giorni su cui si incentrano i dubbi di
 legittimita' costituzionale. Ed e' evidente che quest'ultimo  termine
 va  considerato  assieme  al  precedente, se non si vuole stravolgere
 l'equilibrio interno della previsione normativa.
   4. - L'illegittimita' della "destituzione  automatica",  dichiarata
 da  questa  Corte con la citata sentenza n. 971 del 1988 e piu' volte
 in seguito ribadita (v., da ultimo, le sentenze nn. 240 del 1997, 363
 del 1996, 126 del 1995, 134 del 1992, 415 e 104 del 1991),  trova  la
 sua  ragion  d'essere  nella necessita' di ponderare, con le garanzie
 del contraddittorio, la rilevanza disciplinare  dei  fatti  accertati
 nel  corso  del  giudizio  penale,  tenendo  conto,  altresi',  della
 personalita' dell'incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni
 altro interesse pubblico che  possa  essere  validamente  considerato
 nell'ambito  di  detto  procedimento. Si' che i termini "brevi" posti
 dallo stesso art. 9, comma 2,  trovano  fondamento  nell'esigenza  di
 definire  sollecitamente  il  procedimento,  evitando  situazioni  di
 incertezza dannose per  il  buon  andamento  dell'amministrazione,  e
 lesive  della  posizione personale del dipendente condannato. La fase
 piu' delicata di tale valutazione consiste nel riesame - ai fini  che
 si  sono  prima illustrati - delle risultanze processuali e dei fatti
 come  risultano  accertati  dalla  sentenza   di   condanna.   Questa
 preliminare  attivita'  seguira',  di  regola,  alla cognizione della
 sentenza di condanna, avendo l'amministrazione a sua disposizione 180
 giorni per decidere sul promovimento dell'azione disciplinare.
   Cosi'  ricostruita  la  valenza  della  disposizione,  si  rivelano
 infondati i sospetti di illegittimita' costituzionale.
   Considerando  la  disposizione  nella sua compiutezza, ci si avvede
 che essa non e' affatto  irragionevole:  il  previo  svolgimento  del
 processo  penale  giustifica  i termini introdotti dalla normativa in
 esame, i quali mirano a garantire la posizione del  dipendente  e  il
 buon   andamento   dell'amministrazione,   che  impone  il  sollecito
 espletamento della procedura disciplinare (cfr., nella giurisprudenza
 di questa Corte, la sentenza n. 104 del 1991 e, prima della legge  n.
 19 del 1990, la sentenza n. 1128 del 1988).
   Ma  vi  e'  di  piu'.  Lo stesso Consiglio di Stato ha rilevato, in
 numerose pronunce, che i termini posti dal testo unico del  1957  non
 hanno  identica  natura: solo quelli a garanzia della regolarita' del
 contraddittorio hanno carattere inderogabile, mentre  gli  altri  (ad
 esempio  quelli fissati per il funzionario istruttore) possono essere
 congruamente ridotti dall'amministrazione procedente (fra  le  varie,
 VI  sezione,  30  ottobre  1979,  n. 768; IV sez., 22 maggio 1968, n.
 321; Commissione speciale del pubblico impiego,  parere  11  novembre
 1991).
   Una  corretta  lettura  dell'art.  9,  comma  2,  esclude  quindi i
 pericoli di compressione  temporale  e  di  alterazione  dell'assetto
 procedurale paventati dai giudici a quibus.
   5.  -  Non  vi  e'  violazione,  poi,  degli  articoli 4 e 24 della
 Costituzione, perche' la norma denunciata non lede in alcun  modo  il
 diritto  al  lavoro  e  alla  difesa,  dal momento che l'incolpato ha
 immediato interesse alla sollecita definizione  del  procedimento,  e
 d'altra  parte i termini stabiliti a garanzia del contraddittorio dal
 testo unico del 1957 possono essere rispettati - come si e'  rilevato
 -  senza  superare  i  90  giorni  previsti  dal comma 2 dell'art. 9,
 potendosi   congruamente   ridurre   gli   altri,   a    disposizione
 dell'amministrazione,  dal  momento  che quest'ultima non e' tenuta a
 compiere autonomi accertamenti istruttori.
   Tanto  meno  si  realizza  il  temuto  vulnus  all'art.  97   della
 Costituzione,  giacche'  non  e' dalla norma, di per se' considerata,
 che  discendono  gli  inconvenienti  messi  in   luce   dai   Collegi
 rimettenti,    ma    da    comportamenti   omissivi   delle   singole
 amministrazioni che, essi si', potrebbero  risultare  in  altra  sede
 censurabili.  Cio'  induce  a  concludere  che le doglianze su questo
 punto  attengono  non  tanto  al  meccanismo   normativo   introdotto
 dall'art.  9,  comma  2,  ma  a sue abnormi modalita' di applicazione
 (cfr. sentenza n. 11 del 1998 e ordinanza n. 396 del 1997).
   6.  - I rilievi sin qui svolti consentono, infine, di affrontare la
 questione sollevata dalla VI sezione del  Consiglio  di  Stato  sulla
 congruita'   del   termine  dei  90  giorni  quando  il  procedimento
 disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica  la
 pena  su richiesta delle parti (cosiddetto "patteggiamento": art. 444
 del codice di procedura penale).
   Se la contrazione dei termini a  disposizione  dell'amministrazione
 per   l'espletamento  dell'attivita'  istruttoria  e'  giustificabile
 quando i fatti risultino accertati all'esito  del  dibattimento,  non
 cosi'  puo'  dirsi  nel  caso in esame. E invero l'applicazione della
 pena su richiesta delle parti non presuppone quella compiutezza nella
 raccolta degli elementi di prova che e' tipica del rito ordinario; le
 parti, infatti,  possono  chiedere  il  patteggiamento  in  qualunque
 momento  delle  indagini  preliminari  e  fino  alla dichiarazione di
 apertura del dibattimento di primo grado  (art.  446  del  codice  di
 procedura penale).
   Non   si   puo'  escludere,  allora,  che  l'amministrazione  debba
 effettuare autonomi accertamenti,  e  che  la  pronuncia  penale  sia
 richiamata soltanto per i fatti non controversi.
   E' quindi evidente che non vale per la conclusione del procedimento
 disciplinare  -  che  l'amministrazione  potra'  instaurare dopo aver
 preso cognizione  della  sentenza  di  patteggiamento  -  il  termine
 introdotto  dall'art. 9, comma 2, ma la disciplina generale posta dal
 testo unico del 1957. Si' che va disattesa  anche  la  censura  mossa
 dalla VI Sezione.