IL COLLEGIO ARBITRALE 
 
    Costituito  il  21  dicembre  2012  per  la   risoluzione   della
controversia insorta tra  l'Impresa  Pizzarotti  &  C.  S.p.a.,  gia'
Garboli S.p.a. (a sua volta  gia'  Garboli  Conicos  S.p.a.  e  prima
ancora Garboli - Red  S.p.a.  incorporante  la  Italedil  S.p.a.)  in
persona del Presidente e  legale  rappresentante  pro  tempore  dott.
Paolo Pizzarotti,  rappresentato  e  difeso  dal  prof.  Avv.  Angelo
Clarizia; e  Ministero  delle  Infrastrutture  e  dei  Trasporti,  in
persona del Ministro pro tenore, rappresentato  e  difeso  ope  legis
dall'Avvocatura Generale dello Stato; 
    In dipendenza della controversia insorta in ordine  al  contratto
stipulato il 28 gennaio 1996 (rep. n. 2202) per la "costruzione della
Stazione di Controllo Autoveicoli di  Brindisi  con  annesso  Ufficio
Provinciale" e della clausola compromissoria contenuta  nell'art.  19
del citato contratto di appalto. 
    Vista la domanda di arbitrato; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio  del  Ministero  delle
Infrastrutture e Trasporti; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti di causa. 
 
                                Fatto 
 
    Il Ministero dei Trasporti e della Navigazione - con contratto di
appalto stipulato in data 18 gennaio 1996 - ha affidato alla  Garboli
S.p.a. i lavori relativi alla costruzione della Stazione di Controllo
Autoveicoli di Brindisi con annesso Ufficio Provinciale. 
    Nel corso dell'esecuzione del contratto nascevano  tra  le  parti
delle  contestazioni  in  merito  alla  ripartizione  dei  contributi
versati a titolo di oneri di urbanizzazione, propedeutici al rilascio
dei necessari titoli abilitativi per la realizzazione dei manufatti. 
    Sulla base della clausola compromissoria  contenuta  all'art.  19
del contratto di appalto, la Garboli S.p.a.  notificava  in  data  17
settembre 2007 domanda di arbitrato, per ivi  vedersi  accogliere  le
seguenti conclusioni: 
      «Quesito n. 1:  accertino  e  dichiarino  gli  Arbitri  che  il
Ministero  dei  Trasporti  si  e'  reso  inadempiente  rispetto  alle
obbligazioni assunte con il contratto del 18 gennaio  1996  (rep.  n.
2202) avente ad oggetto i  lavori  relativi  alla  costruzione  della
Stazione di Controllo Autoveicoli di  Brindisi  con  annesso  Ufficio
Provinciale, con conseguente  condanna  dello  stesso  Ministero  dei
Trasporti al pagamento in favore della Garboli S.p.a. dell'importo di
€ 34.183,14 (Iva inclusa), oltre  interessi  legali  e  rivalutazione
monetaria a decorrere dal 18 novembre  1996,  ovvero  dalla  data  di
emissione della fattura n. 1/318), sino all'integrale soddisfo; 
      Quesito n. 2: Accertino e dichiarino gli Arbitri che le  spese,
competenze ed onorari del presente giudizio, ivi comprese quelle  per
il funzionamento del Collegio Arbitrale e gli onorari degli Arbitri e
del Segretario, debbono essere  poste  a  carico  del  Ministero  dei
Trasporti e, per l'effetto, pronuncino la relativa condanna». 
    La domanda di  arbitrato  veniva  formulata  sulla  scorta  della
citata clausola compromissoria contenuta nell'art. 19  del  contratto
di appalto, ove si e' previsto che «ogni  eventuale  controversia  in
ordine al presente contratto d'appalto sara' devoluta, a norma  degli
artt. 43 e ss del capitolato Generale Lavori Pubblici  approvato  con
D.P.R. n. 1063/1962, ad un collegio arbitrale che avra' sede a Roma e
sara' cosi' composto: 
      a) da un magistrato del Consiglio  di  Stato  che  lo  presiede
nominato dal presidente del Consiglio stesso; 
      b) da un magistrato giudicante della Corte  d'Appello  nominato
dal primo presidente della Corte stessa; 
      c) da un componente tecnico del Consiglio Superiore dei  LL.PP.
nominato dal presidente del Consiglio stesso; 
      d) da un membro designato dalla societa'; 
      e) da un funzionario tecnico del Ministero». 
    Nella domanda di arbitrato si evidenziava,  altresi',  che  dalla
data di entrata in vigore del  decreto  legislativo  n.  163/2006  il
richiamo ai collegi arbitrali da costituire ai sensi della  normativa
previgente deve intendersi riferito ai collegi  da  nominare  con  le
nuove procedure secondo le modalita' previste dal codice e i relativi
giudizi si svolgono secondo la disciplina ivi fissata. 
    Nella  domanda  di  arbitrato  l'impresa  provvedeva  altresi'  a
nominare il proprio arbitro. 
    Con atto notificato il  19  novembre  2007,  il  Ministero  delle
Infrastrutture e dei Trasporti nominava il proprio arbitro, il  quale
tuttavia rassegnava le sue dimissioni dall'incarico conferitogli. 
    In seguito dell'inerzia del Ministero circa la nomina  del  nuovo
arbitro, su istanza dell'Impresa Pizzarotti & C. S.p.a. ex  art.  810
c.p.c. il Tribunale Ordinario di Roma nominava un nuovo  arbitro  per
il Ministero convenuto, con atto del 20 giugno 2012. 
    In data 21 dicembre  2012  a  Roma  si  e'  riunito  il  Collegio
Arbitrale costituito per  la  definizione  della  presente  vertenza,
scegliendo come terzo arbitro con funzione di Presidente del Collegio
il Prof. Avv. Franco Gaetano Scoca, avendo ritenuto gli altri arbitri
e le parti che lo stesso possieda i requisiti di professionalita'  ed
imparzialita' ai fini dell'espletamento del mandato in questione. 
    Alla successiva udienza dell'8  luglio  2013  il  Presidente  del
Collegio  arbitrale  ha  segnalato  alle  parti  la  sussistenza   di
un'eventuale irregolarita' nella  costituzione  del  collegio  legata
all'avere egli stesso espletato nel precedente triennio incarichi  di
arbitro di parte e di difensore  in  giudizi  arbitrali  disciplinati
dall'art. 241, del decreto legislativo n.  163/2006,  dichiarando  di
versare nella condizione indicata  dall'art.  241,  comma  5,  del  d
decreto legislativo  n.  163/2006,  la  cui  ricorrenza  preclude  la
possibilita' di espletare le relative funzioni. 
    La parte  attrice  ha  quindi  insistito  affinche'  il  giudizio
proseguisse   ugualmente,   eccependo   l'incostituzionalita'   sotto
molteplici profili dell'art. 241, comma 5, del decreto legislativo n.
16/2006, nella parte in cui prevede che il  Presidente  del  collegio
arbitrale deve essere scelto tra coloro che nell'ultimo triennio  non
hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o  di  difensore  in
giudizi arbitrali disciplinati dallo stesso art. 241. 
    E' stato percio' dato un termine alle parti al fine  di  produrre
scritti difensivi sulla dedotta questione di costituzionalita'. 
    Ricevuti ed esaminati gli scritti delle parti, il Collegio, nella
Camera di Consiglio del 24 gennaio 2014, ha  deliberato  la  seguente
ordinanza. 
 
                               Diritto 
 
    1. Preliminarmente il Collegio deve valutare la  sussistenza  del
requisito   della    rilevanza    della    dedotta    questione    di
costituzionalita' ai fini della  definizione  del  presente  giudizio
arbitrale. 
    La circostanza che il Presidente  del  Collegio  Arbitrale  abbia
espletato, nel triennio precedente  all'instaurazione  dell'arbitrato
in corso, incarichi di arbitro di parte e  di  difensore  in  giudizi
arbitrali afferenti all'esecuzione di  contratti  pubblici  determina
ictu  oculi  la  sussistenza  della  condizione  di  incompatibilita'
prevista  e  disciplinata  dall'art.  241,  comma  5,   del   decreto
legislativo  n.  163/2006,  nel  testo  risultante  dalle   modifiche
apportate dall'art. 5, comma 1,  lett.  c),  decreto  legislativo  20
marzo 2010, n. 53, a norma del  quale  «Il  Presidente  del  collegio
arbitrale e' scelto dalle parti, o su loro mandato dagli  arbitri  di
parte, tra soggetti di particolare esperienza nella  materia  oggetto
del contratto  cui  l'arbitrato  si  riferisce,  muniti  di  precipui
requisiti di indipendenza  e  comunque  tra  coloro  che  nell'ultimo
triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di  parte  o  di
difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad
eccezione delle ipotesi in cui l'esercizio della  difesa  costituisca
adempimento di dovere d'ufficio del difensore dipendente pubblico. La
nomina del presidente  del  collegio  effettuata  in  violazione  del
presente articolo determina la nullita' de lodo  ai  sensi  dell'art.
829, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile». 
    Considerata  l'incidenza  sulla  validita'  della  pronuncia  che
codesto Collegio e' chiamato a  rendere  si  ritiene  che  non  possa
proseguire il giudizio senza che si sia preliminarmente dissipato  il
dubbio di incostituzionalita' relativo alla norma richiamata,  atteso
che solo l'eventuale rimozione della norma citata potrebbe consentire
l'utile  prosecuzione  del  giudizio  innanzi   al   Collegio   cosi'
costituito. 
    La questione di costituzionalita' appare quindi rilevante ai fini
della risoluzione  della  presente  controversia,  assumendo  rilievo
pregiudiziale rispetto alla definizione nel merito della lite insorta
tra le parti. 
    2. Quanto alla non manifesta  infondatezza,  la  disposizione  in
questione appare in contrasto con numerosi principi costituzionali, e
segnatamente con gli artt. 3, 11, 24, 35, 41, 76, 77, 102, 108,  111,
117 - comma 1 Cost. 
    2.1. Innanzitutto il Collegio  ritiene  sussista  una  violazione
degli artt. 76 e 77 Cost.  per  eccesso  di  delega  e/o  difetto  di
delega. 
    La disposizione in contestazione e' stata introdotta dall'art. 5,
comma 1, del decreto  legislativo  20  marzo  2010,  n.  53,  che  ha
modificato il testo dell'art. 241, comma 5, del  decreto  legislativo
n. 163/2006. 
    Il citato decreto legislativo e' stato  emanato  in  forza  della
legge delega n. 88/2009 che ha conferito al  Governo  il  compito  di
dettare "disposizioni  razionalizzatrici  dell'arbitrato,  secondo  i
seguenti criteri: 
      1) incentivare l'accordo bonario; 
      2) prevedere l'arbitrato come ordinario rimedio alternativo  al
giudizio civile; 
      3) prevedere che le stazioni appaltanti indichino fin dal bando
o avviso di indizione della gara se il contratto conterra' o meno  la
clausola arbitrale, proibendo contestualmente il ricorso  al  negozio
compromissorio successivamente alla stipula del contratto; 
      4) contenere i costi del giudizio arbitrale; 
      5) prevedere misure acceleratorie del giudizio di  impugnazione
del lodo arbitrale". 
    L'art. 5, comma 1, lett. c), del  decreto  legislativo  20  marzo
2010, n.  53  (recante  attuazione  della  direttiva  2007/66/CE  che
modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto
riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure  di  ricorso
in  materia  d'aggiudicazione  degli  appalti  pubblici),  ha  invece
introdotto un precetto  totalmente  estraneo  rispetto  ai  contenuti
della delega. 
    La legge delega n. 88/2009, a ben vedere, non ha  autorizzato  il
legislatore delegato ad occuparsi delle modalita' di composizione dei
Collegi arbitrali, ne' di  ipotesi  di  incompatibilita'  speciali  a
carico del Presidente del collegio  arbitrale,  non  contemplate  ne'
dall'art. 815 c.p.c., ne' dall'art. 51 c.p.c.. 
    La norma censurata appare anche in contrasto con la ratio sottesa
alla legge delega, funzionale a un complessiva razionalizzazione  del
sistema dell'arbitrato  nel  settore  dell'esecuzione  dei  contratti
pubblici,   giacche'   dall'applicazione    della    regolamentazione
disciplinante  il  regime  di  incompatibilita'  dei  presidenti  dei
collegi arbitrali scaturiscono effetti irrazionali che certamente non
agevolano l'utile  ricorso  a  questi  strumenti  di  deflazione  del
contenzioso ordinario (sulla necessita' di interpretare i principi  e
i criteri direttivi della legge di delegazione anche alla luce  delle
finalita' ispiratrici della delega, cfr.  Corte  Cost.,  sentenza  n.
272/2012; n. 341/2007; ordinanza n. 228/2005). 
    Analoghe considerazioni possono svolgersi anche ove si proceda  a
un vaglio della direttiva 2007/66/CE, la cui attuazione  era  oggetto
della legge delega. La direttiva citata, infatti,  non  detta  alcuna
disposizione relativa alla composizione dei  collegi  arbitrali,  ne'
offre indicazioni da cui indirettamente possano ricavarsi indicazioni
in tal senso. 
    I rilievi appena svolti sono stati evidenziati  anche  nel  corso
dei lavori preparatori che hanno preceduto L'emanazione  del  decreto
legislativo 20 marzo 2010, n. 53. 
    Nelle osservazioni e proposte della  Quattordicesima  commissione
permanente (Commissione Politiche dell'Unione Europea) del 27 gennaio
2010 (a firma dell'On Simonetta Licastro Scardino)  si  legge  quanto
segue: «valutato, in particolare, che la legge delega non indica, ne'
espressamente, ne' implicitamente, di stabilire criteri piu' rigorosi
per la nomina del presidente  del  collegio  arbitrale,  e  che  tale
rigore non risponde ad alcuna prescrizione contenuta nella  direttiva
2007/66/CE  o  in  altra  normativa  europea,  e  anzi   rischia   di
configurarsi come un  ostacolo  non  giustificato  alla  liberta'  di
stabilimento e alla libera circolazione dei  servizi  nel  territorio
dell'Unione europea, suscettibile di reclamo  presso  la  Commissione
europea e della conseguente apertura di una procedura di infrazione; 
    Considerato, peraltro, che nel prevedere un regime  differenziato
per la nomina del presidente del collegio  arbitrale,  rispetto  agli
altri  titolari  di  funzioni  giurisdizionali,  la  predetta   norma
esplicherebbe effetti non proporzionati rispetto a  quanto  richiesto
dalla direttiva europea (art. 2, paragrafo 9, della direttiva), e che
tale  regime,  prescindendo  dalla  considerazione  delle  parti   in
giudizio, non appare giustificato da ragionevoli esigenze di tutela; 
    omissis [...] 
    Formula, per quanto di competenza, osservazioni  favorevoli,  con
la seguente condizione: 
      che la lettera c), comma 1,  dell'art.  6,  sia  ricalibrata  a
quanto generalmente previsto dagli Stati membri dell'Unione  europea,
eliminando la prevista incompatibilita' alla nomina di presidente del
collegio arbitrale, o comunque limitandola  a  chi  abbia  esercitato
nell'ultimo anno funzioni di difensore di una delle parti in causa». 
    Inoltre, sono stati evidenziati analoghi dubbi  anche  nel  corso
dei lavori delle commissioni riunite II (Giustizia) e VIII (Ambiente,
territorio e lavori pubblici). Nella seduta del 3 marzo 2010 e' stato
espresso un parere  favorevole  con  osservazioni  sullo  schema  del
decreto  legislativo  de   quo,   suggerendo   l'eliminazione   della
previsione oggi in contestazione proprio in ragione della sussistenza
di  dubbi  di  compatibilita'  costituzionale  della  stessa,  legati
all'estraneita' della previsione dall'alveo dei  principi  e  criteri
fissati nella legge delega e nella direttiva comunitaria. Nel  parere
approvato dalle Commissioni riunite  II  e  VIII  si  precisa  quanto
segue: «valutato che l'art. 241, comma 5,  del  decreto  legislativo,
come modificato dall'art. 6, comma I, lettera c), precludendo  a  chi
abbia svolto nell'ultimo triennio il ruolo di difensore o di  arbitro
di parte in un arbitrato  relativo  a  contratti  aventi  ad  oggetto
appalti pubblici la possibilita' di svolgere il ruolo  di  presidente
del collegio arbitrale, anche per la soluzione  di  controversie  che
coinvolgono imprese diverse da quella per cui ha svolto  la  funzione
di avvocato  in  precedenza,  non  solo  non  appare  prevista  nella
direttiva 2007/66/CE ne' nella  legge  delega,  ma  sembra  risultare
viziata sotto il profilo della costituzionalita',  determinando,  tra
l'altro, un trattamento irragionevolmente deteriore  soprattutto  per
gli avvocati del libero  foro»,  invitandosi,  pertanto  a  valutare:
«l'opportunita' di sopprimere  le  parole  da  "e  comunque"  fino  a
"procedura civile"». 
    Anche alla luce delle considerazioni appena  esposte  si  ritiene
che la questione di incostituzionalita' con riferimento agli artt. 76
e 77 Cost. appaia non manifestamente infondata. 
    2.2. Il Collegio ritiene sussistente un possibile contrasto anche
con l'art. 3 della Costituzione per  l'ingiustificata  disparita'  di
trattamento rispetto alla disciplina  degli  arbitri  e  dei  giudici
risultante dal codice di procedura civile. 
    Non sembra potersi enucleare alcuna differenza sostanziale tra la
posizione o la funzione  del  presidente  di  un  qualsiasi  collegio
arbitrale  disciplinato  direttamente  dal  c.p.c.   e   quella   del
presidente  di  un  collegio  che  debba  dirimere  una  controversia
rientrante nell'ambito di applicazione  dell'art.  241,  del  decreto
legislativo  n.  163/2006;  sicche'  la  scelta  del  legislatore  di
differenziare   nettamente   la    rispettiva    disciplina    appare
ingiustificata e irrazionale. 
    Il principio  di  imparzialita'  degli  arbitri  e'  tutelato  in
generale  dall'art.  815  del  c.p.c.,  che  prevede  la  ricusazione
dell'arbitro se ha prestato consulenza, assistenza  o  difesa  a  una
delle parti in una precedente fase della vicenda o vi ha deposto come
testimone. 
    La norma censurata invece estende la preclusione a chiunque abbia
agito  come  avvocato  o  arbitro  di  parte,  anche  se  l'arbitrato
precedente sia stato  relativo  a  parti  diverse,  anche  totalmente
estranee all'arbitrato in corso. 
    Peraltro la differenza tra le  due  situazioni  e'  ulteriormente
accentuata anche dal rispettivo apparato sanzionatorio. 
    Mentre  nella  disciplina   prevista   dal   c.p.c.   l'eventuale
sussistenza di un'ipotesi di incompatibilita' a carico di un  arbitro
(che puo' essere legata a circostanze  che  certamente  inficiano  la
serenita' di giudizio) e' causa di ricusazione (e la ricusazione deve
essere esperita entro il termine perentorio  di  dieci  giorni  dalla
notificazione della nomina  o  dalla  sopravvenuta  conoscenza  della
causa di ricusazione), negli arbitrati di cui all'art.  241  il  solo
espletamento di funzioni di arbitro  o  di  difensore  in  precedenti
giudizi in materie  di  appalti  pubblici  da  parte  del  presidente
comporta, per cio' solo, la nullita' insanabile del lodo. 
    La discrasia tra i due regimi produce degli effetti paradossali. 
    Infatti, nell'ambito di un giudizio  arbitrale  disciplinato  dal
c.p.c. gli arbitri che abbiano un interesse  diretto  nella  causa  o
siano il coniuge o convivente di una delle parti possono pronunciarsi
sulla  vertenza  senza  che  cio'  infici  la  validita'   del   lodo
(ovviamente sempre che non sia stata proposta istanza di  ricusazione
nei  termini  di  legge),  viceversa  nelle   controversie   relative
all'esecuzione di appalti pubblici si sancisce la nullita'  del  lodo
anche in presenza di circostanze di fatto  che  appaiono  palesemente
inidonee  a  minare  l'imparzialita'  del  Presidente  del   Collegio
arbitrale (l'aver svolto altri  incarichi  di  arbitro  di  parte  in
giudizi tra  parti  diverse  afferenti  all'esecuzione  di  pubbliche
commesse certamente non pregiudica la  capacita'  del  giudicante  di
decidere con la dovuta serenita'). 
    Ne', come rilevato dalla difesa dell'attrice, sussistono  ragioni
per giustificare disparita'  di  trattamento  tra  i  presidenti  dei
collegi arbitrali nelle controversie regolate dall'art. 241,  decreto
legislativo n. 163/2006 rispetto  ai  giudici  ed  arbitri  ordinari,
considerata l'equiparazione dei giudizi arbitrali in materia di opere
pubbliche ai giudizi civili (cfr. ex multis Corte Cost. n.  376/2001;
Corte Cost n. 223/2013). 
    2.3. Appare inoltre sussistente anche la violazione  dell'art.  3
per  l'assoluta  irragionevolezza  della   norma,   oltre   che   per
irragionevole disparita' di trattamento. 
    Come  evidenziato  dalla  difesa   attrice,   la   norma   appare
irrazionale anche  perche'  non  supportata  da  alcuna  finalita'  o
principio costituzionale che sorregga una differenziazione di  regime
legato a determinate attivita' o  con  riferimento  a  una  specifica
categoria di soggetti. Si  produce,  al  contrario,  un  sistema  che
rischia di non raggiungere le finalita' della norma e di pregiudicare
la possibilita' di nominare presidenti dei collegi  tra  soggetti  in
possesso della necessaria competenza tecnica e indipendenza. 
    Il  medesimo  art.  241,  del  decreto  legislativo  n.  163/2006
prescrive che il presidente sia scelto "tra soggetti  di  particolare
esperienza nella materia oggetto del  contratto  cui  l'arbitrato  si
riferisce, muniti di precipui requisiti di indipendenza". E tuttavia,
in  stridente  contraddizione,  si  preclude  proprio   ai   soggetti
evidentemente esperti  del  settore,  perche'  gia'  partecipanti  ad
arbitrati nel settore stesso, di far  parte  del  collegio  arbitrale
nella posizione apicale. 
    Sembra  emergere  un'ulteriore  antinomia  logica  nei   precetti
richiamati, che,  da  un  lato,  prevedono  la  valorizzazione  della
precedente esperienza professionale e  dei  precedenti  ruoli  svolti
nella materia dei contratti pubblici, e, dall'altro,  sanciscono  una
preclusione per soggetti particolarmente esperti, cui viene  impedito
di assumere la qualifica presidenziale. 
    Inoltre l'irrazionalita' della norma risulta ancora piu' evidente
dalla lettura della parte successiva del comma 5 del citato art. 241,
del  decreto  legislativo  n.  163/2006,  che  prevede   una   deroga
ingiustificata che rischia, questa si', di minare l'imparzialita' del
collegio. 
    Si prevede espressamente che possano  assumere  la  posizione  di
presidente coloro i quali abbiano svolto la funzione  di  arbitro  di
parte o  di  difensore  nel  triennio  precedente  nei  casi  in  cui
"l'esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d'ufficio
del difensore  dipendente  pubblico".  Beneficiano  della  deroga  in
questione, e.g., i difensori che facciano parte dell'avvocatura di un
ente locale, o comunque gli avvocati dipendenti pubblici. 
    E'  evidente  che  quanti  si  trovino  in   una   posizione   di
subordinazione gerarchica rispetto a una parte  del  giudizio  o  che
siano comunque in rapporto  di  dipendenza  rispetto  al  piu'  ampio
comparto  costituito  dalla  Pubblica  amministrazione  non   possano
garantire la necessaria  indipendenza.  Costoro,  infatti,  avrebbero
dovuto a fortiori essere ritenuti inidonei a ricoprire la  carica  di
presidente  di  un  collegio  arbitrale,  in  quanto  tendenzialmente
portati a favorire la parte pubblica di una controversia. 
    In altre parole, se lo svolgimento di  incarichi  di  arbitro  di
parte  o  difensore  fosse  di  per  se'   in   grado   di   incidere
sull'indipendenza di chi  viene  chiamato  a  ricoprire  un  incarico
arbitrale presidenziale,  la  norma  non  avrebbe  dovuto  certamente
prevedere la deroga proprio per i dipendenti pubblici. 
    Cio' per non dire che gli avvocati del libero foro operano con un
grado di indipendenza rispetto ai clienti sicuramente piu' accentuato
rispetto ai Colleghi iscritti negli elenchi speciali che prestano  la
propria  attivita'  professionale  nell'ambito  di  un  rapporto   di
dipendenza gerarchica con l'ente pubblico. 
    La deroga in questione appare ancor  piu'  ingiustificata  se  si
considera che la parte pubblica  e'  quasi  sempre  parte  necessaria
nelle controversie arbitrali in  materia  di  appalti  e  concessioni
pubbliche, con la conseguenza che la  stazione  appaltante  si  trovi
nella condizione di poter disporre nel contenzioso arbitrale non solo
di un arbitro di parte ma anche di  un  presidente,  che,  in  quanto
dipendente pubblico,  sarebbe  necessariamente  piu'  sensibile  alle
esigenze dell'amministrazione o comunque non in grado di garantire un
adeguato grado di indipendenza (Corte Cost. n. 92/1962; 103/1964). 
    Dalle  considerazioni  svolte  deriva  l'irragionevolezza   della
norma, che preclude, in modo irrazionale e senza che via  sia  alcuna
apprezzabile esigenza, a coloro effettivamente esperti nella  materia
de qua, di ricoprire la carica di Presidente del collegio arbitrale. 
    Inoltre in tal modo viene violato l'art. 3 Cost. anche  sotto  il
profilo dell'irragionevole disparita' di trattamento  degli  avvocati
del libero foro rispetto agli avvocati "pubblici". Questi ultimi sono
esentati dalla preclusione prevista nella norma in discorso,  sebbene
siano piu' esposti  al  rischio  di  subire  condizionamenti  che  ne
precludano l'indipendenza e l'imparzialita'. 
    2.4. L'art. 241 si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. anche per
via del trattamento irrazionale tra i diversi membri che compongono i
collegi arbitrali e cioe' del Presidente  e  degli  arbitri  nominati
dalle parti: in particolare il legislatore ha differenziato senza una
valida  ragione  giustificatrice  la  posizione   e   requisiti   del
Presidente del Collegio rispetto a quella dell'arbitro cd. "di parte. 
    Ed  invero  il  presidente  del  collegio  arbitrale,  che  viene
sottoposto a un regime differenziato rispetto agli altri arbitri,  e'
soggetto agli stessi obblighi  e  svolge  le  medesime  funzioni  dei
secondi, tanto da essere pacificamente considerato  comeprimus  inter
pares. Sul punto sembra opportuno richiamare gli  insegnamenti  della
Consulta  che  ha   sancito   l'illegittimita'   costituzionale   per
violazione dell'art. 3 Cost. delle discipline che prevedano regimi (o
prerogative) specifici per il  presidente  di  un  organo  collegiale
senza estenderli anche nei confronti degli altri  membri  dell'organo
stesso  che  svolgano  funzioni  omogenee  (cfr.  Corte   Cost.,   n.
262/2009). 
    D'altra parte la norma determina lo stesso effetto  preclusivo  a
due condotte che non sono in alcun modo assimilabili.  L'aver  svolto
la funzione di arbitro di parte non puo' essere  equiparata  all'aver
svolto la funzione di difensore. Infatti, mentre  il  difensore  deve
tutelare gli interessi  del  proprio  assistito,  l'arbitro  "cd.  di
parte" e' chiamato a  svolgere  le  proprie  funzioni  nel  superiore
interesse della giustizia garantendo  imparzialita'  e  indipendenza,
come richiesto dall'art. 55  del  Codice  deontologico  forense  (che
vieta agli avvocati di assumere la  funzioni  di  arbitro,  anche  di
parte, quando abbiano in corso rapporti professionali con  una  delle
parti). Ne' peraltro  potrebbe  immaginarsi  che  la  funzione  degli
arbitri di parte sia  in  qualche  modo  equiparabile  a  quella  dei
difensori.  D'altronde  lo  stesso  Consiglio  Nazionale  Forense  ha
precisato  che  esiste  un  principio  che  impone  l'indipendenza  e
l'imparzialita'  dell'arbitro  senza  distinzione  tra  il  ruolo  di
presidente o di arbitro di parte (CNF 2 novembre 2010, n. 196). 
    2.5.   La   norma   censurata   appare   altresi'    di    dubbia
costituzionalita' in quanto determina un assetto non armonico con gli
artt. 108 e 111 della Cost., nella parte in cui sanciscono i principi
di indipendenza del giudice e di parita' delle parti nel processo. 
    La disciplina di dettaglio  del  regime  di  incompatibilita'  ha
determinato un sistema che, anziche' garantire la parita' delle  armi
e l'indipendenza del Presidente, riconosce un nuovo e  ingiustificato
privilegio processuale per la Pubblica  Amministrazione,  che  potra'
far  nominare  propri  dipendenti  quali   Presidenti   dei   Collegi
Arbitrali. 
    In questo modo all'arbitrato in  materia  di  contratti  pubblici
viene dato un assetto  tendente  a  favorire  solo  una  parte  della
controversia, realizzando uno sbilanciamento  a  favore  della  parte
pubblica come  quello  di  recente  censurato  dalla  Consulta  nella
sentenza n. 186/2013. 
    Eppure, come sottolineato dalla Consulta nella sentenza  376  del
2001,  l'arbitrato  costituisce  un  procedimento  assoggettato  alle
garanzie  di  contraddittorio  e  di  imparzialita'   tipiche   della
giurisdizione civile ordinaria, ed e'  proprio  sulla  base  di  tale
principio che e' stato riconosciuto ai collegi arbitrali il potere di
sollevare le questioni di costituzionalita'. 
    La   posizione   di    privilegio    riconosciuta    in    favore
dell'Amministrazione e' poi ulteriormente accentuata  se  si  esamina
anche la disciplina dell'arbitrato "amministrato" ex  art.  243,  del
decreto legislativo n. 163/2006, ove si prevede che in assenza di  un
accordo tra le parti  la  scelta  del  presidente  del  collegio  sia
effettuata dalla Camera Arbitrale. 
    Come rilevato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 6355/2013
la Camera Arbitrale non e' un organo indipendente, mi amministrativo,
in quanto facente parte della pubblica amministrazione, e non dispone
di quei requisiti di terzieta' richiesti dalla Costituzione per tutti
i giudici. 
    Pertanto in mancanza di un  accordo  tra  le  parti,  il  sistema
aggrava ancora di piu' lo  sbilanciamento  delle  posizioni,  facendo
scegliere a un organo amministrativo il presidente del Collegio. 
    Peraltro inspiegabilmente la  Camera  Arbitrale  non  e'  neanche
vincolata  dalla  preclusione  qui  censurata,  potendo  scegliere  i
presidenti anche tra soggetti gia' arbitri di parte o  difensori  nel
triennio precedente. 
    In tal modo viene creato un regime differenziato tra i  due  tipi
di arbitrato, ancora una volta senza una ragionevole giustificazione,
con la conseguenza che la composizione dei collegi arbitrali  finisce
per essere disciplinata da una normativa piu'  snella  nell'arbitrato
"amministrato"  e  da  una  normativa  piu'  rigida  e   vincolistica
nell'arbitrato cd. "libero". 
    2.6. Il Collegio ravvisa anche una  violazione  dell'art.  3,  in
congiunzione con gli artt. 33 comma  5,  35  e  41  Cost.,  dato  che
vengono discriminati coloro che hanno svolto l'attivita'  di  arbitro
di parte o di avvocato difensore  in  giudizi  arbitrali  nell'intero
settore dei contratti pubblici, senza che tali  attivita'  presentino
profili critici o elementi di  disvalore,  ma  al  contrario  essendo
prestazioni professionali nei confronti dei quali vige  il  principio
generale di liberta' di lavoro autonomo e di prestazione  di  servizi
tutelati dagli artt. 33, comma 5 Cost., 41 Cost.. 
    Invero l'unico effetto concreto della norma e' di  ostacolare  ai
professionisti piu' esperti del  libero  foro  lo  svolgimento  della
funzione presidenziale, favorendo al contempo la  sua  assunzione  da
parte di soggetti riconducibili alla pubblica  amministrazione,  come
dirigenti o anche avvocati dipendenti pubblici o da parte di soggetti
alla prima esperienza!. 
    Inoltre appare altresi' manifesta la lesione dei  valori  sanciti
dall'art.  35  Cost.,  che,  come   chiarito   dalla   giurisprudenza
costituzionale, tutela non solo il lavoro  subordinato  ma  anche  il
lavoro autonomo (cfr. Corte Cost., n. 180/1984;  476/1987;  880/1998;
28/1995; 65/1999). 
    2.7. La disposizione de qua, inoltre,  producendo  degli  effetti
retroattivi  lede  in  modo  ancor  piu'  significativo  le  liberta'
garantite dall'art. 41 Cost. e 35 Cost.. 
    Nello specifico la norma, nella misura in cui  ricollega  effetti
giuridici sfavorevoli a comportamenti tenuti nel triennio  precedente
alla propria entrata in vigore, lede l'affidamento di quanti  abbiano
svolto l'attivita' di difensore o di arbitro  di  parte  senza  poter
prevedere  che   dalle   predette   attivita'   sarebbero   scaturite
conseguenze negative sul piano dei servizi arbitrali esercitabili  in
futuro. 
    Il  legislatore  ha  ignorato  il  canone  di  buona  fede   che,
viceversa,  impone  di  non  introdurre  disposizioni   che   operino
retroattivamente, ledendo diritti di rango  costituzionale  (tutelati
dagli artt. 35 e 41 Cost.) consolidatisi. 
    Ne' possono invocarsi ipotesi eccezionali ricorrenti in quei casi
in cui sussistano esigenze di pari rango, o in  generale  in  cui  la
previsione retroattiva trovi adeguata giustificazione sul piano della
ragionevolezza e non si  ponga  in  contrasto  con  altri  valori  ed
interessi costituzionalmente protetti (Corte Cost. n. 229/1999).  Nel
caso   di   specie,   infatti,   non   si   riescono   a    rinvenire
controbilanciamenti in grado  di  giustificare  la  compressione  dei
diritti de quibus. 
    2.8. La stessa norma inoltre appare in  grado  di  comprimere  le
liberta'  economiche  previste   nel   Trattato   sul   Funzionamento
dell'Unione Europea (cfr. artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56, 57  TFUE)  ed
in particolare il diritto alla libera prestazione dei servizi (56, 57
TFUE), che comprende l'esercizio dell'attivita' libero professionale. 
    E'  bene  evidenziare  che  i  servizi  resi  nell'ambito   delle
controversie relative all'esecuzione di appalti pubblici  di  lavori,
servizi e  forniture  rappresentano  una  porzione  significativa  di
mercato nell'ambito dei servizi di conciliazione e d'arbitrato. E  il
legislatore europeo mostra di  riconoscere  la  rilevanza  di  questi
servizi  nell'ambito  del   mercato   comune,   come   implicitamente
dimostrato anche dalla stessa direttiva n. 2004/18. L'art.  16  della
direttiva citata espressamente dispone: "la presente direttiva non si
applica agli  appalti  pubblici  di  servizi  concernenti  i  servizi
d'arbitrato e di conciliazione". Ebbene, la sottrazione  dei  servizi
de  quibus   all'obbligo   di   rispettare   l'analitica   disciplina
comunitaria in materia di aggiudicazioni viene  motivata  in  ragione
dell'intutus personae che caratterizza questo genere di  contratti  e
non perche' gli stessi non abbiano una rilevanza  economica  tale  da
determinare dei rischi di alterazione del funzionamento  del  mercato
europeo. 
    Tanto  si  desume  chiaramente  nel  considerando  n.  26   della
direttiva 2004/18 ove si specifica che: "I servizi di arbitrato e  di
conciliazione sono di norma  prestati  da  enti  o  persone  all'uopo
selezionati o designati secondo  modalita'  che  non  possono  essere
disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici". 
    In sintesi, trattandosi di appalti di servizi  che  costituiscono
un mercato rilevante non pare potersi dubitare  della  necessita'  di
rispettare  principi  del  Trattato  sul  Funzionamento   dell'Unione
Europea. 
    Non appaiono, infatti, osservate le condizioni individuate  dalla
giurisprudenza comunitaria, la cui presenza rende  ammissibili  norme
che ostacolino o scoraggino l'esercizio delle  liberta'  fondamentali
garantite dal Trattato: l'applicazione non discriminatoria,  l'essere
giustificate da motivi imperativi di interesse pubblico,  l'idoneita'
a garantire il conseguimento di un interesse pubblico, l'idoneita'  a
perseguire lo scopo e il non  disporre  oltre  quanto  necessario  al
perseguimento di questo (ex multis, CGCE 31 marzo 1993, C - 19/92; 30
novembre 1995, C - 55/94). 
    Inoltre, la norma censurata ingenera difficolta' di raccordo  con
le legislazioni degli stati dell'Unione  Europea  che  non  prevedono
simili limitazioni nella scelta degli arbitri, allontanando  pertanto
la disciplina nazionale da quella degli  altri  paesi  membri;  cosi'
realizzando una violazione del principio  fissato  dai  Trattati  che
impone di creare un regime inteso a garantire che la concorrenza  non
sia falsata nel mercato interno, attraverso il  ravvicinamento  delle
legislazioni degli stati dell'Unione. 
    Si  conferma  pertanto  la  violazione  del  vincolo  comunitario
sancito   dell'art.   117,   comma    l,    Cost.    e    11    Cost.
(sull'incostituzionalita'  delle  norme  interne   che   violino   il
principio di libera prestazione dei servizi cfr.  ex  plurimis  Corte
Cost. n. 271/2009). 
    3. In conclusione, ricorrono i presupposti considerati  dall'art.
23, della legge 11  marzo  1953,  n.  87,  per  la  rimessione  delle
questioni  di  legittimita'   costituzionale   sopra   descritte,   e
segnatamente la rilevanza e l'impossibilita' di definir  il  giudizio
indipendentemente dalla soluzione delle questioni e la non  manifesta
infondatezza delle stesse.