IL COLLEGIO ARBITRALE Costituito il 21 dicembre 2012 per la risoluzione della controversia insorta tra l'Impresa Pizzarotti & C. S.p.a., gia' Garboli S.p.a. (a sua volta gia' Garboli Conicos S.p.a. e prima ancora Garboli - Red S.p.a. incorporante la Italedil S.p.a.) in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore dott. Paolo Pizzarotti, rappresentato e difeso dal prof. Avv. Angelo Clarizia; e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro pro tenore, rappresentato e difeso ope legis dall'Avvocatura Generale dello Stato; In dipendenza della controversia insorta in ordine al contratto stipulato il 28 gennaio 1996 (rep. n. 2202) per la "costruzione della Stazione di Controllo Autoveicoli di Brindisi con annesso Ufficio Provinciale" e della clausola compromissoria contenuta nell'art. 19 del citato contratto di appalto. Vista la domanda di arbitrato; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti di causa. Fatto Il Ministero dei Trasporti e della Navigazione - con contratto di appalto stipulato in data 18 gennaio 1996 - ha affidato alla Garboli S.p.a. i lavori relativi alla costruzione della Stazione di Controllo Autoveicoli di Brindisi con annesso Ufficio Provinciale. Nel corso dell'esecuzione del contratto nascevano tra le parti delle contestazioni in merito alla ripartizione dei contributi versati a titolo di oneri di urbanizzazione, propedeutici al rilascio dei necessari titoli abilitativi per la realizzazione dei manufatti. Sulla base della clausola compromissoria contenuta all'art. 19 del contratto di appalto, la Garboli S.p.a. notificava in data 17 settembre 2007 domanda di arbitrato, per ivi vedersi accogliere le seguenti conclusioni: «Quesito n. 1: accertino e dichiarino gli Arbitri che il Ministero dei Trasporti si e' reso inadempiente rispetto alle obbligazioni assunte con il contratto del 18 gennaio 1996 (rep. n. 2202) avente ad oggetto i lavori relativi alla costruzione della Stazione di Controllo Autoveicoli di Brindisi con annesso Ufficio Provinciale, con conseguente condanna dello stesso Ministero dei Trasporti al pagamento in favore della Garboli S.p.a. dell'importo di € 34.183,14 (Iva inclusa), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria a decorrere dal 18 novembre 1996, ovvero dalla data di emissione della fattura n. 1/318), sino all'integrale soddisfo; Quesito n. 2: Accertino e dichiarino gli Arbitri che le spese, competenze ed onorari del presente giudizio, ivi comprese quelle per il funzionamento del Collegio Arbitrale e gli onorari degli Arbitri e del Segretario, debbono essere poste a carico del Ministero dei Trasporti e, per l'effetto, pronuncino la relativa condanna». La domanda di arbitrato veniva formulata sulla scorta della citata clausola compromissoria contenuta nell'art. 19 del contratto di appalto, ove si e' previsto che «ogni eventuale controversia in ordine al presente contratto d'appalto sara' devoluta, a norma degli artt. 43 e ss del capitolato Generale Lavori Pubblici approvato con D.P.R. n. 1063/1962, ad un collegio arbitrale che avra' sede a Roma e sara' cosi' composto: a) da un magistrato del Consiglio di Stato che lo presiede nominato dal presidente del Consiglio stesso; b) da un magistrato giudicante della Corte d'Appello nominato dal primo presidente della Corte stessa; c) da un componente tecnico del Consiglio Superiore dei LL.PP. nominato dal presidente del Consiglio stesso; d) da un membro designato dalla societa'; e) da un funzionario tecnico del Ministero». Nella domanda di arbitrato si evidenziava, altresi', che dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 163/2006 il richiamo ai collegi arbitrali da costituire ai sensi della normativa previgente deve intendersi riferito ai collegi da nominare con le nuove procedure secondo le modalita' previste dal codice e i relativi giudizi si svolgono secondo la disciplina ivi fissata. Nella domanda di arbitrato l'impresa provvedeva altresi' a nominare il proprio arbitro. Con atto notificato il 19 novembre 2007, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nominava il proprio arbitro, il quale tuttavia rassegnava le sue dimissioni dall'incarico conferitogli. In seguito dell'inerzia del Ministero circa la nomina del nuovo arbitro, su istanza dell'Impresa Pizzarotti & C. S.p.a. ex art. 810 c.p.c. il Tribunale Ordinario di Roma nominava un nuovo arbitro per il Ministero convenuto, con atto del 20 giugno 2012. In data 21 dicembre 2012 a Roma si e' riunito il Collegio Arbitrale costituito per la definizione della presente vertenza, scegliendo come terzo arbitro con funzione di Presidente del Collegio il Prof. Avv. Franco Gaetano Scoca, avendo ritenuto gli altri arbitri e le parti che lo stesso possieda i requisiti di professionalita' ed imparzialita' ai fini dell'espletamento del mandato in questione. Alla successiva udienza dell'8 luglio 2013 il Presidente del Collegio arbitrale ha segnalato alle parti la sussistenza di un'eventuale irregolarita' nella costituzione del collegio legata all'avere egli stesso espletato nel precedente triennio incarichi di arbitro di parte e di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dall'art. 241, del decreto legislativo n. 163/2006, dichiarando di versare nella condizione indicata dall'art. 241, comma 5, del d decreto legislativo n. 163/2006, la cui ricorrenza preclude la possibilita' di espletare le relative funzioni. La parte attrice ha quindi insistito affinche' il giudizio proseguisse ugualmente, eccependo l'incostituzionalita' sotto molteplici profili dell'art. 241, comma 5, del decreto legislativo n. 16/2006, nella parte in cui prevede che il Presidente del collegio arbitrale deve essere scelto tra coloro che nell'ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dallo stesso art. 241. E' stato percio' dato un termine alle parti al fine di produrre scritti difensivi sulla dedotta questione di costituzionalita'. Ricevuti ed esaminati gli scritti delle parti, il Collegio, nella Camera di Consiglio del 24 gennaio 2014, ha deliberato la seguente ordinanza. Diritto 1. Preliminarmente il Collegio deve valutare la sussistenza del requisito della rilevanza della dedotta questione di costituzionalita' ai fini della definizione del presente giudizio arbitrale. La circostanza che il Presidente del Collegio Arbitrale abbia espletato, nel triennio precedente all'instaurazione dell'arbitrato in corso, incarichi di arbitro di parte e di difensore in giudizi arbitrali afferenti all'esecuzione di contratti pubblici determina ictu oculi la sussistenza della condizione di incompatibilita' prevista e disciplinata dall'art. 241, comma 5, del decreto legislativo n. 163/2006, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 5, comma 1, lett. c), decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, a norma del quale «Il Presidente del collegio arbitrale e' scelto dalle parti, o su loro mandato dagli arbitri di parte, tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l'arbitrato si riferisce, muniti di precipui requisiti di indipendenza e comunque tra coloro che nell'ultimo triennio non hanno esercitato le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l'esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d'ufficio del difensore dipendente pubblico. La nomina del presidente del collegio effettuata in violazione del presente articolo determina la nullita' de lodo ai sensi dell'art. 829, primo comma, n. 3 del codice di procedura civile». Considerata l'incidenza sulla validita' della pronuncia che codesto Collegio e' chiamato a rendere si ritiene che non possa proseguire il giudizio senza che si sia preliminarmente dissipato il dubbio di incostituzionalita' relativo alla norma richiamata, atteso che solo l'eventuale rimozione della norma citata potrebbe consentire l'utile prosecuzione del giudizio innanzi al Collegio cosi' costituito. La questione di costituzionalita' appare quindi rilevante ai fini della risoluzione della presente controversia, assumendo rilievo pregiudiziale rispetto alla definizione nel merito della lite insorta tra le parti. 2. Quanto alla non manifesta infondatezza, la disposizione in questione appare in contrasto con numerosi principi costituzionali, e segnatamente con gli artt. 3, 11, 24, 35, 41, 76, 77, 102, 108, 111, 117 - comma 1 Cost. 2.1. Innanzitutto il Collegio ritiene sussista una violazione degli artt. 76 e 77 Cost. per eccesso di delega e/o difetto di delega. La disposizione in contestazione e' stata introdotta dall'art. 5, comma 1, del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53, che ha modificato il testo dell'art. 241, comma 5, del decreto legislativo n. 163/2006. Il citato decreto legislativo e' stato emanato in forza della legge delega n. 88/2009 che ha conferito al Governo il compito di dettare "disposizioni razionalizzatrici dell'arbitrato, secondo i seguenti criteri: 1) incentivare l'accordo bonario; 2) prevedere l'arbitrato come ordinario rimedio alternativo al giudizio civile; 3) prevedere che le stazioni appaltanti indichino fin dal bando o avviso di indizione della gara se il contratto conterra' o meno la clausola arbitrale, proibendo contestualmente il ricorso al negozio compromissorio successivamente alla stipula del contratto; 4) contenere i costi del giudizio arbitrale; 5) prevedere misure acceleratorie del giudizio di impugnazione del lodo arbitrale". L'art. 5, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53 (recante attuazione della direttiva 2007/66/CE che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici), ha invece introdotto un precetto totalmente estraneo rispetto ai contenuti della delega. La legge delega n. 88/2009, a ben vedere, non ha autorizzato il legislatore delegato ad occuparsi delle modalita' di composizione dei Collegi arbitrali, ne' di ipotesi di incompatibilita' speciali a carico del Presidente del collegio arbitrale, non contemplate ne' dall'art. 815 c.p.c., ne' dall'art. 51 c.p.c.. La norma censurata appare anche in contrasto con la ratio sottesa alla legge delega, funzionale a un complessiva razionalizzazione del sistema dell'arbitrato nel settore dell'esecuzione dei contratti pubblici, giacche' dall'applicazione della regolamentazione disciplinante il regime di incompatibilita' dei presidenti dei collegi arbitrali scaturiscono effetti irrazionali che certamente non agevolano l'utile ricorso a questi strumenti di deflazione del contenzioso ordinario (sulla necessita' di interpretare i principi e i criteri direttivi della legge di delegazione anche alla luce delle finalita' ispiratrici della delega, cfr. Corte Cost., sentenza n. 272/2012; n. 341/2007; ordinanza n. 228/2005). Analoghe considerazioni possono svolgersi anche ove si proceda a un vaglio della direttiva 2007/66/CE, la cui attuazione era oggetto della legge delega. La direttiva citata, infatti, non detta alcuna disposizione relativa alla composizione dei collegi arbitrali, ne' offre indicazioni da cui indirettamente possano ricavarsi indicazioni in tal senso. I rilievi appena svolti sono stati evidenziati anche nel corso dei lavori preparatori che hanno preceduto L'emanazione del decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53. Nelle osservazioni e proposte della Quattordicesima commissione permanente (Commissione Politiche dell'Unione Europea) del 27 gennaio 2010 (a firma dell'On Simonetta Licastro Scardino) si legge quanto segue: «valutato, in particolare, che la legge delega non indica, ne' espressamente, ne' implicitamente, di stabilire criteri piu' rigorosi per la nomina del presidente del collegio arbitrale, e che tale rigore non risponde ad alcuna prescrizione contenuta nella direttiva 2007/66/CE o in altra normativa europea, e anzi rischia di configurarsi come un ostacolo non giustificato alla liberta' di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi nel territorio dell'Unione europea, suscettibile di reclamo presso la Commissione europea e della conseguente apertura di una procedura di infrazione; Considerato, peraltro, che nel prevedere un regime differenziato per la nomina del presidente del collegio arbitrale, rispetto agli altri titolari di funzioni giurisdizionali, la predetta norma esplicherebbe effetti non proporzionati rispetto a quanto richiesto dalla direttiva europea (art. 2, paragrafo 9, della direttiva), e che tale regime, prescindendo dalla considerazione delle parti in giudizio, non appare giustificato da ragionevoli esigenze di tutela; omissis [...] Formula, per quanto di competenza, osservazioni favorevoli, con la seguente condizione: che la lettera c), comma 1, dell'art. 6, sia ricalibrata a quanto generalmente previsto dagli Stati membri dell'Unione europea, eliminando la prevista incompatibilita' alla nomina di presidente del collegio arbitrale, o comunque limitandola a chi abbia esercitato nell'ultimo anno funzioni di difensore di una delle parti in causa». Inoltre, sono stati evidenziati analoghi dubbi anche nel corso dei lavori delle commissioni riunite II (Giustizia) e VIII (Ambiente, territorio e lavori pubblici). Nella seduta del 3 marzo 2010 e' stato espresso un parere favorevole con osservazioni sullo schema del decreto legislativo de quo, suggerendo l'eliminazione della previsione oggi in contestazione proprio in ragione della sussistenza di dubbi di compatibilita' costituzionale della stessa, legati all'estraneita' della previsione dall'alveo dei principi e criteri fissati nella legge delega e nella direttiva comunitaria. Nel parere approvato dalle Commissioni riunite II e VIII si precisa quanto segue: «valutato che l'art. 241, comma 5, del decreto legislativo, come modificato dall'art. 6, comma I, lettera c), precludendo a chi abbia svolto nell'ultimo triennio il ruolo di difensore o di arbitro di parte in un arbitrato relativo a contratti aventi ad oggetto appalti pubblici la possibilita' di svolgere il ruolo di presidente del collegio arbitrale, anche per la soluzione di controversie che coinvolgono imprese diverse da quella per cui ha svolto la funzione di avvocato in precedenza, non solo non appare prevista nella direttiva 2007/66/CE ne' nella legge delega, ma sembra risultare viziata sotto il profilo della costituzionalita', determinando, tra l'altro, un trattamento irragionevolmente deteriore soprattutto per gli avvocati del libero foro», invitandosi, pertanto a valutare: «l'opportunita' di sopprimere le parole da "e comunque" fino a "procedura civile"». Anche alla luce delle considerazioni appena esposte si ritiene che la questione di incostituzionalita' con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost. appaia non manifestamente infondata. 2.2. Il Collegio ritiene sussistente un possibile contrasto anche con l'art. 3 della Costituzione per l'ingiustificata disparita' di trattamento rispetto alla disciplina degli arbitri e dei giudici risultante dal codice di procedura civile. Non sembra potersi enucleare alcuna differenza sostanziale tra la posizione o la funzione del presidente di un qualsiasi collegio arbitrale disciplinato direttamente dal c.p.c. e quella del presidente di un collegio che debba dirimere una controversia rientrante nell'ambito di applicazione dell'art. 241, del decreto legislativo n. 163/2006; sicche' la scelta del legislatore di differenziare nettamente la rispettiva disciplina appare ingiustificata e irrazionale. Il principio di imparzialita' degli arbitri e' tutelato in generale dall'art. 815 del c.p.c., che prevede la ricusazione dell'arbitro se ha prestato consulenza, assistenza o difesa a una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi ha deposto come testimone. La norma censurata invece estende la preclusione a chiunque abbia agito come avvocato o arbitro di parte, anche se l'arbitrato precedente sia stato relativo a parti diverse, anche totalmente estranee all'arbitrato in corso. Peraltro la differenza tra le due situazioni e' ulteriormente accentuata anche dal rispettivo apparato sanzionatorio. Mentre nella disciplina prevista dal c.p.c. l'eventuale sussistenza di un'ipotesi di incompatibilita' a carico di un arbitro (che puo' essere legata a circostanze che certamente inficiano la serenita' di giudizio) e' causa di ricusazione (e la ricusazione deve essere esperita entro il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione della nomina o dalla sopravvenuta conoscenza della causa di ricusazione), negli arbitrati di cui all'art. 241 il solo espletamento di funzioni di arbitro o di difensore in precedenti giudizi in materie di appalti pubblici da parte del presidente comporta, per cio' solo, la nullita' insanabile del lodo. La discrasia tra i due regimi produce degli effetti paradossali. Infatti, nell'ambito di un giudizio arbitrale disciplinato dal c.p.c. gli arbitri che abbiano un interesse diretto nella causa o siano il coniuge o convivente di una delle parti possono pronunciarsi sulla vertenza senza che cio' infici la validita' del lodo (ovviamente sempre che non sia stata proposta istanza di ricusazione nei termini di legge), viceversa nelle controversie relative all'esecuzione di appalti pubblici si sancisce la nullita' del lodo anche in presenza di circostanze di fatto che appaiono palesemente inidonee a minare l'imparzialita' del Presidente del Collegio arbitrale (l'aver svolto altri incarichi di arbitro di parte in giudizi tra parti diverse afferenti all'esecuzione di pubbliche commesse certamente non pregiudica la capacita' del giudicante di decidere con la dovuta serenita'). Ne', come rilevato dalla difesa dell'attrice, sussistono ragioni per giustificare disparita' di trattamento tra i presidenti dei collegi arbitrali nelle controversie regolate dall'art. 241, decreto legislativo n. 163/2006 rispetto ai giudici ed arbitri ordinari, considerata l'equiparazione dei giudizi arbitrali in materia di opere pubbliche ai giudizi civili (cfr. ex multis Corte Cost. n. 376/2001; Corte Cost n. 223/2013). 2.3. Appare inoltre sussistente anche la violazione dell'art. 3 per l'assoluta irragionevolezza della norma, oltre che per irragionevole disparita' di trattamento. Come evidenziato dalla difesa attrice, la norma appare irrazionale anche perche' non supportata da alcuna finalita' o principio costituzionale che sorregga una differenziazione di regime legato a determinate attivita' o con riferimento a una specifica categoria di soggetti. Si produce, al contrario, un sistema che rischia di non raggiungere le finalita' della norma e di pregiudicare la possibilita' di nominare presidenti dei collegi tra soggetti in possesso della necessaria competenza tecnica e indipendenza. Il medesimo art. 241, del decreto legislativo n. 163/2006 prescrive che il presidente sia scelto "tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l'arbitrato si riferisce, muniti di precipui requisiti di indipendenza". E tuttavia, in stridente contraddizione, si preclude proprio ai soggetti evidentemente esperti del settore, perche' gia' partecipanti ad arbitrati nel settore stesso, di far parte del collegio arbitrale nella posizione apicale. Sembra emergere un'ulteriore antinomia logica nei precetti richiamati, che, da un lato, prevedono la valorizzazione della precedente esperienza professionale e dei precedenti ruoli svolti nella materia dei contratti pubblici, e, dall'altro, sanciscono una preclusione per soggetti particolarmente esperti, cui viene impedito di assumere la qualifica presidenziale. Inoltre l'irrazionalita' della norma risulta ancora piu' evidente dalla lettura della parte successiva del comma 5 del citato art. 241, del decreto legislativo n. 163/2006, che prevede una deroga ingiustificata che rischia, questa si', di minare l'imparzialita' del collegio. Si prevede espressamente che possano assumere la posizione di presidente coloro i quali abbiano svolto la funzione di arbitro di parte o di difensore nel triennio precedente nei casi in cui "l'esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d'ufficio del difensore dipendente pubblico". Beneficiano della deroga in questione, e.g., i difensori che facciano parte dell'avvocatura di un ente locale, o comunque gli avvocati dipendenti pubblici. E' evidente che quanti si trovino in una posizione di subordinazione gerarchica rispetto a una parte del giudizio o che siano comunque in rapporto di dipendenza rispetto al piu' ampio comparto costituito dalla Pubblica amministrazione non possano garantire la necessaria indipendenza. Costoro, infatti, avrebbero dovuto a fortiori essere ritenuti inidonei a ricoprire la carica di presidente di un collegio arbitrale, in quanto tendenzialmente portati a favorire la parte pubblica di una controversia. In altre parole, se lo svolgimento di incarichi di arbitro di parte o difensore fosse di per se' in grado di incidere sull'indipendenza di chi viene chiamato a ricoprire un incarico arbitrale presidenziale, la norma non avrebbe dovuto certamente prevedere la deroga proprio per i dipendenti pubblici. Cio' per non dire che gli avvocati del libero foro operano con un grado di indipendenza rispetto ai clienti sicuramente piu' accentuato rispetto ai Colleghi iscritti negli elenchi speciali che prestano la propria attivita' professionale nell'ambito di un rapporto di dipendenza gerarchica con l'ente pubblico. La deroga in questione appare ancor piu' ingiustificata se si considera che la parte pubblica e' quasi sempre parte necessaria nelle controversie arbitrali in materia di appalti e concessioni pubbliche, con la conseguenza che la stazione appaltante si trovi nella condizione di poter disporre nel contenzioso arbitrale non solo di un arbitro di parte ma anche di un presidente, che, in quanto dipendente pubblico, sarebbe necessariamente piu' sensibile alle esigenze dell'amministrazione o comunque non in grado di garantire un adeguato grado di indipendenza (Corte Cost. n. 92/1962; 103/1964). Dalle considerazioni svolte deriva l'irragionevolezza della norma, che preclude, in modo irrazionale e senza che via sia alcuna apprezzabile esigenza, a coloro effettivamente esperti nella materia de qua, di ricoprire la carica di Presidente del collegio arbitrale. Inoltre in tal modo viene violato l'art. 3 Cost. anche sotto il profilo dell'irragionevole disparita' di trattamento degli avvocati del libero foro rispetto agli avvocati "pubblici". Questi ultimi sono esentati dalla preclusione prevista nella norma in discorso, sebbene siano piu' esposti al rischio di subire condizionamenti che ne precludano l'indipendenza e l'imparzialita'. 2.4. L'art. 241 si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. anche per via del trattamento irrazionale tra i diversi membri che compongono i collegi arbitrali e cioe' del Presidente e degli arbitri nominati dalle parti: in particolare il legislatore ha differenziato senza una valida ragione giustificatrice la posizione e requisiti del Presidente del Collegio rispetto a quella dell'arbitro cd. "di parte. Ed invero il presidente del collegio arbitrale, che viene sottoposto a un regime differenziato rispetto agli altri arbitri, e' soggetto agli stessi obblighi e svolge le medesime funzioni dei secondi, tanto da essere pacificamente considerato comeprimus inter pares. Sul punto sembra opportuno richiamare gli insegnamenti della Consulta che ha sancito l'illegittimita' costituzionale per violazione dell'art. 3 Cost. delle discipline che prevedano regimi (o prerogative) specifici per il presidente di un organo collegiale senza estenderli anche nei confronti degli altri membri dell'organo stesso che svolgano funzioni omogenee (cfr. Corte Cost., n. 262/2009). D'altra parte la norma determina lo stesso effetto preclusivo a due condotte che non sono in alcun modo assimilabili. L'aver svolto la funzione di arbitro di parte non puo' essere equiparata all'aver svolto la funzione di difensore. Infatti, mentre il difensore deve tutelare gli interessi del proprio assistito, l'arbitro "cd. di parte" e' chiamato a svolgere le proprie funzioni nel superiore interesse della giustizia garantendo imparzialita' e indipendenza, come richiesto dall'art. 55 del Codice deontologico forense (che vieta agli avvocati di assumere la funzioni di arbitro, anche di parte, quando abbiano in corso rapporti professionali con una delle parti). Ne' peraltro potrebbe immaginarsi che la funzione degli arbitri di parte sia in qualche modo equiparabile a quella dei difensori. D'altronde lo stesso Consiglio Nazionale Forense ha precisato che esiste un principio che impone l'indipendenza e l'imparzialita' dell'arbitro senza distinzione tra il ruolo di presidente o di arbitro di parte (CNF 2 novembre 2010, n. 196). 2.5. La norma censurata appare altresi' di dubbia costituzionalita' in quanto determina un assetto non armonico con gli artt. 108 e 111 della Cost., nella parte in cui sanciscono i principi di indipendenza del giudice e di parita' delle parti nel processo. La disciplina di dettaglio del regime di incompatibilita' ha determinato un sistema che, anziche' garantire la parita' delle armi e l'indipendenza del Presidente, riconosce un nuovo e ingiustificato privilegio processuale per la Pubblica Amministrazione, che potra' far nominare propri dipendenti quali Presidenti dei Collegi Arbitrali. In questo modo all'arbitrato in materia di contratti pubblici viene dato un assetto tendente a favorire solo una parte della controversia, realizzando uno sbilanciamento a favore della parte pubblica come quello di recente censurato dalla Consulta nella sentenza n. 186/2013. Eppure, come sottolineato dalla Consulta nella sentenza 376 del 2001, l'arbitrato costituisce un procedimento assoggettato alle garanzie di contraddittorio e di imparzialita' tipiche della giurisdizione civile ordinaria, ed e' proprio sulla base di tale principio che e' stato riconosciuto ai collegi arbitrali il potere di sollevare le questioni di costituzionalita'. La posizione di privilegio riconosciuta in favore dell'Amministrazione e' poi ulteriormente accentuata se si esamina anche la disciplina dell'arbitrato "amministrato" ex art. 243, del decreto legislativo n. 163/2006, ove si prevede che in assenza di un accordo tra le parti la scelta del presidente del collegio sia effettuata dalla Camera Arbitrale. Come rilevato dal Consiglio di Stato nella pronuncia n. 6355/2013 la Camera Arbitrale non e' un organo indipendente, mi amministrativo, in quanto facente parte della pubblica amministrazione, e non dispone di quei requisiti di terzieta' richiesti dalla Costituzione per tutti i giudici. Pertanto in mancanza di un accordo tra le parti, il sistema aggrava ancora di piu' lo sbilanciamento delle posizioni, facendo scegliere a un organo amministrativo il presidente del Collegio. Peraltro inspiegabilmente la Camera Arbitrale non e' neanche vincolata dalla preclusione qui censurata, potendo scegliere i presidenti anche tra soggetti gia' arbitri di parte o difensori nel triennio precedente. In tal modo viene creato un regime differenziato tra i due tipi di arbitrato, ancora una volta senza una ragionevole giustificazione, con la conseguenza che la composizione dei collegi arbitrali finisce per essere disciplinata da una normativa piu' snella nell'arbitrato "amministrato" e da una normativa piu' rigida e vincolistica nell'arbitrato cd. "libero". 2.6. Il Collegio ravvisa anche una violazione dell'art. 3, in congiunzione con gli artt. 33 comma 5, 35 e 41 Cost., dato che vengono discriminati coloro che hanno svolto l'attivita' di arbitro di parte o di avvocato difensore in giudizi arbitrali nell'intero settore dei contratti pubblici, senza che tali attivita' presentino profili critici o elementi di disvalore, ma al contrario essendo prestazioni professionali nei confronti dei quali vige il principio generale di liberta' di lavoro autonomo e di prestazione di servizi tutelati dagli artt. 33, comma 5 Cost., 41 Cost.. Invero l'unico effetto concreto della norma e' di ostacolare ai professionisti piu' esperti del libero foro lo svolgimento della funzione presidenziale, favorendo al contempo la sua assunzione da parte di soggetti riconducibili alla pubblica amministrazione, come dirigenti o anche avvocati dipendenti pubblici o da parte di soggetti alla prima esperienza!. Inoltre appare altresi' manifesta la lesione dei valori sanciti dall'art. 35 Cost., che, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, tutela non solo il lavoro subordinato ma anche il lavoro autonomo (cfr. Corte Cost., n. 180/1984; 476/1987; 880/1998; 28/1995; 65/1999). 2.7. La disposizione de qua, inoltre, producendo degli effetti retroattivi lede in modo ancor piu' significativo le liberta' garantite dall'art. 41 Cost. e 35 Cost.. Nello specifico la norma, nella misura in cui ricollega effetti giuridici sfavorevoli a comportamenti tenuti nel triennio precedente alla propria entrata in vigore, lede l'affidamento di quanti abbiano svolto l'attivita' di difensore o di arbitro di parte senza poter prevedere che dalle predette attivita' sarebbero scaturite conseguenze negative sul piano dei servizi arbitrali esercitabili in futuro. Il legislatore ha ignorato il canone di buona fede che, viceversa, impone di non introdurre disposizioni che operino retroattivamente, ledendo diritti di rango costituzionale (tutelati dagli artt. 35 e 41 Cost.) consolidatisi. Ne' possono invocarsi ipotesi eccezionali ricorrenti in quei casi in cui sussistano esigenze di pari rango, o in generale in cui la previsione retroattiva trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (Corte Cost. n. 229/1999). Nel caso di specie, infatti, non si riescono a rinvenire controbilanciamenti in grado di giustificare la compressione dei diritti de quibus. 2.8. La stessa norma inoltre appare in grado di comprimere le liberta' economiche previste nel Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (cfr. artt. 26, 45, 46, 49, 50, 56, 57 TFUE) ed in particolare il diritto alla libera prestazione dei servizi (56, 57 TFUE), che comprende l'esercizio dell'attivita' libero professionale. E' bene evidenziare che i servizi resi nell'ambito delle controversie relative all'esecuzione di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture rappresentano una porzione significativa di mercato nell'ambito dei servizi di conciliazione e d'arbitrato. E il legislatore europeo mostra di riconoscere la rilevanza di questi servizi nell'ambito del mercato comune, come implicitamente dimostrato anche dalla stessa direttiva n. 2004/18. L'art. 16 della direttiva citata espressamente dispone: "la presente direttiva non si applica agli appalti pubblici di servizi concernenti i servizi d'arbitrato e di conciliazione". Ebbene, la sottrazione dei servizi de quibus all'obbligo di rispettare l'analitica disciplina comunitaria in materia di aggiudicazioni viene motivata in ragione dell'intutus personae che caratterizza questo genere di contratti e non perche' gli stessi non abbiano una rilevanza economica tale da determinare dei rischi di alterazione del funzionamento del mercato europeo. Tanto si desume chiaramente nel considerando n. 26 della direttiva 2004/18 ove si specifica che: "I servizi di arbitrato e di conciliazione sono di norma prestati da enti o persone all'uopo selezionati o designati secondo modalita' che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione degli appalti pubblici". In sintesi, trattandosi di appalti di servizi che costituiscono un mercato rilevante non pare potersi dubitare della necessita' di rispettare principi del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea. Non appaiono, infatti, osservate le condizioni individuate dalla giurisprudenza comunitaria, la cui presenza rende ammissibili norme che ostacolino o scoraggino l'esercizio delle liberta' fondamentali garantite dal Trattato: l'applicazione non discriminatoria, l'essere giustificate da motivi imperativi di interesse pubblico, l'idoneita' a garantire il conseguimento di un interesse pubblico, l'idoneita' a perseguire lo scopo e il non disporre oltre quanto necessario al perseguimento di questo (ex multis, CGCE 31 marzo 1993, C - 19/92; 30 novembre 1995, C - 55/94). Inoltre, la norma censurata ingenera difficolta' di raccordo con le legislazioni degli stati dell'Unione Europea che non prevedono simili limitazioni nella scelta degli arbitri, allontanando pertanto la disciplina nazionale da quella degli altri paesi membri; cosi' realizzando una violazione del principio fissato dai Trattati che impone di creare un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno, attraverso il ravvicinamento delle legislazioni degli stati dell'Unione. Si conferma pertanto la violazione del vincolo comunitario sancito dell'art. 117, comma l, Cost. e 11 Cost. (sull'incostituzionalita' delle norme interne che violino il principio di libera prestazione dei servizi cfr. ex plurimis Corte Cost. n. 271/2009). 3. In conclusione, ricorrono i presupposti considerati dall'art. 23, della legge 11 marzo 1953, n. 87, per la rimessione delle questioni di legittimita' costituzionale sopra descritte, e segnatamente la rilevanza e l'impossibilita' di definir il giudizio indipendentemente dalla soluzione delle questioni e la non manifesta infondatezza delle stesse.