TRIBUNALE DI TREVISO Sezione Penale Il Giudice nel procedimento penale n. 1727/13 r.g. Trib. pronuncia la seguente ordinanza Cosentino Salvatore veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 110 c.p. - 291-bis del d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43, per aver detenuto nel territorio dello Stato kg. 4.719 di tabacco lavorato estero (sigarette di diverse marche provenienti dalla Moldavia), reato accertato in Spresiano il 7 marzo 2013. L'istruttoria dibattimentale si esauriva nell'acquisizione della documentazione prodotta dalle parti, nell'escussione dei testimoni dalle stesse indicati e nell'esame dell'imputato. Le parti concludevano all'udienza del 31 marzo 2015, il Pubblico Ministero chiedendo la condanna alla pena di anni due di reclusione ed euro 8.125.234 di multa, la difesa chiedendo l'assoluzione, quantomeno ex art. 530, comma 2, c.p.p. Alla luce di quanto emerso dall'espletata istruttoria dibattimentale, il giudizio in ordine alla responsabilita' penale dell'imputato dipende, in sostanza, da un'unica questione: se si possa ritenere provato che lo stesso fosse a conoscenza che all'interno del capannone da lui locato era custodita l'imponente quantita' di tabacco lavorato estero di cui al capo d'imputazione. Dal materiale probatorio raccolto non sono emerse prove rappresentative in ordine alla suddetta circostanza di prova (va ricordato che nella c.d. prova rappresentativa o diretta il mezzo di prova rappresenta direttamente il fatto da provare, per esempio nessun testimone ha detto che l'imputato era a conoscenza del fatto che ci fosse il tabacco all'interno del capannone); sono emersi, invece, degli elementi indiziari (va ricordato che nella c.d. prova indiziaria o indiretta, invece, il mezzo di prova non rappresenta il fatto da provare, ma un altro fatto, circostanza indiziante, dal quale si ricava l'esistenza del fatto da provare attraverso un percorso logico che prevede l'applicazione di massime di esperienza o leggi scientifiche). La valutazione di elementi indiziati e', come noto, particolarmente difficile e "rischiosa" in ordine alla correttezza dell'esito del giudizio probatorio, tant'e' che lo stesso legislatore, ben consapevole di cio', ha dettato una procedura aggravata per l'utilizzabilita' probatoria degli indizi che si e' concretizzata nella previsione dei requisitidi gravita', precisione e concordanza (art. 192 c.p.p.). Ora, proprio nei procedimenti nei quali i "risultati probatori" sono meramente indiziari - e quindi piu' difficile e "rischioso" e' il giudizio probatorio - si manifestano i riflessi negativi - e costituzionalmente illegittimi - della nuova disciplina delle responsabilita' civile dei magistrati introdotta con la legge 27 febbraio 2015, n. 18. Come si esporra' nel dettaglio, infatti, alcuni istituti introdotti dalla nuova disciplina finiscono per incidere sul principio del libero convincimento del giudice che, per essere indipendente, deve essere libero di valutare le prove avvalendosi della discrezionalita' che il legislatore gli attribuisce, senza temere conseguenze negative a seconda dell'esito del suo giudizio; invece, la nuova disciplina, da un lato, espone il giudice a pressioni che possono provenire dalle parti in causa, dall'altro lato, prevedendo come possibile fonte di responsabilita' civile anche la valutazione dei fatti e delle prove, mina il cuore dell'attivita' giurisdizionale, atteso che il giudice, per forze di cose, se sa che la sua attivita' di valutazione potra' comportargli una responsabilita' civile per danni, sara' portato, quale essere umano, ad assumere, soprattutto nei casi piu' difficili (e quindi suscettibili per loro natura di essere rivisti nei diversi gradi di giudizio), la decisione meno rischiosa che, nel processo penale, e' quasi sempre identificabile nell'assoluzione dell' imputato. Pertanto ritiene il Tribunale che vada sollevata questione di legittimita' costituzionale delle specifiche norme della legge 13 aprile 1988, n. 117 - cosi' come modificate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 - che di seguito verranno indicate, per contrasto con l'art. 101, comma 2 ("i giudici sono soggetti soltanto alla legge") e 104, comma 1 ("la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere"), nonche' art. 3 della Costituzione. In merito alla rilevanza nel presente procedimento della prefigurata questione di legittimita' costituzionale, la stessa emerge da quanto piu' sopra anticipato in ordine al fatto che la nuova disciplina della responsabilita' civile va ad incidere, in generale, sulla liberta' del giudice di valutare i fatti e le prove secondo la legge e, quindi, anche sulla valutazione che il Giudice e' chiamato ad operare nel presente processo. D'altro canto la Corte costituzionale si e' gia' pronunciata al riguardo chiarendo che, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, "debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme che, pur non essendo direttamente applicabili nel giudizio a quo, attengono allo status del Giudice, alla sua composizione, nonche', in generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano il suo operare; l'eventuale incostituzionalita' di tali norme e' destinata ad influire su ciascun processo pendente davanti al giudice del quale regolano lo status, la composizione, le garanzie e i doveri: in sintesi la "protezione" dell'esercizio della funzione, nella quale i doveri si accompagnano ai diritti" (cosi' Corte costituzionale, sentenza 18 gennaio 1989, n. 18; in tale sentenza e con questa motivazione la Consulta ha ritenuto rilevante, tra l'altro, proprio una questione di legittimita' costituzionale sollevata con riguardo alla disciplina della responsabilita' civile dei magistrati da parte del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia Sezione di Catania). Vi sono almeno tre profili di disciplina della "nuova responsabilita' civile dei magistrati" la cui illegittimita' costituzionale non appare manifestamente infondata. Prima si esporli e' necessario ricordare, in sintesi, come e' stata modellata tale responsabilita' dalla novella legislativa: il cittadino che ritiene di avere subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato per dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni puo' agire direttamente contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali; la legge determina i casi di colpa grave statuendo che "costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge, nonche' del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l'affermazione di un fatto la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione" (art. 2, comma 3, cosi' come riformulato); con riferimento a queste ipotesi di colpa grave non opera la clausola di salvaguardia per la quale "nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e della prove" (il comma 2 dell'art. 2, infatti, nel prevedere tale clausola fa salvi i commi 3, ove per l'appunto sono dettate le ipotesi di colpa grave, e 3-bis ed i casi di dolo); quando e' avvenuto il risarcimento del danno da parte dello Stato il Presidente del Consiglio dei ministeri, entro due anni, ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato "nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europa ovvero il travisamento del fatto o delle prove, di cui all'art. 2, commi 2, 3 e 3-bis sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile" (cosi' art. 7 nella nuova formulazione); va osservato che, all'apparenza, non sembra esservi perfetta coincidenza tra i casi di responsabilita' dello Stato e i casi di responsabilita' del magistrato, perche' l'art. 7 richiama solo alcune delle ipotesi dell'art. 3 e, inoltre, aggiunge, almeno formalmente, un ulteriore presupposto per la responsabilita' del magistrato, atteso che l'azione di rivalsa e' prevista nei casi in cui la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove di cui all'art. 2, commi 2, 3 e 3-bis "sono stati determinati da dolo o negligenza inescusabile"; tuttavia, a ben vedere, il presupposto, per l'azione di rivalsa, della "negligenza inescusabile" e' solo apparente, atteso che, da un lato, se si configura una delle ipotesi di colpa grave previste dalla legge non si comprende come la negligenza potrebbe essere considerata scusabile (la colpa grave, per definizione, non appare scusabile), dall'altro lato il comma 3-bis dell'art. 2 stabilisce che ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche' del diritto dell'Unione europea si tiene conto, tra l'altro, della "inescusabilita' dell'inosservanza", sicche' cio' che vale per la responsabilita' dello Stato pare valere anche per la responsabilita' del magistrato in sede di rivalsa; la misura della rivalsa non puo' superare una somma pari alla meta' di un'annualita' dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento e' proposta (art. 8, comma 3); e' stato completamente eliminato il filtro di ammissibilita' gia' disciplinato dall'art. 5 della legge 117/1988 e previsto per le ipotesi in cui non fossero rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 della legge ovvero la domanda di risarcimento fosse manifestamente infondata. La giurisprudenza del Giudice delle leggi in ordine alla disciplina della responsabilita' civile dei magistrati e' ormai consolidata e chiara nei suoi principi fondamentali e si snoda su alcuni cardini: l'art. 28 della Costituzione si applica pure ai magistrati, per cui anch'essi sono personalmente e civilmente responsabili per i danni provocati nell'esercizio delle loro funzioni (sentenza n. 2 dell'11 marzo 1968); la responsabilita' civile dei magistrati, tuttavia, deve essere disciplinata in modo diverso rispetto alla normativa di diritto comune, in quanto cio' risulta necessario per tutelarne le garanzie di indipendenza; in particolare "la peculiarita' delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilita' dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni" (sentenza n. 26 del 3 febbraio 1987). La Corte costituzionale, poi, ha dato specifico contenuto, costituzionalmente vincolante, alle condizioni e ai limiti della responsabilita' civile dei magistrati: "il principio dell'indipendenza e' volto a garantire l'imparzialita' del giudice, assicurandogli una posizione super partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere; a tal fine la legge deve garantire l'assenza, in ugual modo, di aspettative di vantaggi e di situazioni di pregiudizio, preordinando gli strumenti atti a tutelare l'obbiettivita' della decisione; la disciplina dell'attivita' del giudice deve percio' essere tale da rendere quest'ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresi', per quanto possibile, a renderla libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza" (cosi' sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989); la garanzia costituzionale dell'indipendenza della magistratura "e' diretta a tutelare, in primis, l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto", per cui tale attivita' "non puo' dar luogo a responsabilita' del giudice" (cosi' si legge, letteralmente, nella sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989, punto n. 9 del "considerato in diritto"); un meccanismo di filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilita' civile del giudice ha "rilievo costituzionale", cio' significa che e' costituzionalmente imposto, "perche' un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel piu' ampio quadro di quelle altre condizioni e limiti alla responsabilita' dei magistrati che la peculiarita' delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono" (cosi' si legge nella sentenza 22 ottobre 1990, n. 468 al punto 4.1. del "considerato in diritto"). Alla luce di questi stentorei enunciati della giurisprudenza costituzionale - ancorati alle norme di cui agli art. 101 e seguenti della Carta fondamentale - appaiono chiari tre profili di illegittimita' costituzionale della nuova normativa che regola la responsabilita' civile dei magistrati. 1. In primo luogo e' costituzionalmente illegittimo l'art. 7 della legge 117/1988 - cosi' come modificato dalla legge 18/2015 - nella parte in cui non prevede che "non puo' dar luogo a responsabilita' personale del singolo magistrato l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato stesso". Come gia' osservato, il comma 2 dell'art. 2 della legge 117/1988 solo formalmente mantiene fermo principio per cui "nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non puo' dar luogo a responsabilita' l'attivita' di interpretazione di norme di diritto ne' quella di valutazione del fatto e delle prove", atteso che lo stesso comma si apre con un'eccezione totalizzante ("fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo"); cio' significa che la clausola di salvaguardia non opera in tutti i casi di colpa grave in cui scatta la responsabilita' dello Stato prima e, in sede di rivalsa, del magistrato poi; in altri termini, e' come se tale clausola non ci fosse. Ora, si e' gia' detto che la garanzia costituzionale dell'indipendenza della magistratura "e' diretta a tutelare, in primis, l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto", per cui tale attivita' "non puo' dar luogo a responsabilita' del giudice" (sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989, punto n. 9 del "considerato in diritto"); e' significativo che anche autorevole voce dottrinale - benche' molto critica rispetto all'impianto originario della legge 117/1988 - abbia rimarcato che la previsione della clausola di salvaguardia "e' in effetti la disposizione piu' di tutte volta ad evitare ogni rischio di turbamento della serenita' e dell'imparzialita' del giudizio del magistrato". E' proprio la presenza della clausola di salvaguardia - che ha come oggetto il cuore della giurisdizione - che esclude che il giudice possa essere portato "a scelte interpretative accomodanti e a decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa, cosi' influendo negativamente sulla stia imparzialita'" (cosi, ancora, sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989); infatti, se il giudice sa che la sua attivita' di interpretazione delle norme e di valutazione dei fatti puo' comportare una responsabilita' per danni sara' portato, quale uomo, a preferire, tra due opzioni ermeneutiche o tra due ricostruzioni probatorie dei fatti (evenienza quest'ultima che si prospetta all'esito della maggior parte delle istruttorie dibattimentali) quella meno rischiosa (per esempio l'assoluzione) e cio', in particolare, nei processi piu' insidiosi, ove, per ipotesi, la prova e' indiziaria o dove sono in gioco rilevanti interessi economici. In altri termini, stabilire che il singolo giudice risponde civilmente pure per la sua attivita' di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove significa cancellare il principio per cui l'attivita' giurisdizionale va esercitata "sine metu ac spe" ed e' evidente lesione della regola costituzionale per cui "il giudice e' soggetto soltanto alla legge". Il giudice non e' piu' soggetto solo alla legge, perche', da un lato, vi e' il concreto pericolo che nel momento della valutazione dei fatti e delle prove al fine di assumere la decisione faccia capolino, anche in modo subliminale, la considerazione del rischio cui puo' andare incontro a seconda che venga adottata una decisione anziche' un'altra, anche alla luce del "peso" delle parti in causa (e allora, come e' stato efficacemente detto, "come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attivita', non e' facile intendere"). L'indipendenza funzionale esterna e' pregiudicata, atteso che si va a minare il principio del libero convincimento del giudice che la stessa Corte costituzionale ha ritenuto fondamentale; la Consulta, infatti, ha chiarito che il libero convincimento, discendente dall'art. 101, comma 2, e' un carattere proprio della funzione giurisdizionale e rappresenta una garanzia per l'individuo combinandosi con gli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale (cfr. sentenze n. 88 del 12 maggio 1982 e n. 255 del 3 giugno 1992). Dall'altro lato, il giudice non e' piu' soggetto solo alla legge perche', con specifico riguardo all'attivita' di interpretazione di norme di diritto, sempre al fine di evitare il rischio di una propria responsabilita', sara' portato a conformarsi ai precedenti della Corte di Cassazione e del giudice europeo (io giudice richiamo i precedenti della Corte di Cassazione e mi adeguo ad essi, sicche' non mi si potra' certo dire che sono incorso in violazione manifesta della legge o in altre fattispecie di responsabilita'); come e' stato fatto rilevare da autorevole dottrina "la nuova legge puo' indurre il giudice ad appiattirsi sul precedente giudiziario qual e' rappresentato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e del giudice europeo; in questo modo verrebbe meno la linfa vitale dei sistemi di democrazia avanzata, quale sono quelli dell'Europa, rappresentata dalla capacita' della giurisprudenza di cogliere le nuove esigenze e di aderire ai nuovi valori che la vita, nella sua evoluzione, di continuo propone". Ebbene, come osservato dall'unanime dottrina costituzionalistica, dire che i giudici sono soggetti solo alla legge significa, tra l'altro, che gli stessi non sono vincolati dai precedenti giurisprudenziali; in altre parole, la Costituzione esclude che i precedenti giurisprudenziali possano assumere, anche in via surrettizia, valore vincolante; esclude, insomma, che l'una o l'altra interpretazione giurisprudenziale (inclusa quella della suprema Corte di Cassazione a sezioni unite) possa acquistare "forza" di interpretazione autentica, cioe' forza di legge; pertanto sarebbe costituzionalmente illegittima un legge ordinaria che pretendesse di introdurre nell'ordinamento - si ripete, anche in via surrettizia - la regola del precedente vincolante, perche' ogni giudice e' libero di discostarsi dai precedenti anche di Cassazione. In conclusione, al fine di ricondurre a legittimita' costituzionale la nuova disciplina sulla responsabilita' civile dei magistrati, e' necessario (re)introdurre la clausola di salvaguardia nell'azione di rivalsa esercitata dallo Stato nei confronti del magistrato. Questa soluzione, oltre che costituzionalmente obbligata, e' del tutto conforme alla giurisprudenza comunitaria. E' vero che la Corte di Giustizia ha affermato che non e' compatibile con il diritto comunitario l'esclusione della responsabilita' civile nel caso in cui il danno sia dovuto ad un'errata interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto o delle prove (sentenza 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo, causa C-173/03), ma tale affermazione si riferisce solo alla responsabilita' dello Stato e non investe la responsabilita' personale del magistrato (lo precisa espressamente anche il punto 42 della sentenza 30 settembre 2003, Kolber, causa C-224/01); anzi, alcuni passaggi della sentenza della Corte di Giustizia paiono evocare dei necessari limiti alla responsabilita' personale del giudice, laddove hanno rimarcato la specificita' della funzione giurisdizionale e hanno escluso ogni ingerenza dell'ordinamento dell'Unione nella disciplina nazionale del diritto eventuale di rivalsa e della tutela dell'indipendenza del giudice nazionale da parte dello Stato tenuto al risarcimento del danno. Quindi i principi di autonomia e indipendenza del giudice (e la loro valenza costituzionale) non sono messi affatto in discussione dalla giurisprudenza comunitaria, venendo collocati su un piano differente rispetto a quello su cui poggia la responsabilita' dello Stato che non attiene a quella personale del giudice. Cio' e' confermato dal fatto che anche organismi comunitari hanno sollecitato gli Stati membri ad evitare che l'aggravamento delle condizioni di responsabilita' civile dei magistrati possa costituire una potenziale minaccia all'estrinsecazione di un esercizio della funzione giurisdizionale conforme ai principi dello Stato di diritto (cosi', al capo 1, punto 5, della raccomandazione CM/Rec (2010) 12 del comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati Membri del 17 novembre 2010 si legge che "i giudici devono avere liberta' assoluta di statuire sui procedimenti in modo imparziale, in conformita' del diritto e al loro apprezzamento dei fatti"). Come osservato anche da autorevole dottrina costituzionalistica che si e' specificatamente occupata dell'argomento, per giungere ad una disciplina che sia rispettosa dei rilievi della Corte di Giustizia dell'Unione europea e dei principi costituzionali relativi all'indipendenza e all'autonomia della magistratura la soluzione e' quella di eliminare il parallelismo tra responsabilita' dello Stato e quella dei magistrati; In particolare, per ricondurre la nuova disciplina a legittimita' costituzionale e' necessario che nell'ambito dell'azione di rivalsa - e solo in essa - sia prevista la clausola di salvaguardia, escludendosi che dia luogo a responsabilita' personale del magistrato l'attivita' di interpretazione delle norme di diritto o quella di valutazione del fatto o delle prove. Il ripristino, in tali limiti, della clausola di salvaguardia e' tanto piu' costituzionalmente necessario anche avuto riguardo al fatto che tra le ipotesi di responsabilita' e' stata introdotta quella del "travisamento del fatto e delle prove", bastevole, di per se', ad integrare la colpa grave. La formula "travisamento del fatto e delle prove" si' presta, come tale, da un lato, a trasformare l'azione di responsabilita' in un'impropria azione di impugnazione dei provvedimenti sfavorevoli divenuti definitivi, dall'altro lato, a consentire un'indagine surrettizia circa l'interpretazione dei fatti, la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche o l'attivita' valutativa del giudice, con un sostanziale sindacato sul merito dell'attivita' giurisdizionale con conseguente vulnus all'indipendenza del magistrato; la clausola di salvaguardia impedirebbe tutto cio'. 2. In secondo luogo, appaiono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 101, 104, 113 della Carta fondamentale, l'art. 3, comma 2, della legge 27 febbraio 2015, n. 18, che ha abrogato l'art. 5 della legge 13 aprile 1988, n, 117, e, cosi' facendo, ha eliminato qualunque filtro per la domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilita' civile del giudice, nonche' degli articoli 4 e/o 7 della legge 117/1988, cosi' come riformulati, nella parte in cui non prevedono, per l'appunto, alcun meccanismo di filtro volto a delibare la manifesta infondatezza della domanda di risarcimento. L'illegittimita' costituzionale dell'assenza di qualsivoglia meccanismo di filtro si ricava, de plano, dalla gia' citata giurisprudenza costituzionale, la quale ha precisato che il meccanismo di filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilita' civile del giudice ha "rilievo costituzionale, perche' un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione nel piu' ampio quadro di quelle altre condizioni e limiti alla responsabilita' dei magistrati che la peculiarita' delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono" (cosi' si legge nella sentenza 22 ottobre 1990, n. 468 al punto 4.1. del "considerato in diritto"; cfr. pure sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989 ove si sottolinea che "la previsione del giudizio di ammissibilita' della domanda garantisce adeguatamente il giudice della proposizione di azioni manifestamente infondate, che possano turbarne la serenita', impendendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l'astensione e la ricusazione"). In particolare, con la sentenza 22 ottobre 1990, n. 468, la Consulta dichiarava la illegittimita' costituzionale dell'art. 19, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui, per i fatti anteriori al 16 aprile 1988, non prevedeva che il Tribunale competente verificasse con rito camerale la non manifesta infondatezza della domanda ai fini della sua ammissibilita'; cio' perche' "la mancata previsione [...] di una norma a tutela dei valori di cui agli artt. 101 a 113 della Carta costituzionale determina vulnus - prima ancora che dei suddetti parametri - del principio di non irragionevolezza implicato dall'art. 3 della Costituzione", sicche' "per un equo bilanciamento degli interessi giustapposti, della indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale e della giustizia da rendersi al cittadino per danni derivantigli dall'esercizio di quella funzione" era necessario un preliminare controllo di non manifesta infondatezza della domanda ai fini dell'ammissibilita' dell'azione di responsabilita' nei confronti del magistrato. Il filtro appare ancora piu' necessario perche', alla luce della nuova disciplina, e' tutt'altro che remota la possibilita' che l'azione di responsabilita' venga esercitata addirittura quando l'affare pende davanti al giudice "accusato" dell'illecito civile; infatti, e' vero che l'art. 4, comma 2, sancisce che "l'azione di risarcimento del danno contro lo Stato puo' essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano piu' possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si e' verificato il fatto che ha cagionato il danno"; ma comma 3 aggiunge che "l'azione puo' essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si e' concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si e' verificato". Solo per fare un esempio tra i molteplici possibili, in sede penale puo' accadere che un giudice, quale membro di un collegio, rigetti il riesame avverso un provvedimento di sequestro emesso nel corso delle indagini e successivamente si trovi a giudicare il medesimo imputato per lo stesso reato in sede dibattimentale; si supponga che la Corte di Cassazione abbia annullato l'ordinanza collegiale che aveva rigettato il riesame e che decorrano tre anni senza che si sia concluso il processo di cognizione di primo grado; Considerando come "fatto che ha cagionato il danno" la decisione del Tribunale collegiale potra' essere proposta azione di responsabilita' mentre davanti al giudice, gia' facente parte del collegio, pende il processo, con conseguente grave "cortocircuito giudiziario" che apre la strada a ricusazioni e astensioni, con conseguente lesione, tra l'altro, del principio del giudice naturale precostituito per legge pure di rango costituzionale (art. 25). Se anche si dovesse ritenere che la proposizione dell'azione di responsabilita' civile non da' luogo ad alcuna delle ipotesi di ricusazione previste dal codice di procedura penale (il che appare assai discutibile per lo meno nell'ipotesi in cui il magistrato intervenga nel processo promosso contro lo Stato, perche' in siffatto caso l'accertamento compiuto in tale sede gli sarebbe opponibile e l'azione di rivalsa e' obbligatoria e, pertanto, pressoche' automatica), il giudice sarebbe quantomeno tenuto ad astenersi ai sensi dell'art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p. e, in ogni caso, come possa dirsi sereno un giudice che deve decidere sulla responsabilita' penale di un imputato che ha proposto un'azione di responsabilita' avente ad oggetto la sua condotta professionale tenuta nel medesimo procedimento, riesce difficile da comprendere. Spettera' alla Corte costituzionale stabilire se, per la necessaria tutela dei suddetti valori costituzionali, il filtro di ammissibilita' di non manifesta infondatezza debba riguardare, ab origine, la domanda di risarcimento proposta dal cittadino nei confronti dello Stato o la successiva domanda di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato. 3. Infine, appare evidente l'illegittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 3, della legge 117/1988, cosi' come interpolato dalla legge 18/2015, nella parte in cui prevede che l'esecuzione della rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato, quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, puo' comportare il pagamento per rate mensili fino ad un importo corrispondente ad un terzo dello stipendio netto. Tale previsione - oltre che contrastare anch'essa con gli artt. 101 e seguenti della Costituzione, poiche' toglie serenita' al magistrato prevedendo una sua "punizione" piu' severa rispetto agli altri dipendenti pubblici - e' irragionevole e, quindi, viola pure e indiscutibilmente l'art. 3 della Costituzione perche', senza alcuna giustificazione, differenzia in modo deteriore i magistrati rispetto a tutti gli altri dipendenti pubblici, per i quali la trattenuta mensile non puo' superare il quinto dello stipendio netto. Infatti, per tutti gli altri dipendenti pubblici vale la norma di cui all'art. 2 del d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180, per il quale gli stipendi, i salari e le retribuzioni dei dipendenti pubblici possono essere soggetti a sequestro e pignoramento - e quindi a "trattenuta forzata" - "fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto delle ritenute per debiti verso lo Stato"; analoga disposizione e' contenuta nell'art. 33, comma 8, del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, il quale dispone che "la cessione, il sequestro o il pignoramento spettante all'impiegato, in servizio o quiescenza, possono avere luogo solo nei casi e nei limiti stabiliti dalle leggi in materia e non possono superare l'aliquota di un quinto dello stipendio". E' palese che non sussiste alcuna ragione per tale differenziazione tra magistrati e altri dipendenti pubblici e non certamente quella legata all'ammontare dello stipendio, in quanto, come e' noto, vi sono dei dipendenti pubblici che percepiscono uno stipendio molto piu' elevato rispetto a quello dei magistrati.