TRIBUNALE DI TREVISO 
                           Sezione Penale 
 
    Il  Giudice  nel  procedimento  penale  n.  1727/13  r.g.   Trib.
pronuncia la seguente ordinanza Cosentino Salvatore veniva  tratto  a
giudizio per rispondere del reato di cui all'art. 110 c.p. -  291-bis
del d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43, per aver  detenuto  nel  territorio
dello Stato kg.  4.719  di  tabacco  lavorato  estero  (sigarette  di
diverse  marche  provenienti  dalla  Moldavia),  reato  accertato  in
Spresiano il 7 marzo 2013. 
    L'istruttoria dibattimentale si esauriva nell'acquisizione  della
documentazione prodotta dalle parti,  nell'escussione  dei  testimoni
dalle stesse indicati e nell'esame dell'imputato. 
    Le parti concludevano all'udienza del 31 marzo 2015, il  Pubblico
Ministero chiedendo la condanna alla pena di anni due  di  reclusione
ed euro  8.125.234  di  multa,  la  difesa  chiedendo  l'assoluzione,
quantomeno ex art. 530, comma 2, c.p.p. 
    Alla   luce   di   quanto   emerso   dall'espletata   istruttoria
dibattimentale, il giudizio in  ordine  alla  responsabilita'  penale
dell'imputato dipende, in sostanza,  da  un'unica  questione:  se  si
possa  ritenere  provato  che  lo  stesso  fosse  a  conoscenza   che
all'interno del capannone da lui  locato  era  custodita  l'imponente
quantita' di tabacco lavorato estero di cui al capo d'imputazione. 
    Dal  materiale  probatorio  raccolto  non   sono   emerse   prove
rappresentative in ordine alla  suddetta  circostanza  di  prova  (va
ricordato che nella c.d. prova rappresentativa o diretta il mezzo  di
prova rappresenta direttamente  il  fatto  da  provare,  per  esempio
nessun testimone ha detto che l'imputato era a conoscenza  del  fatto
che ci fosse il tabacco  all'interno  del  capannone);  sono  emersi,
invece, degli elementi indiziari (va ricordato che nella  c.d.  prova
indiziaria o indiretta, invece, il mezzo di prova non rappresenta  il
fatto da provare, ma un  altro  fatto,  circostanza  indiziante,  dal
quale si ricava  l'esistenza  del  fatto  da  provare  attraverso  un
percorso logico che prevede l'applicazione di massime di esperienza o
leggi scientifiche). 
    La   valutazione   di   elementi   indiziati   e',   come   noto,
particolarmente difficile e "rischiosa" in  ordine  alla  correttezza
dell'esito  del  giudizio   probatorio,   tant'e'   che   lo   stesso
legislatore, ben  consapevole  di  cio',  ha  dettato  una  procedura
aggravata per l'utilizzabilita' probatoria degli  indizi  che  si  e'
concretizzata nella previsione dei requisitidi gravita', precisione e
concordanza (art. 192 c.p.p.). 
    Ora, proprio nei procedimenti nei quali i  "risultati  probatori"
sono meramente indiziari - e quindi piu' difficile e  "rischioso"  e'
il giudizio probatorio - si  manifestano  i  riflessi  negativi  -  e
costituzionalmente  illegittimi  -  della  nuova   disciplina   delle
responsabilita' civile dei magistrati  introdotta  con  la  legge  27
febbraio 2015, n. 18. 
    Come  si  esporra'  nel  dettaglio,  infatti,   alcuni   istituti
introdotti  dalla  nuova  disciplina  finiscono  per   incidere   sul
principio del  libero  convincimento  del  giudice  che,  per  essere
indipendente, deve essere libero di  valutare  le  prove  avvalendosi
della discrezionalita' che  il  legislatore  gli  attribuisce,  senza
temere conseguenze negative a seconda dell'esito  del  suo  giudizio;
invece, la  nuova  disciplina,  da  un  lato,  espone  il  giudice  a
pressioni che possono provenire  dalle  parti  in  causa,  dall'altro
lato, prevedendo come possibile fonte di responsabilita' civile anche
la valutazione dei fatti e delle prove, mina il cuore  dell'attivita'
giurisdizionale, atteso che il giudice, per forze di cose, se sa  che
la   sua   attivita'   di   valutazione   potra'   comportargli   una
responsabilita' civile per danni, sara' portato, quale essere  umano,
ad  assumere,  soprattutto  nei  casi  piu'   difficili   (e   quindi
suscettibili per loro natura di essere rivisti nei diversi  gradi  di
giudizio), la decisione meno rischiosa che, nel processo  penale,  e'
quasi sempre identificabile nell'assoluzione dell' imputato. 
    Pertanto ritiene il Tribunale che  vada  sollevata  questione  di
legittimita' costituzionale delle specifiche  norme  della  legge  13
aprile 1988, n. 117 - cosi' come modificate dalla legge  27  febbraio
2015, n. 18 - che di seguito verranno  indicate,  per  contrasto  con
l'art. 101, comma 2 ("i giudici sono soggetti soltanto alla legge") e
104, comma 1 ("la  magistratura  costituisce  un  ordine  autonomo  e
indipendente  da  ogni  altro  potere"),   nonche'   art.   3   della
Costituzione. 
    In  merito  alla  rilevanza  nel  presente   procedimento   della
prefigurata  questione  di  legittimita'  costituzionale,  la  stessa
emerge da quanto piu' sopra anticipato in  ordine  al  fatto  che  la
nuova disciplina della responsabilita'  civile  va  ad  incidere,  in
generale, sulla liberta' del giudice di valutare i fatti e  le  prove
secondo la legge e, quindi, anche sulla valutazione che il Giudice e'
chiamato ad operare nel presente processo. 
    D'altro canto la Corte costituzionale si e' gia'  pronunciata  al
riguardo chiarendo che, ai sensi dell'art. 23 della  legge  11  marzo
1953, n. 87, "debbono ritenersi influenti sul giudizio anche le norme
che, pur non essendo direttamente applicabili  nel  giudizio  a  quo,
attengono allo status del Giudice, alla sua composizione, nonche', in
generale, alle garanzie e ai doveri che riguardano  il  suo  operare;
l'eventuale  incostituzionalita'  di  tali  norme  e'  destinata   ad
influire su ciascun processo pendente davanti al  giudice  del  quale
regolano lo status, la composizione,  le  garanzie  e  i  doveri:  in
sintesi la "protezione" dell'esercizio della funzione, nella quale  i
doveri si  accompagnano  ai  diritti"  (cosi'  Corte  costituzionale,
sentenza 18 gennaio 1989, n.  18;  in  tale  sentenza  e  con  questa
motivazione la Consulta ha ritenuto rilevante, tra  l'altro,  proprio
una questione di legittimita' costituzionale sollevata  con  riguardo
alla disciplina della responsabilita' civile dei magistrati da  parte
del Tribunale Amministrativo Regionale  per  la  Sicilia  Sezione  di
Catania). 
    Vi  sono  almeno  tre  profili   di   disciplina   della   "nuova
responsabilita'  civile  dei  magistrati"   la   cui   illegittimita'
costituzionale non appare manifestamente infondata. 
    Prima si esporli e' necessario ricordare,  in  sintesi,  come  e'
stata modellata tale responsabilita' dalla novella legislativa: 
        il cittadino che ritiene di avere subito  un  danno  ingiusto
per effetto di un comportamento, di un atto  o  di  un  provvedimento
giudiziario posto in essere dal magistrato per  dolo  o  colpa  grave
nell'esercizio delle sue funzioni puo' agire direttamente  contro  lo
Stato per ottenere il  risarcimento  dei  danni  patrimoniali  e  non
patrimoniali; 
        la legge determina  i  casi  di  colpa  grave  statuendo  che
"costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge, nonche'
del diritto dell'Unione europea, il travisamento del  fatto  o  delle
prove,  ovvero  l'affermazione  di  un  fatto  la  cui  esistenza  e'
incontrastabilmente  esclusa  dagli  atti  del  procedimento   o   la
negazione di un fatto la cui  esistenza  risulta  incontrastabilmente
dagli atti del procedimento, ovvero l'emissione di  un  provvedimento
cautelare personale o reale fuori dei  casi  consentiti  dalla  legge
oppure senza motivazione" (art. 2, comma 3, cosi' come riformulato); 
        con riferimento a queste ipotesi di colpa grave non opera  la
clausola di salvaguardia per la quale "nell'esercizio delle  funzioni
giudiziarie non puo'  dar  luogo  a  responsabilita'  l'attivita'  di
interpretazione di norme di diritto ne'  quella  di  valutazione  del
fatto e della prove" (il comma 2 dell'art. 2, infatti, nel  prevedere
tale clausola fa salvi i commi 3, ove per l'appunto sono  dettate  le
ipotesi di colpa grave, e 3-bis ed i casi di dolo); 
        quando e' avvenuto il risarcimento del danno da  parte  dello
Stato il Presidente del Consiglio dei ministeri, entro due  anni,  ha
l'obbligo  di  esercitare  l'azione  di  rivalsa  nei  confronti  del
magistrato "nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in  cui
la violazione manifesta della legge nonche' del  diritto  dell'Unione
europa ovvero il  travisamento  del  fatto  o  delle  prove,  di  cui
all'art. 2, commi 2, 3 e 3-bis  sono  stati  determinati  da  dolo  o
negligenza inescusabile" (cosi' art. 7 nella nuova formulazione); 
        va osservato che, all'apparenza, non sembra esservi  perfetta
coincidenza tra i casi di responsabilita' dello Stato  e  i  casi  di
responsabilita' del magistrato, perche' l'art. 7 richiama solo alcune
delle ipotesi dell'art. 3 e, inoltre, aggiunge,  almeno  formalmente,
un ulteriore  presupposto  per  la  responsabilita'  del  magistrato,
atteso che l'azione di  rivalsa  e'  prevista  nei  casi  in  cui  la
violazione manifesta della  legge  nonche'  del  diritto  dell'Unione
europea ovvero il  travisamento  del  fatto  o  delle  prove  di  cui
all'art. 2, commi 2, 3 e 3-bis "sono  stati  determinati  da  dolo  o
negligenza inescusabile"; tuttavia, a ben vedere, il presupposto, per
l'azione  di  rivalsa,  della  "negligenza  inescusabile"   e'   solo
apparente, atteso che, da un lato, se si configura una delle  ipotesi
di colpa  grave  previste  dalla  legge  non  si  comprende  come  la
negligenza potrebbe essere considerata scusabile (la colpa grave, per
definizione, non appare scusabile), dall'altro lato  il  comma  3-bis
dell'art. 2 stabilisce che ai fini della determinazione dei  casi  in
cui sussiste la violazione manifesta della legge nonche' del  diritto
dell'Unione   europea   si   tiene   conto,   tra   l'altro,    della
"inescusabilita' dell'inosservanza", sicche' cio'  che  vale  per  la
responsabilita' dello Stato pare valere anche per la  responsabilita'
del magistrato in sede di rivalsa; 
        la misura della rivalsa non puo' superare una somma pari alla
meta' di un'annualita' dello stipendio,  al  netto  delle  trattenute
fiscali, percepito  dal  magistrato  al  tempo  in  cui  l'azione  di
risarcimento e' proposta (art. 8, comma 3); 
        e' stato completamente eliminato il filtro di  ammissibilita'
gia' disciplinato dall'art. 5 della legge 117/1988 e previsto per  le
ipotesi in cui non fossero rispettati i termini o  i  presupposti  di
cui agli articoli  2,  3  e  4  della  legge  ovvero  la  domanda  di
risarcimento fosse manifestamente infondata. 
    La  giurisprudenza  del  Giudice  delle  leggi  in  ordine   alla
disciplina della  responsabilita'  civile  dei  magistrati  e'  ormai
consolidata e chiara nei suoi principi fondamentali  e  si  snoda  su
alcuni cardini: 
        l'art. 28 della Costituzione si applica pure  ai  magistrati,
per cui anch'essi sono personalmente e civilmente responsabili per  i
danni provocati nell'esercizio delle loro  funzioni  (sentenza  n.  2
dell'11 marzo 1968); 
        la responsabilita'  civile  dei  magistrati,  tuttavia,  deve
essere disciplinata  in  modo  diverso  rispetto  alla  normativa  di
diritto comune, in quanto cio' risulta necessario  per  tutelarne  le
garanzie di  indipendenza;  in  particolare  "la  peculiarita'  delle
funzioni  giudiziarie  e  la  natura   dei   relativi   provvedimenti
suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilita' dei magistrati,
specie in considerazione dei  disposti  costituzionali  appositamente
dettati per la magistratura (artt. 101 e 113),  a  tutela  della  sua
indipendenza e dell'autonomia delle sue funzioni" (sentenza n. 26 del
3 febbraio 1987). 
    La  Corte  costituzionale,  poi,  ha  dato  specifico  contenuto,
costituzionalmente vincolante, alle  condizioni  e  ai  limiti  della
responsabilita' civile dei magistrati: 
        "il  principio  dell'indipendenza  e'   volto   a   garantire
l'imparzialita'  del  giudice,  assicurandogli  una  posizione  super
partes che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse  alla  causa
da decidere; a tal fine la legge deve garantire l'assenza,  in  ugual
modo, di aspettative di vantaggi  e  di  situazioni  di  pregiudizio,
preordinando gli strumenti  atti  a  tutelare  l'obbiettivita'  della
decisione; la disciplina  dell'attivita'  del  giudice  deve  percio'
essere tale da rendere quest'ultima immune  da  vincoli  che  possano
comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi,
mirando  altresi',  per  quanto  possibile,  a  renderla  libera   da
prevenzioni, timori, influenze  che  possano  indurre  il  giudice  a
decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza"
(cosi' sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989); 
        la   garanzia    costituzionale    dell'indipendenza    della
magistratura "e'  diretta  a  tutelare,  in  primis,  l'autonomia  di
valutazione dei fatti e delle prove  e  l'imparziale  interpretazione
delle norme di diritto", per cui tale attivita' "non puo' dar luogo a
responsabilita' del giudice" (cosi' si  legge,  letteralmente,  nella
sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989, punto n. 9  del  "considerato  in
diritto"); 
        un meccanismo di filtro della domanda  giudiziale  diretta  a
far  valere  la  responsabilita'  civile  del  giudice  ha   "rilievo
costituzionale", cio' significa che  e'  costituzionalmente  imposto,
"perche' un controllo preliminare della  non  manifesta  infondatezza
della   domanda,   portando   ad   escludere   azioni   temerarie   e
intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza  e
di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli  artt.  da
101 a 113 della Costituzione nel piu' ampio quadro  di  quelle  altre
condizioni e  limiti  alla  responsabilita'  dei  magistrati  che  la
peculiarita' delle funzioni giudiziarie  e  la  natura  dei  relativi
provvedimenti suggeriscono" (cosi' si legge nella sentenza 22 ottobre
1990, n. 468 al punto 4.1. del "considerato in diritto"). 
    Alla luce di  questi  stentorei  enunciati  della  giurisprudenza
costituzionale - ancorati alle norme di cui agli art. 101 e  seguenti
della  Carta  fondamentale  -  appaiono   chiari   tre   profili   di
illegittimita' costituzionale della nuova  normativa  che  regola  la
responsabilita' civile dei magistrati. 
    1. In primo luogo  e'  costituzionalmente  illegittimo  l'art.  7
della legge 117/1988 - cosi' come modificato dalla  legge  18/2015  -
nella  parte  in  cui  non  prevede  che  "non  puo'  dar   luogo   a
responsabilita'  personale  del  singolo  magistrato  l'attivita'  di
interpretazione di norme di diritto ne'  quella  di  valutazione  del
fatto e delle prove in tutti i casi di azione di rivalsa dello  Stato
nei confronti del magistrato stesso". 
    Come gia' osservato, il comma 2 dell'art. 2 della legge  117/1988
solo formalmente mantiene fermo  principio  per  cui  "nell'esercizio
delle funzioni giudiziarie  non  puo'  dar  luogo  a  responsabilita'
l'attivita' di interpretazione di norme  di  diritto  ne'  quella  di
valutazione del fatto e delle prove", atteso che lo stesso  comma  si
apre con un'eccezione totalizzante ("fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed
i casi di dolo"); cio' significa che la clausola di salvaguardia  non
opera in tutti i casi di colpa grave in cui scatta la responsabilita'
dello Stato prima e, in sede di rivalsa, del magistrato poi; in altri
termini, e' come se tale clausola non ci fosse. 
    Ora,  si  e'  gia'   detto   che   la   garanzia   costituzionale
dell'indipendenza della  magistratura  "e'  diretta  a  tutelare,  in
primis,  l'autonomia  di  valutazione  dei  fatti  e  delle  prove  e
l'imparziale interpretazione delle norme di diritto",  per  cui  tale
attivita'  "non  puo'  dar  luogo  a  responsabilita'  del   giudice"
(sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989, punto n. 9 del  "considerato  in
diritto"); e' significativo che anche autorevole  voce  dottrinale  -
benche' molto critica rispetto all'impianto  originario  della  legge
117/1988 - abbia  rimarcato  che  la  previsione  della  clausola  di
salvaguardia "e' in effetti la disposizione piu' di  tutte  volta  ad
evitare   ogni   rischio   di   turbamento    della    serenita'    e
dell'imparzialita' del giudizio del magistrato". 
    E' proprio la presenza della clausola di  salvaguardia -  che  ha
come oggetto il cuore  della  giurisdizione  -  che  esclude  che  il
giudice possa essere portato "a scelte interpretative accomodanti e a
decisioni meno rischiose in relazione agli interessi in causa,  cosi'
influendo negativamente  sulla  stia  imparzialita'"  (cosi,  ancora,
sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989); infatti, se il giudice sa che la
sua attivita' di interpretazione delle norme  e  di  valutazione  dei
fatti puo' comportare una responsabilita' per  danni  sara'  portato,
quale uomo, a preferire, tra  due  opzioni  ermeneutiche  o  tra  due
ricostruzioni probatorie dei fatti  (evenienza  quest'ultima  che  si
prospetta   all'esito   della   maggior   parte   delle   istruttorie
dibattimentali) quella meno rischiosa (per esempio  l'assoluzione)  e
cio', in particolare, nei processi piu' insidiosi, ove, per  ipotesi,
la prova e' indiziaria o  dove  sono  in  gioco  rilevanti  interessi
economici. 
    In altri termini,  stabilire  che  il  singolo  giudice  risponde
civilmente pure per la sua attivita' di interpretazione di  norme  di
diritto e di valutazione del fatto e delle prove significa cancellare
il principio per cui l'attivita' giurisdizionale va esercitata  "sine
metu ac spe" ed e' evidente lesione della regola  costituzionale  per
cui "il giudice e' soggetto soltanto alla legge". 
    Il giudice non e' piu' soggetto solo alla legge, perche',  da  un
lato, vi e' il concreto pericolo che nel  momento  della  valutazione
dei fatti e delle prove al  fine  di  assumere  la  decisione  faccia
capolino, anche in modo subliminale, la  considerazione  del  rischio
cui puo' andare incontro a seconda che venga adottata  una  decisione
anziche' un'altra, anche alla luce del "peso" delle parti in causa (e
allora, come e' stato efficacemente detto, "come possa  dirsi  ancora
indipendente un giudice che lavora  soprattutto  per  uscire  indenne
dalla propria attivita', non e' facile intendere"). 
    L'indipendenza funzionale esterna e' pregiudicata, atteso che  si
va a minare il principio del libero convincimento del giudice che  la
stessa Corte costituzionale ha ritenuto  fondamentale;  la  Consulta,
infatti,  ha  chiarito  che  il  libero  convincimento,   discendente
dall'art. 101, comma  2,  e'  un  carattere  proprio  della  funzione
giurisdizionale  e   rappresenta   una   garanzia   per   l'individuo
combinandosi con gli artt. 3 e  24  della  Carta  fondamentale  (cfr.
sentenze n. 88 del 12 maggio 1982 e n. 255 del 3 giugno 1992). 
    Dall'altro lato, il giudice non e' piu' soggetto solo alla  legge
perche', con specifico riguardo all'attivita' di  interpretazione  di
norme di diritto, sempre al fine di evitare il rischio di una propria
responsabilita', sara' portato  a  conformarsi  ai  precedenti  della
Corte di Cassazione e del giudice  europeo  (io  giudice  richiamo  i
precedenti della Corte di Cassazione e mi adeguo ad essi, sicche' non
mi si potra' certo dire che  sono  incorso  in  violazione  manifesta
della legge o in altre fattispecie di responsabilita'); come e' stato
fatto rilevare da autorevole dottrina "la nuova legge puo' indurre il
giudice  ad  appiattirsi   sul   precedente   giudiziario   qual   e'
rappresentato dalla giurisprudenza della Corte di  Cassazione  e  del
giudice europeo; in questo modo verrebbe meno  la  linfa  vitale  dei
sistemi  di  democrazia  avanzata,  quale  sono  quelli  dell'Europa,
rappresentata dalla capacita' della  giurisprudenza  di  cogliere  le
nuove esigenze e di aderire ai nuovi valori che la  vita,  nella  sua
evoluzione, di continuo propone". 
    Ebbene, come osservato dall'unanime dottrina costituzionalistica,
dire che i giudici sono  soggetti  solo  alla  legge  significa,  tra
l'altro,  che  gli  stessi  non   sono   vincolati   dai   precedenti
giurisprudenziali; in altre parole, la  Costituzione  esclude  che  i
precedenti  giurisprudenziali  possano   assumere,   anche   in   via
surrettizia, valore vincolante; esclude, insomma, che l'una o l'altra
interpretazione giurisprudenziale (inclusa quella della suprema Corte
di  Cassazione  a  sezioni  unite)  possa   acquistare   "forza"   di
interpretazione autentica, cioe' forza  di  legge;  pertanto  sarebbe
costituzionalmente illegittima un legge ordinaria che pretendesse  di
introdurre nell'ordinamento - si ripete, anche in via  surrettizia  -
la regola del precedente vincolante, perche' ogni giudice  e'  libero
di discostarsi dai precedenti anche di Cassazione. 
    In  conclusione,   al   fine   di   ricondurre   a   legittimita'
costituzionale la nuova disciplina sulla responsabilita'  civile  dei
magistrati, e' necessario (re)introdurre la clausola di  salvaguardia
nell'azione di rivalsa  esercitata  dallo  Stato  nei  confronti  del
magistrato. 
    Questa soluzione, oltre che costituzionalmente obbligata, e'  del
tutto conforme alla giurisprudenza comunitaria. 
    E' vero che la  Corte  di  Giustizia  ha  affermato  che  non  e'
compatibile   con   il   diritto   comunitario   l'esclusione   della
responsabilita' civile nel  caso  in  cui  il  danno  sia  dovuto  ad
un'errata interpretazione di norme di diritto o  di  valutazione  del
fatto  o  delle  prove  (sentenza  13  giugno  2006,  Traghetti   del
Mediterraneo, causa C-173/03), ma tale affermazione si riferisce solo
alla responsabilita' dello Stato e  non  investe  la  responsabilita'
personale del magistrato (lo precisa espressamente anche il punto  42
della sentenza 30 settembre  2003,  Kolber,  causa  C-224/01);  anzi,
alcuni passaggi  della  sentenza  della  Corte  di  Giustizia  paiono
evocare dei  necessari  limiti  alla  responsabilita'  personale  del
giudice, laddove  hanno  rimarcato  la  specificita'  della  funzione
giurisdizionale  e  hanno  escluso  ogni  ingerenza  dell'ordinamento
dell'Unione nella  disciplina  nazionale  del  diritto  eventuale  di
rivalsa e della tutela dell'indipendenza  del  giudice  nazionale  da
parte dello Stato tenuto al risarcimento del danno. 
    Quindi i principi di autonomia e indipendenza del giudice  (e  la
loro valenza costituzionale) non sono messi  affatto  in  discussione
dalla giurisprudenza  comunitaria,  venendo  collocati  su  un  piano
differente rispetto a quello su cui poggia la  responsabilita'  dello
Stato che non attiene a quella personale del giudice. 
    Cio' e' confermato dal fatto che anche organismi comunitari hanno
sollecitato gli Stati membri  ad  evitare  che  l'aggravamento  delle
condizioni di responsabilita' civile dei magistrati possa  costituire
una potenziale minaccia all'estrinsecazione  di  un  esercizio  della
funzione giurisdizionale conforme ai principi dello Stato di  diritto
(cosi', al capo 1, punto 5, della raccomandazione  CM/Rec  (2010)  12
del comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa  agli  Stati  Membri
del 17 novembre 2010 si legge che "i giudici  devono  avere  liberta'
assoluta  di  statuire  sui  procedimenti  in  modo  imparziale,   in
conformita' del diritto e al loro apprezzamento dei fatti"). 
    Come osservato anche da autorevole  dottrina  costituzionalistica
che si e' specificatamente occupata dell'argomento, per  giungere  ad
una  disciplina  che  sia  rispettosa  dei  rilievi  della  Corte  di
Giustizia dell'Unione europea e dei principi costituzionali  relativi
all'indipendenza e all'autonomia della magistratura la  soluzione  e'
quella di eliminare il parallelismo tra responsabilita' dello Stato e
quella dei magistrati; 
    In particolare, per ricondurre la nuova disciplina a legittimita'
costituzionale e' necessario che nell'ambito dell'azione di rivalsa -
e  solo  in  essa  -  sia  prevista  la  clausola  di   salvaguardia,
escludendosi che dia luogo a responsabilita' personale del magistrato
l'attivita' di interpretazione delle norme di  diritto  o  quella  di
valutazione del fatto o delle prove. 
    Il ripristino, in tali limiti, della clausola di salvaguardia  e'
tanto piu' costituzionalmente  necessario  anche  avuto  riguardo  al
fatto che tra le  ipotesi  di  responsabilita'  e'  stata  introdotta
quella del "travisamento del fatto e delle prove", bastevole, di  per
se', ad integrare la colpa grave. 
    La formula "travisamento del fatto e  delle  prove"  si'  presta,
come tale, da un lato, a trasformare l'azione di  responsabilita'  in
un'impropria azione di  impugnazione  dei  provvedimenti  sfavorevoli
divenuti  definitivi,  dall'altro  lato,  a  consentire   un'indagine
surrettizia circa l'interpretazione dei fatti, la violazione o  falsa
applicazione  di  norme  giuridiche  o  l'attivita'  valutativa   del
giudice, con  un  sostanziale  sindacato  sul  merito  dell'attivita'
giurisdizionale   con   conseguente   vulnus   all'indipendenza   del
magistrato; la clausola di salvaguardia impedirebbe tutto cio'. 
    2. In secondo luogo, appaiono costituzionalmente illegittimi, per
contrasto con gli artt.  101,  104,  113  della  Carta  fondamentale,
l'art. 3, comma 2, della legge  27  febbraio  2015,  n.  18,  che  ha
abrogato l'art. 5 della legge  13  aprile  1988,  n,  117,  e,  cosi'
facendo, ha eliminato qualunque  filtro  per  la  domanda  giudiziale
diretta a far valere la responsabilita' civile del  giudice,  nonche'
degli articoli 4 e/o 7 della legge 117/1988, cosi' come  riformulati,
nella parte in cui non prevedono, per l'appunto, alcun meccanismo  di
filtro volto a delibare la manifesta infondatezza  della  domanda  di
risarcimento. 
    L'illegittimita'  costituzionale  dell'assenza  di   qualsivoglia
meccanismo  di  filtro  si  ricava,  de  plano,  dalla  gia'   citata
giurisprudenza  costituzionale,  la  quale  ha   precisato   che   il
meccanismo di filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la
responsabilita'  civile  del  giudice  ha  "rilievo   costituzionale,
perche' un controllo preliminare  della  non  manifesta  infondatezza
della   domanda,   portando   ad   escludere   azioni   temerarie   e
intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza  e
di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli  artt.  da
101 a 113 della Costituzione nel piu' ampio quadro  di  quelle  altre
condizioni e  limiti  alla  responsabilita'  dei  magistrati  che  la
peculiarita' delle funzioni giudiziarie  e  la  natura  dei  relativi
provvedimenti suggeriscono" (cosi' si legge nella sentenza 22 ottobre
1990, n. 468 al punto 4.1. del "considerato in  diritto";  cfr.  pure
sentenza n. 18  del  18  gennaio  1989  ove  si  sottolinea  che  "la
previsione del giudizio di ammissibilita'  della  domanda  garantisce
adeguatamente il giudice della proposizione di azioni  manifestamente
infondate, che possano turbarne la serenita',  impendendo,  al  tempo
stesso, di creare con malizia i presupposti  per  l'astensione  e  la
ricusazione"). 
    In particolare, con la sentenza  22  ottobre  1990,  n.  468,  la
Consulta dichiarava la illegittimita'  costituzionale  dell'art.  19,
comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui,  per
i fatti anteriori al 16 aprile 1988, non prevedeva che  il  Tribunale
competente  verificasse  con   rito   camerale   la   non   manifesta
infondatezza della domanda ai fini  della  sua  ammissibilita';  cio'
perche' "la mancata previsione [...] di una norma a tutela dei valori
di cui agli artt. 101 a  113  della  Carta  costituzionale  determina
vulnus - prima ancora che dei suddetti parametri - del  principio  di
non  irragionevolezza  implicato  dall'art.  3  della  Costituzione",
sicche' "per un  equo  bilanciamento  degli  interessi  giustapposti,
della indipendenza ed  autonomia  della  funzione  giurisdizionale  e
della giustizia da  rendersi  al  cittadino  per  danni  derivantigli
dall'esercizio di quella  funzione"  era  necessario  un  preliminare
controllo  di  non  manifesta  infondatezza  della  domanda  ai  fini
dell'ammissibilita' dell'azione di responsabilita' nei confronti  del
magistrato. 
    Il filtro appare ancora piu' necessario perche', alla luce  della
nuova disciplina,  e'  tutt'altro  che  remota  la  possibilita'  che
l'azione  di  responsabilita'  venga  esercitata  addirittura  quando
l'affare pende davanti al giudice  "accusato"  dell'illecito  civile;
infatti, e' vero che l'art. 4, comma 2,  sancisce  che  "l'azione  di
risarcimento  del  danno  contro  lo  Stato  puo'  essere  esercitata
soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione
o gli altri rimedi  previsti  avverso  i  provvedimenti  cautelari  e
sommari, e comunque quando non siano piu' possibili la modifica o  la
revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi  non  sono  previsti,
quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito  del  quale
si e' verificato il fatto che ha cagionato  il  danno";  ma  comma  3
aggiunge che "l'azione puo' essere esercitata decorsi tre anni  dalla
data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si  e'
concluso il grado del procedimento nell'ambito  del  quale  il  fatto
stesso si e' verificato". 
    Solo per fare un esempio tra  i  molteplici  possibili,  in  sede
penale puo' accadere che un giudice, quale  membro  di  un  collegio,
rigetti il riesame avverso un provvedimento di sequestro  emesso  nel
corso delle indagini  e  successivamente  si  trovi  a  giudicare  il
medesimo imputato per lo stesso  reato  in  sede  dibattimentale;  si
supponga che la  Corte  di  Cassazione  abbia  annullato  l'ordinanza
collegiale che aveva rigettato il riesame e che  decorrano  tre  anni
senza che si sia concluso il processo di cognizione di primo grado; 
    Considerando come "fatto che ha cagionato il danno" la  decisione
del  Tribunale  collegiale   potra'   essere   proposta   azione   di
responsabilita' mentre davanti al giudice,  gia'  facente  parte  del
collegio, pende il processo,  con  conseguente  grave  "cortocircuito
giudiziario" che apre la  strada  a  ricusazioni  e  astensioni,  con
conseguente lesione, tra l'altro, del principio del giudice  naturale
precostituito per legge pure di rango costituzionale (art. 25). 
    Se anche si dovesse ritenere che la proposizione  dell'azione  di
responsabilita' civile non da'  luogo  ad  alcuna  delle  ipotesi  di
ricusazione previste dal codice di procedura penale  (il  che  appare
assai discutibile per lo  meno  nell'ipotesi  in  cui  il  magistrato
intervenga nel processo promosso contro lo Stato, perche' in siffatto
caso l'accertamento compiuto in tale sede gli  sarebbe  opponibile  e
l'azione  di  rivalsa  e'  obbligatoria   e,   pertanto,   pressoche'
automatica), il giudice sarebbe quantomeno  tenuto  ad  astenersi  ai
sensi dell'art. 36, comma 1, lett. h), c.p.p. e, in ogni  caso,  come
possa dirsi sereno un giudice che deve decidere sulla responsabilita'
penale di un imputato che ha proposto  un'azione  di  responsabilita'
avente ad oggetto la sua condotta professionale tenuta  nel  medesimo
procedimento, riesce difficile da comprendere. 
    Spettera'  alla  Corte  costituzionale  stabilire  se,   per   la
necessaria tutela dei suddetti valori costituzionali,  il  filtro  di
ammissibilita' di non manifesta  infondatezza  debba  riguardare,  ab
origine, la  domanda  di  risarcimento  proposta  dal  cittadino  nei
confronti dello Stato o la successiva domanda di rivalsa dello  Stato
nei confronti del magistrato. 
    3.  Infine,  appare  evidente   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 8, comma 3, della legge 117/1988,  cosi'  come  interpolato
dalla legge 18/2015, nella parte  in  cui  prevede  che  l'esecuzione
della rivalsa da parte dello  Stato  nei  confronti  del  magistrato,
quando viene effettuata mediante  trattenuta  sullo  stipendio,  puo'
comportare  il  pagamento  per  rate  mensili  fino  ad  un   importo
corrispondente ad un terzo dello stipendio netto. 
    Tale previsione - oltre che contrastare anch'essa con  gli  artt.
101 e  seguenti  della  Costituzione,  poiche'  toglie  serenita'  al
magistrato prevedendo una sua "punizione" piu' severa  rispetto  agli
altri dipendenti pubblici - e' irragionevole e, quindi, viola pure  e
indiscutibilmente l'art. 3 della Costituzione perche',  senza  alcuna
giustificazione, differenzia in modo deteriore i magistrati  rispetto
a tutti gli altri dipendenti pubblici,  per  i  quali  la  trattenuta
mensile non puo' superare il quinto dello stipendio netto. 
    Infatti, per tutti gli altri dipendenti pubblici vale la norma di
cui all'art. 2 del d.p.r. 5 gennaio 1950, n. 180, per  il  quale  gli
stipendi, i salari e le retribuzioni dei dipendenti pubblici  possono
essere soggetti a sequestro e pignoramento - e quindi  a  "trattenuta
forzata" - "fino alla concorrenza di  un  quinto  valutato  al  netto
delle ritenute per debiti verso lo Stato";  analoga  disposizione  e'
contenuta nell'art. 33, comma 8, del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3,  il
quale dispone che  "la  cessione,  il  sequestro  o  il  pignoramento
spettante all'impiegato, in  servizio  o  quiescenza,  possono  avere
luogo solo nei casi e nei limiti stabiliti dalle leggi in  materia  e
non possono superare l'aliquota di un quinto dello stipendio". 
    E'  palese   che   non   sussiste   alcuna   ragione   per   tale
differenziazione tra magistrati e altri  dipendenti  pubblici  e  non
certamente quella legata all'ammontare dello  stipendio,  in  quanto,
come e' noto, vi sono dei dipendenti pubblici  che  percepiscono  uno
stipendio molto piu' elevato rispetto a quello dei magistrati.