TRIBUNALE DI LECCE 
                         Sezione del riesame 
 
    Il Tribunale, riunitosi in Camera di consiglio nelle persone di: 
      dott. Silvio M. Piccinno - Presidente; 
      dott. Anna Paola Capano - Giudice; 
      dott. Antonio Gatto - Giudice; 
    Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  nei  confronti  di  P.A.,
n...., il..., sul  ricorso  presentato  il  15  giugno  2015  avverso
l'ordinanza emessa dal g.u.p, presso il Tribunale di Lecce in data 27
marzo 2015 con la  quale  si  disponeva  la  misura  cautelare  della
custodia cautelare in carcere. 
    1. Il giudice applicava detta misura avendo  ritenuto  sussistere
nei confronti del ricorrente gravi indizi di colpevolezza dei delitti
di cui agli artt. 74 e 73, D.P.R. n. 309/90 (capi A), A1), A2), A3) e
A4)). 
    Avverso  il  suddetto  provvedimento  ha  proposto   ricorso   il
difensore per l'annullamento dell'ordinanza. 
    2.  All'udienza  del  26  giugno  2015  il   difensore   chiedeva
preliminarmente che il procedimento si svolgesse in pubblica  udienza
e sollevava questione di costituzionalita' dell'art. 309, comma 8, in
relazione all''rt. 127 c.p.p. sulla  base  delle  considerazioni  che
seguono: 
      "La premessa e' rappresentata, ineludibilmente, dalle  sentenze
recenti della Corte costituzionale n. 97 e n. 109 del  2015,  con  le
quali sono stati dichiarati illegittimi da un canto, (sent.  n.  97),
gli artt. 666 comma 3 e  678  col  c.p.p.  nella  parte  in  cui  non
consentono che, su richiesta degli interessati,  il  procedimento  di
fronte al Tribunale di Sorveglianza, nelle materie di sua competenza,
si svolga nelle forme  dell'udienza  pubblica  e,  dall'altro  canto,
(sent. n. 109) gli artt. 666 comma 3, 667 comma 4 e 676 c.p.p.  nella
parte in cui non consentono che, su  istanza  degli  interessati,  il
procedimento di opposizione contro l'ordinanza in materia di confisca
si svolga, davanti al GE, nelle forme dell'udienza pubblica. 
    Le due sentenze  gemelle  hanno  aperto  una  breccia  ormai  non
rimediabile verso la trattazione - sempre su  richiesta  delle  parti
interessate - dei  procedimenti  nelle  forme  dell'udienza  pubblica
laddove si verta in tema di diritti fondamentali della persona e  che
ricevono una tutela di rango costituzionale. E  cosi'  e'  certamente
nel procedimento che si celebra innanzi  al  Tribunale  del  Riesame,
laddove le questioni riguardano diritti  fondamentali  della  persona
come quello della liberta' personale (misure cautelari  personali)  e
della proprieta' (misure cautelari reali).Sicche' anche nel  caso  di
specie le norme censurate sono in contrasto con Part. 117, col  Cost.
e, in via interposta, con l'art. 6 paragr. 1 C.e.d.u., nella parte in
cui afferma il principio di pubblicita' dei procedimenti  giudiziari;
in contrasto con l'art. 111 Cost.  che  impone  un  giusto  processo,
posto che il processo equo deve poter prevedere di procedere in forma
pubblica, almeno nei casi in cui siano gli interessati a richiederlo. 
    A tal proposito  si  richiamano  gli  argomenti  che  sono  stati
sviluppati nelle recenti sentenze n. 97 e n. 109, ben  adattabili  al
caso de quo. I dati normativi in scrutinio - art. 309 comma 8 e  art.
127 comma 6 c.p.p. - sono univoci  nell'escludere  la  partecipazione
del pubblico al procedimento in questione. Il comma 8 del citato art.
309 prevede, infatti, che il procedimento davanti  al  Tribunale  del
riesame si  svolge  in  camera  di  consiglio  nelle  forme  previste
dall'art.  127.  La  formula,  in   assenza   di   deroghe,   rimanda
espressamente all'art. 127 cod. proc. pen. e, comunque, espressamente
al suo comma 6, in forza del quale  «L'udienza  si  svolge  senza  la
presenza del pubblico», ossia in Camera di consiglio. 
    Non  e'  revocabile  in  dubbio  che  tale   regime   si   rivela
incompatibile con la  garanzia  della  pubblicita'  dei  procedimenti
giudiziari, sancita dall'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, cosi'  come
interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  e,  di
conseguenza, con l'art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la
citata disposizione convenzionale  assume  una  valenza  integrativa,
quale  «norma  interposta».  L'art.  6,  paragrafo  1,   della   CEDU
stabilisce - per la parte conferente - che «Ogni persona ha diritto a
che la sua causa sia  esaminata  [...],  pubblicamente  ed  entro  un
termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale [...]»,
soggiungendo,  altresi',  che   «La   sentenza   deve   essere   resa
pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza puo'  essere  vietato
alla stampa  e  al  pubblico  durante  tutto  o  parte  del  processo
nell'interesse della morale, dell'ordirle pubblico o della  sicurezza
nazionale  in  una  societa'  democratica,  quando  lo  esigono   gli
interessi dei minori o la protezione della vita privata  delle  parti
in causa, o,  nella  misura  giudicata  strettamente  necessaria  dal
Tribunale,  quando  in  circostanze  speciali  la  pubblicita'  possa
portare pregiudizio agli interessi della giustizia». La Corte europea
dei diritti dell'uomo ha gia' avuto modo di ritenere in contrasto con
l'indicata garanzia convenzionale taluni procedimenti giurisdizionali
dei quali  la  legge  italiana  prevedeva  la  trattazione  in  forma
camerale. Cio' e' avvenuto, in specie, con riguardo  al  procedimento
applicativo delle misure di prevenzione (sentenza 13  novembre  2007,
Bocellari e Rizza contro Italia, sulla cui scia  sentenza  26  luglio
2011, Paleari contro Italia; sentenza  17  maggio  2011,  Capitani  e
Campanella contro Italia; sentenza  2  febbraio  2010,  Leone  contro
Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno  e  altri  contro  Italia;
sentenza  8  luglio  2008,  Perre  e  altri  contro  Italia)   e   al
procedimento per la riparazione dell'ingiusta detenzione (sentenza 10
aprile 2012, Lorenzetti contro It.). La Corte europea e' pervenuta  a
tale conclusione richiamando  la  (propria  costante  giurisprudenza,
secondo la quale la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le
persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che
sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche  uno  strumento
per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo cosi a realizzare
lo scopo dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo.
Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma,
questa non impedisce, in  assoluto,  alle  autorita'  giudiziarie  di
derogare al principio di pubblicita' dell'udienza.  La  stessa  Corte
europea  ha,  d'altra   parte,   ritenuto   che   alcune   situazioni
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica,  in
ogni caso, tuttavia, l'udienza a porte  chiuse,  per  tutta  o  parte
della durata, deve essere  «strettamente  imposta  dalle  circostanze
della  causa».  Con  particolare   riguardo   al   procedimento   per
l'applicazione delle misure di prevenzione, la  Corte  di  Strasburgo
non ha negato che detta procedura possa presentare «un elevato  grado
di tecnicita'» e far emergere, altresi', esigenze di protezione della
vita privata di terze persone. Ma ha  rilevato  che  l'entita'  della
«posta in gioco» - rappresentata (nel caso delle misure patrimoniali)
dalla confisca di «beni e capitali» - e gli effetti che la  procedura
stessa puo' produrre sulle persone non consentono di  affermare  «che
il controllo del pubblico» - almeno su  sollecitazione  del  soggetto
coinvolto - «non sia una  condizione  necessaria  alla  garanzia  del
rispetto dei diritti dell'interessato». Di conseguenza,  ha  ritenuto
«essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia  prefigurata
dalla norma convenzionale, «che le  persone  [...]  coinvolte  in  un
procedimento di applicazione delle misure di  prevenzione  si  vedano
almeno offrire la possibilita' di sollecitare  una  pubblica  udienza
davanti alle  sezioni  specializzate  dei  tribunali  e  delle  corti
d'appello» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro It.).
In termini similari la Corte europea si e' espressa  con  riferimento
al procedimento per  la  riparazione  dell'ingiusta  detenzione,  non
ravvisando, anche in tal caso, alcuna circostanza eccezionale atta  a
giustificare  la  deroga  generale  e  assoluta   al   principio   di
pubblicita'  dei  giudizi,  insita   nella   previsione   della   sua
trattazione in forma  camerale  (art.  315,  comma  3,  in  relazione
all'art.  646,  comma  1,  cod.  proc.  pen.).  Nell'ambito  di  tale
procedura, infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente  a
valutare se  l'interessato  abbia  contribuito  a  provocare  la  sua
detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicche' non si discute
di «questioni di  natura  tecnica  che  possono  essere  regolate  in
maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo»  (sentenza  10
aprile 2012, Lorenzetti contro It.). 
    Come gia' rilevato dalla Consulta con le citate  sentenze  n.  93
del 2010, n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015, la  norma  convenzionale,
come  interpretata  dalla  Corte  europea,  non  contrasta   con   le
conferenti tutele offerte dalla Costituzione (ipotesi nella quale  la
norma stessa rimarrebbe inidonea a integrare il  parametro  dell'art.
117, primo comma, Cost.), ma si pone, anzi, in sostanziale  assonanza
con esse. L'assenza di un esplicito richiamo, non scalfisce, infatti,
il valore costituzionale del principio di pubblicita'  delle  udienze
giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte  internazionali
dei diritti fondamentali. 
    La  pubblicita'  del  giudizio  -  specie  di  quello  penale   -
rappresenta, in effetti, un principio connaturato ad  un  ordinamento
democratico (ex plurimis, sentenze 373 del 1992, n. 69 del 1991 e  n.
50 del 1989). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere  in
presenza di particolari ragioni  giustificafive,  purche',  tuttavia,
obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986),  e,  nel  caso  del
dibattimento penale, collegate  ad  esigenze  di  tutela  di  beni  a
rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971). 
    Orbene, deve escludersi che, con riguardo al procedimento oggi in
esame, siano ravvisabili  ragioni  atte  a  giustificare  una  deroga
generalizzata e assoluta al principio di pubblicita'  delle  udienze,
solo perche' attiene accuse per reati  di  criminalita'  organizzata,
per i quali le norme - anche quelle in tema di liberta'  personale  -
viaggiano su altro binario. 
    Il procedimento in questione e' finalizzato, infatti, a mantenere
in vita e/o annullare una misura estrema  e  relativa  alla  liberta'
personale, che non ammette  alternative:  misura  che  incide  su  un
diritto munito di  garanzia  convenzionale  e  costituzionale,  ossia
quello della liberta' personale. 
    La «posta in gioco» in tale procedimento e' assai  elevata,  come
attesta eloquentemente il caso oggetto del giudizio a quo,  attinente
alla misura cautelare della custodia in camere applicata all'indagato
per reati che comportano pene elevatissime. 
    Non si tratta, altresi', in linea generale, di un  contenzioso  a
carattere tipicamente e spiccatamente «tecnico», rispetto al quale il
controllo del pubblico sull'esercizio dell'attivita'  giurisdizionale
possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare natura delle
questioni trattate: innanzi al Tribunale del riesame vengono trattate
le questioni di merito oltre che  tecniche  riguardanti  un'ordinanza
custodiale. 
    Ne' si puo' invocare, in casi come  quello  al  nostro  esame  la
pericolosita' sociale della persona, presunta, peraltro, ex lege,  in
ragione  degli  addebiti  cautelari,  che  imporrebbe  l'assenza  del
pubblico per ragioni di ordine pubblico. Una  cosa  e',  infatti,  la
pericolosita' del soggetto che puo' essere fronteggiata con i sistemi
previsti dalla legge (il riferimento corre alla presenza  a  distanza
in videoconferenza del soggetto) ed altra cosa e' la forma camerale o
pubblica - di trattazione di questioni relative a  beni  fondamentali
di quel soggetto. 
    Ci si permette di osservare che proprio nei casi in  cui  vengono
fatte valere dalla Pubblica Accusa presunzioni  legali  iuris  et  de
iure o iuris tantum nei confronti di un indagato e/o imputato,  vanno
evitate le forme di giustizie segrete che possono far  sorgere  nella
persona interessata sospetti di giustizia sommaria." 
    3. E' del tutto evidente la rilevanza della questione  sollevata,
atteso che  la  richiesta  avanzata  dall'indagato,  di  trattare  il
procedimento che lo concerne in pubblica udienza, trova  un  ostacolo
insormontabile nel chiaro ed inequivoco disposto dell'art. 309, comma
8, c.p.p. secondo il quale il procedimento davanti  al  Tribunale  si
svolge in camera di consiglio  nelle  forme  previste  dall'art.  127
ossia, secondo  quanto  prescrive  il  sesto  comma  di  tale  ultima
disposizione, senza la presenza del pubblico. 
    4. La questione posta appare, poi, non manifestamente infondata. 
    4.1   I   parametri   costituzionali   coinvolti,   secondo    la
prospettazione difensiva, sono  costituiti  dagli  artt.  111,  primo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione in  relazione  all'art.
6, paragrafo 1, della Convenzione per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). 
    L'art. 111 Cost. stabilisce i principi  che  regolano  il  giusto
processo, ma non annovera espressamente tra essi la pubblicita' delle
udienze, mentre il primo comma dell'art. 117 afferma che la  potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  Regioni  nel  rispetto
della Costituzione nonche'  dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e degli obblighi internazionali. 
    Tali norme vengono dunque in rilievo mediante rinvio  all'art.  6
CEDU, il primo comma del quale dispone che ogni  persona  ha  diritto
che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in  un
tempo  ragionevole,  da  parte  di  un  tribunale   indipendente   ed
imparziale, costituito dalla legge, che decidera' sia in ordine  alle
controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura  civile,  sia
sul fondamento di ogni accusa in materia  penale  elevata  contro  di
lei. Il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso  nella  sala  di
udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o
parte  del  processo  nell'interesse  della   moralita'   dell'ordine
pubblico o della sicurezza nazionale  in  una  societa'  democratica,
quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita
delle parti in  causa,  o  in  quella  misura  ritenuta  strettamente
indispensabile dal  tribunale,  quando  in  circostanze  speciali  la
pubblicita' potesse ledere gli interessi della giustizia. 
    Sulla base  di  tale  principio  la  Corte  costituzionale,  come
rilevato dalla difesa, ha dichiarato illegittimi alcuni  procedimenti
che non prevedevano la partecipazione del pubblico. 
    Cosi' con la sentenza 17 marzo 2010, n. 93 la Corte ha dichiarato
l'incostituzionalita' degli artt. 4 l. n.  1423/56  e  2  ter  l.  n.
575/65 nella parte in  cui  non  consentono  che,  su  istanza  degli
interessati, il  procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla  corte  d'appello,
nelle forme dell'udienza pubblica. A tale  conclusione  la  Corte  e'
pervenuta  richiamando  la  consolidata  giurisprudenza  della   CEDU
secondo la quale "la pubblicita' delle procedure  giudiziarie  tutela
le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia  segreta,
che  sfugge  al  controllo  del  pubblico  e  costituisce  anche  uno
strumento per preservare  la  fiducia  nei  giudici  (tra  le  altre,
sentenza 14 novembre 2000, nella causa Riepan contro Austria). Con la
trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della  giustizia,
contribuisce, quindi, a realizzare lo scopo dell'art. 6, paragrafo 1,
della CEDU: ossia l'equo processo (ex plurimis,  sentenza  25  luglio
2000, nella causa Tierce e altri  contro  San  Marino)".  Ne'  poteva
farsi ricorso alle eccezioni  che  pure  la  norma  pattizia  prevede
"quando, sia in primo  grado  che  in  appello,  una  procedura  «sul
merito» si svolge a porte chiuse in virtu' di una norma  generale  ed
assoluta, senza che la persona soggetta alla giurisdizione fruisca di
quella facolta'. Una procedura  siffatta  non  puo'  essere,  invero,
considerata conforme all'art. 6, paragrafo 1, della  CEDU,  giacche',
salvi casi del tutto eccezionali, l'interessato deve avere almeno  la
possibilita' di chiedere  un  dibattimento  pubblico;  richiesta  che
potra' essere eventualmente disattesa, qualora lo svolgimento a porte
chiuse risulti giustificato «dalle circostanze della causa  e  per  i
motivi sopra richiamati» (al riguardo, sentenza 12 aprile 2006, nella
causa Martinie contro Francia)". Aggiungeva  poi  la  Corte  che  "va
senz'altro escluso che la norma internazionale  convenzionale,  cosi'
come interpretata dalla Corte europea, contrasti  con  le  conferenti
tutele offerte dalla nostra Costituzione. L'assenza di  un  esplicito
richiamo  in  Costituzione  non  scalfisce,  in  effetti,  il  valore
costituzionale   del   principio   di   pubblicita'   delle   udienze
giudiziarie: principio che -  consacrato  anche  in  altri  strumenti
internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New
York relativo ai diritti civili e politici, adottato il  16  dicembre
1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art.  14)  -
trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47, paragrafo 2, della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione  europea  (cosiddetta  Carta  di
Nizza), recepita dall'art, 6, paragrafo 1, del  Trattato  sull'Unione
europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso
apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata  in
vigore il 1° dicembre 2009. Questa Corte ha avuto modo,  in  effetti,
di affermare in piu'  occasioni  che  la  pubblicita'  del  giudizio,
specie di quello penale,  costituisce  principio  connaturato  ad  un
ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare,  cui  deve
conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale  -  in  forza
dell'art, 101, primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua
legittimazione (sentenze n. 373 del 1992; n. 69 del 1991; n.  50  del
1989; n. 212 del 1986; n. 17 e 16 del 1981; n. 12 del 1971  e  n.  65
del 1965). Il principio non ha valore  assoluto,  potendo  cedere  in
presenza di particolari ragioni  giustificative,  purche',  tuttavia,
obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986),  e,  nel  caso  del
dibattimento penale) collegate  ad  esigenze  di  tutela  di  beni  a
rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971).  Le  osservazioni
della Corte di  Strasburgo  colgono,  d'altro  canto,  le  specifiche
peculiarita'  del  procedimento  di  prevenzione,   che   valgono   a
differenziarlo da  un  complesso  di  altre  procedure  camerali.  Si
tratta, cioe', di un procedimento all'esito del quale il  giudice  e'
chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo  ad  incidere  in
modo  diretto,  definitivo  e  sostanziale  su  beni   dell'individuo
costituzionalmente tutelati, quali la liberta'  personale  (art.  13,
primo comma, Cost.)  e  il  patrimonio  (quest'ultimo,  tra  l'altro,
aggredito  in  modo  normalmente  "massiccio"  e  in  componenti   di
particolare rilievo, come del resto nel procedimento a quo),  nonche'
la stessa liberta' di iniziativa economica, incisa dalle misure anche
gravemente "inabilitanti" previste  a  carico  del  soggetto  cui  e'
applicata la misura di prevenzione  (in  particolare,  dall'art.  10,
della legge n. 575 del 1965). Il  che  conferisce  specifico  risalto
alle esigenze alla cui  soddisfazione  il  principio  di  pubblicita'
delle udienze e' preordinato". 
    Analoghe  considerazioni  la  Corte  ha  svolto  con  riferimento
all'art. 679 c.p.p. che per l'applicazione  di  misure  di  sicurezza
diverse dalla confisca prevedeva, mediante il richiamo  all'art.  666
c.p.p., lo svolgimento dell'udienza in camera di consiglio. Anche per
questa ipotesi la Corte affermava che "avuto riguardo all'evidenziato
oggetto dell'accertamento,  non  si  e',  dunque,  di  fronte  ad  un
contenzioso a carattere meramente e altamente «tecnico», rispetto  al
quale  il  controllo  del  pubblico   sull'esercizio   dell'attivita'
giurisdizionale - richiesto dall'art. 6,  paragrafo  1,  della  CEDU,
cosi' come interpretato dalla Corte di Strasburgo -  possa  ritenersi
non necessario alla  luce  della  peculiare  natura  delle  questioni
trattate. Quanto, poi, alle esigenze di riservatezza che,  ad  avviso
dell'Avvocatura  dello  Stato,  giustificherebbero   la   sottrazione
dell'udienza di sicurezza al regime della pubblicita',  esse  vengono
riferite allo stesso soggetto nei cui confronti  il  procedimento  si
svolge, in correlazione ai mezzi istruttori  richiesti  ai  fini  del
giudizio sulla sua personalita'. Ma,  a  prescindere  da  ogni  altra
possibile obiezione, e' dirimente al riguardo il rilievo che siffatte
esigenze risulterebbero comunque ininfluenti rispetto al petitum, che
mira   a   lasciare   allo   stesso   interessato   la    valutazione
dell'opportunita' di rendere pubblica la trattazione della procedura.
Per altro verso,  poi,  la  «posta  in  gioco»  nel  procedimento  in
questione si presenta, senza alcun dubbio,  particolarmente  elevata.
Nella generalita' dei casi, la verifica della pericolosita'  sociale,
operata nell'ambito del procedimento di cui si discute, e' prodromica
alla sottoposizione dell'interessato a misure di sicurezza  personali
(art.  215  cod.  pen.).  Nell'ambito  delle  misure   di   sicurezza
patrimoniali (art. 236, primo comma, cod. pen.), la confisca risulta,
infatti,  espressamente  esclusa  dall'ambito  di  operativita'   del
procedimento stesso, essendo la competenza in materia  attribuita  al
giudice dell'esecuzione (art. 676, comma 1, cod. proc. pen.);  mentre
la cauzione di buona condotta  e'  prevista  in  pochissime  ipotesi,
oltre a risultare largamente desueta  nella  pratica.  Le  misure  di
sicurezza personali comportano, peraltro,  limitazioni  di  rilevante
spessore alla liberta' personale, raggiungendo, nel caso delle misure
detentive, un tasso di afflittivita' del tutto analogo a quello delle
pene detentive. Dette misure sono  applicate,  inoltre,  per  periodi
minimi di notevole durata. 
    Nell'ipotesi oggetto del giudizio a quo, ad esempio,  l'eventuale
dichiarazione  di  delinquenza  abituale  dell'interessato   potrebbe
comportare la sua assegnazione ad una colonia agricola o ad una  casa
di lavoro per la durata minima di due anni (art. 217 cod.  pen.);  in
altre ipotesi il periodo minimo di internamento e' anche piu'  lungo.
La revoca anticipata della misura, prima della scadenza  del  termine
di durata  minima,  all'esito  di  un  riesame  della  pericolosita',
rappresenta, d'altro  canto,  una  mera  eventualita'.  Al  pari  del
procedimento per l'applicazione delle misure  di  prevenzione,  anche
quello considerato presenta, dunque, specifiche  particolarita',  che
valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure  camerali
e  che  conferiscono  specifico  risalto  alle  esigenze   alla   cui
soddisfazione  il  principio  di   pubblicita'   delle   udienze   e'
preordinato. Si tratta, infatti, di  un  procedimento  all'esito  del
quale il giudice e' chiamato ad  esprimere  un  giudizio  di  merito,
idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e  sostanziale  su  un
bene primario dell'individuo, costituzionalmente tutelato,  quale  la
liberta' personale" (Corte Cost., sent. n. 135/14). 
    Ad uguali  conclusioni  la  Corte  perveniva  in  riferimento  al
procedimento di sorveglianza (sent. n. 97/15) e da ultimo a quello di
esecuzione per l'eventuale  applicazione  della  confisca  (sent.  n.
109/15). 
    4.2 Nelle decisioni  sopra  richiamate  la  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita'  delle  norme   che   impedivano   la   celebrazione
dell'udienza, su istanza di parte, in forma pubblica facendo  ricorso
all'obbligo di recepimento delle norme di  carattere  comunitario  ed
internazionale  che  non  si  pongano   in   contrasto   con   quelle
costituzionali. 
    E' pertanto alla portata del principio posto  dall'art.  6  della
CEDU che bisogna avere riguardo. 
    Come rilevato  nelle  esposte  sentenze,  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo ha avuto modo di pronunciarsi sulla portata di tale
principio proprio in relazione a procedimenti che non consentivano la
partecipazione del pubblico. 
    Nella prima di esse (causa Bocellari e Rizza contro l'Italia)  la
Corte ha affermato: 
      "la pubblicita' della procedura degli organi giudiziari di  cui
all'art. 6 § 1 tutela le persone soggette alla  giurisdizione  contro
una giustizia segreta che sfugge al controllo del  pubblico  (vedere,
Riepan  c.  Austria,  n.  35115/97,  §  27,  CEDH   2000-XII);   essa
costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti
e  nei  tribunali.   Con   la   trasparenza   che   essa   conferisce
all'amministrazione della giustizia,  aiuta  a  realizzare  lo  scopo
dell'art. 6 § 1: l'equo processo, la cui garanzia e' annoverata fra i
principi di ogni societa'  democratica  ai  sensi  della  Convenzione
(vedere fra molte altre, Tierce e altri c. Saint-Marin, n.  24954/94,
24971/94 e 24972/94, § 92, CEDH 2000-IX). 
    L'art. 6 § 1 tuttavia non pone ostacoli al fatto che le autorita'
giudiziarie decidano, viste le particolarita' della causa  sottoposta
al loro esame, di derogare a questo principio:  ai  sensi  stessi  di
questa norma, " (...)  l'accesso  alla  sala  d'udienza  puo'  essere
vietato alla stampa e al pubblico per  tutto  o  parte  del  processo
nell'interesse  della  moralita',  dell'ordine   pubblico   o   della
sicurezza nazionale in una societa' democratica,  quando  lo  esigono
gli interessi dei minori o la protezione della vita  delle  parti  in
causa,  o  nella  misura  giudicata   strettamente   necessaria   dal
tribunale, quando in circostanze  speciali  la  pubblicita'  potrebbe
ledere gli interessi della giustizia"; l'udienza a porte chiuse,  con
chiusura totale o parziale, deve allora essere  strettamente  imposta
dalle circostanze della causa (vedere per esempio, mutatis  mutandis,
la sentenza Diennet c. Francia, del 26 settembre  1995,  Serie  A  n.
325-A, § 34). 
    Peraltro,  la  Corte   ha   ritenuto   che   alcune   circostanze
eccezionali, attinenti alla  natura  delle  questioni  sottoposte  al
giudice nell'ambito della procedura di cui trattasi  (vedere  mutatis
mutandis la  sentenza  Miller  c.  Suede  dell'8  febbraio  2005,  n.
55853/00, § 29), possono giustificare il fare a meno di una  pubblica
udienza (vedere in particolare la sentenza Göç c.  Turchia  [GC],  n.
36590/97, CEDH 2002-V, § 47). Essa considera cosi', ad  esempio,  che
il contenzioso della sicurezza sociale, altamente tecnico, spesso  si
presta meglio agli scritti piuttosto che alle  difese  orali  e  che,
l'organizzazione sistematica dei dibattimenti potendo  costituire  un
ostacolo alla particolare diligenza richiesta in materia di sicurezza
sociale, e' comprensibile che in un tale campo le autorita' nazionali
tengano conto di imperativi di efficacia e di economia  (vedere,  per
esempio, le sentenze Miller  e  Schuler-Zgraggen  prima  citate).  E'
tuttavia necessario sottolineare che, nella maggior parte delle cause
riguardanti  un  procedimento  innanzi  alle  autorita'   giudiziarie
«civili» che decidono nel merito  nelle  quali  essa  e'  arrivata  a
questa conclusione, il ricorrente  aveva  avuto  la  possibilita'  di
sollecitare la tenuta di una pubblica udienza. 
    Come la Corte ha affermato  nella  causa  Martinie  (Martinie  c.
Francia [GC], n. 58675/00, CEDH 2006 - ...), la situazione e' diversa
quando, sia in appello che in primo grado, una procedura «civile» sul
merito si svolge a porte chiuse in virtu' di  una  norma  generale  e
assoluta, senza che la persona  soggetta  a  giurisdizione  abbia  la
possibilita' di sollecitare una  pubblica  udienza  pubblica  facendo
valere le particolarita' della sua causa. Una procedura che si svolge
in questo modo non puo' in  linea  di  principio  essere  considerata
conforme all'art. 6 § l  della  Convenzione:  salvo  circostanze  del
tutto eccezionali, la persona soggetta a  giurisdizione  deve  almeno
avere  la  possibilita'  di  domandare  la  tenuta  di   dibattimenti
pubblici, potendo esserle tuttavia opposte le porte chiuse, a  fronte
di circostanze della causa e per i motivi  sopra  richiamati  (vedere
Martinie, sopra citata, § 42). 
    La Corte e' sensibile al ragionamento  del  Governo  secondo  cui
talvolta possono entrare in gioco in questo tipo di  procedure  degli
interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori
o  di  persone  terze  indirettamente   interessate   dal   controllo
finanziario. Peraltro, la Corte non  dubita  che  una  procedura  che
tenda essenzialmente al controllo delle finanze e  dei  movimenti  di
capitali possa presentare un elevato grado di  tecnicita'.  Tuttavia,
non bisogna perdere di vista la posta in  gioco  delle  procedure  di
prevenzione e gli effetti che sono  suscettibili  di  produrre  sulla
situazione personale delle persone coinvolte. 
    La  Corte  osserva  che  questo  tipo   di   procedura   riguarda
l'applicazione  della  confisca  di  beni  e   capitali,   cosa   che
direttamente e sostanzialmente coinvolge la  situazione  patrimoniale
della persona soggetta a  giurisdizione.  Davanti  a  tale  posta  in
gioco, non si puo' affermare che il controllo del  pubblico  non  sia
una condizione necessaria alla  garanzia  del  rispetto  dei  diritti
dell'interessato (vedere Martinie, prima citata, § 43 e, a contrario,
Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, § 48, CEDH 2006 - ...). 
    Riassumendo, la Corte giudica essenziale che le persone  soggette
a giurisdizione coinvolte in un procedimento  di  applicazione  delle
misure di prevenzione si vedano almeno  offrire  la  possibilita'  di
sollecitare una pubblica udienza davanti alle  sezioni  specializzate
dei tribunale e delle corti d'appello. 
    Nella fattispecie, i ricorrenti non hanno beneficiato  di  questa
possibilita'. Pertanto vi e' stata violazione dell'art. 6 §  1  della
Convenzione». 
    A tali considerazioni la Corte poi faceva espresso  rinvio  nella
decisione degli altri ricorsi indicati  nelle  sentenze  della  Corte
costituzionale sopra citate. 
    4.3 Ritiene il tribunale che da esse puo' anzitutto ravvisarsi un
contrasto di principio tra l'art. 127 c.p.p. e l'art.  6  della  CEDU
atteso che, come si e' visto, la Corte europea  ha  stigmatizzato  la
previsione  posta  in  via  generale  ed  astratta  dell'assenza  del
pubblico in una serie di procedimenti, tra  i  quali  quello  di  cui
all'art. 309 c.p.p. 
    Richiamando quanto gia' affermato nella causa Martinie contro  la
Francia, la Corte ha ribadito che "quando,  sia  in  appello  che  in
primo grado, una procedura «civile» sul  merito  si  svolge  a  porte
chiuse in virtu' di una norma  generale  e  assoluta,  senza  che  la
persona soggetta a giurisdizione abbia la possibilita' di sollecitare
una udienza pubblica  facendo  valere  le  particolarita'  della  sua
causa(...) una procedura che si svolge in questo  modo  non  puo'  in
linea di principio essere considerata conforme all'art. 6 §  1  della
Convenzione: salvo circostanze  del  tutto  eccezionali,  la  persona
soggetta  a  giurisdizione  deve  almeno  avere  la  possibilita'  di
domandare  la  tenuta  di  dibattimenti  pubblici,  potendo   esserle
tuttavia opposte le porte chiuse, a fronte di circostanze della causa
e per i motivi sopra richiamati". 
    Nei termini esposti, dunque, l'art. 127 c.p.p. violerebbe di  per
se' il principio convenzionale in  quanto  non  consente  alla  parte
coinvolta di chiedere che l'udienza che la riguarda si svolga a porte
aperte, a prescindere dell'esistenza  in  concreto  di  esigenze  che
richiedano l'assenza del pubblico. 
    La possibilita', pertanto,  di  impedire  la  partecipazione  del
pubblico dovrebbe essere valutata caso per caso, alla  stregua  delle
(tassative)  circostanze  elencate  nel  secondo  periodo  del  primo
paragrafo. 
    Gia' lo stesso meccanismo previsto dal codice  di  rito  si  pone
dunque in contrasto con  l'art.  6  CEDU  e  con  esso,  quale  norma
interposta, con l'art. 117 Cost. 
    La Corte europea ha poi  anche  individuato  le  circostanze  che
(sole) potrebbero consentire (nel singolo caso) la  celebrazione  del
procedimento a porte chiuse  e  che  (oltre  a  quelle  espressamente
elencate) possono farsi rientrare tra quelle "speciali nelle quali la
pubblicita' potrebbe ledere gli  interessi  della  giustizia"  e  che
consistono nell'alto tecnicismo della materia trattata o nella tutela
della riservatezza delle parti coinvolte. 
    La stessa Corte europea, tuttavia,  ha  previsto  il  superamento
anche di tali limiti ove "la posta in gioco" sia rilevante, mentre la
Corte    costituzionale,    rigettando    con    cio'    un'obiezione
dell'Avvocatura dello Stato,  ha  negato  possa  farsi  questione  di
tutela della riservatezza delle parti  quando  siano  proprio  queste
ultime a chiedere che la trattazione del giudizio si svolga in  forma
pubblica. 
    La materia oggetto del procedimento di cui all'art. 309 c.p.p.  -
ma anche in quello di appello ai sensi dell'art.  310  c.p.p.  -  non
riveste, almeno di norma, un rilevante tasso di tecnicismo  giuridico
attenendo essa alle misure cautelari  sia  personali  che  reali;  la
natura della valutazione affidata al giudice non si presenta  diversa
- se non per una minore ampiezza - da  quella  di  ogni  giudizio  di
merito dovendosi giudicare la fondatezza  dell'addebito  cautelare  -
sotto il profilo della sussistenza di gravi  indizi  di  colpevolezza
per quelle personali e di giuridica plausibilita' per quelle reali  -
giungendo, in caso di positiva delibazione e di accertata sussistenza
di esigenze cautelari - ad applicare provvedimenti restrittivi  della
liberta' personale (o del patrimonio, in caso di misure  reali)  che,
in  un  ampio  ventaglio,   possono   giungere   ad   avere   effetti
sostanzialmente coincidenti a quelli derivanti  dalla  pena  irrogata
con la sentenza definitiva. 
    Trattasi pertanto di un giudizio che oltre a  non  comportare  un
alto grado di tecnicismo  -  avendo  ad  oggetto  un  concreto  fatto
storico - pure rappresenta una "altissima posta in gioco" andando  ad
incidere in maniera rilevante  sul  patrimonio,  sull'onorabilita'  e
sulla liberta' personale di chi ne viene attinto. 
    Appare superfluo insistere su tale aspetto costituendo esperienza
comune la  constatazione  di  come,  sotto  l'aspetto  mediatico,  il
momento per cosi' dire traumatico di emersione del  procedimento  sia
proprio l'esecuzione  della  misura  cautelare  seguito  dalla  prima
possibilita' di confronto del sottoposto con il materiale  indiziario
raccolto nei suoi confronti rappresentata proprio dal procedimento di
riesame. E' proprio in tale momento cruciale che si verifica  per  la
prima volta il contraddittorio e si da' all'indagato la  possibilita'
di difendersi. Sottrarre tale fondamentale momento alla  verifica  ed
al controllo del pubblico, senza alcuna ragionevole  giustificazione,
comporta  irrimediabilmente  la  lesione  del  principio  del  giusto
processo quale voluto sotto questo profilo dalla norma pattizia. 
    4.4 Non osta alla  partecipazione  del  pubblico  all'udienza  di
trattazione del ricorso ex art. 309 c.p.p. alcuna  delle  circostanze
indicate nel secondo periodo del par. 1, dell'art. 6 della CEDU.  Nel
caso in esame, infatti,  si  tratta  dell'applicazione  della  misura
cautelare della custodia in carcere  nei  confronti  di  un  soggetto
indagato di cessione di stupefacenti. Non vengono pertanto  coinvolti
ne' l'interesse alla moralita',  ne'  quello  all'ordine  pubblico  o
della  sicurezza  nazionale,  ne'  gli  interessi  dei  minori  o  la
protezione della vita delle parti in causa. 
    E' stato rilevato - cio' che potrebbe costituire  una  situazione
lesiva degli interessi della giustizia - che l'esigenza di  escludere
la  partecipazione  del  pubblico   deriverebbe   dallo   stato   del
procedimento nel momento in cui viene applicata la misura  cautelare,
di regola quello delle indagini preliminari, governato dal  principio
della  segretezza  necessario  per  non  compromettere   la   genuina
acquisizione delle prove e quindi il compiuto accertamento dei fatti. 
    Pur volendo prescindere  dal  considerare  che,  nonostante  tale
evenienza (l'applicazione della misura  cautelare  nella  fase  delle
indagini preliminari) ricorra nella maggior parte dei casi,  vi  sono
tuttavia ipotesi in cui essa non si presenta, va  comunque  osservato
che proprio la proposizione del ricorso fa cadere  il  segreto  delle
indagini  (la  c.d.   discovery)   avendo   l'autorita'   giudiziaria
procedente  l'obbligo  di  trasmettere  in  tempi  stretti  gli  atti
utilizzati  dal  pubblico  ministero  in  occasione  della  richiesta
nonche' quelli successivi favorevoli  alla  persona  sottoposta  alle
indagini. 
    Ma il segreto cade ancor prima, con la consegna  all'imputato  di
copia del provvedimento in sede di esecuzione della misura (art.  293
c.p.p.), atteso che  gli  atti  di  indagini  compiuti  dal  pubblico
Ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a
quando l'imputato non ne possa avere conoscenza  (art.  329  c.p.p.).
Ne' puo' soccorrere in contrario la deroga  di  cui  al  terzo  comma
dell'art.  329  c.p.p.,  atteso  che  trattasi  di   evento   appunto
eccezionale, che non ricorre nel caso  in  esame  e  che  in  ipotesi
potrebbe integrare una di quelle circostanze speciali nelle quali  il
giudice  potrebbe  in  via  eccezionale  disporre   la   celebrazione
dell'udienza a porte chiuse.  D'altra  parte  l'inutilizzabilita'  di
tali atti (cfr. Cass. pen., sez. VI, sent. 17/05/1993, n.  1473,  rv.
195473) renderebbe superflua la loro trasmissione. 
    Al contrario, la pubblicita' delle udienze in questo  momento  si
rivelerebbe quanto mai opportuna proprio al fine del controllo  sulla
trasparenza dell'attivita' giudiziaria. 
    La natura di primo giudizio di  merito  sull'ipotesi  accusatoria
rivestita  dal  procedimento  di   riesame,   unitamente   all'evento
traumatico  derivante  dalla  restrizione  della  liberta'  personale
dell'indagato o dal sequestro dei suoi  beni,  sollecita,  com'e'  di
comune esperienza, l'attenzione dell'opinione pubblica sul suo esito:
interesse che attualmente puo' essere  soddisfatto  solo  in  maniera
mediata e parziale. 
    Appurato allora che non si  rinvengono  interessi  giuridicamente
rilevanti che impongano la segretezza dell'udienza, non si  comprende
perche' debba essere irragionevolmente compresso quello che la stessa
Corte costituzionale ha definito come "principio  connaturato  ad  un
ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare,  cui  deve
conformarsi l'amministrazione della giustizia, Il quale  -  in  forza
dell'art. 101, primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua
legittimazione". 
    Neanche sotto tale profilo,  dunque,  l'esclusione  del  pubblico
dalle udienze potrebbe apparire giustificata. 
    4.5 Certamente quello di riesame e'  un  giudizio  di  merito  di
natura  sommaria  e   provvisoria,   inserendosi   nel   procedimento
principale solo al fine di valutare la legittimita' dell'applicazione
di una misura cautelare: giudizio destinato ad essere superato  dalla
sentenza dibattimentale, della quale nondimeno costituisce una  sorta
di anticipazione essendo il  tribunale  -  in  sede  di  esame  della
sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza - chiamato  a  prevedere
se con elevato grado di  probabilita'  sulla  scorta  degli  elementi
offerti la penale responsabilita' dell'indagato sara'  affermata  nel
processo. 
    Proprio il carattere incidentale del procedimento potrebbe allora
consentire  di  affermarne   la   compatibilita'   con   il   dettato
convenzionale. 
    E' stato infatti affermato, in materia di ricusazione, che non e'
ipotizzabile "contrasto alcuno dell'art. 41  c.p.p.,  comma  1,  come
sopra inteso ed applicato, con  l'art.  6,  p.  1  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali secondo l'interpretazione costantemente fornitane  dalla
Corte di Strasburgo, che ne ha sempre limitato  la  portata  ai  soli
giudizi aventi  ad  oggetto  un'accusa  penale  (e  a  quelli  civili
inerenti a diritti e obblighi di carattere civile), con esclusione di
qualsivoglia procedimento o  sub-procedimento  incidentale  (cfr.,  e
pluribus, CEDU 9.2.06, Celot c. Italia, ricorso n. 27451/05)". (Cass.
pen., sez. II, sent. 18/02/2010, n. 8808, rv. 246455). 
    E tuttavia la  lettura  della  decisione  della  CEDU  richiamata
induce a ritenere che tale conclusione non si attagli al  ricorso  ex
art. 309 c.p.p. 
    Pronunciandosi  sul  dedotto  vizio   dell'omessa   notifica   al
difensore dell'avviso dell'udienza in camera di consiglio nel ricorso
per cassazione ai sensi  dell'art.  41  c.p.p.  la  CEDU  ha  infatti
affermato: 
    "La  Corte  constata  che  l'unico  scopo  del  procedimento   in
questione era la  determinazione  dell'autorita'  competente  ratione
loci  per  trattare  la  causa.  Essa  ritiene  pertanto   che   tale
procedimento costituisce una procedura incidentale e indipendente dal
procedimento principale che l'ha provocata (v., mutatis mutandis e in
materia  di  applicazione  dell'art.  6  §  1  a  una  procedura   di
ricusazione, SchreibereBoetsch c. Francia (dee.), n.  58751/00,  CEDU
2003-XII). Si tratta di stabilire se tale procedura  comportasse  una
«decisione» sulla  «fondatezza»  di  una  «accusa  penale»  ai  sensi
dell'art. 6 § 1 della Convenzione. La Corte constata che la Corte  di
cassazione  non  era  chiamata  a  «decidere»  sulla  colpevolezza  o
innocenza del ricorrente. Il suo ruolo non consisteva in  alcun  modo
nel decidere sul  merito  della  causa,  ma  nel  pronunciarsi  sulla
questione  incidentale  di  determinare  quale  fosse  il   tribunale
competente ratione loci. 
    Nella misura in cui la procedura incidentale  poteva  influenzare
il procedimento principale relativo alla fondatezza delle accuse,  la
Corte  ricorda  che  l'articolo  6  §  1  della  Convenzione  non  si
accontenta di un legame sottile o di  ripercussioni  lontane  l'esito
della procedura deve essere  direttamente  determinante  per  l'esito
della causa (v., in materia  di  nozione  di  «diritti  e  doveri  di
carattere civile», Ringeisen c. Austria, sentenza del 16 luglio 1971,
serie A r i 13, p. 39, § 94). Di conseguenza, la  Corte  ritiene  che
l'applicabilita' dell'art. 6 § 1 al procedimento  principale  non  fa
rientrare, per connessione, la procedura per la determinazione  della
competenza ratione loci nel campo di applicazione di questo  articolo
(v., mutatis mutandis, SchreibereBoetsch gia' cit.). 
    La Corte conclude da cio'  che  la  procedura  in  questione  non
riguardava la fondatezza di un'accusa in materia penale". 
    Alla stregua della suddetta affermazione sembra al tribunale  che
al di la' della natura incidentale o meno del procedimento, cio'  che
rileva ai fini dell'applicabilita' dell'art. 6 par. 1 e' la  presenza
di un giudizio sulla fondatezza dell'accusa penale,  come  del  resto
esplicitamente recita la norma ("un tribunale...  che  decidera'  sul
fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di  lei"),
a nulla rilevando che tale decisione  definisca  definitivamente  "la
causa". 
    Non sembra pertanto irrilevante che il tribunale del riesame  sia
chiamato a valutare la fondatezza dell'accusa  incidendo  in  maniera
definitiva  (quanto  al  giudizio  di  merito  e  salve   circostanze
sopravvenute) sulla liberta' personale e sul diritto  di  proprieta',
sia pure ai soli fini cautelari. 
    Crede insomma il tribunale che in considerazione della  posta  in
gioco  e  della  valutazione  del   merito   dell'accusa   anche   il
procedimento di riesame possa essere  qualificato  quale  "causa"  ai
sensi dell'art. 6, par. 1 della CEDU. 
    4.5 Va infine considerato che le richiamate pronunce della  Corte
costituzionale, in forza delle quali la parte puo'  ora  chiedere  la
partecipazione del pubblico nei procedimenti per l'applicazione delle
misure prevenzione e di quelle di  sicurezza,  hanno  comportato  una
disparita' di trattamento delle parti in essi  coinvolte  con  quelle
del procedimento di riesame che non appare  sorretto  da  adeguata  e
ragionevole  giustificazione.  Ed  invero  se  la  necessita'   della
pubblicita' dell'udienza, su  richiesta  dell'interessato,  e'  stata
individuata nella rilevanza della posta in gioco  non  possono  anche
nel  procedimento  di  riesame  non  rinvenirsi  quelle   "specifiche
particolarita', che valgono a differenziarlo da un complesso di altre
procedure camerali e che conferiscono specifico risalto alle esigenze
alla cui soddisfazione il principio di pubblicita' delle  udienze  e'
preordinato". 
    Tenuto poi conto del rilievo costituzionale  di  tale  principio,
quale riconosciuto dalla stessa Corte seppure esso non sia dal  testo
costituzionale   espressamente    richiamato,    e    della    natura
sostanzialmente analoga del giudizio formulato in sede di  riesame  a
quello oggetto del dibattimento, attenendo entrambi  alla  fondatezza
dell'accusa, non si evidenziano plausibili ragioni che  giustifichino
l'esclusione del controllo del pubblico in questo  primo  momento  di
valutazione  della  fondatezza  dell'accusa  che  per  essere   anche
temporalmente piu'  vicino  alla  commissione  del  fatto-reato  piu'
colpisce l'interesse dell'opinione pubblica. 
    Sotto  questo  profilo  l'impossibilita'  per  l'interessato   di
chiedere che l'udienza si svolga in forma  pubblica  viola  l'art.  3
Cost. per l'irragionevole disparita' di trattamento  tra  le  esposte
situazioni. 
    5. Il Tribunale conclusivamente ritiene  che  il  disposto  degli
artt. 309, c. 8, e 127, c. 6,  c.p.p.,  nel  non  consentire  che  su
richiesta dell'indagato il ricorso per riesame delle misure cautelari
si svolga nelle forme della pubblica udienza, violi: 
      l'art. 3 Cost., per l'irragionevole disparita'  di  trattamento
con il procedimento per l'applicazione di misure di  sicurezza  e  di
quelle di prevenzione nonche' con il  giudizio  abbreviato  e  quello
ordinario; 
      l'art. 117,  primo  comma  Cost.  in  quanto  non  rispetta  il
principio della pubblicita' della causa sancito dall'art.  6  par.  1
CEDU; 
      l'art.  111,  c.  1,  Cost.,  in  quanto  contrastante  con  il
principio del giusto processo.