LA CORTE DI CASSAZIONE Sezione seconda civile Composta da: Stefano Petitti - Presidente; Guido Federico - Consigliere; Alberto Giusti - Consigliere; Antonello Cosentino - Consigliere; Milena Falaschi - Consigliere relatore, Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso (iscritto al n.r.g. 316/10) proposto da L. E., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale del 21 novembre 2009 del notaio Mario Brunelli in Brescia rep. n. 73716, dagli avvocati Luigi Medugno, Letizia Mazzarelli e Gustavo Visentini del foro di Roma e dall'avvocato Piergluigi Tirale del foro di Brescia ed elettivamente domiciliato presso lo studio dei primi due in Roma, via Panama n. 58, ricorrente. Contro Consob - Commissione nazionale per le societa' e la borsa, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Biagianti, Maria Letizia Ermetes e Rocco Vampa del foro di Roma, in virtu' di procura speciale apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, via G. B. Martini n. 3, controricorrente e ricorrente, incidentale avverso la sentenza della Corte d'appello di Brescia n. 950 depositata il 6 novembre 2008. Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 14 settembre 2017 dal Consigliere relatore dott.ssa Milena Falaschi; Uditi gli avvocati Luigi Medugno, Anna Lisa Lauteri (con delega dell'avv. Letizia Mazzarelli) ed Enrico Tonelli (con delega dell'avv. Gustavo Visentini), per parte ricorrente, e Fabio Biagianti e Rocco Vampa, per parte resistente; Udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale dott. Lucio Capasso, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato. Rilevato in fatto A seguito delle modificazioni apportate al decreto legislativo n. 58 del 1998 dalla legge n. 62 del 2005, ad E. L. - nei cui confronti si era proceduto in sede penale - veniva contestato, con comunicazione del 4 aprile 2006, l'illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate previsto dall'art. 187-bis, quarto comma, decreto legislativo cit., per avere disposto l'acquisto sul mercato telematico di complessive 320.000 azioni C.M.I., fra l'11 febbraio ed il 19 marzo 1999, avvalendosi delle informazioni privilegiate comunicategli da E. G. e con atto n. 15851 del 29 marzo 2007 gli veniva applicata la sanzione amministrativa di € 1.500.000,00, nonche' la sanzione amministrativa accessoria dell'interdizione, di cui all'art. 187-quater, comma 1, per il periodo di sei mesi, e la confisca dei beni gia' oggetto del sequestro disposto con delibera del 31 luglio 2006 fino alla concorrenza di € 3.057.951,00, pari al valore del prodotto dell'illecito contestato. Avverso detto provvedimento sanzionatorio E. L. proponeva opposizione con ricorso depositato presso la cancelleria della Corte d'appello di Brescia il 31 maggio 2007. Resisteva la Consob, e la Corte territoriale adita, con sentenza n. 950 del 2008, respingeva l'opposizione. A sostegno della decisione adottata, la corte distrettuale evidenziava che non vi era alcuna incompatibilita' fra le funzioni, impropriamente definite istruttorie e quelle decisorie, della Consob, giacche' solo a seguito della assoluzione del L. in sede penale e della trasmissione degli atti alla Consob aveva avuto inizio il formale procedimento di applicazione della sanzione amministrativa. Ne' sussisteva la denunciata violazione degli artt. 24, 97 e 111 Cost., dovendosi riferire i concetti di imparzialita' e di terzieta' ad un organo giurisdizionale, non anche ad un organo amministrativo, anche allorche' chiamato ad applicare una sanzione, dovendosi rispetto ad esso valutare la conformita' dell'agire della p.a. rispetto al soddisfacimento degli interessi pubblici. Quanto alla denuncia di mancanza di autonomia dell'organo deliberante, la corte di merito osservava che al principio del contraddittorio e della distinzione tra funzioni di cui all'art. 187-septies, d.lgs. n. 58 del 1998 era stata data attuazione con la delibera Consob n. 15086 del 21 giugno 2005 e con la delibera n. 1531 del 5 agosto 2005 che avevano procedimentalizzato l'attivita' della medesima autorita', ne' la condivisione da parte della Commissione della Relazione predisposta dall'Ufficio sanzioni amministrative aveva violato il diritto di difesa dell'incolpato, che ben conosceva quest'ultima, ovvero l'autonoma valutazione compiuta dalla Commissione, essendo stato il risultato di un autonomo e libero giudizio dell'organo cui per legge era demandata la decisione. Relativamente alla eccezione di mancata partecipazione del componente della Commissione dott. C., osservava che a parte l'assenza di qualsiasi formalita', per regolamento, nelle convocazioni delle adunanze presso l'una piuttosto che l'altra delle sedi, ai sensi dell'art. 10 del regolamento Consob n. 8674 del 17 novembre 1994, per la validita' delle riunioni della Commissione era necessaria la presenza di almeno tre componenti e le deliberazioni dovevano essere assunte a maggioranza dei votanti, obiettivo ampiamente centrato nella specie per avere preso parte alla riunione del 29 marzo 2007 oltre al presidente, tre dei quattro componenti e la deliberazione concernente il L. era stata assunta all'unanimita'. Nel merito, rilevava che tra l'11 febbraio ed il 19 marzo 1999 l'opponente ed i fratelli T. e F. avevano acquistato, tramite l'intermediaria Banca Popolare di Milano 320.000 azioni della C.M.I. s.p.a., societa' appartenente al gruppo Falk che all'epoca era sostanzialmente inattiva dopo la dismissione delle attivita' industriali e utilizzata per il settore immobiliare. Il quotidiano FM pubblicava indiscrezioni circa la collocazione di C.M.I. nel settore energetico il 7 marzo 1999, per cui il 10 marzo 1999 la trattazione del titolo veniva sospesa in attesa di un comunicato stampa sulle sorti della societa', che veniva diffuso il 12 aprile 1999 da Falk s.p.a. e C.M.I. s.p.a., con il quale informavano che la prima societa' aveva accettato l'offerta GP Finanziaria s.p.a., facente capo ad E. G., di acquistare l'intera partecipazione della stessa Falk nella scindenda I.I.L. Il 23 luglio 1999 veniva effettuata la scissione di I.I.L. da C.M.I., alla prima veniva assegnato il ramo di azienda operante nel settore immobiliare della seconda, nella quale venivano concentrati i settori dell'ecologia, ambiente e to waste Energy collegate allo smaltimento dei rifiuti. Infine il 2 settembre 1999 veniva reso noto che acquirente finale della I.I.L. era la Hopa s.p.a. di cui E. G. era all'epoca indirettamente (tramite la GP Finanziaria s.p.a.) socio di maggioranza. Sulla base di detti elementi la Consob riteneva che solo alla luce delle informazioni acquisite anticipatamente, rispetto ai comunicati, si spiegavano i massicci acquisti eseguiti dall'incolpato di azioni C.M.I., essendo peraltro all'epoca molteplici e consolidati i rapporti di affari fra il L. e lo G. Quanto al concetto di «informazione privilegiata» di cui all'art. 181, d.lgs. n. 58 del 1998, essa doveva ritenersi ricorrere nella specie dal momento che l'11 febbraio 1999 risultava essere stato sottoscritto da un gruppo di dirigenti del gruppo Falk un impegno di segretezza avente ad oggetto proprio l'accordo stipulando con Fintad International SA, anche perche' la diffusione di notizie avrebbe potuto creare un'ingiustificata tensione sul titolo mobiliare C.A.I. Ne' i due pezzi giornalistici apparsi sul quotidiano MF 12 novembre 1997 ed il 7 marzo 1998 erano caratterizzati da adeguata specificita' delle notizie date, non rappresentando nulla di paragonabile a quello che sarebbe realmente poi accaduto nei primi mesi del 1999. Dato significativo della operativita' dell'incolpato era costituito dal trend assolutamente anomala del mercato relativo al titolo C.M.I. che a fronte di una media giornaliera di scambi intorno a circa 9.000 azioni del semestre antecedente all'11 febbraio 1999, era passato ad una media giornaliera di oltre 50.000 titoli scambiati, trend di cui il L. era stato l'assoluto protagonista dal momento che egli aveva ordinato nella prima giornata di acquisto 19,61% dei titoli, proseguendo nei giorni successivi e arrivando fino al 54% dei quantitativi negoziati nella giornata. Pertanto accertata la ricorrenza degli elementi oggettivi e soggettivi (irrilevante la questione del dolo e delle presunzioni), proseguiva la corte territoriale, andava affermata la congruita' anche della sanzione irrogata, in considerazione del fatto che trattavasi di societa' quotata in borsa e della gravita' della condotta stante la larghezza dei mezzi investiti (€ 900.000,00). Per cio' che atteneva alla sanzione accessoria della confisca, individuato il prodotto dell'illecito amministrativo nelle 320.000 azioni C.M.I., le quali erano stata fatte confluire in un conto di gestione cointestato ai fratelli L., il giudice distrettuale condivideva l'assunto della Consob che non potendo essere sottoposte a confisca le quote dei fratelli, andati assolti nel procedimento penale, per coprire l'intero valore delle azioni erano stati aggrediti oltre al terzo delle azioni di spettanza dell'incolpato, anche i beni personali di E. L. giacche' la confisca doveva avere ad oggetto il «prodotto o ... profitto dell'illecito» (art. 186-sexies, d.lgs. n. 58 del 1998), attuandosi la c.d. confisca per equivalente. Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Brescia il L. ha proposto ricorso, sulla base di undici motivi. Con il primo motivo il L. lamenta l'erroneita' della delibazione in ordine alla eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 9 della legge n. 62 del 2005 per contrasto con gli artt. 24, 97 e 111 Cost. Il ricorrente rileva che con la legge n. 62 del 2005 alla Consob sono state attribuite non soltanto funzioni istruttorie, ma anche decisorie, con la legge n. 262 del 2005 e che il Parlamento, al fine di assicurare al soggetto deputato ad accertare la sussistenza dell'illecito una posizione di terzieta' sia rispetto all'incolpato sia rispetto agli Uffici preposti all'espletamento della istruttoria, ha previsto che l'Autorita' si dotasse di un Regolamento, poi adottato, nel quale sono scandite tempistica e competenze delle due fasi procedimentali. Senonche' detta garanzia della separazione fra le due fasi non opererebbe nel periodo transitorio, per essersi nella specie la Consob gia' espressa per la colpevolezza del L. nel corso del processo penale, conclusosi con l'assoluzione dell'imputato per la riforma in questione. La corte distrettuale ha escluso che l'attivita' posta in essere dalla Consob prima dell'avvio del processo penale potesse qualificarsi come attivita' istruttoria finalizzata all'accertamento dei fatti suscettibili di sanzione amministrativa. Decisione che pero' non coglie l'essenza della riforma, dal momento che anche in precedenza la Consob aveva competenze in materia di illeciti amministrativi di natura finanziaria, ma per detti illeciti l'Autorita' svolgeva solo attivita' istruttoria, essendo quella decisoria demandata in via esclusiva al Ministero dell'economia. A conclusione del mezzo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte se incorre in vizio di costituzionalita' per violazione degli artt. 97, 24 e 111 Cost. la legge 18 aprile 2005, n. 62 (art. 9) che attribuisce il potere decisorio sussistenza dell'illecito amministrativo nonche' sulla sanzione irrogabile a carico del (ritenuto) responsabile, all'Autorita' amministrativa che, anteriormente alla entrata in vigore della legge stessa, allorche' il medesimo fatto era contemplato quale illecito penale, avesse esercitato nella veste di soggetto offeso dai reato le relative pretese punitive nei confronti del (preteso) autore dell'illecito. E conseguentemente se abbia errato la Corte d'appello nell'avere omesso di rimettere la questione alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost.». Con secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un punto essenziale della controversia, in particolare per avere la corte territoriale completamente omesso di pronunciarsi sulla denunciata violazione dell'art. 14 della Direttiva 2003/6/CE del 28 gennaio 2003 in relazione all'art. 9, comma 2, della legge n. 62 del 2005, che ha introdotto l'art. 187-sexies, comma 1, al d.lgs. n. 58 del 1998. La questione era certamente controversa e decisiva e risultava inequivocabilmente dal verbale dell'udienza. A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «dica la Corte se l'omessa pronuncia della Corte d'appello su una questione dedotta in corso di discussione della causa e verbalizzata in udienza e rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (contrasto dell'art. 187-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 con l'art. 14 della Direttiva 2003/6/CE, per mancata individuazione di un parametro di proporzionalita' tra il fatto contestato e la sanzione irrogabile) costituisca violazione dell'art. 112 c.p.c. in osservanza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato». Con il terzo motivo il ricorrente, nel lamentare violazione e falsa applicazione dell'art. 14 della Direttiva 2003/6/CE del 28 gennaio 2003 in relazione all'art. 9, comma 2, della legge n. 62 del 2005 che ha introdotto l'art. 187-sexies, comma 1 al d.lgs. n. 58 del 1998, ribadendo la rilevanza della omessa pronuncia di cui al secondo mezzo, insiste per la rimessione alla Corte di Giustizia della questione relativa per essere evidente la sproporzione fra l'entita' della confisca, pari ad € 3.197.000,000 e la somma esatta con la sanzione, pari ad € 1.500.000,00. Nella specie il prodotto dell'illecito - ad avviso del ricorrente - e' stato erroneamente individuato nelle azioni della C.M.I. in numero di 320.000 e nei frutti che da tali aquisizioni sarebbero derivati medio tempore. In altri termini, sono state riconosciute quali profitto anche le azioni acquistate dal L. per i fratelli andati esenti da responsabilita' e quindi comprate con denaro di provenienza lecita, in stridente contrasto con il principio di proporzionalita', dovendo essere erogata la sanzione accessoria solo per il profitto dell'illecito. A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «dica la Suprema Corte se la disposizione normativa di cui all'art. 187-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, introdotto dall'art. 9 della legge n. 62 del 2005 (...), costituisca violazione del parametro della proporzionalita' sancito dall'art. 14 della Direttiva 2003/6/CE, a mente del quale le misure sanzionatorie a tutela degli abusi di mercato debbono essere «efficaci, proporzionate e dissuasive». E conseguentemente se abbia errato la Corte d'appello nell'avere omesso di rimettere la questione dedotta alla Corte di Giustizia della Comunita' europea, ai sensi e per gli effetti dell'art. 234 del Trattato CE, gli atti alla Corte di Giustizia». Con il quarto mezzo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un punto essenziale della controversia in relazione all'art. 360, n. 5, c.p.c. Ad avviso del ricorrente la corte territoriale avrebbe del tutto omesso di pronunciarsi sulla contrarieta' al disposto degli artt. 117, comma 1, 3 e 25 Cost., dell'art. 6, comma 9 della legge n. 62 del 2005, che ha introdotto la previsione di cui all'art. 187-sexies, comma 2, d.lgs. n. 58 del 1998. Precisa il ricorrente che nel giudizio a quo, in particolare nel corso della discussione del 2 luglio (come da verbale di udienza), era stato rilevato come tale previsione si ponesse «in aperto contrasto con l'art. 7 della CEDU, a mente del quale non puo' essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso». Ne consegue che il silenzio della corte territoriale al riguardo costituisce una patente violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato. A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte se l'omessa pronuncia della Corte di appello su una questione dedotta in corso di discussione della causa e verbalizzata in udienza (contrasto dell'art. 187-sexies, comma 2, del d.lgs. n. 58/1998 con l'art. 7 della CEDU, a mente del quale "non puo' essere inflitta alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso" per essere stato introdotto l'istituto della confisca per equivalente successivamente alla commissione dell'illecito contestato) costituisca violazione dell'art. 112 c.p.c. per inosservanza del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.». Con il quinto mezzo il ricorrente denuncia l'illegittimita' costituzionale dell'art. 6, comma 9 della legge n. 62 del 2005, che ha introdotto la previsione di cui all'art. 187-sexies, comma 2, d.lgs. n. 58 del 1998 per contrasto con gli artt. 117, comma 2, 3 e 25 Cost., dal momento che l'art. 9 prevede la possibilita' di applicare la confisca per equivalente «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge», postulando una sostanziale retroattivita' della sanzione della confisca per equivalente. Aggiunge il ricorrente che inquadrando la confisca nel genus delle pene e non in quello delle sanzioni accessorie, quale fittiziamente definita nel nostro ordinamento in relazione agli illeciti finanziari, alla luce del concetto c.d. materiale di pena accolto dalla CEDU, essa viola in modo palese l'art. 7 della Convenzione, in quanto avente funzione essenzialmente sanzionatoria (non riguardando, come nella confisca ordinaria, un apprezzamento sulla intrinseca pericolosita' della permanenza del bene nel patrimonio del soggetto autore dell'illecito), che incide sul patrimonio. A conclusione del motivo il ricorrente formula seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte se la questione di costituzionalita', per contrasto con l'art. 7 CEDU e, dunque, con gli artt. 117, 3 e 25 Cost., della previsione dell'art. 187-sexies, comma 2 del d.lgs. n. 58/1998 (introdotto dall'art. 9 della legge n. 62/2005) nella parte in cui attribuisce efficacia retroattiva alla confisca per equivalente sia rilevante e non manifestamente infondata e, dunque, se abbia errato la Corte di appello nell'avere omesso di rimettere - ai sensi dell'art. 134 Cost. - gli atti alla Corte costituzionale». Con il sesto mezzo il ricorrente lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione quanto alta denunciata violazione del principio di separazione della funzione istruttoria da quella decisoria ed, in particolare, dell'art. 9 della legge n. 62/2005 e dell'art. 24 della legge n. 262/2005. Il ricorrente precisa di avere chiesto la disapplicazione della delibera Consob n. 15086 del 21 giugno 2005, con la quale e' stato operato un artificioso riparto di competenze fra strutture interne dei compiti predetti (Ufficio Divisione Mercati per la funzione istruttoria e l'Ufficio Sanzioni Amministrative per quella sanzionatoria), non essendo conforme al dettato legislativo. A conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente momento di sintesi: «Dica la Suprema Corte se rispetto al fatto decisivo controverso, consistente nella violazione del principio di separatezza delle funzioni istruttorie e decisorie relativo ad un illecito amministrativo, sia affetta dai vizi di contraddittorieta', illogicita' ed insufficienza di motivazione la sentenza della Corte di appello che abbia confuso tra funzioni di natura diversa (istruttorie e decisorie) e omesso di tener conto di risultanze istruttorie agli atti dell'Autorita' procedente, dalle quali sono emerse interferenze degli uffici istruttori (selezione di materiale e predisposizione di bozze di delibera attinenti anche al quantum della sanzione) nelle funzioni decisorie di esclusiva competenza dell'organo deliberante e cio' anche con riferimento al regolamento Consob adottato con delibera n. 15086 del 21 giugno 2005». Con il settimo motivo di ricorso il ricorrente nel lamentare la violazione dell'art. 9 della legge n. 62 del 2005 e dell'art. 24 della legge n. 262 del 2005, che sancisce il principio di separazione della funzione istruttoria da quella decisoria, insiste nella denuncia di contrasto della decisione in punto di procedimento con il principio di separatezza delle funzioni e a conclusione pone il seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte se rispetto al fatto decisivo controverso, consistente nella violazione del principio di separatezza delle funzioni istruttorie e decisorie relativo ad un illecito amministrativo, sancito dagli articoli 187-septies, comma 2 del d.lgs. n. 58/1998 (come introdotto dall'art. 9, comma 2 della legge n. 62/2005) e 24 della legge n. 262/2005, la sentenza della Corte di appello che abbia confuso tra funzioni di natura diversa (istruttorie e decisorie) e omesso di tener conto di risultanze istruttorie agli atti dell'Autorita' procedente, dalle quali sono emerse interferenze degli uffici istruttori (selezione di materiale e predisposizione di bozze di delibera attinenti anche al quantum della sanzione) nelle funzioni decisorie di esclusiva competenza dell'organo deliberante si ponga in contrasto con i succitati precetti legislativi». Con l'ottavo motivo il ricorrente denuncia sotto il profilo della insufficiente e contraddittoria motivazione, quanto alla doglianza di violazione e falsa applicazione dell'art. 9 del regolamento di organizzazione e funzionamento adottato con delibera Consob n. 8674/1994, la mancata osservanza da parte della Commissione delle prescrizioni cui la stessa si era autovincolata, circostanza appresa dall'esame, a seguito di accesso agli atti, del contenuto del fascicolo Consob. In particolare, il ricorrente denuncia l'esistenza di vizi procedurali, quali la mancata convocazione per la seduta del 29 marzo 2007 dei componenti la commissione e la diffusione dell'ordine del giorno, cambiamento della sede della riunione da Milano a Roma. Al riguardo viene contestata l'argomentazione relativa alla dichiarazione rilasciata dal commissario C. per attestare la regolarita' della convocazione e la riferibilita' della eventuale lesione ad interesse da parte dello stesso componente all'esercizio dell'ufficio. La questione - ad avviso del ricorrente - non sarebbe neanche sopita dall'essere comunque stato integrato nella seduta il quorum costitutivo. A conclusione del mezzo il ricorrente pone il seguente momento di sintesi: «Dica la Suprema Corte se rispetto al fatto decisivo controverso, concernente il regolare svolgimento del procedimento sanzionatorio, sia affetta da contraddittorieta' ed insufficienza la motivazione della sentenza della Corte di appello che ha affermato il difetto di legittimazione dell'opponente alla deduzione dei vizi procedimentali in cui e' incorsa l'Autorita' procedente in relazione al regolamento di organizzazione e funzionamento adottato con delibera Consob n. 8674/1994 ». Con il nono mezzo ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729, comma 1, c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto accertata la commissione dell'illecito abuso di informazioni privilegiate da parte del L. esclusivamente su dati di natura presuntiva, corre del resto precisato dallo stesso giudice (v. pag. 56 della decisione impugnata). Ad avviso del ricorrente, invece, la sequenza dei fatti che ha condotto alla ritenuta prova del fatto costitutivo dell'illecito non sarebbe valida perche' priva della precisione. Premesso che la legge sanziona la speculazione svolta in consapevole assenza di rischio per l'esistenza di un illegittimo vantaggio informativo, ritiene il ricorrente che vanno esclusi dalla sanzione colui che negozia sulla base di una semplice raccomandazione ovvero di una informazione che non abbia i requisiti di privilegio. Aggiunge che la stessa corte territoriale ha riconosciuto il carattere polivalente dei fatti noti. Del resto il comportamento dello stesso L. proverebbe il contrario, avendo egli fatto - a fronte di un acquisto complessivo di una quota del tutto marginale del suo patrimonio, circa il 4% - un primo acquisto esplorativo quando il titolo aveva gia' iniziato a muovere ingenti volumi, per poi intensificarsi successivamente, parallelamente all'intensificarsi dei volumi di scambio sul mercato. A conclusione del mezzo il ricorrente pone il seguente quesito di diritto: «Dica e decida la Suprema Corte se configuri una falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2727 e 2729 c.c. il ragionamento presuntivo svolto dalla Corte di appello di Brescia il quale presenta inferenze plurime, talche' le conclusioni raggiunte risultano contrastate da altre conclusioni derivate dalla medesima inferenza e parimenti attendibili, vale a dire se il requisito della precisione di cui all'art. 2729, comma 1, c.c., imponga, diversamente da quanto fatto dalla Corte di appello di Brescia, che la inferenza presuntiva sia univoca». Con il decimo motivo il ricorrente nel dedurre violazione e falsa applicazione dell'art. 187-sexies, del d.lgs. n. 58 del 1998 per avere la corte di merito applicato oltre alla sanzione pecuniaria di un milione e mezzo di euro, la confisca dei beni gia' oggetto del sequestro, evidenzia come la confisca - preso atto da parte della Consob che le azioni acquistate e i relativi frutti erano di proprieta' (in parti uguali) dei tre fratelli L. - avrebbe dovuto riguardare soltanto un terzo delle azioni. A conclusione del mezzo il ricorrente pone il seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte se, in considerazione della intervenuta e definitiva assoluzione di altri soggetti originariamente imputati dal medesimo illecito in sede penale, l'Autorita' procedente possa irrogare a carico dell'unico soggetto ritenuto responsabile la sanzione (accessoria) della confisca commisurata anche alla quota parte dei beni facenti capo ai soggetti prosciolti e se cio' si ponga in contrasto con il principio di personalita' della sanzione e se la sentenza gravata nella parte in cui ha ritenuto corretto l'operato della Consob che ha assoggettato a confisca, oltre alle azioni della CMI originariamente acquistate dall'odierno ricorrente, anche ulteriori beni di proprieta' del medesimo sino a concorrenza del valore dell'intero pacchetto di azioni acquistate da tutti i soggetti originariamente penalmente coinvolti si ponga in contrasto con le disposizioni di cui all'art. 187-sexies TUF». Con l'undicesimo motivo ricorrente, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 e dell'art. 9 della legge n. 62 del 2005, in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c., ritorna a porre la questione della retroattivita' della sanzione accessoria della confisca per equivalente, non prevista dalla legge al momento della commissione dell'illecito. A conclusione del motivo ricorrente formula seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte se la trasmissione degli atti alla Consob da parte dell'Autorita' giudiziaria una volta pronunciata sentenza di assoluzione perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato violi il disposto dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62/2005». La Consob ha resistito con controricorso, contenente anche ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi, con i quali ha posto questioni di ultra petizione: la prima riguardante la mancata deduzione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9 nell'atto introduttivo del giudizio, la seconda denunciando che la illegittimita' della delibera Consob n. 15086/2005 era stata sollevata solo con la memoria del 14 gennaio 2008. In prossimita' dell'udienza entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa. All'esito dell'udienza pubblica svoltasi il 18 ottobre 2016, la causa veniva rinviata a nuovo ruolo per avere questa Corte di Cassazione, con ordinanza 14 settembre 2015, n. 18026, sollevato - in altro giudizio - questione di legittimita' costituzionale degli artt. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, e 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. L'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e l'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 erano stati impugnati nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate. La questione sollevata rileva anche nel presente procedimento. La Corte costituzionale, con sentenza n. 68 del 2017, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale sulla base delle seguenti argomentazioni: inammissibile la questione sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., perche' priva di motivazione; inammissibile la questione avente per oggetto l'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, perche' tale disposizione non ha la portata lesiva che il giudice rimettente le attribuisce. Infatti - ha sottolineato il giudice delle leggi «la norma in questione si limita a disciplinare la confisca per equivalente, mentre e' soltanto all'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 che va attribuita la scelta del legislatore di rendere questo istituto di applicazione retroattiva, dando cosi' luogo al dubbio di costituzionalita' che ha animato il giudice a quo»; inammissibile la questione di costituzionalita' dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, perche' basata «su un erroneo presupposto interpretativo», ossia «sulla base di una considerazione parziale della complessa vicenda normativa verificatasi nel caso di specie». L'ordinanza di rimessione ha «omesso di tenere conto del fatto che la natura penale, ai sensi dell'art. 7 della CEDU, del nuovo regime punitivo previsto per l'illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie nell'ambito della successione delle leggi nel tempo e demanda al rimettente il compito di verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento sanzionatorio, assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente, si renda, in quanto di maggior favore, applicabile al fatto pregresso, ovvero se esso in concreto denunci un carattere maggiormente afflittivo. Soltanto in quest'ultimo caso, la cui verificazione spetta al giudice a quo accertare e adeguatamente motivare, potrebbe venire in considerazione un dubbio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui tale disposizione prescrive l'applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il reo a una sanzione penale, ai sensi dell'art. 7 della CEDU, in concreto piu' gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all'epoca della commissione del fatto». Ripreso il processo e discussa la causa all'udienza del 14 settembre 2017, in vista della quale il ricorrente ha depositato ulteriore memoria illustrativa, con la presente ordinanza di rimessione la Corte di Cassazione propone, nei termini di seguito precisati, limitandola all'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, reimpostando il petitum e integrando la motivazione dell'ordinanza di rinvio si' da eliminare i vizi e le lacune riscontrati dalla Corte costituzionale, e che avevano impedito l'esame nel merito del dubbio sollevato. Ritenuto in diritto Con il provvedimento sanzionatorio adottato dalla Consob e' stata applicata, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria di euro 1.500.000,00 e alla sanzione accessoria dell'interdizione dagli uffici direttivi per un periodo di sei mesi, la misura della confisca per equivalente di beni di proprieta' del trasgressore per un valore di euro 3.057.951,00, giudicata legittima dalla Corte d'appello. Tra i motivi di ricorso per cassazione vi e' la illegittimita' dell'applicazione della misura della confisca per equivalente, introdotta dalla legge n. 62 del 2005, perche' i fatti sono stati commessi in epoca anteriore all'entrata in vigore di tale legge. La premessa da cui muove il ricorrente e' che la confisca per equivalente abbia natura, non di misura di sicurezza con finalita' preventive, ma di misura con connotati sostanzialmente sanzionatori afflittivi, sicche' la stessa non potrebbe trovare applicazione se non con riguardo a illeciti amministrativi commessi dopo la entrata in vigore della legge n. 62 del 2005; essa sarebbe quindi inapplicabile nel caso di specie, in quanto i fatti di insider trading contestati sono stati commessi nel 2002. Il Collegio esclude di poter giungere gia' in via interpretativa a dichiarare l'illegittimita' della misura della confisca. Infatti, la pretesa del ricorrente di affermare la non applicabilita', nel caso di specie, della confisca per equivalente di cui all'art. 187-sexies del TUF, trova un ostacolo letterale insuperabile nella disposizione di cui all'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, il quale prevede espressamente l'applicabilita' delle disposizioni della parte V, titolo I-bis, del testo unico approvato con il d.lgs. n. 58 del 1998 «anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito». Ritiene questo giudice a quo che nondimeno si ponga, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, un dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede che la confisca per equivalente, disciplinata dall'art. 187-sexies del TUF, si applica, allorche' il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005 - che le ha depenalizzate introducendo l'autonomo illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, configurato ora dall'art. 187-bis del TUF e cio' pur quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto meno favorevole di quello applicabile in base alla legge vigente al momento della commissione del fatto. Occorre premettere che la misura della confisca per equivalente in questione ha un contenuto sostanzialmente afflittivo, che eccede la finalita' di prevenire la commissione di illeciti, perche' non colpisce beni in «rapporto di pertinenzialita'» con l'illecito. La giurisprudenza delle Sezioni penali di questa Corte e' univoca in tal senso con riferimento alle disposizioni che prevedono la confisca per equivalente quale misura applicabile a seguito della commissione di specifici reati per i quali la detta misura e' espressamente prevista. Cass. pen., Sez. II, n. 31988 del 2006 ha cosi' affermato che, nel caso in cui il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche sia costituito da piu' violazioni commesse prima e dopo l'entrata in vigore della legge che ha previsto per detto reato l'applicazione della confisca per equivalente, questa misura puo' riguardare esclusivamente le violazioni commesse successivamente all'entrata in vigore della legge stessa. In questa medesima direzione, Cass. pen., Sez. U., n. 18374 del 2013 ha affermato che la confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall'art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall'art. 200 cod. pen., non si applica ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge citata. Soprattutto, e' la giurisprudenza della Corte costituzionale a riconoscere la natura prevalentemente afflittiva e sanzionatoria di questa peculiare forma di confisca. Le ordinanze n. 97 del 2009 e n. 301 del 2009 hanno infatti affermato che la confisca per equivalente prevista 322-ter cod. pen. non puo' avere natura retroattiva, perche' - «in ragione della mancanza di pericolosita' dei beni che ne costituiscono oggetto, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialita'" (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato ed i beni» - da' luogo a una misura «"eminentemente sanzionatoria", tale da impedire l'applicabilita' a tale misura patrimoniale del principio generale della retroattivita' delle misure di sicurezza, sancito dall'art. 200 cod. pen.». E - con specifico riferimento alla confisca per equivalente prevista dall'art. 187-sexies del TUF - la sentenza n. 68 del 2017 ha gia' statuito che «[e]ssa si applica a beni che non sono collegati al reato da un nesso diretto, attuale e strumentale, cosicche' la privazione imposta al reo risponde ad una finalita' di carattere punitivo, e non preventivo», precisando che «lo stesso legislatore si mostra consapevole del tratto afflittivo e punitivo proprio della confisca per equivalente, al punto da non prevederne la retroattivita' per i fatti che continuano a costituire reato (art. 187 del d.lgs. n. 58 del 1998)». La soluzione, ad avviso del Collegio, non muta in considerazione del fatto che, nella specie, la confisca per equivalente e' prevista quale sanzione accessoria per un illecito amministrativo. Infatti, alla confisca per equivalente prevista per l'illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate deve essere assegnata natura penale ai sensi dell'art. 7 della CEDU, in quanto essa svolge «con tratti di significativa afflittivita' una funzione punitiva» (Corte cost., sentenza n. 68 del 2017). Del resto, le nozioni di sanzione penale e di sanzione amministrativa non possono essere desunte, semplicemente, dal nomen iuris utilizzato da legislatore, ne' (dall'autorita' chiamata ad applicarla, ma devono essere ricavate, in concreto, tenuto conto delle finalita' e della portata del precetto sanzionatorio di volta in volta contemplato. La preoccupazione di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla Convenzione, nell'escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione restrittiva appartengano all'ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che la CEDU riserva alla materia penale, e' alla base dell'indirizzo interpretativo che, fin dalle sentenze 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania, ha portato la Corte di Strasburgo all'elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. Tali criteri sono stati individuati nella rilevante severita' della sanzione, nell'elevato importo di questa inflitto in concreto e comunque astrattamente irrogabile, nelle complessive ripercussioni sugli interessi del condannato, nella finalita' sicuramente repressiva. E, proprio in applicazione di quei criteri, la stessa Corte europea (sentenza 307A/1995, Welch c. Regno Unito) ha ritenuto assistita dalla garanzia dell'art. 7 della Convenzione l'applicazione di una confisca di beni riconducibile proprio ad un'ipotesi di confisca per equivalente; e (sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia) ha riconosciuto carattere penale alle sanzioni per insider trading qualificate dal nostro diritto interno come amministrative. Va inoltre ricordato che la Corte costituzionale, con riferimento all'applicazione retroattiva di disposizioni che introducono sanzioni amministrative, ha richiamato, con la sentenza n. 104 del 2014, il principio, gia' enunciato dalla sentenza n. 196 del 2010, secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Si tratta di un principio di derivazione convenzionale, ma desumibile anche dall'art. 25, secondo comma, Cost.: infatti, il precetto costituzionale - data l'ampiezza della sua formulazione - «puo' essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), e' applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sempre sentenze n. 196 del 2010 e n. 104 del 2014). Deve inoltre aggiungersi che, come ha chiarito la Corte costituzionale (sentenze n. 49 del 2015, n. 68 del 2017 e n. 109 del 2017), le sanzioni che il legislatore costruisce come amministrative restano tali nel nostro ordinamento, ma sono ulteriormente assistite dalle garanzie previste dall'art. 7 della CEDU ove abbiano carattere sostanzialmente penale alla luce della Convenzione. L'adozione di criteri sostanziali per la definizione della materia penale e' funzionale ad una piu' ampia garanzia dell'individuo: essa si muove infatti «nel segno dell'incremento delle liberta' individuali, e mai del loro detrimento (...), come invece potrebbe accadere nel caso di un definitivo assorbimento dell'illecito amministrativo nell'area di cio' che e' penalmente rilevante» (sentenza n. 68 del 2017). Ad avviso del Collegio, e' l'intero trattamento sanzionatorio introdotto dalla legge di depenalizzazione per l'illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui al nuovo art. 187-bis del TUF a rivestire natura sostanzialmente penale, integrando esso i caratteri di afflittivita' delineati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, dato l'elevato importo della sanzione prevista. Ritiene questo giudice a quo che la confisca per equivalente sia legittimamente applicabile ai fatti pregressi di abuso di informazioni privilegiate, senza dar luogo a dubbi di costituzionalita', solo quando il nuovo trattamento sanzionatorio per l'illecito depenalizzato, complessivamente e unitariamente considerato, possa ritenersi non peggiorativo rispetto a quello precedentemente previsto. Invero, come ha chiarito la Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 68 del 2017, «il passaggio dal reato all'illecito amministrativo, quando quest'ultimo conserva natura penale ai sensi dell'art. 7 della Convenzione, permette l'applicazione retroattiva del nuovo regime punitivo soltanto se e' piu' mite di quello precedente. In tal caso, infatti, e solo in tal caso, nell'applicazione di una pena sopravvenuta, ma in concreto piu' favorevole, non si annida alcuna violazione del divieto di retroattivita', ma una scelta in favore del reo». Non in ogni caso e', quindi, costituzionalmente vietato applicare retroattivamente la confisca per equivalente. «Infatti, qualora il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante la previsione di tale confisca, fosse in concreto piu' favorevole di quello applicabile in base alla pena precedentemente comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a che esso sia integralmente disposto». Il dubbio di legittimita' costituzionale risiede invece nella previsione di applicabilita' - assoluta, incondizionata e inderogabile - della confisca per equivalente, quand'anche il complessivo risultato sanzionatorio risultante dalla riforma sia in concreto meno favorevole per il trasgressore rispetto a quello che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all'epoca della commissione del fatto. Al fine di stabilire quale sia il trattamento piu' favorevole in tema di successione di leggi incriminatrici nel tempo, la giurisprudenza penale di questa Corte ha enunciato seguenti principi: la disposizione piu' favorevole deve essere individuata tenendo conto della disciplina nel suo complesso e non di singoli e specifici aspetti della stessa (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 14198 del 2016); deve aversi riguardo al complessivo trattamento sanzionatorio scaturente dall'applicazione della legge preesistente o di quella sopravvenuta senza che si possa procedere ad una combinazione delle disposizioni piu' favorevoli della nuova legge con quelle piu' favorevoli della vecchia, in quanto cio' comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, occorrendo invece applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, piu' vantaggiosa per il reo (Cass. pen., Sez. III, n. 23274 del 2004); l'individuazione del regime di maggior favore per reo ai sensi dell'art. 2 cod. pen. deve essere operata in concreto, comparando le diverse discipline sostanziali succedutesi nel tempo (Cass. pen., Sez. IV, n. 49754 del 2014). Va precisato che principio dell'efficacia retroattiva della norma sopravvenuta piu' favorevole implica che, qualora questa sia in concreto meno favorevole, debba applicarsi la precedente, ancorche' non piu' in vigore. Cio' non puo' accadere nel caso della depenalizzazione, perche' all'autorita' amministrativa non e' consentito in alcun modo applicare la sanzione penale, anche se in ipotesi piu' favorevole rispetto a quella amministrativa (sostanzialmente penale). Inoltre, il giudice penale, in presenza di un'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, nell'individuare quale trattamento in concreto si presenti piu' favorevole, deve tenere conto di tutti gli istituti propri del diritto penale, quali la sospensione condizionale della pena, la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, l'indulto, la prescrizione del reato. Nel caso in esame, pertanto, il confronto tra le diverse discipline non puo' che assumere un carattere peculiare, trattandosi di ordinamenti sanzionatori diversi, l'uno penale e l'altro amministrativo, che possono essere posti sullo stesso piano solo perche' il secondo va considerato sostanzialmente penale alla stregua della convenzione EDU. Ora, ponendo a raffronto i due quadri sanzionatori in successione, emerge quanto segue. Il complessivo trattamento sanzionatorio per il delitto di abuso di informazioni privilegiate, previsto al momento della commissione del fatto dall'art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, era della reclusione fino a due anni, congiunta con la multa da venti a seicento milioni di lire, cui doveva aggiungersi la confisca soltanto in forma diretta. La condanna, inoltre, ai sensi ai sensi dell'art. 182 del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998 (allora vigente), comportava sempre l'applicazione delle pene accessorie previste dagli articoli 28, 30, 32-bis e 32-ter cod. pen. per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni, nonche' la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale. Era prevista, inoltre, la possibilita' per il giudice di aumentare la multa fino al triplo quando, per la rilevante offensivita' del fatto, le qualita' personali del colpevole o l'entita' del profitto che ne era derivato, essa appariva inadeguata anche se applicata nel massimo. Il trattamento sanzionatorio di cui all'art. 9 della legge n. 62 del 2005 consiste, invece, nella sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro tre milioni di cui all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 (non potendosi tener conto dell'ulteriore modifica apportata dall'articolo 39, comma 3, della legge n. 262 del 2005 che ha quintuplicato la sanzione). Anche in questo caso il comma 5 del citato art. 187-bis prevede che le sanzioni possano essere aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall'illecito quando, per le qualita' personali del colpevole ovvero per l'entita' del prodotto o del profitto conseguito dall'illecito, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo. Inoltre ai sensi dell'art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998 sono previste le sanzioni amministrative accessorie della perdita temporanea dei requisiti di onorabilita' per gli esponenti aziendali ed i partecipanti al capitale dei soggetti abilitati, delle societa' di gestione del mercato, nonche' per i revisori e i promotori finanziari e, per gli esponenti aziendali di societa' quotate, dell'incapacita' temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell'ambito di societa' quotate e di societa' appartenenti al medesimo gruppo di societa' quotate per una durata non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni. Infine, ai sensi del successivo art. 187-sexies, e' prevista l'ulteriore sanzione accessoria della confisca del prodotto o del profitto dell'illecito e dei beni utilizzati per commetterlo e, qualora non sia possibile eseguire tale confisca, la stessa puo' avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilita' di valore equivalente. Nei fenomeni di depenalizzazione finora non si e' mai posto il problema dell'applicabilita' del principio di retroattivita' della norma piu' favorevole: essendosi, da un lato, sempre ritenuto che tale principio non trovi applicazione nel campo delle sanzioni amministrative, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 689 del 1981, e presumendosi, dall'altro, che trattamento sanzionatorio successivo, per la sua stessa natura amministrativa, sia sempre da considerare piu' favorevole rispetto a quello precedente, avente natura penale. Anche in questo caso, con l'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, il legislatore ordinario muove dalla presunzione che la sanzione amministrativa sia sempre piu' favorevole di quella penale, perche' soltanto quest'ultima ha un contenuto stigmatizzante e normalmente ha o puo' avere un'incidenza sulla liberta' personale. Ma si tratta di una postulato che non e' esatto in assoluto, e che non lo e' nell'ipotesi all'esame del Collegio rimettente. L'affermazione secondo la quale la pena detentiva deve sempre considerarsi come piu' gravosa rispetto a quella pecuniaria trova significative eccezioni nei casi in cui la stessa pena detentiva non possa essere eseguita per effetto dell'applicazione di altri istituti, come, ad esempio, la sospensione condizionale della pena ex art. 163 e ss. cod. pen. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in tema di successione di leggi penali, con riguardo ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (nella specie si trattava del delitto di lesioni), non puo' applicarsi il trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000, ancorche' in linea di principio piu' favorevole, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, in quanto il successivo art. 60, escludendo esplicitamente la concessione del beneficio della pena sospesa, rende in concreto le nuove disposizioni meno favorevoli all'imputato (Cass. pen., Sez. V, n. 7215 del 2006; Cass. pen., Sez. V, n. 46793 del 2004). Deve precisarsi che, nella specie, non emerge dagli atti l'esistenza di situazioni impeditive della concessione, in favore del ricorrente, della sospensione condizionale della pena. Dunque, nei suoi confronti, la pena detentiva di due anni di reclusione era ragionevolmente destinata a rimanere condizionalmente sospesa, e quindi non eseguita, o, qualora fosse rimasta nel limite di sei mesi, ad essere convertita in pena pecuniaria in una misura estremamente ridotta (secondo il criterio di ragguaglio allora vigente). Inoltre il ricorrente avrebbe potuto beneficiare dell'indulto di cui alla legge n. 241 del 2006. Tutto cio' premesso, dal punto di vista del ricorrente, se si guarda alla reale carica di afflittivita' della sanzione, e' agevole rendersi conto che questi si e' vista sottratta la possibilita' di usufruire del beneficio della sospensione condizionale della pena (che si estende anche alle pene accessorie), della conversione della pena detentiva in pena pecuniaria (che avrebbe portato ad una multa inferiore perfino rispetto a quella inflittagli con la sola sanzione amministrativa pecuniaria applicata in via principale, senza tener conto della ulteriore sanzione accessoria della confisca per equivalente), e dell'indulto; soprattutto, alla fattispecie non sarebbe stata applicabile la sanzione accessoria della confisca per equivalente ex art. 186-sexies del TUF. Nei suoi confronti, dunque, l'applicazione della sanzione penale in concreto sarebbe stata piu' favorevole rispetto alla sanzione pecuniaria amministrativa irrogata, oggetto di certa riscossione, di ammontare massimo notevolmente superiore e, si ribadisce, con l'aggiunta di una sanzione accessoria del tutto nuova, imprevedibile ed estremamente gravosa quale quella della confisca per equivalente per un valore pari a euro 3.057.951,00. Per il trasgressore incensurato, pertanto, l'applicazione ai fatti pregressi della nuova ipotesi della confisca per equivalente determina un trattamento sanzionatorio per l'illecito depenalizzato complessivamente piu' sfavorevole. Questa valutazione trova conferma nel trattamento penale applicato al concorrente nel reato, E. G., insider primario, il quale ha riferito la notizia privilegiata all'odierno ricorrente. Come risulta dalla documentazione prodotta dalla difesa del ricorrente - ammissibile in quanto rilevante ai fini dell'individuazione in concreto del trattamento piu' favorevole - G. e' stato condannato con sentenza del Tribunale di Milano del 25 ottobre 2006 alla pena della reclusione di sei mesi e al pagamento di euro 100.000 di multa con pena sospesa. Questa pronuncia e' stata parzialmente riformata dalla Corte d'appello di Milano che, con sentenza pronunciata in data 12 novembre 2007 sull'accordo delle parti, ritenuta la continuazione tra i fatti oggetto del giudizio e altri reati giudicati con pregressa sentenza della Corte d'appello di Brescia irrevocabile dal 10 luglio 2006, ha rideteminato la pena complessiva a suo carico in euro 140.520 di multa, ferma la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici e dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e della incapacita' di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno e due mesi. La pena e' stata calcolata partendo da una pena base di mesi sei di reclusione - reclusione convertita, ai sensi dell'art. 53, legge n. 689 del 1981, in 6.840 euro di multa e aumentata fino ad euro 20.520, pari al triplo della pena convertita ex artt. 133-bis cod. pen., 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 e 180, comma 4, d.lgs. n. 58 del 1998 - ed euro 120.000 di multa. La stessa Corte d'appello, successivamente, in sede di incidente di esecuzione, ha ridotto la suddetta pena a 10.000 euro di multa, in applicazione dell'indulto di cui alla legge n. 241 del 2006. Pertanto, il complessivo trattamento sanzionatorio dell'originario concorrente nel reato, E. G., si e' concretizzato nella complessiva multa di euro 10.000, nonostante questi fosse l'insider primario, la cui condotta doveva ritenersi necessariamente piu' grave di quella del ricorrente, tanto da continuare ad essere penalmente rilevante. La Consob, invece, all'esito del procedimento sanzionatorio, ritenuta sussistente la violazione di cui all'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, ha applicato al ricorrente la sanzione amministrativa pecuniaria di euro 1.500.000,00, la sanzione accessoria dell'interdizione degli uffici direttivi per un periodo di sei mesi ex art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998, nonche', ai sensi dell'art. 187-sexies del medesimo decreto, la confisca per equivalente di beni di sua proprieta' per un valore di euro 3.057.951,00. A parere di questo collegio cio' che risulta determinante ai fini della valutazione di maggiore gravosita' e' proprio l'applicazione retroattiva della sanzione accessoria della confisca per equivalente ex art. 186-sexies, d.lgs. n. 58 del 1998, sanzione non prevista e non prevedibile al momento della consumazione dell'illecito. Tale sanzione accessoria, infatti, determina una tale sproporzione nella pena complessivamente inflitta, rispetto a quella che sarebbe scaturita dall'applicazione del citato art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, da rappresentare l'elemento che rende in concreto maggiormente afflittivo il complessivo trattamento sanzionatorio derivante dalla legge di depenalizzazione. In altri termini, dubbio di legittimita' costituzionale risiede nel fatto che la previsione dell'applicabilita' - in modo incondizionato, inderogabile e non graduabile - della confisca per equivalente rende complessivo risultato sanzionatorio previsto dalla riforma, in concreto, meno favorevole per il trasgressore. A parere del Collegio, una volta eliminata l'applicazione della confisca per equivalente ai fatti antecedenti la sua introduzione, il trattamento sanzionatorio amministrativo (anche se nella sostanza penale) che residua, riacquista quella valenza complessiva di maggior favore naturalmente correlata alle sanzioni amministrative rispetto a quelle corrispondenti penali. Va poi escluso che possa attribuirsi valore di principio generale, immanente alla disciplina di qualunque depenalizzazione, alla disposizione recata dall'art. 8, comma 3, del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8 (il quale recita: «Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non puo' essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente: inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all'articolo 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie.»). Al riguardo il Collegio osserva che non vi sono ragioni per ritenere che tale disposizione - che detta la disciplina transitoria della depenalizzazione recata dal d.lgs. n. 8 del 2016 - esprima un principio di carattere generale idoneo a fungere da tertium comparationis nel vaglio di legittimita' costituzionale delle difformi discipline transitorie dettate da altre, e precedenti, leggi di depenalizzazione. Cio' posto, va considerato che la comparazione tra la sanzione penale e quella amministrativa non puo' risolversi in una stretta equiparazione quantitativa, in quanto la sanzione penale ha una pluralita' di effetti negativi, incidendo con forza peculiare non soltanto sulla liberta', ma anche sul complessivo profilo pubblico della persona, segnandolo con lo «stigma» del disvalore sociale derivante da una sentenza di condanna del giudice penale (basti pensare al rilievo, anche pratico, della condizione di incensuratezza). Nel caso dell'insider secondario, dunque, la sanzione penale risulterebbe in concreto meno favorevole della sanzione amministrativa pecuniaria, pur quantitativamente piu' elevata, ove quest'ultima non risultasse accompagnata anche dalla sanzione accessoria della confisca per equivalente. Di qui la sollevata questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prescrive l'applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il trasgressore a una sanzione penale in concreto piu' gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all'epoca della commissione del fatto. Ad avviso del Collegio, il contrasto con l'art. 3 Cost. si profila in riferimento al principio di ragionevolezza, per eccesso di contenuto sanzionatorio rispetto allo scopo della retroattivita' della nuova disciplina sanzionatoria, che era di evitare che rimanessero impunite, nella fase transitoria della depenalizzazione, condotte comunque illecite, laddove l'aggiunta della retroattivita' della confisca per equivalente costituisce un aggravamento sproporzionato non destinato a trovare la propria giustificazione nel riempimento del vuoto punitivo. Secondo questo giudice a quo, la norma denunciata contrasta inoltre con l'art. 25, secondo comma, Cost. Infatti, in base al precetto costituzionale, ogni intervento sanzionatorio e' applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente al momento della commissione del fatto sanzionato. Invece, il legislatore ha imposto di applicare retroattivamente la confisca per equivalente solo perche' si riferisce a un illecito qualificato come amministrativo nell'ordinamento interno, mentre, nel regime transitorio, avrebbe potuto consentirne l'applicazione - versandosi in un'ipotesi di depenalizzazione accompagnata dall'introduzione di un corrispondente illecito amministrativo - soltanto ove la nuova sanzione completi un trattamento sanzionatorio nel complesso piu' mite della pena prevista per l'originario reato. Infine, il dubbio di non manifesta infondatezza sussiste in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della convenzione europea, perche' la norma censurata prescrive l'applicazione retroattiva della confisca per equivalente - «pena» secondo la CEDU, e quindi ricompresa nel nucleo delle garanzie che la convenzione riconosce all'individuo in materia penale - anche qualora il complessivo trattamento sanzionatorio per l'illecito amministrativo sia meno favorevole in concreto del precedente trattamento sanzionatorio applicabile al reato. La questione sollevata e' rilevante ai fini della definizione del ricorso per cassazione. Innanzitutto perche' l'impugnato art. 9, comma 6, della n. 62 del 2005 e' la norma applicabile nel processo. I motivi di ricorso per cassazione investono, infatti, anche la legittimita' dell'applicazione retroattiva della confisca per equivalente ad un fatto di abuso di informazioni privilegiate commesso nel 2002, ed e' appunto la norma censurata a prevedere l'applicazione di tale misura anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di depenalizzazione. In secondo luogo perche' dall'esito del giudizio di costituzionalita' dipende la sorte di alcuni dei motivi del ricorso per cassazione. Infine, la sussistenza dell'illecito deve, nel presente giudizio, ritenersi prima facie non adeguatamente contestata dal ricorrente quanto all'accertamento in fatto svolto dalla Corte d'appello e la conclusione alla quale essa e' pervenuta circa la natura privilegiata delle informazioni utilizzate.