LA CORTE DI CASSAZIONE 
                       Sezione seconda civile 
 
    Composta da: 
        Stefano Petitti - Presidente; 
        Guido Federico - Consigliere; 
        Alberto Giusti - Consigliere; 
        Antonello Cosentino - Consigliere; 
        Milena Falaschi - Consigliere relatore, 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
(iscritto al n.r.g.  316/10)  proposto  da  L.  E.,  rappresentato  e
difeso, in forza di procura speciale del 21 novembre 2009 del  notaio
Mario Brunelli  in  Brescia  rep.  n.  73716,  dagli  avvocati  Luigi
Medugno, Letizia Mazzarelli e Gustavo Visentini del foro  di  Roma  e
dall'avvocato Piergluigi Tirale del foro di Brescia ed  elettivamente
domiciliato presso lo studio dei primi due in Roma, via Panama n. 58,
ricorrente. 
    Contro Consob - Commissione nazionale per le societa' e la borsa,
in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e  difesa  dagli
avvocati Fabio Biagianti, Maria Letizia Ermetes  e  Rocco  Vampa  del
foro di Roma, in virtu' di procura speciale  apposta  a  margine  del
controricorso, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio  in
Roma,  via  G.  B.  Martini  n.  3,  controricorrente  e  ricorrente,
incidentale avverso la sentenza della Corte d'appello di  Brescia  n.
950 depositata il 6 novembre 2008. 
    Udita la relazione della causa svolta nell'udienza  pubblica  del
14 settembre 2017 dal Consigliere relatore dott.ssa Milena Falaschi; 
    Uditi gli avvocati Luigi Medugno, Anna Lisa Lauteri  (con  delega
dell'avv. Letizia Mazzarelli) ed Enrico Tonelli (con delega dell'avv.
Gustavo Visentini), per parte ricorrente, e Fabio Biagianti  e  Rocco
Vampa, per parte resistente; 
    Udito il pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore
generale dott. Lucio Capasso, che ha  concluso  per  il  rigetto  del
ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale condizionato. 
 
                          Rilevato in fatto 
 
    A seguito delle modificazioni apportate al decreto legislativo n.
58 del 1998 dalla legge n. 62 del 2005, ad E. L. - nei cui  confronti
si  era  proceduto  in  sede  penale   -   veniva   contestato,   con
comunicazione del 4 aprile 2006, l'illecito amministrativo  di  abuso
di  informazioni  privilegiate  previsto  dall'art.  187-bis,  quarto
comma, decreto legislativo cit., per avere  disposto  l'acquisto  sul
mercato telematico di complessive 320.000  azioni  C.M.I.,  fra  l'11
febbraio  ed  il  19  marzo  1999,  avvalendosi  delle   informazioni
privilegiate comunicategli da E. G. e con atto n. 15851 del 29  marzo
2007  gli  veniva  applicata  la   sanzione   amministrativa   di   €
1.500.000,00,   nonche'   la   sanzione   amministrativa   accessoria
dell'interdizione, di  cui  all'art.  187-quater,  comma  1,  per  il
periodo di sei  mesi,  e  la  confisca  dei  beni  gia'  oggetto  del
sequestro  disposto  con  delibera  del  31  luglio  2006  fino  alla
concorrenza  di  €  3.057.951,00,  pari  al   valore   del   prodotto
dell'illecito contestato. 
    Avverso  detto  provvedimento  sanzionatorio  E.   L.   proponeva
opposizione con ricorso depositato presso la cancelleria della  Corte
d'appello di Brescia il 31 maggio 2007. Resisteva  la  Consob,  e  la
Corte territoriale adita, con sentenza n. 950  del  2008,  respingeva
l'opposizione. 
    A  sostegno  della  decisione  adottata,  la  corte  distrettuale
evidenziava che non vi era alcuna incompatibilita' fra  le  funzioni,
impropriamente definite istruttorie e quelle decisorie, della Consob,
giacche' solo a seguito della assoluzione del L.  in  sede  penale  e
della trasmissione degli atti  alla  Consob  aveva  avuto  inizio  il
formale procedimento di applicazione della  sanzione  amministrativa.
Ne' sussisteva la denunciata violazione degli  artt.  24,  97  e  111
Cost., dovendosi riferire i concetti di imparzialita' e di  terzieta'
ad un organo giurisdizionale, non anche ad un organo  amministrativo,
anche  allorche'  chiamato  ad  applicare  una  sanzione,   dovendosi
rispetto ad  esso  valutare  la  conformita'  dell'agire  della  p.a.
rispetto al soddisfacimento degli  interessi  pubblici.  Quanto  alla
denuncia di mancanza di autonomia dell'organo deliberante,  la  corte
di merito osservava che al  principio  del  contraddittorio  e  della
distinzione tra funzioni di cui all'art. 187-septies,  d.lgs.  n.  58
del 1998 era stata data attuazione con la delibera  Consob  n.  15086
del 21 giugno 2005 e con la delibera n. 1531 del 5  agosto  2005  che
avevano procedimentalizzato l'attivita' della medesima autorita', ne'
la  condivisione  da  parte   della   Commissione   della   Relazione
predisposta dall'Ufficio sanzioni  amministrative  aveva  violato  il
diritto di difesa dell'incolpato,  che  ben  conosceva  quest'ultima,
ovvero l'autonoma valutazione  compiuta  dalla  Commissione,  essendo
stato il risultato di un autonomo e libero giudizio  dell'organo  cui
per legge era demandata la decisione. 
    Relativamente  alla  eccezione  di  mancata  partecipazione   del
componente  della  Commissione  dott.  C.,  osservava  che  a   parte
l'assenza   di   qualsiasi   formalita',   per   regolamento,   nelle
convocazioni delle adunanze presso l'una piuttosto che l'altra  delle
sedi, ai sensi dell'art. 10 del regolamento Consob  n.  8674  del  17
novembre 1994, per la validita' delle riunioni della Commissione  era
necessaria la presenza di almeno tre componenti  e  le  deliberazioni
dovevano  essere  assunte  a  maggioranza  dei   votanti,   obiettivo
ampiamente centrato nella specie per avere preso parte alla  riunione
del 29 marzo 2007 oltre al presidente, tre dei quattro  componenti  e
la deliberazione concernente il L. era stata assunta all'unanimita'. 
    Nel merito, rilevava che tra l'11 febbraio ed il  19  marzo  1999
l'opponente ed  i  fratelli  T.  e  F.  avevano  acquistato,  tramite
l'intermediaria Banca Popolare di Milano 320.000 azioni della  C.M.I.
s.p.a., societa'  appartenente  al  gruppo  Falk  che  all'epoca  era
sostanzialmente  inattiva  dopo  la   dismissione   delle   attivita'
industriali e utilizzata per il settore immobiliare. Il quotidiano FM
pubblicava indiscrezioni circa la collocazione di C.M.I. nel  settore
energetico il 7 marzo 1999, per cui il 10 marzo 1999  la  trattazione
del titolo veniva sospesa in attesa di  un  comunicato  stampa  sulle
sorti della societa', che veniva diffuso il 12 aprile  1999  da  Falk
s.p.a. e C.M.I.  s.p.a.,  con  il  quale  informavano  che  la  prima
societa' aveva accettato l'offerta  GP  Finanziaria  s.p.a.,  facente
capo ad E. G., di acquistare  l'intera  partecipazione  della  stessa
Falk nella scindenda I.I.L. Il 23 luglio 1999  veniva  effettuata  la
scissione di I.I.L. da C.M.I., alla prima veniva assegnato il ramo di
azienda operante nel settore immobiliare della seconda,  nella  quale
venivano concentrati i settori dell'ecologia,  ambiente  e  to  waste
Energy collegate allo smaltimento dei rifiuti. Infine il 2  settembre
1999 veniva reso noto che acquirente finale della I.I.L. era la  Hopa
s.p.a. di cui E. G.  era  all'epoca  indirettamente  (tramite  la  GP
Finanziaria s.p.a.) socio di maggioranza. 
    Sulla base di detti elementi la Consob  riteneva  che  solo  alla
luce  delle  informazioni  acquisite  anticipatamente,  rispetto   ai
comunicati, si spiegavano i massicci acquisti eseguiti dall'incolpato
di azioni C.M.I., essendo peraltro all'epoca molteplici e consolidati
i rapporti di affari fra il L. e lo G. 
    Quanto al concetto di «informazione privilegiata» di cui all'art.
181, d.lgs. n. 58 del 1998, essa  doveva  ritenersi  ricorrere  nella
specie dal momento che l'11  febbraio  1999  risultava  essere  stato
sottoscritto da un gruppo di dirigenti del gruppo Falk un impegno  di
segretezza avente ad oggetto proprio l'accordo stipulando con  Fintad
International SA, anche perche'  la  diffusione  di  notizie  avrebbe
potuto creare un'ingiustificata tensione sul titolo mobiliare  C.A.I.
Ne' i due pezzi giornalistici apparsi sul quotidiano MF  12  novembre
1997 ed il 7 marzo 1998 erano caratterizzati da adeguata specificita'
delle notizie date, non rappresentando nulla di paragonabile a quello
che sarebbe realmente poi accaduto nei primi mesi del 1999. 
    Dato  significativo   della   operativita'   dell'incolpato   era
costituito dal trend assolutamente anomala del  mercato  relativo  al
titolo C.M.I. che a fronte di una media giornaliera di scambi intorno
a circa 9.000 azioni del semestre antecedente all'11  febbraio  1999,
era  passato  ad  una  media  giornaliera  di  oltre  50.000   titoli
scambiati, trend di cui il L. era stato l'assoluto  protagonista  dal
momento che egli aveva ordinato  nella  prima  giornata  di  acquisto
19,61% dei titoli, proseguendo nei giorni successivi e arrivando fino
al 54% dei quantitativi negoziati nella giornata. 
    Pertanto accertata  la  ricorrenza  degli  elementi  oggettivi  e
soggettivi (irrilevante la questione del dolo e  delle  presunzioni),
proseguiva la corte  territoriale,  andava  affermata  la  congruita'
anche della  sanzione  irrogata,  in  considerazione  del  fatto  che
trattavasi di societa'  quotata  in  borsa  e  della  gravita'  della
condotta stante la larghezza dei mezzi investiti (€ 900.000,00). 
    Per cio' che atteneva alla sanzione  accessoria  della  confisca,
individuato il prodotto dell'illecito  amministrativo  nelle  320.000
azioni C.M.I., le quali erano stata fatte confluire in  un  conto  di
gestione  cointestato  ai  fratelli  L.,  il   giudice   distrettuale
condivideva l'assunto della Consob che non potendo essere  sottoposte
a confisca le quote dei fratelli,  andati  assolti  nel  procedimento
penale,  per  coprire  l'intero  valore  delle  azioni  erano   stati
aggrediti oltre al terzo delle azioni  di  spettanza  dell'incolpato,
anche i beni personali di E. L. giacche' la confisca doveva avere  ad
oggetto il «prodotto o ... profitto dell'illecito» (art.  186-sexies,
d.lgs. n. 58 del 1998), attuandosi la c.d. confisca per equivalente. 
    Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Brescia
il L. ha proposto ricorso, sulla base di undici motivi. 
    Con il primo motivo il L. lamenta l'erroneita' della  delibazione
in ordine alla eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 9
della legge n. 62 del 2005 per contrasto con gli artt. 24, 97  e  111
Cost. Il ricorrente rileva che con la  legge  n.  62  del  2005  alla
Consob sono state attribuite non soltanto  funzioni  istruttorie,  ma
anche decisorie, con la legge n. 262 del 2005 e che il Parlamento, al
fine di assicurare al soggetto deputato ad accertare  la  sussistenza
dell'illecito una posizione di terzieta' sia  rispetto  all'incolpato
sia rispetto agli Uffici preposti all'espletamento della istruttoria,
ha previsto  che  l'Autorita'  si  dotasse  di  un  Regolamento,  poi
adottato, nel quale sono scandite tempistica e competenze  delle  due
fasi procedimentali. Senonche' detta garanzia della  separazione  fra
le due fasi non opererebbe nel periodo transitorio, per essersi nella
specie la Consob gia' espressa per la colpevolezza del L.  nel  corso
del processo penale, conclusosi con l'assoluzione  dell'imputato  per
la riforma  in  questione.  La  corte  distrettuale  ha  escluso  che
l'attivita'  posta  in  essere  dalla  Consob  prima  dell'avvio  del
processo  penale  potesse  qualificarsi  come  attivita'  istruttoria
finalizzata  all'accertamento  dei  fatti  suscettibili  di  sanzione
amministrativa.  Decisione  che  pero'  non  coglie  l'essenza  della
riforma,  dal  momento  che  anche  in  precedenza  la  Consob  aveva
competenze  in  materia  di   illeciti   amministrativi   di   natura
finanziaria,  ma  per  detti  illeciti  l'Autorita'   svolgeva   solo
attivita' istruttoria, essendo  quella  decisoria  demandata  in  via
esclusiva al Ministero dell'economia. 
    A conclusione del mezzo il ricorrente formula il seguente quesito
di  diritto:  «dica  la  Suprema  Corte  se  incorre  in   vizio   di
costituzionalita' per violazione degli artt. 97, 24 e  111  Cost.  la
legge 18 aprile 2005, n.  62  (art.  9)  che  attribuisce  il  potere
decisorio  sussistenza  dell'illecito  amministrativo  nonche'  sulla
sanzione   irrogabile   a   carico   del   (ritenuto)   responsabile,
all'Autorita'  amministrativa  che,  anteriormente  alla  entrata  in
vigore  della  legge  stessa,  allorche'  il   medesimo   fatto   era
contemplato quale illecito penale, avesse esercitato nella  veste  di
soggetto offeso dai reato le relative pretese punitive nei  confronti
del (preteso)  autore  dell'illecito.  E  conseguentemente  se  abbia
errato la Corte d'appello nell'avere omesso di rimettere la questione
alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 Cost.». 
    Con secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e la  falsa
applicazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia  su  un  punto
essenziale della controversia, in  particolare  per  avere  la  corte
territoriale completamente omesso di  pronunciarsi  sulla  denunciata
violazione dell'art. 14 della Direttiva 2003/6/CE del 28 gennaio 2003
in relazione all'art. 9, comma 2, della legge n. 62 del 2005, che  ha
introdotto l'art. 187-sexies, comma 1, al d.lgs. n. 58 del  1998.  La
questione  era  certamente  controversa  e   decisiva   e   risultava
inequivocabilmente dal verbale dell'udienza. A conclusione del motivo
il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «dica la  Corte
se l'omessa pronuncia della Corte d'appello su una questione  dedotta
in corso di discussione della  causa  e  verbalizzata  in  udienza  e
rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado  del  giudizio  (contrasto
dell'art. 187-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998  con  l'art.
14 della  Direttiva  2003/6/CE,  per  mancata  individuazione  di  un
parametro di proporzionalita' tra il fatto contestato e  la  sanzione
irrogabile) costituisca violazione dell'art. 112 c.p.c. in osservanza
del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato». 
    Con il terzo motivo il ricorrente,  nel  lamentare  violazione  e
falsa applicazione dell'art. 14  della  Direttiva  2003/6/CE  del  28
gennaio 2003 in relazione all'art. 9, comma 2, della legge n. 62  del
2005 che ha introdotto l'art. 187-sexies, comma 1 al d.lgs. n. 58 del
1998, ribadendo la rilevanza della omessa pronuncia di cui al secondo
mezzo, insiste per  la  rimessione  alla  Corte  di  Giustizia  della
questione relativa per essere evidente la sproporzione fra  l'entita'
della confisca, pari ad € 3.197.000,000 e  la  somma  esatta  con  la
sanzione,  pari  ad  €  1.500.000,00.  Nella   specie   il   prodotto
dell'illecito - ad avviso del  ricorrente  -  e'  stato  erroneamente
individuato nelle azioni della C.M.I. in  numero  di  320.000  e  nei
frutti che da tali aquisizioni sarebbero derivati medio  tempore.  In
altri termini, sono state riconosciute quali profitto anche le azioni
acquistate dal L. per i fratelli andati esenti da  responsabilita'  e
quindi comprate  con  denaro  di  provenienza  lecita,  in  stridente
contrasto  con  il  principio  di  proporzionalita',  dovendo  essere
erogata la sanzione accessoria solo per il profitto dell'illecito.  A
conclusione del motivo il ricorrente formula il seguente  quesito  di
diritto: «dica la Suprema Corte se la disposizione normativa  di  cui
all'art. 187-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 58 del  1998,  introdotto
dall'art. 9 della legge n. 62 del 2005 (...), costituisca  violazione
del parametro  della  proporzionalita'  sancito  dall'art.  14  della
Direttiva 2003/6/CE, a mente del  quale  le  misure  sanzionatorie  a
tutela degli abusi di mercato debbono essere «efficaci, proporzionate
e dissuasive». E conseguentemente se abbia errato la Corte  d'appello
nell'avere omesso di rimettere la questione  dedotta  alla  Corte  di
Giustizia della  Comunita'  europea,  ai  sensi  e  per  gli  effetti
dell'art. 234 del Trattato CE, gli atti alla Corte di Giustizia». 
    Con il quarto mezzo il ricorrente denuncia  la  violazione  e  la
falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa  pronuncia  su  un
punto essenziale della controversia in relazione all'art. 360, n.  5,
c.p.c. Ad avviso del ricorrente la  corte  territoriale  avrebbe  del
tutto omesso di pronunciarsi sulla  contrarieta'  al  disposto  degli
artt. 117, comma 1, 3 e 25 Cost., dell'art. 6, comma 9 della legge n.
62 del  2005,  che  ha  introdotto  la  previsione  di  cui  all'art.
187-sexies, comma 2, d.lgs. n. 58 del 1998. Precisa il ricorrente che
nel giudizio a quo, in particolare nel corso della discussione del  2
luglio (come da verbale di udienza), era  stato  rilevato  come  tale
previsione si ponesse «in aperto contrasto con l'art. 7 della CEDU, a
mente del quale non puo' essere  inflitta  alcuna  pena  superiore  a
quella che era applicabile al  momento  in  cui  il  reato  e'  stato
commesso». Ne consegue che il silenzio della  corte  territoriale  al
riguardo  costituisce  una  patente  violazione  del   principio   di
corrispondenza fra chiesto e pronunciato. A conclusione del motivo il
ricorrente formula il seguente quesito di diritto: «Dica  la  Suprema
Corte se l'omessa pronuncia della Corte di appello su  una  questione
dedotta in corso di discussione della causa e verbalizzata in udienza
(contrasto dell'art. 187-sexies, comma 2, del d.lgs. n.  58/1998  con
l'art. 7 della CEDU, a mente del  quale  "non  puo'  essere  inflitta
alcuna pena superiore a quella che era applicabile al momento in  cui
il reato e' stato commesso" per essere  stato  introdotto  l'istituto
della  confisca  per  equivalente  successivamente  alla  commissione
dell'illecito contestato) costituisca violazione dell'art. 112 c.p.c.
per inosservanza  del  principio  di  corrispondenza  tra  chiesto  e
pronunciato.». 
    Con il  quinto  mezzo  il  ricorrente  denuncia  l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 6, comma 9 della legge n. 62 del  2005,  che
ha introdotto la previsione di  cui  all'art.  187-sexies,  comma  2,
d.lgs. n. 58 del 1998 per contrasto con gli artt. 117, comma 2,  3  e
25 Cost., dal  momento  che  l'art.  9  prevede  la  possibilita'  di
applicare la confisca per equivalente «anche alle violazioni commesse
anteriormente alla data di entrata in vigore della legge», postulando
una sostanziale retroattivita'  della  sanzione  della  confisca  per
equivalente. Aggiunge il ricorrente che inquadrando la  confisca  nel
genus delle pene e non in quello  delle  sanzioni  accessorie,  quale
fittiziamente definita  nel  nostro  ordinamento  in  relazione  agli
illeciti finanziari, alla luce del concetto c.d.  materiale  di  pena
accolto dalla  CEDU,  essa  viola  in  modo  palese  l'art.  7  della
Convenzione, in quanto avente funzione  essenzialmente  sanzionatoria
(non riguardando, come nella  confisca  ordinaria,  un  apprezzamento
sulla  intrinseca  pericolosita'  della  permanenza  del   bene   nel
patrimonio  del  soggetto  autore  dell'illecito),  che  incide   sul
patrimonio. A conclusione del motivo il ricorrente  formula  seguente
quesito di diritto:  «Dica  la  Suprema  Corte  se  la  questione  di
costituzionalita', per contrasto con l'art. 7 CEDU e, dunque, con gli
artt. 117, 3 e 25 Cost., della previsione dell'art. 187-sexies, comma
2 del d.lgs. n.  58/1998  (introdotto  dall'art.  9  della  legge  n.
62/2005) nella parte in cui attribuisce  efficacia  retroattiva  alla
confisca per equivalente sia rilevante e non manifestamente infondata
e, dunque, se abbia errato la Corte di appello nell'avere  omesso  di
rimettere - ai sensi dell'art.  134  Cost.  -  gli  atti  alla  Corte
costituzionale». 
    Con  il  sesto  mezzo  il  ricorrente  lamenta  insufficiente   e
contraddittoria motivazione quanto  alta  denunciata  violazione  del
principio  di  separazione  della  funzione  istruttoria  da   quella
decisoria ed, in particolare, dell'art. 9 della legge  n.  62/2005  e
dell'art. 24 della legge n. 262/2005. Il ricorrente precisa di  avere
chiesto la disapplicazione della delibera  Consob  n.  15086  del  21
giugno 2005, con la quale e' stato operato un artificioso riparto  di
competenze  fra  strutture  interne  dei  compiti  predetti  (Ufficio
Divisione Mercati per la funzione istruttoria  e  l'Ufficio  Sanzioni
Amministrative per quella sanzionatoria),  non  essendo  conforme  al
dettato legislativo. A conclusione del motivo il  ricorrente  formula
il seguente momento di sintesi: «Dica la Suprema Corte se rispetto al
fatto  decisivo  controverso,  consistente   nella   violazione   del
principio di  separatezza  delle  funzioni  istruttorie  e  decisorie
relativo ad un illecito  amministrativo,  sia  affetta  dai  vizi  di
contraddittorieta', illogicita' ed insufficienza  di  motivazione  la
sentenza della Corte di appello che abbia  confuso  tra  funzioni  di
natura diversa (istruttorie e decisorie) e omesso di tener  conto  di
risultanze istruttorie agli  atti  dell'Autorita'  procedente,  dalle
quali sono emerse interferenze degli uffici istruttori (selezione  di
materiale e predisposizione di bozze di delibera attinenti  anche  al
quantum  della  sanzione)  nelle  funzioni  decisorie  di   esclusiva
competenza dell'organo deliberante e cio' anche  con  riferimento  al
regolamento Consob adottato con  delibera  n.  15086  del  21  giugno
2005». 
    Con il settimo motivo di ricorso il ricorrente nel  lamentare  la
violazione dell'art. 9 della legge n. 62  del  2005  e  dell'art.  24
della legge n. 262 del 2005, che sancisce il principio di separazione
della  funzione  istruttoria  da  quella  decisoria,  insiste   nella
denuncia di contrasto della decisione in punto di procedimento con il
principio di separatezza delle  funzioni  e  a  conclusione  pone  il
seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte  se  rispetto  al
fatto  decisivo  controverso,  consistente   nella   violazione   del
principio di  separatezza  delle  funzioni  istruttorie  e  decisorie
relativo  ad  un  illecito  amministrativo,  sancito  dagli  articoli
187-septies, comma 2 del d.lgs. n. 58/1998 (come introdotto dall'art.
9, comma 2 della legge n. 62/2005) e 24 della legge n.  262/2005,  la
sentenza della Corte di appello che abbia  confuso  tra  funzioni  di
natura diversa (istruttorie e decisorie) e omesso di tener  conto  di
risultanze istruttorie agli  atti  dell'Autorita'  procedente,  dalle
quali sono emerse interferenze degli uffici istruttori (selezione  di
materiale e predisposizione di bozze di delibera attinenti  anche  al
quantum  della  sanzione)  nelle  funzioni  decisorie  di   esclusiva
competenza dell'organo  deliberante  si  ponga  in  contrasto  con  i
succitati precetti legislativi». 
    Con l'ottavo motivo il ricorrente denuncia sotto il profilo della
insufficiente e contraddittoria motivazione, quanto alla doglianza di
violazione e  falsa  applicazione  dell'art.  9  del  regolamento  di
organizzazione  e  funzionamento  adottato  con  delibera  Consob  n.
8674/1994, la mancata osservanza da  parte  della  Commissione  delle
prescrizioni cui la stessa si era autovincolata, circostanza  appresa
dall'esame, a  seguito  di  accesso  agli  atti,  del  contenuto  del
fascicolo Consob. In particolare, il ricorrente denuncia  l'esistenza
di vizi procedurali, quali la mancata convocazione per la seduta  del
29  marzo  2007  dei  componenti  la  commissione  e  la   diffusione
dell'ordine del giorno, cambiamento  della  sede  della  riunione  da
Milano a Roma. Al riguardo viene contestata l'argomentazione relativa
alla dichiarazione rilasciata dal commissario  C.  per  attestare  la
regolarita' della convocazione e  la  riferibilita'  della  eventuale
lesione ad interesse da parte dello stesso  componente  all'esercizio
dell'ufficio. La questione - ad avviso del ricorrente -  non  sarebbe
neanche sopita dall'essere comunque stato integrato nella  seduta  il
quorum costitutivo. A conclusione del mezzo  il  ricorrente  pone  il
seguente momento di sintesi: «Dica la Suprema Corte  se  rispetto  al
fatto decisivo controverso, concernente il regolare  svolgimento  del
procedimento sanzionatorio,  sia  affetta  da  contraddittorieta'  ed
insufficienza la motivazione della sentenza della  Corte  di  appello
che ha affermato il difetto  di  legittimazione  dell'opponente  alla
deduzione dei vizi  procedimentali  in  cui  e'  incorsa  l'Autorita'
procedente  in  relazione  al   regolamento   di   organizzazione   e
funzionamento adottato con delibera Consob n. 8674/1994 ». 
    Con il nono mezzo ricorrente lamenta la  violazione  e  la  falsa
applicazione degli artt. 2727 e 2729, comma 1,  c.c.,  per  avere  la
Corte territoriale ritenuto accertata  la  commissione  dell'illecito
abuso di informazioni privilegiate da parte del L. esclusivamente  su
dati di natura presuntiva, corre del  resto  precisato  dallo  stesso
giudice (v.  pag.  56  della  decisione  impugnata).  Ad  avviso  del
ricorrente, invece, la  sequenza  dei  fatti  che  ha  condotto  alla
ritenuta prova del fatto costitutivo dell'illecito non sarebbe valida
perche' priva della precisione. Premesso che  la  legge  sanziona  la
speculazione svolta in consapevole assenza di rischio per l'esistenza
di un illegittimo vantaggio informativo, ritiene  il  ricorrente  che
vanno esclusi dalla sanzione colui che  negozia  sulla  base  di  una
semplice raccomandazione ovvero di una informazione che non  abbia  i
requisiti di privilegio. Aggiunge che la stessa corte territoriale ha
riconosciuto il carattere polivalente dei fatti noti.  Del  resto  il
comportamento dello stesso L. proverebbe il  contrario,  avendo  egli
fatto - a fronte di un acquisto complessivo di una  quota  del  tutto
marginale del suo  patrimonio,  circa  il  4%  -  un  primo  acquisto
esplorativo quando il titolo aveva gia' iniziato  a  muovere  ingenti
volumi,  per  poi  intensificarsi   successivamente,   parallelamente
all'intensificarsi dei volumi di scambio sul mercato.  A  conclusione
del mezzo il ricorrente pone il seguente quesito di diritto: «Dica  e
decida la Suprema Corte  se  configuri  una  falsa  applicazione  del
combinato disposto degli artt.  2727  e  2729  c.c.  il  ragionamento
presuntivo svolto dalla Corte di appello di Brescia il quale presenta
inferenze  plurime,  talche'  le  conclusioni   raggiunte   risultano
contrastate da altre conclusioni derivate dalla medesima inferenza  e
parimenti attendibili, vale a dire se il requisito  della  precisione
di cui all'art. 2729, comma 1, c.c., imponga, diversamente da  quanto
fatto dalla Corte di appello di Brescia, che la inferenza  presuntiva
sia univoca». 
    Con il decimo motivo il ricorrente nel dedurre violazione e falsa
applicazione dell'art. 187-sexies, del d.lgs.  n.  58  del  1998  per
avere la corte di merito applicato oltre alla sanzione pecuniaria  di
un milione e mezzo di euro, la confisca dei  beni  gia'  oggetto  del
sequestro, evidenzia come la confisca - preso  atto  da  parte  della
Consob che  le  azioni  acquistate  e  i  relativi  frutti  erano  di
proprieta' (in parti uguali) dei tre fratelli  L.  -  avrebbe  dovuto
riguardare soltanto un terzo delle azioni. A conclusione del mezzo il
ricorrente pone il seguente quesito  di  diritto:  «Dica  la  Suprema
Corte  se,  in  considerazione   della   intervenuta   e   definitiva
assoluzione di altri soggetti originariamente imputati  dal  medesimo
illecito in sede penale,  l'Autorita'  procedente  possa  irrogare  a
carico  dell'unico  soggetto  ritenuto   responsabile   la   sanzione
(accessoria) della confisca commisurata anche alla  quota  parte  dei
beni facenti capo ai soggetti  prosciolti  e  se  cio'  si  ponga  in
contrasto con il principio di personalita' della  sanzione  e  se  la
sentenza gravata nella parte in cui ha  ritenuto  corretto  l'operato
della Consob che ha assoggettato a confisca, oltre alle azioni  della
CMI  originariamente  acquistate   dall'odierno   ricorrente,   anche
ulteriori beni di proprieta' del  medesimo  sino  a  concorrenza  del
valore dell'intero pacchetto di azioni acquistate da tutti i soggetti
originariamente penalmente coinvolti si ponga  in  contrasto  con  le
disposizioni di cui all'art. 187-sexies TUF». 
    Con l'undicesimo motivo ricorrente, denunciando la  violazione  e
la falsa applicazione dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del  1998  e
dell'art. 9 della legge n. 62 del 2005, in relazione all'art. 360, n.
4, c.p.c., ritorna a porre la questione  della  retroattivita'  della
sanzione accessoria della  confisca  per  equivalente,  non  prevista
dalla legge al momento della commissione dell'illecito. A conclusione
del motivo ricorrente formula seguente quesito di diritto:  «Dica  la
Suprema Corte se la trasmissione degli  atti  alla  Consob  da  parte
dell'Autorita'  giudiziaria  una  volta   pronunciata   sentenza   di
assoluzione perche' il fatto non e' previsto dalla legge  come  reato
violi il disposto dell'art. 9, comma 6, della legge n. 62/2005». 
    La  Consob  ha  resistito  con  controricorso,  contenente  anche
ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi, con  i  quali
ha posto questioni  di  ultra  petizione:  la  prima  riguardante  la
mancata deduzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art.  9  nell'atto  introduttivo  del   giudizio,   la   seconda
denunciando che la illegittimita' della delibera Consob n. 15086/2005
era stata sollevata solo con la memoria del 14 gennaio 2008. 
    In prossimita' dell'udienza entrambe le  parti  hanno  depositato
memoria illustrativa. 
    All'esito dell'udienza pubblica svoltasi il 18 ottobre  2016,  la
causa veniva rinviata  a  nuovo  ruolo  per  avere  questa  Corte  di
Cassazione, con ordinanza 14 settembre 2015, n. 18026, sollevato - in
altro giudizio - questione di legittimita' costituzionale degli artt.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, e 9, comma 6, della legge n. 62
del 2005, in riferimento agli artt. 3,  25,  secondo  comma,  e  117,
primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali. L'art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998  e
l'art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 erano  stati  impugnati
nella parte in cui prevedono  che  la  confisca  per  equivalente  si
applica anche alle violazioni commesse  anteriormente  alla  data  di
entrata  in  vigore  della  legge  n.  62  del  2005,   che   le   ha
depenalizzate. La  questione  sollevata  rileva  anche  nel  presente
procedimento. 
    La  Corte  costituzionale,  con  sentenza  n.  68  del  2017,  ha
dichiarato inammissibile la questione di legittimita'  costituzionale
sulla base delle seguenti argomentazioni: 
        inammissibile la questione sollevata in riferimento  all'art.
3 Cost., perche' priva di motivazione; 
        inammissibile  la  questione  avente   per   oggetto   l'art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, perche' tale  disposizione  non
ha la portata  lesiva  che  il  giudice  rimettente  le  attribuisce.
Infatti - ha  sottolineato  il  giudice  delle  leggi  «la  norma  in
questione si limita  a  disciplinare  la  confisca  per  equivalente,
mentre e' soltanto all'art. 9, comma 6, della legge n.  62  del  2005
che va  attribuita  la  scelta  del  legislatore  di  rendere  questo
istituto di applicazione retroattiva, dando cosi' luogo al dubbio  di
costituzionalita' che ha animato il giudice a quo»; 
        inammissibile la questione di costituzionalita' dell'art.  9,
comma 6, della legge n. 62 del 2005, perche' basata  «su  un  erroneo
presupposto interpretativo», ossia «sulla base di una  considerazione
parziale della complessa vicenda normativa verificatasi nel  caso  di
specie». L'ordinanza di rimessione ha «omesso  di  tenere  conto  del
fatto che la natura penale, ai sensi  dell'art.  7  della  CEDU,  del
nuovo regime punitivo previsto per l'illecito amministrativo comporta
un inquadramento  della  fattispecie  nell'ambito  della  successione
delle  leggi  nel  tempo  e  demanda  al  rimettente  il  compito  di
verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento  sanzionatorio,
assunto nel suo complesso e dunque  comprensivo  della  confisca  per
equivalente, si renda, in quanto di maggior  favore,  applicabile  al
fatto pregresso, ovvero se esso  in  concreto  denunci  un  carattere
maggiormente  afflittivo.  Soltanto  in  quest'ultimo  caso,  la  cui
verificazione spetta al  giudice  a  quo  accertare  e  adeguatamente
motivare,  potrebbe  venire  in  considerazione   un   dubbio   sulla
legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge  n.  62
del  2005,  nella  parte   in   cui   tale   disposizione   prescrive
l'applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il  reo
a una sanzione penale, ai sensi dell'art. 7 della CEDU,  in  concreto
piu' gravosa di quella che sarebbe applicabile  in  base  alla  legge
vigente all'epoca della commissione del fatto». 
    Ripreso il processo  e  discussa  la  causa  all'udienza  del  14
settembre 2017, in vista della  quale  il  ricorrente  ha  depositato
ulteriore  memoria  illustrativa,  con  la  presente   ordinanza   di
rimessione la Corte di Cassazione propone,  nei  termini  di  seguito
precisati, limitandola all'art. 9, comma 6, della  legge  n.  62  del
2005,  reimpostando  il   petitum   e   integrando   la   motivazione
dell'ordinanza di  rinvio  si'  da  eliminare  i  vizi  e  le  lacune
riscontrati  dalla  Corte  costituzionale,  e  che  avevano  impedito
l'esame nel merito del dubbio sollevato. 
 
                         Ritenuto in diritto 
 
    Con il provvedimento sanzionatorio adottato dalla Consob e' stata
applicata, oltre alla  sanzione  amministrativa  pecuniaria  di  euro
1.500.000,00  e  alla  sanzione  accessoria  dell'interdizione  dagli
uffici direttivi per un periodo di sei mesi, la misura della confisca
per equivalente di beni di proprieta' del trasgressore per un  valore
di euro 3.057.951,00, giudicata legittima dalla Corte d'appello. 
    Tra i motivi di ricorso per cassazione vi  e'  la  illegittimita'
dell'applicazione  della  misura  della  confisca  per   equivalente,
introdotta dalla legge n. 62 del 2005, perche'  i  fatti  sono  stati
commessi in epoca anteriore all'entrata in vigore di tale legge. 
    La premessa da cui muove il ricorrente e'  che  la  confisca  per
equivalente abbia natura, non di misura di  sicurezza  con  finalita'
preventive, ma di misura con connotati  sostanzialmente  sanzionatori
afflittivi, sicche' la stessa non potrebbe  trovare  applicazione  se
non con riguardo a illeciti amministrativi commessi dopo  la  entrata
in  vigore  della  legge  n.  62  del  2005;  essa   sarebbe   quindi
inapplicabile nel caso di  specie,  in  quanto  i  fatti  di  insider
trading contestati sono stati commessi nel 2002. 
    Il Collegio esclude di poter giungere gia' in via  interpretativa
a dichiarare l'illegittimita' della misura della confisca. 
    Infatti,  la  pretesa  del  ricorrente  di   affermare   la   non
applicabilita', nel caso di specie, della confisca per equivalente di
cui  all'art.  187-sexies  del  TUF,  trova  un  ostacolo   letterale
insuperabile nella disposizione di cui all'art.  9,  comma  6,  della
legge n. 62 del 2005, il quale prevede espressamente l'applicabilita'
delle disposizioni della parte  V,  titolo  I-bis,  del  testo  unico
approvato con il  d.lgs.  n.  58  del  1998  «anche  alle  violazioni
commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge che
le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale  non  sia
stato definito». 
    Ritiene  questo  giudice  a  quo  che  nondimeno  si  ponga,   in
riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost.,
quest'ultimo in  relazione  all'art.  7  della  CEDU,  un  dubbio  di
legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 6, della legge  n.  62
del 2005, nella parte in cui prevede che la confisca per equivalente,
disciplinata dall'art. 187-sexies del TUF, si applica,  allorche'  il
procedimento penale non sia stato  definito,  anche  alle  violazioni
commesse anteriormente alla data di entrata in  vigore  della  stessa
legge  n.  62  del  2005  -  che  le  ha  depenalizzate  introducendo
l'autonomo  illecito  amministrativo   di   abuso   di   informazioni
privilegiate, configurato ora dall'art. 187-bis del TUF  e  cio'  pur
quando il complessivo trattamento sanzionatorio  generato  attraverso
la  depenalizzazione  sia  in  concreto  meno  favorevole  di  quello
applicabile in base alla legge vigente al momento  della  commissione
del fatto. 
    Occorre premettere che la misura della confisca  per  equivalente
in questione ha un contenuto sostanzialmente afflittivo,  che  eccede
la finalita' di prevenire la commissione  di  illeciti,  perche'  non
colpisce beni in «rapporto di pertinenzialita'» con l'illecito. 
    La giurisprudenza delle Sezioni penali di questa Corte e' univoca
in tal senso con  riferimento  alle  disposizioni  che  prevedono  la
confisca per equivalente quale misura  applicabile  a  seguito  della
commissione di specifici  reati  per  i  quali  la  detta  misura  e'
espressamente prevista. Cass. pen., Sez. II, n.  31988  del  2006  ha
cosi' affermato che, nel caso in cui il delitto di  truffa  aggravata
per il conseguimento di erogazioni pubbliche sia costituito  da  piu'
violazioni commesse prima e dopo l'entrata in vigore della legge  che
ha  previsto  per  detto  reato  l'applicazione  della  confisca  per
equivalente,  questa  misura  puo'   riguardare   esclusivamente   le
violazioni commesse successivamente all'entrata in vigore della legge
stessa. In questa medesima direzione, Cass. pen., Sez. U.,  n.  18374
del 2013 ha affermato che la confisca per equivalente, introdotta per
i reati tributari dall'art. 1, comma 143,  della  legge  n.  244  del
2007, ha natura eminentemente sanzionatoria e,  quindi,  non  essendo
estensibile ad essa la regola dettata  per  le  misure  di  sicurezza
dall'art.  200  cod.  pen.,  non  si  applica   ai   reati   commessi
anteriormente all'entrata in vigore della legge citata. 
    Soprattutto, e' la giurisprudenza della  Corte  costituzionale  a
riconoscere la natura prevalentemente afflittiva e  sanzionatoria  di
questa peculiare forma di confisca. Le ordinanze n. 97 del 2009 e  n.
301 del 2009 hanno infatti affermato che la confisca per  equivalente
prevista 322-ter cod. pen. non puo' avere natura retroattiva, perche'
- «in ragione  della  mancanza  di  pericolosita'  dei  beni  che  ne
costituiscono oggetto, unitamente  all'assenza  di  un  "rapporto  di
pertinenzialita'" (inteso come nesso diretto, attuale e  strumentale)
tra il reato ed i beni» - da'  luogo  a  una  misura  «"eminentemente
sanzionatoria", tale  da  impedire  l'applicabilita'  a  tale  misura
patrimoniale del principio generale della retroattivita' delle misure
di sicurezza, sancito dall'art. 200 cod. pen.».  E  -  con  specifico
riferimento  alla  confisca  per   equivalente   prevista   dall'art.
187-sexies del TUF - la sentenza n. 68 del 2017 ha gia' statuito  che
«[e]ssa si applica a beni che non sono collegati al reato da un nesso
diretto, attuale e strumentale, cosicche' la  privazione  imposta  al
reo  risponde  ad  una  finalita'  di  carattere  punitivo,   e   non
preventivo»,  precisando  che  «lo  stesso  legislatore   si   mostra
consapevole del tratto afflittivo e punitivo proprio  della  confisca
per equivalente, al punto da non prevederne la retroattivita'  per  i
fatti che continuano a costituire reato (art. 187 del  d.lgs.  n.  58
del 1998)». 
    La soluzione, ad avviso del Collegio, non muta in  considerazione
del fatto che, nella specie, la confisca per equivalente e'  prevista
quale sanzione accessoria per un illecito amministrativo. 
    Infatti, alla confisca per equivalente  prevista  per  l'illecito
amministrativo di abuso  di  informazioni  privilegiate  deve  essere
assegnata natura penale ai sensi dell'art. 7 della  CEDU,  in  quanto
essa svolge «con tratti di significativa afflittivita'  una  funzione
punitiva» (Corte cost., sentenza n. 68 del 2017). 
    Del  resto,  le  nozioni  di  sanzione  penale  e   di   sanzione
amministrativa non possono essere desunte, semplicemente,  dal  nomen
iuris utilizzato da  legislatore,  ne'  (dall'autorita'  chiamata  ad
applicarla, ma devono essere  ricavate,  in  concreto,  tenuto  conto
delle finalita' e della portata del precetto sanzionatorio  di  volta
in volta contemplato. La preoccupazione di evitare che singole scelte
compiute  da  taluni   degli   Stati   aderenti   alla   Convenzione,
nell'escludere che un determinato  illecito  ovvero  una  determinata
sanzione  restrittiva   appartengano   all'ambito   penale,   possano
determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che
la CEDU riserva alla materia  penale,  e'  alla  base  dell'indirizzo
interpretativo che, fin dalle sentenze 8 giugno 1976, Engel c.  Paesi
Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk  contro  Germania,  ha  portato  la
Corte di Strasburgo all'elaborazione di propri criteri, in aggiunta a
quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel  diritto
nazionale, al fine di  stabilire  la  natura  penale  o  meno  di  un
illecito  e  della  relativa  sanzione.  Tali  criteri   sono   stati
individuati nella rilevante severita'  della  sanzione,  nell'elevato
importo di questa  inflitto  in  concreto  e  comunque  astrattamente
irrogabile,  nelle  complessive  ripercussioni  sugli  interessi  del
condannato, nella finalita' sicuramente repressiva. 
    E, proprio in applicazione  di  quei  criteri,  la  stessa  Corte
europea (sentenza  307A/1995,  Welch  c.  Regno  Unito)  ha  ritenuto
assistita dalla garanzia dell'art. 7 della Convenzione l'applicazione
di una confisca  di  beni  riconducibile  proprio  ad  un'ipotesi  di
confisca per equivalente; e (sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c.
Italia) ha riconosciuto carattere penale alle  sanzioni  per  insider
trading qualificate dal nostro diritto interno come amministrative. 
    Va inoltre ricordato che la Corte costituzionale, con riferimento
all'applicazione retroattiva di disposizioni che introducono sanzioni
amministrative, ha richiamato, con la sentenza n. 104  del  2014,  il
principio, gia' enunciato dalla sentenza n. 196 del 2010, secondo  il
quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono  essere
soggette alla medesima disciplina  della  sanzione  penale  in  senso
stretto. Si tratta di un principio di derivazione  convenzionale,  ma
desumibile anche dall'art. 25,  secondo  comma,  Cost.:  infatti,  il
precetto costituzionale - data l'ampiezza della  sua  formulazione  -
«puo'   essere   interpretato   nel   senso   che   ogni   intervento
sanzionatorio, il quale non  abbia  prevalentemente  la  funzione  di
prevenzione criminale (e quindi non  sia  riconducibile  -  in  senso
stretto - a vere e  proprie  misure  di  sicurezza),  e'  applicabile
soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente  al  momento
della commissione del fatto sanzionato» (sempre sentenze n.  196  del
2010 e n. 104 del 2014). 
    Deve  inoltre  aggiungersi  che,  come  ha  chiarito   la   Corte
costituzionale (sentenze n. 49 del 2015, n. 68 del 2017 e n. 109  del
2017), le sanzioni che il legislatore costruisce come  amministrative
restano tali nel nostro ordinamento, ma sono ulteriormente  assistite
dalle garanzie previste dall'art. 7 della CEDU ove abbiano  carattere
sostanzialmente penale alla luce  della  Convenzione.  L'adozione  di
criteri sostanziali  per  la  definizione  della  materia  penale  e'
funzionale ad una piu' ampia garanzia dell'individuo: essa  si  muove
infatti «nel segno dell'incremento delle liberta' individuali, e  mai
del loro detrimento (...), come invece potrebbe accadere nel caso  di
un definitivo assorbimento dell'illecito amministrativo nell'area  di
cio' che e' penalmente rilevante» (sentenza n. 68 del 2017). 
    Ad avviso del Collegio,  e'  l'intero  trattamento  sanzionatorio
introdotto   dalla   legge   di   depenalizzazione   per   l'illecito
amministrativo di abuso di informazioni privilegiate di cui al  nuovo
art. 187-bis del  TUF  a  rivestire  natura  sostanzialmente  penale,
integrando  esso  i  caratteri  di  afflittivita'   delineati   dalla
giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  dato
l'elevato importo della sanzione prevista. 
    Ritiene questo giudice a quo che la confisca per equivalente  sia
legittimamente  applicabile  ai   fatti   pregressi   di   abuso   di
informazioni   privilegiate,   senza   dar   luogo   a    dubbi    di
costituzionalita', solo quando il nuovo trattamento sanzionatorio per
l'illecito   depenalizzato,    complessivamente    e    unitariamente
considerato, possa  ritenersi  non  peggiorativo  rispetto  a  quello
precedentemente previsto. 
    Invero,  come  ha  chiarito  la  Corte  costituzionale   con   la
richiamata  sentenza  n.  68  del  2017,  «il  passaggio  dal   reato
all'illecito  amministrativo,  quando  quest'ultimo  conserva  natura
penale   ai   sensi   dell'art.   7   della   Convenzione,   permette
l'applicazione retroattiva del nuovo regime punitivo soltanto  se  e'
piu' mite di quello precedente. In tal caso, infatti, e solo  in  tal
caso, nell'applicazione di una pena sopravvenuta, ma in concreto piu'
favorevole,  non  si  annida  alcuna  violazione   del   divieto   di
retroattivita', ma una scelta in favore del reo». Non  in  ogni  caso
e', quindi, costituzionalmente vietato applicare retroattivamente  la
confisca  per   equivalente.   «Infatti,   qualora   il   complessivo
trattamento sanzionatorio generato  attraverso  la  depenalizzazione,
nonostante la previsione di tale confisca,  fosse  in  concreto  piu'
favorevole di quello applicabile in base  alla  pena  precedentemente
comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a  che  esso  sia
integralmente disposto». 
    Il dubbio di legittimita'  costituzionale  risiede  invece  nella
previsione   di   applicabilita'   -   assoluta,   incondizionata   e
inderogabile  -  della  confisca  per  equivalente,  quand'anche   il
complessivo risultato sanzionatorio risultante dalla riforma  sia  in
concreto meno favorevole per il trasgressore rispetto  a  quello  che
sarebbe applicabile  in  base  alla  legge  vigente  all'epoca  della
commissione del fatto. 
    Al fine di stabilire quale sia il trattamento piu' favorevole  in
tema  di  successione  di  leggi   incriminatrici   nel   tempo,   la
giurisprudenza penale di questa Corte ha enunciato seguenti principi: 
        la  disposizione  piu'  favorevole  deve  essere  individuata
tenendo conto della disciplina nel suo complesso e non di  singoli  e
specifici aspetti della stessa (Cass. pen.,  Sez.  III,  sentenza  n.
14198 del 2016); 
        deve aversi riguardo al complessivo trattamento sanzionatorio
scaturente dall'applicazione della legge  preesistente  o  di  quella
sopravvenuta senza che si possa procedere ad una  combinazione  delle
disposizioni piu'  favorevoli  della  nuova  legge  con  quelle  piu'
favorevoli della vecchia, in quanto cio' comporterebbe  la  creazione
di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella  in
vigore, occorrendo invece applicare integralmente  quella  delle  due
che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla  vicenda  concreta
oggetto di giudizio, piu' vantaggiosa per il reo  (Cass.  pen.,  Sez.
III, n. 23274 del 2004); 
        l'individuazione del regime di  maggior  favore  per  reo  ai
sensi  dell'art.  2  cod.  pen.  deve  essere  operata  in  concreto,
comparando le diverse discipline sostanziali  succedutesi  nel  tempo
(Cass. pen., Sez. IV, n. 49754 del 2014). 
    Va precisato che principio dell'efficacia retroattiva della norma
sopravvenuta piu' favorevole  implica  che,  qualora  questa  sia  in
concreto meno favorevole, debba applicarsi la  precedente,  ancorche'
non  piu'  in  vigore.  Cio'  non  puo'  accadere  nel   caso   della
depenalizzazione,  perche'  all'autorita'   amministrativa   non   e'
consentito in alcun modo applicare la sanzione penale,  anche  se  in
ipotesi   piu'   favorevole   rispetto   a   quella    amministrativa
(sostanzialmente penale). 
    Inoltre,  il  giudice  penale,  in  presenza  di  un'ipotesi   di
successione  di  leggi  penali  nel  tempo,  nell'individuare   quale
trattamento in concreto si  presenti  piu'  favorevole,  deve  tenere
conto di tutti gli istituti  propri  del  diritto  penale,  quali  la
sospensione  condizionale  della  pena,  la  conversione  della  pena
detentiva in pena pecuniaria, l'indulto, la prescrizione del reato. 
    Nel  caso  in  esame,  pertanto,  il  confronto  tra  le  diverse
discipline non puo' che assumere un carattere peculiare,  trattandosi
di  ordinamenti  sanzionatori  diversi,  l'uno   penale   e   l'altro
amministrativo, che possono essere  posti  sullo  stesso  piano  solo
perche' il secondo va considerato sostanzialmente penale alla stregua
della convenzione EDU. 
    Ora,  ponendo  a  raffronto  i   due   quadri   sanzionatori   in
successione, emerge quanto segue. 
    Il complessivo trattamento sanzionatorio per il delitto di  abuso
di informazioni privilegiate, previsto al momento  della  commissione
del fatto dall'art.  180  del  d.lgs.  n.  58  del  1998,  era  della
reclusione fino a due  anni,  congiunta  con  la  multa  da  venti  a
seicento milioni di lire, cui doveva aggiungersi la confisca soltanto
in forma diretta. 
    La condanna,  inoltre,  ai  sensi  ai  sensi  dell'art.  182  del
medesimo d.lgs. n. 58 del 1998 (allora  vigente),  comportava  sempre
l'applicazione delle pene accessorie previste dagli articoli 28,  30,
32-bis e 32-ter cod. pen. per una durata non inferiore a sei  mesi  e
non superiore a due anni, nonche' la pubblicazione della sentenza  su
almeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale. 
    Era  prevista,  inoltre,  la  possibilita'  per  il  giudice   di
aumentare  la  multa  fino  al  triplo  quando,  per   la   rilevante
offensivita'  del  fatto,  le  qualita'  personali  del  colpevole  o
l'entita' del profitto che ne era derivato, essa appariva  inadeguata
anche se applicata nel massimo. 
    Il trattamento sanzionatorio di cui all'art. 9 della legge n.  62
del 2005 consiste, invece, nella sanzione  amministrativa  pecuniaria
da euro ventimila a euro tre milioni  di  cui  all'art.  187-bis  del
d.lgs. n. 58 del  1998  (non  potendosi  tener  conto  dell'ulteriore
modifica apportata dall'articolo 39, comma 3, della legge n. 262  del
2005 che ha quintuplicato la sanzione). 
    Anche in questo caso il comma 5 del citato art.  187-bis  prevede
che le sanzioni possano essere aumentate fino al  triplo  o  fino  al
maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto  conseguito
dall'illecito quando, per le qualita' personali del colpevole  ovvero
per l'entita' del prodotto o del profitto  conseguito  dall'illecito,
esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo. 
    Inoltre ai sensi dell'art. 187-quater del d.lgs. n. 58  del  1998
sono previste le sanzioni  amministrative  accessorie  della  perdita
temporanea dei requisiti di onorabilita' per gli esponenti  aziendali
ed i partecipanti al capitale dei soggetti abilitati, delle  societa'
di gestione del  mercato,  nonche'  per  i  revisori  e  i  promotori
finanziari e,  per  gli  esponenti  aziendali  di  societa'  quotate,
dell'incapacita' temporanea ad assumere incarichi di amministrazione,
direzione e controllo nell'ambito di societa' quotate e  di  societa'
appartenenti al medesimo gruppo di societa' quotate  per  una  durata
non inferiore a due mesi e non superiore a tre anni. 
    Infine, ai sensi del  successivo  art.  187-sexies,  e'  prevista
l'ulteriore sanzione accessoria della confisca  del  prodotto  o  del
profitto dell'illecito e  dei  beni  utilizzati  per  commetterlo  e,
qualora non sia possibile eseguire  tale  confisca,  la  stessa  puo'
avere ad oggetto somme di denaro, beni o  altre  utilita'  di  valore
equivalente. 
    Nei fenomeni di depenalizzazione finora non si e'  mai  posto  il
problema dell'applicabilita' del principio  di  retroattivita'  della
norma piu' favorevole: 
        essendosi, da un lato, sempre ritenuto che tale principio non
trovi applicazione nel campo delle sanzioni amministrative, ai  sensi
dell'art. 1 della legge n. 689 del 1981, e presumendosi,  dall'altro,
che trattamento sanzionatorio successivo, per la  sua  stessa  natura
amministrativa, sia sempre da considerare piu' favorevole rispetto  a
quello precedente, avente natura penale. 
    Anche in questo caso, con l'art. 9, comma 6, della  legge  n.  62
del 2005, il legislatore ordinario muove  dalla  presunzione  che  la
sanzione amministrativa sia sempre piu' favorevole di quella  penale,
perche'  soltanto  quest'ultima  ha  un  contenuto  stigmatizzante  e
normalmente ha o puo' avere un'incidenza sulla liberta' personale. 
    Ma si tratta di una postulato che non e' esatto  in  assoluto,  e
che non lo e' nell'ipotesi all'esame del Collegio rimettente. 
    L'affermazione secondo la quale la  pena  detentiva  deve  sempre
considerarsi come piu' gravosa rispetto  a  quella  pecuniaria  trova
significative eccezioni nei casi in cui la stessa pena detentiva  non
possa  essere  eseguita  per  effetto  dell'applicazione   di   altri
istituti, come, ad esempio, la sospensione condizionale della pena ex
art. 163 e ss. cod. pen. Secondo la giurisprudenza di  questa  Corte,
infatti, in tema di successione di  leggi  penali,  con  riguardo  ai
reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (nella specie si
trattava del delitto di lesioni), non puo' applicarsi il  trattamento
sanzionatorio previsto dall'art. 52  del  d.lgs.  n.  274  del  2000,
ancorche' in linea di principio piu' favorevole,  qualora  sia  stata
concessa  la  sospensione  condizionale  della  pena,  in  quanto  il
successivo art. 60,  escludendo  esplicitamente  la  concessione  del
beneficio della pena sospesa, rende in concreto le nuove disposizioni
meno favorevoli all'imputato (Cass. pen., Sez. V, n. 7215  del  2006;
Cass. pen., Sez. V, n. 46793 del 2004). 
    Deve  precisarsi  che,  nella  specie,  non  emerge  dagli   atti
l'esistenza di situazioni impeditive della concessione, in favore del
ricorrente, della sospensione condizionale della pena. 
    Dunque, nei suoi confronti, la pena  detentiva  di  due  anni  di
reclusione era ragionevolmente destinata a rimanere  condizionalmente
sospesa, e quindi non eseguita, o, qualora fosse rimasta  nel  limite
di sei mesi, ad essere convertita in pena pecuniaria  in  una  misura
estremamente  ridotta  (secondo  il  criterio  di  ragguaglio  allora
vigente). 
    Inoltre il ricorrente avrebbe potuto beneficiare dell'indulto  di
cui alla legge n. 241 del 2006. 
    Tutto cio' premesso, dal punto di vista  del  ricorrente,  se  si
guarda alla reale carica di afflittivita' della sanzione, e'  agevole
rendersi conto che questi si e' vista sottratta  la  possibilita'  di
usufruire del beneficio della  sospensione  condizionale  della  pena
(che si estende anche alle pene accessorie), della conversione  della
pena detentiva in pena pecuniaria (che avrebbe portato ad  una  multa
inferiore perfino rispetto a quella inflittagli con la sola  sanzione
amministrativa pecuniaria applicata in via  principale,  senza  tener
conto  della  ulteriore  sanzione  accessoria  della   confisca   per
equivalente),  e  dell'indulto;  soprattutto,  alla  fattispecie  non
sarebbe stata applicabile la sanzione accessoria della  confisca  per
equivalente ex art. 186-sexies del TUF. 
    Nei suoi confronti, dunque, l'applicazione della sanzione  penale
in concreto sarebbe stata  piu'  favorevole  rispetto  alla  sanzione
pecuniaria amministrativa irrogata, oggetto di certa riscossione,  di
ammontare  massimo  notevolmente  superiore  e,  si  ribadisce,   con
l'aggiunta di una sanzione accessoria del tutto nuova,  imprevedibile
ed estremamente gravosa quale quella della confisca  per  equivalente
per un valore pari a euro 3.057.951,00. 
    Per il  trasgressore  incensurato,  pertanto,  l'applicazione  ai
fatti pregressi della nuova ipotesi della  confisca  per  equivalente
determina un trattamento sanzionatorio per  l'illecito  depenalizzato
complessivamente piu' sfavorevole. 
    Questa  valutazione  trova  conferma   nel   trattamento   penale
applicato al concorrente nel reato, E. G., insider primario, il quale
ha riferito la notizia privilegiata all'odierno ricorrente. 
    Come risulta  dalla  documentazione  prodotta  dalla  difesa  del
ricorrente   -   ammissibile   in   quanto    rilevante    ai    fini
dell'individuazione in concreto del trattamento piu' favorevole -  G.
e' stato condannato con sentenza  del  Tribunale  di  Milano  del  25
ottobre 2006 alla pena della reclusione di sei mesi e al pagamento di
euro 100.000 di multa con pena sospesa.  Questa  pronuncia  e'  stata
parzialmente riformata dalla  Corte  d'appello  di  Milano  che,  con
sentenza pronunciata in data  12  novembre  2007  sull'accordo  delle
parti, ritenuta la continuazione tra i fatti oggetto del  giudizio  e
altri reati giudicati con pregressa sentenza della Corte d'appello di
Brescia irrevocabile dal 10 luglio  2006,  ha  rideteminato  la  pena
complessiva a suo carico in euro 140.520  di  multa,  ferma  la  pena
accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici  e  dagli
uffici direttivi delle persone  giuridiche  e  della  incapacita'  di
contrattare con la pubblica amministrazione per un anno e  due  mesi.
La pena e' stata calcolata partendo da una pena base di mesi  sei  di
reclusione - reclusione convertita, ai sensi dell'art. 53,  legge  n.
689 del 1981, in 6.840 euro di multa e aumentata fino ad euro 20.520,
pari al triplo della pena convertita ex artt. 133-bis cod. pen.,  53,
secondo comma, della legge n. 689 del 1981 e 180, comma 4, d.lgs.  n.
58 del 1998 - ed euro 120.000 di multa. La  stessa  Corte  d'appello,
successivamente, in sede di incidente di esecuzione,  ha  ridotto  la
suddetta pena a 10.000 euro di multa, in applicazione dell'indulto di
cui alla legge n. 241 del 2006. 
    Pertanto,    il     complessivo     trattamento     sanzionatorio
dell'originario concorrente nel reato, E.  G.,  si  e'  concretizzato
nella complessiva multa  di  euro  10.000,  nonostante  questi  fosse
l'insider primario, la cui condotta doveva ritenersi  necessariamente
piu' grave di quella del ricorrente, tanto da  continuare  ad  essere
penalmente rilevante. 
    La Consob,  invece,  all'esito  del  procedimento  sanzionatorio,
ritenuta sussistente la violazione di cui all'art. 187-bis del d.lgs.
n. 58 del 1998, ha applicato al ricorrente la sanzione amministrativa
pecuniaria   di   euro   1.500.000,00,   la    sanzione    accessoria
dell'interdizione degli uffici direttivi per un periodo di  sei  mesi
ex art. 187-quater del d.lgs. n.  58  del  1998,  nonche',  ai  sensi
dell'art.  187-sexies  del  medesimo   decreto,   la   confisca   per
equivalente  di  beni  di  sua  proprieta'  per  un  valore  di  euro
3.057.951,00. 
    A parere di questo collegio cio' che risulta determinante ai fini
della valutazione di maggiore gravosita'  e'  proprio  l'applicazione
retroattiva della sanzione accessoria della confisca per  equivalente
ex art. 186-sexies, d.lgs. n. 58 del 1998, sanzione  non  prevista  e
non prevedibile al momento della consumazione dell'illecito. 
    Tale   sanzione   accessoria,   infatti,   determina   una   tale
sproporzione nella pena complessivamente inflitta, rispetto a  quella
che sarebbe scaturita  dall'applicazione  del  citato  art.  180  del
d.lgs. n. 58 del 1998,  da  rappresentare  l'elemento  che  rende  in
concreto   maggiormente   afflittivo   il   complessivo   trattamento
sanzionatorio derivante dalla legge di depenalizzazione. 
    In altri termini, dubbio di legittimita'  costituzionale  risiede
nel  fatto  che  la  previsione   dell'applicabilita'   -   in   modo
incondizionato, inderogabile e non graduabile -  della  confisca  per
equivalente rende complessivo risultato sanzionatorio previsto  dalla
riforma, in concreto, meno favorevole per il trasgressore. 
    A parere del Collegio, una volta eliminata  l'applicazione  della
confisca per equivalente ai fatti antecedenti la sua introduzione, il
trattamento sanzionatorio amministrativo  (anche  se  nella  sostanza
penale) che residua, riacquista quella valenza complessiva di maggior
favore naturalmente correlata alle sanzioni amministrative rispetto a
quelle corrispondenti penali. 
    Va  poi  escluso  che  possa  attribuirsi  valore  di   principio
generale, immanente alla disciplina  di  qualunque  depenalizzazione,
alla disposizione recata dall'art. 8, comma 3, del d.lgs. 15  gennaio
2016, n. 8 (il quale recita: «Ai fatti commessi prima della  data  di
entrata in vigore del presente decreto non puo' essere applicata  una
sanzione  amministrativa  pecuniaria  per  un  importo  superiore  al
massimo della pena originariamente: inflitta  per  il  reato,  tenuto
conto del criterio di ragguaglio di cui all'articolo 135  del  codice
penale. A tali fatti non  si  applicano  le  sanzioni  amministrative
accessorie introdotte dal  presente  decreto,  salvo  che  le  stesse
sostituiscano corrispondenti pene accessorie.»). 
    Al riguardo il Collegio osserva  che  non  vi  sono  ragioni  per
ritenere che tale disposizione - che detta la disciplina  transitoria
della depenalizzazione recata dal d.lgs. n. 8 del 2016 -  esprima  un
principio  di  carattere  generale  idoneo  a  fungere   da   tertium
comparationis  nel  vaglio  di  legittimita'   costituzionale   delle
difformi discipline transitorie dettate da altre, e precedenti, leggi
di depenalizzazione. 
    Cio' posto, va considerato che la comparazione  tra  la  sanzione
penale e quella amministrativa non puo'  risolversi  in  una  stretta
equiparazione quantitativa, in  quanto  la  sanzione  penale  ha  una
pluralita' di effetti negativi, incidendo  con  forza  peculiare  non
soltanto sulla liberta', ma anche sul  complessivo  profilo  pubblico
della persona, segnandolo  con  lo  «stigma»  del  disvalore  sociale
derivante da una sentenza  di  condanna  del  giudice  penale  (basti
pensare   al   rilievo,   anche   pratico,   della   condizione    di
incensuratezza). 
    Nel caso dell'insider  secondario,  dunque,  la  sanzione  penale
risulterebbe   in   concreto   meno   favorevole    della    sanzione
amministrativa pecuniaria, pur quantitativamente  piu'  elevata,  ove
quest'ultima  non  risultasse  accompagnata  anche   dalla   sanzione
accessoria della confisca per equivalente. 
    Di qui la sollevata questione di legittimita' costituzionale,  in
riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 117, primo comma, Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 7 della CEDU, dell'art.  9,  comma
6, della  legge  n.  62  del  2005,  nella  parte  in  cui  prescrive
l'applicazione della confisca di  valore  e  assoggetta  pertanto  il
trasgressore a una sanzione penale in concreto piu' gravosa di quella
che sarebbe applicabile in base alla legge  vigente  all'epoca  della
commissione del fatto. 
    Ad avviso del Collegio,  il  contrasto  con  l'art.  3  Cost.  si
profila in riferimento al principio di ragionevolezza, per eccesso di
contenuto sanzionatorio  rispetto  allo  scopo  della  retroattivita'
della  nuova  disciplina  sanzionatoria,  che  era  di  evitare   che
rimanessero impunite, nella fase transitoria della  depenalizzazione,
condotte comunque illecite, laddove l'aggiunta  della  retroattivita'
della  confisca   per   equivalente   costituisce   un   aggravamento
sproporzionato non destinato a trovare la propria giustificazione nel
riempimento del vuoto punitivo. 
    Secondo questo giudice  a  quo,  la  norma  denunciata  contrasta
inoltre con l'art. 25, secondo  comma,  Cost.  Infatti,  in  base  al
precetto costituzionale, ogni intervento sanzionatorio e' applicabile
soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente  al  momento
della commissione del fatto sanzionato.  Invece,  il  legislatore  ha
imposto di applicare retroattivamente  la  confisca  per  equivalente
solo  perche'  si  riferisce   a   un   illecito   qualificato   come
amministrativo   nell'ordinamento   interno,   mentre,   nel   regime
transitorio, avrebbe potuto consentirne l'applicazione  -  versandosi
in un'ipotesi di depenalizzazione accompagnata  dall'introduzione  di
un corrispondente illecito amministrativo -  soltanto  ove  la  nuova
sanzione completi un trattamento  sanzionatorio  nel  complesso  piu'
mite della pena prevista per l'originario reato. 
    Infine, il dubbio  di  non  manifesta  infondatezza  sussiste  in
riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7
della convenzione  europea,  perche'  la  norma  censurata  prescrive
l'applicazione retroattiva della confisca per  equivalente  -  «pena»
secondo la CEDU, e quindi ricompresa nel nucleo delle garanzie che la
convenzione riconosce all'individuo in materia penale - anche qualora
il   complessivo    trattamento    sanzionatorio    per    l'illecito
amministrativo  sia  meno  favorevole  in  concreto  del   precedente
trattamento sanzionatorio applicabile al reato. 
    La questione sollevata e' rilevante ai fini della definizione del
ricorso per cassazione. 
    Innanzitutto perche' l'impugnato art. 9, comma 6, della n. 62 del
2005 e' la norma applicabile nel processo. I motivi  di  ricorso  per
cassazione    investono,    infatti,    anche     la     legittimita'
dell'applicazione retroattiva della confisca per  equivalente  ad  un
fatto di abuso di informazioni privilegiate commesso nel 2002, ed  e'
appunto la norma censurata a prevedere l'applicazione di tale  misura
anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata  in
vigore della legge di depenalizzazione. 
    In   secondo   luogo   perche'   dall'esito   del   giudizio   di
costituzionalita' dipende la sorte di alcuni dei motivi  del  ricorso
per cassazione. 
    Infine, la sussistenza dell'illecito deve, nel presente giudizio,
ritenersi prima facie non  adeguatamente  contestata  dal  ricorrente
quanto all'accertamento in fatto svolto dalla Corte  d'appello  e  la
conclusione alla quale essa e' pervenuta circa la natura privilegiata
delle informazioni utilizzate.