ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito dell'attivita' di intercettazione  telefonica  svolta
nell'ambito di un procedimento penale pendente dinanzi  alla  Procura
della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, effettuata
su utenza di altra persona, nel corso della quale sono state  captate
conversazioni  del  Presidente   della   Repubblica,   promosso   dal
Presidente della Repubblica, con ricorso notificato il  24  settembre
2012, depositato in cancelleria il 26 settembre 2012 ed  iscritto  al
n. 4 del registro conflitti tra poteri  dello  Stato  2012,  fase  di
merito. 
    Visto l'atto di costituzione  del  Procuratore  della  Repubblica
presso il Tribunale ordinario di Palermo; 
    uditi  nell'udienza  pubblica  del  4  dicembre  2012  i  Giudici
relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo; 
    uditi gli avvocati dello Stato Michele Giuseppe Dipace, Gabriella
Palmieri e Antonio Palatiello per il Presidente  della  Repubblica  e
gli avvocati Giovanni Serges, Mario Serio e Alessandro  Pace  per  il
Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale  ordinario   di
Palermo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ricorso depositato il 30 luglio 2012, il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, rappresentato e difeso dall'Avvocatura
generale dello Stato, ha  sollevato  conflitto  di  attribuzione  tra
poteri dello Stato, «per violazione  degli  articoli  90  e  3  della
Costituzione  e  delle  disposizioni  di  legge  ordinaria   che   ne
costituiscono attuazione» - in particolare, l'art. 7  della  legge  5
giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali  e  di
reati previsti  dall'articolo  90  della  Costituzione),  «anche  con
riferimento all'art. 271  del  codice  di  procedura  penale»  -  nei
confronti  del  Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale
ordinario di Palermo, in relazione all'attivita'  di  intercettazione
telefonica,  svolta  riguardo  alle   utenze   di   persona   diversa
nell'ambito di un procedimento penale pendente a Palermo,  nel  corso
della quale  sono  state  captate  conversazioni  intrattenute  dallo
stesso Presidente della Repubblica. 
    1.1.- Il ricorrente riferisce che, con nota del 27  giugno  2012,
l'Avvocato generale dello Stato, su mandato del Segretariato generale
della Presidenza della Repubblica, aveva chiesto al  dott.  Francesco
Messineo,  Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale   di
Palermo, «una conferma o una  smentita»  di  quanto  risultava  dalle
dichiarazioni rese dal sostituto Procuratore Antonino Di  Matteo  nel
corso di un'intervista pubblicata dal quotidiano «La Repubblica»  del
22 giugno 2012: che erano state  intercettate,  cioe',  conversazioni
telefoniche del Presidente della Repubblica, considerate  allo  stato
irrilevanti, ma che la Procura si sarebbe riservata di utilizzare. 
    Con nota del 6 luglio 2012, il  Procuratore  della  Repubblica  -
allegando la missiva del giorno precedente, con la quale il dott.  Di
Matteo  aveva  rappresentato  che,  in  risposta   ad   una   domanda
«assolutamente  generica»  dell'intervistatore  sulla   sorte   delle
intercettazioni effettuate, egli si era limitato «all'ovvio  richiamo
alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo  degli
esiti  delle  attivita'  di  intercettazione  telefonica»   -   aveva
comunicato che la Procura di  Palermo,  «avendo  gia'  valutato  come
irrilevante  ai  fini   del   procedimento   qualsivoglia   eventuale
comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato, non  ne
prevede[va] alcuna  utilizzazione  investigativa  o  processuale,  ma
esclusivamente la distruzione da effettuare  con  l'osservanza  delle
formalita' di legge». 
    Con successiva nota, diffusa il 9  luglio  2012,  e  con  lettera
pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» l'11 luglio 2012, il  dott.
Messineo aveva ulteriormente affermato che «nell'ordinamento  attuale
nessuna  norma  prescrive  o  anche  soltanto  autorizza  l'immediata
cessazione dell'ascolto e della registrazione, quando, nel  corso  di
una  intercettazione  telefonica  legittimamente  autorizzata,  venga
casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad
intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva  essere
disposta alcuna intercettazione». Si aggiungeva dal Procuratore  che,
«in  tali  casi,  alla  successiva  distruzione  della  conversazione
legittimamente ascoltata  e  registrata  si  procede  esclusivamente,
previa valutazione della irrilevanza della  conversazione  stessa  ai
fini del procedimento e con la  autorizzazione  del  Giudice  per  le
indagini preliminari, sentite le parti. Cio' e' quanto  prevedono  le
piu' elementari norme dell'ordinamento [...]». 
    1.2.- Ad avviso del ricorrente, la  tesi  del  Procuratore  della
Repubblica non sarebbe condivisibile, in quanto, alla luce  dell'art.
90 Cost. e dell'art. 7 della legge n. 219 del 1989 - salvi i casi  di
alto tradimento e di attentato alla Costituzione e con l'applicazione
del regime previsto dalle  norme  che  disciplinano  il  procedimento
d'accusa - le intercettazioni delle conversazioni  cui  partecipa  il
Presidente della Repubblica, ancorche' «indirette» od  «occasionali»,
dovrebbero ritenersi assolutamente vietate. Di conseguenza, esse  non
potrebbero essere in alcun modo valutate,  utilizzate  e  trascritte,
dovendo  il  pubblico  ministero  chiederne  al  giudice  l'immediata
distruzione. 
    L'art. 90 Cost. stabilisce, infatti,  che  «il  Presidente  della
Repubblica non e' responsabile  degli  atti  compiuti  nell'esercizio
delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento  o  per  attentato
alla Costituzione», aggiungendo che «in tali casi e' messo  in  stato
di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei
propri membri». L'immunita' in tal modo accordata al  Presidente  non
consisterebbe  solo  in  una  irresponsabilita'  giuridica   per   le
conseguenze penali, amministrative e civili  eventualmente  derivanti
dagli atti tipici compiuti  nell'esercizio  delle  sue  funzioni,  ma
anche in una irresponsabilita' politica, diretta a garantire la piena
liberta' e la sicurezza di tutte  le  modalita'  di  esercizio  delle
attribuzioni presidenziali. Lungi dal  costituire  un  «inammissibile
privilegio», legato ad esperienze ormai  definitivamente  superate  e
tale da incrinare il principio dell'eguaglianza dei cittadini davanti
alla  legge,  l'immunita'  in  questione   risulterebbe   strumentale
all'espletamento degli altissimi compiti che la Costituzione  demanda
al Presidente della Repubblica, nella sua veste di Capo dello Stato e
di rappresentante dell'unita' nazionale, intesi ad assicurare in modo
imparziale, insieme  agli  altri  organi  di  garanzia,  il  corretto
funzionamento del sistema istituzionale e la tutela  degli  interessi
permanenti  della  Nazione.  La   previsione   dell'art.   90   Cost.
rappresenterebbe,  in  questa  prospettiva,  anche  un  limite   alle
attribuzioni degli altri  poteri  dello  Stato,  le  quali,  ove  non
correttamente esercitate, menomerebbero le prerogative presidenziali. 
    Sarebbe,  in  pari  tempo,  del  tutto   evidente   come,   nello
svolgimento  dei  predetti  compiti,  debba   essere   garantito   al
Presidente della Repubblica «il massimo di liberta' di  azione  e  di
riservatezza», anche perche' alcune delle attivita' che egli pone  in
essere nel perseguimento delle finalita' istituzionali  -  e  di  non
poco significato - «non hanno un carattere formalizzato». 
    La conseguente  impossibilita'  che  vengano  posti  limiti  alla
liberta' di comunicazione del Capo dello Stato,  anche  da  parte  di
altra   autorita',   risulterebbe   confermata   dall'interpretazione
sistematica delle norme di legge ordinaria  che,  in  attuazione  dei
principi costituzionali, disciplinano la  posizione  del  Presidente.
L'art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 - disposizione che, in
quanto contenuta in una fonte legislativa  dichiaratamente  volta  ad
attuare l'art. 90 Cost., assumerebbe  un  «ruolo  integrativo»  della
norma costituzionale - vieta infatti, in modo assoluto,  di  disporre
l'intercettazione di conversazioni telefoniche o di  altre  forme  di
comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica,  se  non
dopo che la Corte costituzionale ne  abbia  disposto  la  sospensione
dalla carica. Il divieto e' sancito con riferimento ai  reati  per  i
quali, in base all'art. 90 Cost., il Presidente puo' essere messo  in
stato di accusa (alto tradimento e attentato alla  Costituzione).  Ma
se, in questi casi, vi e'  un  divieto  assoluto  di  intercettazione
«diretta» fin quando il Presidente e' in carica,  sarebbe  «naturale»
che sussista un divieto, altrettanto assoluto, di intercettare e,  se
del caso, di utilizzare le comunicazioni presidenziali anche  qualora
captate  in  modo  indiretto  o  casuale,  trattandosi  di  attivita'
egualmente idonea a ledere la sua sfera di immunita'. 
    Sarebbe poi altrettanto  evidente  che  il  divieto  assoluto  di
ricorso al controllo delle comunicazioni  telefoniche,  enunciato  in
rapporto ai reati presidenziali, debba estendersi, nel silenzio della
legge, ad altre fattispecie di reato che  possano  a  diverso  titolo
coinvolgere il  Presidente.  A  maggior  ragione  dovrebbe  ritenersi
inammissibile  l'utilizzazione  di  sue  conversazioni   intercettate
occasionalmente nel corso di indagini concernenti reati  addebitabili
a terzi, come e' avvenuto nel caso in esame. 
    1.3.- In conclusione, il divieto di intercettazione riguarderebbe
anche  le  cosiddette   intercettazioni   «indirette»   o   «casuali»
effettuate mentre il Presidente della Repubblica e'  in  carica:  con
l'immediata   conseguenza   che   i   risultati   delle    captazioni
eventualmente intervenute non potrebbero essere comunque  utilizzati,
dovendo la relativa documentazione essere immediatamente distrutta in
applicazione dell'art. 271  cod.  proc.  pen.  Varrebbero  infatti  a
fortiori,  per  il  Capo  dello  Stato,  le  tutele   stabilite   per
l'intercettazione delle comunicazioni del difensore  (art.  103  cod.
proc. pen.): segnatamente,  il  divieto  assoluto  di  utilizzazione,
essendosi di fronte ad un atto eseguito «fuori  dei  casi  consentiti
della legge». 
    Con riguardo  all'illegittima  captazione  di  conversazioni  del
Presidente  non  sarebbero  applicabili,  dunque,  ne'  la  procedura
prevista dall'art. 268, commi 4 e seguenti, cod. proc. pen. (deposito
della  documentazione  nella  segreteria  del   pubblico   ministero;
facolta' di esame della stessa da parte dei difensori;  acquisizione,
ad opera del giudice per le indagini preliminari, delle conversazioni
indicate dalle parti che  appaiano  non  manifestamente  irrilevanti;
stralcio delle  conversazioni  di  cui  e'  vietata  l'utilizzazione;
inserimento  nel   fascicolo   della   documentazione   acquisita   e
possibilita' per le parti di estrarre copia delle registrazioni), ne'
le disposizioni dell'art. 269  cod.  proc.  pen.  (conservazione  dei
verbali e delle registrazioni fino alla sentenza non piu' soggetta  a
impugnazione; udienza camerale per la  distruzione,  a  tutela  delle
riservatezza  degli  interessati   e   su   loro   richiesta,   delle
registrazioni  e  dei  verbali  la  cui  conservazione  non   risulti
necessaria ai fini del  procedimento),  ne',  ancora,  la  previsione
dell'art. 270 cod. proc.  pen.  (utilizzazione  dei  risultati  delle
intercettazioni in procedimenti diversi, secondo le prescrizioni  del
citato art. 268). 
    Egualmente inapplicabile sarebbe l'art. 6 della legge  20  giugno
2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione  dell'articolo  68  della
Costituzione nonche' in materia  di  processi  penali  nei  confronti
delle alte cariche dello Stato), che  disciplina  le  intercettazioni
indirette o casuali di conversazioni o comunicazioni  di  membri  del
Parlamento. Alla luce  della  normativa  costituzionale  e  ordinaria
richiamata  in  precedenza,  la  posizione   del   Presidente   della
Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del  parlamentare:  solo
il secondo, infatti, puo' essere  sottoposto  ad  intercettazione  da
parte del giudice ordinario, previa autorizzazione  della  Camera  di
appartenenza; correlativamente, al  solo  parlamentare  si  riferisce
l'art.  6  della   legge   n.   140   del   2003,   quando   richiede
un'autorizzazione    «successiva»    per    l'utilizzazione     delle
intercettazioni   casuali.   Con   riguardo   alle    intercettazioni
occasionalmente effettuate nel corso di indagini svolte nei confronti
di altri soggetti, la tutela del parlamentare risponderebbe,  d'altra
parte, ad una ratio diversa da quella  della  tutela  del  Presidente
della Repubblica. Rispetto a quest'ultimo, detta  ratio  risiederebbe
nella protezione della funzione; per il parlamentare,  invece,  nella
sola salvaguardia della sua riservatezza, che - come  rilevato  dalla
Corte costituzionale  nella  sentenza  n.  390  del  2007  -  sarebbe
ingiustificato differenziare da quella di qualunque altro  cittadino,
non  essendo  in  tal  caso  configurabile  un  pregiudizio  per   la
funzionalita'  della  Camera  di  appartenenza,   unico   presupposto
dell'autorizzazione prevista dall'art. 68 Cost. 
    Rispetto  all'intercettazione  di  conversazioni  del  Presidente
della Repubblica, in definitiva, non avrebbe senso porsi il  problema
di una loro eventuale utilizzazione nel procedimento in  corso  o  in
altri procedimenti, a carico o in difesa di diversi soggetti, poiche'
cio' vanificherebbe  comunque  la  garanzia  funzionale  riconosciuta
negli articoli da 87 a 90 della Costituzione; ne' assumerebbe rilievo
la distinzione tra  intercettazioni  dirette,  indirette  o  casuali,
trattandosi di concetti che trovano il loro fondamento  nella  citata
legge n. 140 del 2003 - insuscettibile di applicazione  analogica  al
Capo dello Stato - e che presuppongono, altresi', l'esistenza  di  un
organo competente al rilascio  di  una  autorizzazione  preventiva  o
successiva. 
    1.4.-  Alla  stregua  delle  considerazioni  che  precedono,   si
dovrebbe conclusivamente ritenere che la Procura della Repubblica  di
Palermo abbia fatto un uso non corretto dei propri poteri, menomando,
con cio', le prerogative del ricorrente. Queste ultime risulterebbero
lese, in specie, dall'avvenuta  registrazione  delle  intercettazioni
«nelle quali era casualmente e indirettamente coinvolto il Presidente
della Repubblica»; dalla permanenza della relativa documentazione tra
gli atti del procedimento; dal fatto che ne  sia  stata  valutata  la
rilevanza ai fini di  una  eventuale  utilizzazione  investigativa  o
processuale, e - soprattutto - dal manifestato intento della  Procura
di attivare un'udienza secondo le modalita'  indicate  dall'art.  268
cod. proc. pen.,  per  ottenerne  l'acquisizione  o  la  distruzione:
procedura  che  -  anche  in   ragione   dell'instaurazione   di   un
contraddittorio sul punto - aggraverebbe  gli  effetti  lesivi  delle
precedenti condotte, rendendoli definitivi. 
    Il ricorrente, pertanto, chiede alla Corte di dichiarare che  non
spetta alla Procura  di  Palermo  «omettere  l'immediata  distruzione
delle  intercettazioni  telefoniche  casuali  di  conversazioni   del
Presidente della Repubblica», delle quali si discute,  ne'  valutarne
la «(ir)rilevanza», offrendole alla «udienza  stralcio»  disciplinata
dall'art. 268 cod. proc. pen. 
    2.- Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile dalla Corte  con
ordinanza n. 218 del 2012, «impregiudicata ogni ulteriore  e  diversa
determinazione, anche in relazione  alla  stessa  ammissibilita'  del
ricorso». 
    Con ordinanza istruttoria del 19 settembre 2012, la stessa  Corte
- ritenendo  gia'  da  quel  momento  necessaria  la  cognizione  dei
relativi elementi - ha disposto che la Procura di Palermo,  entro  il
termine  di  venti  giorni  dalla  comunicazione  del  provvedimento,
indicasse il numero e la data delle intercettazioni di  comunicazioni
telefoniche del Presidente della  Repubblica  effettuate  nell'ambito
del procedimento in questione, e che  trasmettesse,  altresi',  copia
integrale  ed  autentica  delle  richieste  e  dei  provvedimenti  di
autorizzazione, compresi gli  eventuali  decreti  di  proroga,  delle
intercettazioni eseguite nell'ambito  del  citato  procedimento,  dei
relativi verbali e delle eventuali relazioni di polizia  giudiziaria,
con esclusione delle parti relative al contenuto delle  conversazioni
cui avesse partecipato il Capo dello Stato. Adempimenti, questi,  che
sono stati tempestivamente effettuati. 
    Con decreto in pari data, il Presidente della Corte ha,  inoltre,
disposto che tutti i termini del procedimento  fossero  ridotti  alla
meta'. 
    3.- Si e' costituita nel giudizio  la  Procura  della  Repubblica
presso  il  Tribunale  ordinario  di  Palermo,  nella   persona   del
Procuratore della Repubblica, dott. Francesco Messineo, chiedendo che
il ricorso sia dichiarato inammissibile o,  in  subordine,  rigettato
nel merito. 
    3.1.-  In  via  preliminare,  la  resistente  descrive  in   modo
analitico il  contesto  fattuale  entro  il  quale  si  collocano  le
intercettazioni  dei  colloqui  telefonici   del   Presidente   della
Repubblica  che  hanno  dato  luogo   al   ricorso.   Riferisce,   in
particolare, come dette intercettazioni  siano  state  effettuate  su
utenze telefoniche in uso al senatore - non piu' in carica  -  Nicola
Mancino, nell'ambito del procedimento penale n.  11609/08,  scaturito
dalla  riapertura  delle   indagini   relativamente   ad   un   altro
procedimento  (n.  18101/00),  avente  ad   oggetto   la   cosiddetta
"trattativa" tra Stato e mafia negli anni a cavallo  tra  il  1992  e
1994, in rapporto alla quale era stato ipotizzato il delitto  di  cui
all'art. 338 del codice penale, aggravato ai sensi dell'art. 339  del
medesimo codice e dell'art. 7 del decreto-legge 13  maggio  1991,  n.
152  (Provvedimenti  urgenti  in  tema  di  lotta  alla  criminalita'
organizzata  e  di  trasparenza  e  buon   andamento   dell'attivita'
amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio
1991, n. 203. 
    Le operazioni di intercettazione,  regolarmente  autorizzate  dal
Giudice per le indagini preliminari  tanto  nei  confronti  del  sen.
Mancino che di altre persone, avevano avuto inizio nei  primi  giorni
del novembre 2011. Per quanto in  particolare  attiene  alle  diverse
utenze telefoniche in uso al  predetto  sen.  Mancino,  sottoposte  a
intercettazione in forza di due distinti decreti  autorizzativi  (uno
solo dei quali seguito da ripetute proroghe),  il  controllo  si  era
protratto dal 7 novembre  2011  al  9  maggio  2012,  consentendo  la
captazione di 9.295 conversazioni. Tra esse,  solo  quattro  -  della
durata complessiva di diciotto minuti - erano costituite da  colloqui
con il Presidente della Repubblica. Tali colloqui si erano svolti nei
giorni 24 dicembre 2011, 31  dicembre  2011,  13  gennaio  2012  e  6
febbraio 2012. Nei primi due casi, si era trattato di telefonate  "in
uscita" (effettuate, cioe', dalla persona sottoposta alle  indagini);
nei casi successivi, di telefonate "in entrata", cioe' promananti dal
Capo dello Stato (anche se la conversazione del 13 gennaio  2012  era
stata preceduta da un contatto tra l'utenza sottoposta a controllo  e
il centralino del Quirinale, nel corso  del  quale  il  sen.  Mancino
aveva chiesto di parlare con il Presidente della Repubblica). 
    Con riguardo al decreto di autorizzazione sulla  cui  base  erano
stati captati i primi due colloqui telefonici del Capo  dello  Stato,
la Procura palermitana, ritenendo che  non  fossero  emersi  elementi
investigativi utili, non aveva chiesto la proroga delle operazioni di
intercettazione, le quali erano cessate, quindi, il 26 gennaio  2012.
Era stata, invece, prorogata sino  al  maggio  2012  l'efficacia  del
secondo decreto, sicche' aveva potuto essere intercettata  anche,  in
data 20 aprile, una chiamata proveniente dal centralino del Quirinale
e diretta al sen. Mancino, il quale, pero', non era stato reperito. 
    Su disposizione della Procura, cui la polizia  giudiziaria  aveva
prontamente riferito in forma orale, il verbale delle intercettazioni
dei colloqui telefonici ai quali aveva  preso  parte  il  Capo  dello
Stato era stato redatto senza alcuna trascrizione, neppure  in  forma
sintetica, del contenuto delle conversazioni. 
    All'esito delle attivita' investigative, la Procura aveva  deciso
di esercitare l'azione penale solo  nei  confronti  di  alcuni  degli
indagati e per alcune delle incolpazioni, e di proseguire  invece  le
indagini, con riserva di ulteriori valutazioni, riguardo  agli  altri
indagati e alle residue ipotesi di  reato.  Il  1°  giugno  2012  era
stata, quindi, disposta la separazione del procedimento  relativo  ai
soggetti per i quali era maturato il proposito di esercitare l'azione
penale, tra cui il sen. Mancino. Nell'ambito  di  tale  procedimento,
che  aveva  preso  il  n.  11719/12,  dopo  la   notificazione   agli
interessati dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai
sensi  dell'art.  415-bis  cod.  proc.  pen.,  era  stata   formulata
richiesta di rinvio a giudizio, cui era seguito il decreto giudiziale
di fissazione dell'udienza preliminare, convocata per il  29  ottobre
2012. Nel fascicolo relativo al  procedimento  separato,  la  Procura
aveva, peraltro, inserito le sole intercettazioni ritenute utili  per
il processo,  tra  le  quali  non  figuravano  quelle  concernenti  i
colloqui tra il sen. Mancino e il Capo dello Stato. La documentazione
relativa a tali colloqui - tuttora custodita nel  fascicolo  relativo
al procedimento n.  11609/08  -  non  aveva,  pertanto,  mai  formato
oggetto  di  deposito  idoneo  a  renderla  conoscibile  alle   parti
processuali. 
    3.2.- Cio' premesso - e dopo aver rimarcato come,  nel  sollevare
l'odierno conflitto, il Presidente della Repubblica si sia comportato
in modo diverso rispetto a quanto era avvenuto in  occasione  di  due
precedenti intercettazioni «indirette» di sue comunicazioni,  operate
nel 2009 e nel 2010 nel corso di altrettante indagini  della  Procura
della Repubblica presso  il  Tribunale  ordinario  di  Firenze  -  la
resistente eccepisce l'inammissibilita' del ricorso sotto un  duplice
profilo. 
    In primo luogo, il ricorso  avrebbe  un  oggetto  «giuridicamente
impossibile». Il ricorrente, infatti, avrebbe chiesto alla  Corte  di
ordinare alla Procura di Palermo un  «facere»  -  cioe'  «l'immediata
distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del  Presidente
della Repubblica» -  che  esulerebbe  dai  poteri  processuali  della
resistente. Tanto nell'ipotesi prevista dall'art. 271, comma  3,  che
in quella regolata dagli artt. 268, comma 6, e  269,  comma  2,  cod.
proc. pen., la distruzione della documentazione delle intercettazioni
non potrebbe essere comunque  disposta  dal  pubblico  ministero,  ma
esclusivamente dal giudice, a garanzia degli eventuali  interessi  di
segno contrario. 
    In  secondo  luogo,  il  petitum   risulterebbe   contraddittorio
rispetto alle ragioni addotte  in  suo  sostegno.  Pur  invocando  un
provvedimento che esclude ogni vaglio  giurisdizionale,  infatti,  la
stessa Avvocatura dello Stato avrebbe prospettato, nella  motivazione
del ricorso, il dovere della Procura  di  chiedere  «al  giudice»  la
distruzione della documentazione, conformemente a quanto  prevede  il
citato art. 271 del codice di rito penale. 
    3.3.- Nel merito, il ricorso sarebbe comunque infondato. 
    Al riguardo, la resistente rimarca come il  carattere  del  tutto
«casuale»,  e  non  gia'  "mirato",  della  captazione  dei  colloqui
presidenziali sia stato riconosciuto dalla  stessa  Presidenza  della
Repubblica, e risulti comunque eloquentemente dimostrato dalla enorme
sproporzione tra il numero complessivo delle telefonate  intercettate
sulle utenze in uso  all'indagato  e  quello  delle  conversazioni  -
appena quattro - cui ha preso parte il Capo dello Stato. 
    Cio' posto, nessuno dei comportamenti  censurati  dal  ricorrente
potrebbe essere ritenuto  realmente  produttivo  di  una  menomazione
delle prerogative presidenziali. 
    Quanto   all'avvenuta   registrazione   delle   telefonate,    si
tratterebbe di operazione radicalmente priva di ogni idoneita' lesiva
in ragione delle sue stesse  modalita'  tecniche.  La  registrazione,
infatti,  ha  luogo  in  modo  automatico,  tramite   apparecchiature
informatiche,   non    controllate    ne'    influenzabili,    almeno
nell'immediato, da alcun operatore: e cio' anche  quando  la  polizia
giudiziaria sia posta  in  grado  di  ascoltare  simultaneamente  nei
propri uffici le conversazioni intercettate, non avendo il cosiddetto
ascoltatore  "da  remoto"  -  a  garanzia  della   genuinita'   della
registrazione - alcuna possibilita' di intervenire  per  interrompere
le operazioni. 
    Riguardo,  poi,  alla  lamentata  allegazione  del  testo   delle
telefonate agli atti del procedimento, essa non sarebbe mai avvenuta.
Proprio perche' ritenute  processualmente  irrilevanti,  infatti,  le
intercettazioni delle  comunicazioni  presidenziali  non  sono  state
allegate  al  fascicolo  relativo  al   procedimento   n.   11719/12,
attualmente pendente davanti al Giudice dell'udienza preliminare  del
Tribunale  di  Palermo.  In  ogni  caso,  l'allegazione   agli   atti
costituirebbe «una circostanza in se' neutra»: ogni atto di  indagine
si colloca, infatti, all'interno di un determinato procedimento, onde
la relativa documentazione e' necessariamente unita al corrispondente
fascicolo. 
    Per quel che  attiene,  ancora,  alla  censurata  valutazione  in
ordine alla rilevanza delle intercettazioni,  nella  lettera  inviata
dal Procuratore della Repubblica di Palermo  all'Avvocatura  generale
dello Stato il 6 luglio 2012 si legge che la Procura ha valutato come
irrilevante «qualsivoglia comunicazione telefonica in atti diretta al
Capo dello  Stato».  Da  tale  affermazione  si  desumerebbe  che  la
valutazione ha avuto ad oggetto le  sole  espressioni  verbali  della
persona sottoposta ad indagini nel suo colloquio con il Presidente, e
non le risposte fornite dell'interlocutore. 
    Peraltro, anche a voler prescindere da tale  rilievo,  resterebbe
dirimente la considerazione che un divieto  assoluto  di  valutazione
delle espressioni verbali del Presidente, occasionalmente captate nel
contesto di una intercettazione legittima, sarebbe ipotizzabile  solo
a fronte di  una  prerogativa  presidenziale  intesa  come  immunita'
totale dalla giurisdizione. Per converso, in presenza  di  un  quadro
costituzionale che prevede l'irresponsabilita' del Capo  dello  Stato
per gli atti funzionali, ma non lo esenta dalla giurisdizione per gli
atti  estranei  alla  funzione,  e  che  certamente  non   copre   le
responsabilita' del suo  interlocutore,  l'attivita'  di  valutazione
risulterebbe non solo legittima, ma «doverosa e ineliminabile». 
    Quanto, infine, all'ipotizzato ricorso  alla  procedura  prevista
all'art. 268, commi 6 e seguenti, cod. proc. pen., sarebbe questa, in
realta', l'unica modalita' legittima per pervenire  alla  distruzione
del materiale.  Alla  fattispecie  in  esame,  infatti,  non  sarebbe
applicabile l'art. 271 cod. proc. pen., non ricorrendo  alcuna  delle
ipotesi di inutilizzabilita' disciplinate da tale disposizione. 
    Non verrebbe in rilievo, in particolare, la previsione del  comma
1, relativa alle intercettazioni eseguite «fuori dai casi  consentiti
dalla legge»,  la  quale  -  alla  luce  di  quanto  affermato  dalla
giurisprudenza di  legittimita'  -  presupporrebbe,  in  ossequio  al
principio di tassativita' delle invalidita'  processuali,  l'avvenuta
violazione  di  un  divieto  normativo  espresso,  nella  specie  non
rinvenibile.  Il  divieto  di  intercettare  le   comunicazioni   del
Presidente della Repubblica sancito dall'art. 7 della  legge  n.  219
del 1989 atterrebbe, infatti, alle  sole  intercettazioni  «dirette».
Sulla base delle sentenze della Corte costituzionale n. 390 del 2007,
n. 113 e n. 114 del 2010, la preclusione potrebbe venire  estesa,  al
piu', alle intercettazioni indirette «non accidentali» -  ossia  alle
intercettazioni che, sebbene disposte su utenze  di  altri  soggetti,
mirino in concreto ad accedere nella sfera  delle  comunicazioni  del
Capo dello Stato - ma non pure  alle  intercettazioni  «casuali».  Un
divieto  di  intercettare  anche   «casualmente»   le   conversazioni
presidenziali, del resto, sarebbe  inconcepibile  sul  piano  logico,
dato che qualsiasi proibizione legale presuppone necessariamente  che
l'accadimento  che  si  intende   scongiurare   sia   prevedibile   e
prevenibile: tratti, questi, incompatibili con un evento  qualificato
come «casuale». 
    La fattispecie in discussione non sarebbe  riconducibile  neppure
alla previsione del comma 2 dell'art. 271 cod. proc.  pen.,  inerente
alle   intercettazioni   di   comunicazioni   coperte   dal   segreto
professionale. L'accostamento - prospettato dal ricorrente -  tra  le
intercettazioni  casuali  di   conversazioni   presidenziali   e   le
intercettazioni delle comunicazioni del difensore  sarebbe,  infatti,
chiaramente improprio, non  essendovi  alcuna  analogia  tra  le  due
ipotesi. 
    Anche  nel   caso   della   distruzione   delle   intercettazioni
inutilizzabili, disciplinato dall'art. 271, comma 3, cod. proc. pen.,
non  sarebbe   d'altronde   possibile   prescindere   -   oltre   che
dall'intervento del giudice -  dalle  garanzie  del  contraddittorio.
Varrebbe,  a  tale  riguardo,  il  principio  enunciato  dalla  Corte
costituzionale con la sentenza n.  463  del  1994  in  rapporto  alla
procedura  di  distruzione  delle  intercettazioni  a  tutela   della
riservatezza, regolata dall'art. 269, comma 2, cod.  proc.  pen.:  e,
cioe', che il giudice, prima di decidere, deve sentire in  camera  di
consiglio le parti interessate in ordine all'eventuale  rilevanza  in
futuro  delle   registrazioni,   quale   possibile   prova   di   non
colpevolezza. Identica sarebbe, infatti, l'esigenza che ricorre nelle
due situazioni, di non impedire all'innocente di portare in  giudizio
la prova che lo scagiona, ancorche' irritualmente acquisita,  essendo
la sanzione dell'inutilizzabilita' destinata a colpire esclusivamente
gli «effetti "contra reum"» dell'atto di cui si discute. 
    La distruzione, nel caso regolato  dall'art.  271,  non  potrebbe
essere inoltre immediata, in quanto - secondo  la  giurisprudenza  di
legittimita' - richiederebbe, a  differenza  di  quella  disposta  ai
sensi dell'art. 269, commi 2 e 3, cod. proc. pen.,  «una  statuizione
di inutilizzabilita' processualmente insuscettibile di modifiche, che
faccia escludere la possibilita' di utilizzazione futura  nell'ambito
del processo a carico di  altri  imputati  a  seguito  di  diverse  e
autonome valutazioni del giudice competente». 
    3.4.- Su un piano piu' generale, la Procura contesta la validita'
della tesi del ricorrente in ordine  all'ampiezza  delle  prerogative
presidenziali,  stando  alla  quale  l'art.  90  Cost.  -  prevedendo
l'irresponsabilita'  del  Presidente  per  gli  atti   funzionali   -
configurerebbe,  in  sostanza,  un  «regime  globale  di   immunita'»
rispetto  all'applicazione  della   legge   penale,   sostanziale   e
processuale, cui farebbe  da  corollario  una  generale  esigenza  di
salvaguardia della riservatezza delle comunicazioni. 
    Tale ricostruzione - assimilando, in pratica, l'irresponsabilita'
del Presidente della Repubblica alla «inviolabilita'» del sovrano nei
regimi monarchici - si scontrerebbe con il rilievo che,  nello  Stato
democratico-costituzionale, le immunita' non costituiscono privilegi,
accordati «intuitu personae», ma valgono come garanzia della funzione
esercitata nei confronti di  condizionamenti  esterni  promananti  da
singoli   magistrati.    Cio'    impedirebbe    di    ritenere    che
l'irresponsabilita'   del   Presidente   si    estenda    ai    reati
extrafunzionali: ipotesi, questa, contraddetta - oltre che  dal  dato
letterale - da precisi argomenti  di  ordine  storico  e  sistematico
(ricavabili rispettivamente dai lavori dell'Assemblea  costituente  e
dalla  disciplina  recata  dalla  legge   n.   219   del   1989),   e
specificamente disattesa dalla Corte costituzionale con  la  sentenza
n. 154 del 2004. 
    Le vicende relative alla legge n. 140 del 2003 e  alla  legge  23
luglio 2008, n. 124  (Disposizioni  in  materia  di  sospensione  del
processo penale nei confronti delle alte  cariche  dello  Stato),  le
quali prevedevano espressamente la sospensione  dei  processi  per  i
reati  extrafunzionali  del  Presidente  della  Repubblica  -   leggi
entrambe colpite da dichiarazioni di  illegittimita'  costituzionale,
rispettivamente con le sentenze n. 24 del 2004 e n. 262  del  2009  -
avrebbero d'altronde dimostrato, in modo inequivoco,  come  tanto  in
sede parlamentare, quanto da  parte  dello  stesso  Presidente  della
Repubblica, si  desse  per  scontato  che  l'improcedibilita'  per  i
suddetti reati non fosse desumibile dall'art. 90 Cost. 
    Il regime delle  immunita'  costituzionali  resterebbe,  in  ogni
caso, strettamente  connesso  alla  pertinente  disciplina  positiva,
senza che l'area dell'irresponsabilita' possa essere dilatata facendo
leva  sulla  considerazione  complessiva  della   posizione   di   un
determinato organo  nel  sistema  costituzionale.  Nella  specie,  la
circostanza che il Presidente della Repubblica sia il  rappresentante
dell'unita' nazionale non potrebbe essere, dunque, fonte di ulteriori
poteri, quale quello di esigere la distruzione delle  intercettazioni
di tutte  le  sue  telefonate,  anche  se  intrattenute  con  persone
sottoposte a indagine penale. 
    Sotto  altro  profilo,  sarebbe  pacifico  che,  nell'ordinamento
costituzionale italiano, ai fini della tutela della liberta' e  della
segretezza delle comunicazioni, risulti assolutamente irrilevante  il
relativo contenuto, «quale che ne sia il mittente o il destinatario».
Di   conseguenza   sarebbe   altrettanto    irrilevante,    per    le
intercettazioni telefoniche, la distinzione  tra  atti  funzionali  e
non. Ma dall'assunto non discenderebbe, come vorrebbe il  ricorrente,
che tutte le conversazioni alle  quali  prenda  parte  il  Presidente
della   Repubblica,   costituendo   atti    di    funzione,    godano
dell'immunita', e cioe' che il Presidente parli  sempre  e  soltanto,
anche nelle  comunicazioni  riservate,  come  Capo  dello  Stato.  Al
contrario,  l'intercettazione  occasionale   -   dunque   del   tutto
involontaria e non evitabile - non integrerebbe, in ragione  di  tali
caratteristiche,  alcuna  lesione  delle  prerogative  presidenziali,
quale che sia il contenuto del colloquio. 
    3.5.-   La   resistente   rimarca,   infine,   come   l'ipotetico
accoglimento del ricorso determinerebbe  conseguenze  di  particolare
gravita',  inconciliabili  con  le  affermazioni  delle  gia'  citate
sentenze n. 390 del 2007, n. 113 e n. 114 del 2010.  In  particolare,
una simile decisione renderebbe  illecito  «ex  se»  anche  l'ascolto
occasionale  di  una  conversazione  presidenziale  nel  contesto  di
un'intercettazione debitamente autorizzata; impedirebbe al magistrato
penale di prendere  cognizione  del  contenuto  della  comunicazione,
anche al solo fine di  apprezzare  la  responsabilita'  di  un  altro
soggetto, non  protetto  da  alcuna  immunita';  imporrebbe,  infine,
l'immediata distruzione  delle  intercettazioni,  in  violazione  del
diritto di difesa del terzo che avesse un  interesse  contrario  alla
distruzione.  In  una  simile  situazione,  i  magistrati   sarebbero
inevitabilmente indotti ad astenersi dal disporre  intercettazioni  a
carico di tutti coloro che, ancorche' sottoposti ad indagine  penale,
potrebbero avere titolo per comunicare direttamente con il Presidente
della Repubblica, in ragione di attuali o pregressi  rapporti:  cio',
peraltro, in aperto contrasto con  il  principio  di  obbligatorieta'
dell'azione penale (art. 112 Cost.). 
    4.- In prossimita' dell'udienza pubblica,  l'Avvocatura  generale
dello Stato ha depositato una memoria  illustrativa,  con  la  quale,
anzitutto,  ha  contestato   la   fondatezza   delle   eccezioni   di
inammissibilita' del ricorso formulate dalla Procura palermitana. 
    4.1.-    Quanto    all'eccezione    di    inammissibilita'    per
«impossibilita' giuridica del  petitum»,  l'Avvocatura  rileva  come,
nell'atto introduttivo del giudizio, non sia stato affatto ipotizzato
che il pubblico ministero  debba  procedere  alla  distruzione  delle
intercettazioni in via diretta, senza passare  attraverso  il  vaglio
giurisdizionale. Il ricorso richiama, infatti, il  decreto  del  Capo
dello Stato del 16 luglio 2012, recante la determinazione di proporre
il conflitto -  decreto  allegato  al  ricorso  stesso  e  destinato,
dunque, a «fa[re] corpo» con esso -  nel  quale  si  lamenta  che  il
pubblico ministero non abbia immediatamente richiesto «al giudice» la
distruzione del materiale. Nella motivazione del ricorso, inoltre, la
disposizione applicabile alla fattispecie  e'  individuata  nell'art.
271 cod. proc. pen., che al comma 3 demanda al giudice,  appunto,  il
compito di disporre la  distruzione  delle  intercettazioni  eseguite
fuori dei casi previsti  dalla  legge.  Di  conseguenza,  la  formula
sintetica utilizzata nelle conclusioni  -  la  richiesta,  cioe',  di
dichiarare  che  non  spetta  alla  Procura   di   Palermo   omettere
l'immediata distruzione  del  materiale  -  andrebbe  necessariamente
intesa nel senso che non spetta  alla  Procura  palermitana  omettere
quanto in suo potere  per  ottenere  immediatamente  dal  giudice  un
provvedimento di distruzione. 
    Insussistente risulterebbe,  di  conseguenza,  anche  l'ulteriore
motivo di inammissibilita',  legato  all'asserita  contraddittorieta'
del petitum rispetto alle  ragioni  che  lo  sostengono,  dovendo  il
petitum essere interpretato proprio alla luce di tali ragioni. 
    4.2.- Nel merito, l'Avvocatura  dello  Stato  ribadisce  come  il
divieto di disporre e utilizzare intercettazioni di comunicazioni del
Presidente della Repubblica, ancorche' indirette o casuali,  discenda
dal disposto dell'art. 7, comma 3, della legge  n.  219  del  1989  e
risulti coerente con la garanzia di assoluta riservatezza di tutte le
attivita' del Capo dello Stato, anche  propedeutiche  e  preparatorie
allo  svolgimento  dei  suoi  compiti,  insita  nel  ruolo   che   la
Costituzione gli assegna. 
    La medesima convinzione fu espressa del resto, gia' nel 1997, dal
Ministro di grazia e giustizia in carica, nel rispondere  a  numerose
interpellanze    parlamentari    relative    al    solo    precedente
sostanzialmente   analogo   al    caso    in    esame,    concernente
l'intercettazione «indiretta» di un colloquio telefonico  dell'allora
Presidente della Repubblica  Oscar  Luigi  Scalfaro.  Nell'occasione,
infatti, il Ministro aveva ipotizzato la sussistenza di un divieto di
trascrizione e deposito della registrazione del colloquio,  rilevando
come la tutela della riservatezza dell'interlocutore occasionale, nel
caso in cui si tratti del Capo dello Stato,  risulti  rafforzata,  in
ragione  del  fatto  che  la   liberta'   di   comunicazione   e   di
corrispondenza costituisce «un  connotato  essenziale  dell'esercizio
delle funzioni» presidenziali. Il Ministro aveva sostenuto,  inoltre,
che  l'inviolabilita'  delle  comunicazioni  del   Presidente   fosse
desumibile, per l'appunto, dall'art. 7 della legge n. 219  del  1989,
giacche',  «se  e'  previsto  che  per  i  reati  di  attentato  alla
Costituzione  ed  alto  tradimento  l'intercettazione  possa   essere
disposta solo dopo la sospensione dalla  carica,  a  maggior  ragione
deve prefigurarsi una tutela piena in rapporto ad  ipotesi  di  reati
comuni  e,  a  fortiori,  rispetto  a  qualsiasi   fatto   penalmente
irrilevante». 
    4.3.- L'impossibilita', ampiamente sottolineata in  dottrina,  di
delineare in termini rigidi i compiti del Presidente della Repubblica
e di distinguere tra le diverse  modalita'  di  esercizio  delle  sue
funzioni - si  traducano  esse  in  «atti  tipici»  o  «in  attivita'
meramente propedeutiche  e  preparatorie»  -  confermerebbe,  d'altro
canto, che l'esigenza di salvaguardare la liberta'  e  la  segretezza
delle comunicazioni del Capo dello Stato sussiste anche in  confronto
alle  intercettazioni  «indirette  o  casuali»:  e  cio'  tanto  piu'
qualora, come nella fattispecie  in  esame,  dette  comunicazioni  si
siano tradotte in «un contatto assolutamente lecito». 
    Il Presidente della  Repubblica  e'  investito,  in  effetti,  di
funzioni che necessitano di una particolare  riservatezza  «nell'iter
della loro preparazione»: basti pensare alle  attivita'  inerenti  ai
rapporti diplomatici  (art.  87,  ottavo  comma,  Cost.),  ovvero  al
comando delle forze armate  (art.  87,  nono  comma,  Cost.),  ovvero
ancora a tutte  quelle  funzioni  che,  se  pure  non  tassativamente
individuabili, gli derivano dalla presidenza del Consiglio  superiore
della  magistratura  (art.  104,  secondo  comma,  Cost.)   o   dalla
rappresentanza dell'unita' nazionale (art. 87, primo  comma,  Cost.).
Con la conseguenza che, se si permettesse di divulgare  il  contenuto
delle attivita' preparatorie, si metterebbero a rischio gli interessi
-  rilevantissimi  -  alla  cui  salvaguardia  tali   funzioni   sono
preordinate. 
    Al  riguardo,  occorrerebbe  anche  considerare  che  quella  del
Presidente della  Repubblica  e'  una  carica  monocratica,  «la  cui
attivita'  ufficiale  puo'  quindi  essere  piu'  facilmente   incisa
attraverso iniziative giudiziarie che riguardino  la  persona  fisica
del titolare e le sue attivita'». 
    Nella specie, non verrebbe neppure in rilievo la distinzione  tra
atti funzionali ed extrafunzionali: cio' a prescindere dal fatto  che
le conversazioni telefoniche  oggetto  del  conflitto  rientrerebbero
comunque tra gli atti funzionali, tenuto  conto  della  qualita'  dei
soggetti tra i quali sono intercorse e della sede  nella  quale  sono
state poste in essere (trattandosi di conversazioni tutte  effettuate
tramite il centralino del Quirinale). 
    4.4.- I risultati delle intercettazioni in  questione  sarebbero,
di conseguenza, assolutamente inutilizzabili ai  sensi  del  comma  1
dell'art. 271 cod. proc. pen.,  trattandosi  di  captazioni  eseguite
«fuori dei casi  consentiti  dalla  legge».  Infatti,  il  codice  di
procedura penale considera  legittime  le  intercettazioni  non  gia'
quando manchi un divieto di eseguirle, ma  solo  quando  vi  sia  una
norma che  espressamente  le  consenta.  Una  simile  previsione  non
potrebbe essere certamente  rinvenuta,  quanto  al  Presidente  della
Repubblica,  nell'art.  7  della  legge  n.  219  del   1989.   Detta
disposizione, anzi, dopo aver regolato l'ipotesi dell'intercettazione
«diretta», stabilisce che «in ogni caso» il Comitato parlamentare per
i giudizi di accusa puo' autorizzare le intercettazioni solo dopo che
il Presidente sia stato sospeso dalla carica. Da cio'  si  dedurrebbe
che, «mentre la parte assertiva della prescrizione  e'  espressamente
dedicata  alle  sole  intercettazioni  dirette   (consentendone,   in
determinati casi, lo svolgimento e l'utilizzazione),  diversamente  i
limiti introdotti dalla stessa norma sono applicabili "in ogni caso",
quindi, anche nella diversa ipotesi di intercettazioni indirette». 
    Significativa sarebbe, altresi', la circostanza che  l'art.  205,
comma 3, cod. proc. pen., nel prevedere che possa essere disposta  la
comparizione in giudizio dei testimoni  che  rivestono  alte  cariche
dello Stato allorche' essa  appaia  indispensabile  per  eseguire  un
confronto,  sottragga  a  tale  disposizione  il   Presidente   della
Repubblica. Sarebbe, dunque, «del tutto  anomalo  consentire  che  la
voce del Presidente, non sottoponibile al confronto con le  modalita'
che la legge prescrive per la testimonianza dei testi,  possa  essere
stata captata indirettamente o casualmente  [...]  e  successivamente
utilizzata nel corso dell'attivita' investigativa». 
    4.5.-  L'assoluta  inutilizzabilita'  delle  intercettazioni  qui
considerate imporrebbe di procedere alla loro distruzione  immediata,
senza  alcuna  valutazione  circa   la   loro   eventuale   rilevanza
processuale. 
    In senso contrario, non varrebbe far leva sulla "involontarieta'"
e sulla "inevitabilita' iniziale" delle  intercettazioni  telefoniche
che,  disposte  nei  confronti  di  un  terzo,  solo  accidentalmente
coinvolgano il Presidente della Repubblica. In assenza di  una  norma
che espressamente consenta la captazione dei colloqui  presidenziali,
infatti,  l'attivita'  di  intercettazione  avrebbe   dovuto   essere
interrotta dalla Procura palermitana non appena accertata la qualita'
soggettiva dell'interlocutore. In ogni caso, se pure si ritenesse che
la registrazione casuale dei colloqui non abbia determinato  «ex  se»
una lesione delle prerogative  presidenziali,  tale  lesione  sarebbe
senz'altro rinvenibile nella loro  conservazione  tra  gli  atti  del
procedimento  e,  soprattutto,  nella  pretesa  di  subordinarne   la
distruzione  alla  preventiva  valutazione,  in  un'udienza  camerale
aperta al contraddittorio tra le parti, della eventuale rilevanza  ai
fini del processo, secondo quanto previsto dall'art. 268  cod.  proc.
pen.: procedura  che  avrebbe  l'effetto  di  rendere  conoscibile  e
divulgabile il contenuto delle conversazioni stesse.  A  smentire  il
contrario assunto della Procura  palermitana,  basterebbe  por  mente
all'ipotesi in cui tali conversazioni  abbiano  ad  oggetto  delicate
questioni di sicurezza o di politica estera o di difesa nazionale, le
quali - ove fosse  valida  la  tesi  della  controparte  -  sarebbero
«esposte  in  modo  del  tutto  casuale  e,  quindi,  irrazionale  al
pubblico». 
    Nessun argomento  a  conforto  della  tesi  dell'inapplicabilita'
dell'art. 271 cod.  proc.  pen.  alle  intercettazioni  «indirette  e
casuali» del Presidente  della  Repubblica  potrebbe  essere  tratto,
inoltre, dalla sentenza n. 390 del 2007 della  Corte  costituzionale,
in tema di intercettazioni di conversazioni dei membri del Parlamento
-  pure  invocata  dalla  controparte  -  trattandosi  di   pronuncia
attinente all'art. 6 della legge n. 140 del 2003: norma,  questa,  da
ritenere inapplicabile al Capo dello Stato. 
    4.6.- Non sarebbe condivisibile neppure l'ulteriore assunto della
Procura di Palermo, stando al quale la garanzia  del  contraddittorio
risulterebbe indefettibile anche nell'ambito della procedura regolata
dall'art. 271, comma 3, cod.  proc.  pen.  La  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 463 del 1994 - richiamata a sostegno dell'assunto -
attiene infatti, esclusivamente, all'ipotesi della distruzione  delle
intercettazioni a tutela  della  riservatezza,  disposta  in  udienza
camerale su istanza dei privati interessati ai sensi  dell'art.  269,
comma 2, cod. proc. pen.: fattispecie ben diversa da quella,  qui  in
rilievo, della distruzione di intercettazioni eseguite in  violazione
di un divieto di legge (e,  segnatamente,  «di  legge  di  attuazione
costituzionale»). 
    Ne', al fine di omologare le due ipotesi, gioverebbe fare appello
all'esigenza  di  non  disperdere  una   eventuale   prova   di   non
colpevolezza. La stessa Procura di Palermo ha ritenuto, infatti,  che
le intercettazioni oggetto del conflitto siano irrilevanti e che  non
costituiscano corpo di reato. Inoltre, la relativa documentazione non
e' stata riversata nel fascicolo relativo al  nuovo  procedimento  n.
11719/12 - nell'ambito  del  quale  e'  stato  chiesto  il  rinvio  a
giudizio, tra gli altri, del sen. Mancino - ma e' stata lasciata  nel
fascicolo originario: circostanza, questa, che attesterebbe la totale
irrilevanza dei colloqui anche ai  fini  della  prova  dell'innocenza
degli  imputati,  secondo  la  valutazione  effettuata  dagli  stessi
magistrati della Procura. 
    4.7.- Puntualizzando  le  conclusioni  gia'  formulate  nell'atto
introduttivo del giudizio, il ricorrente chiede, quindi, che la Corte
costituzionale dichiari «che non spetta alla Procura della Repubblica
presso il Tribunale Ordinario di Palermo di omettere di  interrompere
l'effettuazione delle intercettazioni casuali  del  Presidente  della
Repubblica»; e che, comunque, non spetta ad essa  «di  omettere,  una
volta  acquisite  le  predette  intercettazioni,  di  richiederne  al
Giudice l'immediata distruzione ne' [...] valutarne la  (ir)rilevanza
offrendole all'udienza stralcio di cui all'art. 268 c.p.p.». 
    5.- Anche la Procura della Repubblica di  Palermo  ha  depositato
una memoria illustrativa, con la quale  ha  preliminarmente  eccepito
l'inammissibilita' del ricorso sotto due ulteriori profili. 
    5.1.- In primo luogo, il  conflitto  sarebbe  stato  sollevato  a
fronte del mero intento, espresso nella nota  del  Procuratore  della
Repubblica del 6 luglio 2012, di  procedere  alla  distruzione  delle
intercettazioni  «con  l'osservanza  delle  formalita'   di   legge».
L'iniziativa presidenziale mirerebbe, in particolare,  a  contrastare
la preconizzata scelta del rito camerale previsto dall'art. 268  cod.
proc. pen. - ritenuta insita  nel  riferimento  alle  «formalita'  di
legge» - in luogo di quella regolata dall'art. 271 cod.  proc.  pen.,
unica  in  assunto  idonea  a  salvaguardare   le   prerogative   del
ricorrente. In questo modo, il ricorso verrebbe a focalizzarsi su una
questione  inerente  all'interpretazione  e  all'applicazione   delle
regole processuali, censurando, in sostanza, un  presunto  errore  in
procedendo nell'esercizio della funzione giudiziaria: materia  che  -
alla  luce  della  giurisprudenza  costituzionale  -   non   potrebbe
costituire oggetto di un conflitto di attribuzione. 
    In  secondo  luogo,  il   conflitto   sarebbe   stato   sollevato
prematuramente, non essendo una mera manifestazione d'intenti  idonea
a  produrre  alcuna  lesione  attuale  e  concreta  di   attribuzioni
costituzionali.  La  menomazione  denunciata  potrebbe,  in  realta',
configurarsi solo in presenza di un atto del giudice - unico soggetto
a cio' legittimato - che esprimesse in modo inequivoco la volonta' di
non procedere alla  distruzione  delle  intercettazioni:  prospettiva
nella quale,  peraltro,  il  ricorso  dovrebbe  essere  proposto  nei
confronti dell'autorita' giudiziaria giudicante, e non gia' di quella
requirente. 
    5.2.-  La  resistente  rimarca,  per   altro   verso,   come   le
attribuzioni  costituzionali  dei  poteri  dello   Stato,   rilevanti
nell'ambito  dei  giudizi  per  conflitto,  non   siano   configurate
esclusivamente da norme costituzionali, ma anche da  norme  di  rango
inferiore che integrano i relativi parametri, fondando le  competenze
degli organi confliggenti. Di  tale  principio,  del  resto,  avrebbe
fatto applicazione anche il ricorrente,  evocando  a  fondamento  del
ricorso, a fianco dell'art. 90 Cost., l'art. 7, comma 3, della  legge
n. 219 del 1989. 
    Sul  versante  della  resistente  Procura  della  Repubblica,  la
fattispecie oggetto del giudizio resterebbe  regolata  dall'art.  112
Cost.: non esisterebbe, pero', una norma di  rango  ordinario  che  -
coniugandosi  con  quella  dell'art.  101,  secondo  comma,  Cost.  -
attribuisca al pubblico  ministero  il  potere  di  disporre  in  via
diretta   la    distruzione    delle    intercettazioni,    ancorche'
inutilizzabili  (norma  che  risulterebbe   oltretutto   lesiva   del
principio del contraddittorio).  Profilo  per  il  quale  il  ricorso
sarebbe - oltre che inammissibile «per impossibilita'  giuridica  del
petitum», secondo quanto gia' eccepito in  sede  di  costituzione  in
giudizio - anche infondato nel merito. 
    5.3.-  La  correttezza  dell'operato  della  Procura  troverebbe,
d'altra  parte,  una  significativa  conferma  nelle  risultanze  del
dibattito svoltosi in Senato il  7  marzo  1997,  in  relazione  alle
interpellanze   concernenti   l'analogo   caso   dell'intercettazione
occasionale di una conversazione telefonica del Presidente  Scalfaro.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente,  tale  dibattito  -
pur  facendo  emergere  delle   «perplessita'   giuridiche»,   legate
soprattutto   all'avvenuta   pubblicazione   dei   contenuti    della
conversazione  su  un  quotidiano  -  non   evidenzio'   affatto   la
convinzione che le norme vigenti fossero state violate dalla  Procura
della Repubblica che  allora  procedeva.  Fatta  eccezione  per  l'ex
Presidente Cossiga  (il  quale  sostenne  che  non  fosse  necessario
l'intervento del  legislatore  per  evitare  il  ripetersi  di  fatti
analoghi), tutti gli  altri  interpellanti  non  avrebbero,  infatti,
mosso alcun «preciso appunto» alla Procura. A sua volta, il  Ministro
di grazia e giustizia del tempo - pur  stigmatizzando  l'accaduto  «a
livello di  principi»  -  sottolineo'  con  forza  l'esigenza  di  un
intervento normativo chiarificatore, escludendo  che  si  fosse  dato
luogo, con il deposito degli atti secondo la procedura  ordinaria,  a
macroscopiche violazioni di legge o  ad  interpretazioni  abnormi  da
parte dei magistrati. 
    Tale precedente  confermerebbe  che  nessuna  norma  di  legge  e
nessuna prassi costituzionale vietavano e  vietano  l'intercettazione
accidentale delle  comunicazioni  del  Presidente  della  Repubblica,
tanto  che  l'interessato  (on.   Scalfaro)   non   sollevo',   nella
circostanza, alcun  conflitto  (al  pari,  d'altronde,  dello  stesso
Presidente Napolitano, nelle due precedenti  occasioni  in  cui  sono
state captate accidentalmente sue comunicazioni telefoniche). 
    5.4.- La difesa  della  resistente  ribadisce  poi  che,  per  le
ragioni    gia'    addotte    nella    memoria    di    costituzione,
l'irresponsabilita' del Presidente  della  Repubblica  per  gli  atti
compiuti nell'esercizio delle  sue  funzioni,  sancita  dall'art.  90
Cost., e la correlata impossibilita' di  ricorrere,  in  rapporto  ad
essi, agli ordinari strumenti investigativi, non  possono  essere  in
alcun modo estese agli atti  extrafunzionali,  neppure  facendo  leva
sull'argumentum a fortiori. 
    Il carattere «pacificamente eccezionale» dell'immunita' in parola
ne imporrebbe, infatti,  una  interpretazione  restrittiva,  tale  da
escludere   la   praticabilita'   tanto   dell'analogia   iuris   che
dell'analogia legis: cio', a maggior  ragione,  considerando  che  la
ratio sottesa al riconoscimento dell'irresponsabilita' per  gli  atti
funzionali non sarebbe riscontrabile con  riguardo  ai  comportamenti
estranei  all'esercizio  della  funzione.  Solo  la  prima,  infatti,
sarebbe necessaria per garantire il libero  svolgimento  dei  compiti
istituzionali,  connettendosi  strettamente  alla   irresponsabilita'
politica  del  Capo  dello  Stato,   che   dell'immunita'   giuridica
rappresenterebbe «allo stesso tempo il fondamento costitutivo  ed  il
limite insuperabile». 
    Non potrebbe quindi essere accolta,  in  questa  prospettiva,  la
tesi dell'Avvocatura dello Stato, secondo la quale «il  perseguimento
delle finalita' costituzionali caratterizz[erebbe]  l'attivita',  sia
formalizzata sia non formalizzata, del Presidente della  Repubblica»,
ponendola cosi'  indistintamente  -  in  quanto  connotata  in  senso
funzionale - sotto il cono protettivo dell'art. 90 Cost.  Tale  tesi,
nella misura in cui risulti  volta  a  suffragare  l'assunto  che  le
conversazioni telefoniche  del  Capo  dello  Stato  sarebbero  sempre
effettuate nell'esercizio delle funzioni presidenziali,  ai  sensi  e
per  gli  effetti  dell'art.  90  Cost.,  risulterebbe,  per  giunta,
inconferente ai fini del presente giudizio,  non  essendo  mai  stata
ipotizzata dai magistrati di Palermo  una  eventuale  responsabilita'
penale del Presidente. 
    La distinzione tra atti funzionali  ed  extrafunzionali,  d'altra
parte, verrebbe  in  rilievo  solo  quando  ci  si  muova  sul  piano
sostanziale della responsabilita' da atto illecito; non anche  quando
si discuta delle garanzie del Capo dello Stato di fronte ad attivita'
investigative - e, in particolare, ad intercettazioni  telefoniche  -
aventi come bersaglio un terzo soggetto, nelle quali  egli  si  trovi
accidentalmente coinvolto. 
    Con  riguardo  a  tale  ipotesi,  la  disciplina   costituzionale
applicabile sarebbe determinata esclusivamente dalla «direzione delle
indagini». Nella specie, il mezzo investigativo e' stato disposto nei
confronti di «un comune  cittadino»  (ancorche'  ex  senatore  ed  ex
ministro), con  conseguente  operativita'  della  sola  tutela  della
liberta' e segretezza delle comunicazioni  offerta  alla  generalita'
dei consociati dall'art. 15 Cost.: conclusione che non muterebbe  per
il solo fatto che l'interlocutore dell'indagato  si  identifichi  nel
Capo dello Stato, analogamente a quanto gia'  affermato  dalla  Corte
costituzionale con le sentenze n. 390 del 2007, n. 113 e n.  114  del
2010, in riferimento alle intercettazioni casuali di conversazioni di
membri del Parlamento. 
    Tra  l'immunita'  presidenziale  riguardo  alle   intercettazioni
telefoniche prevista dall'art. 7, comma 3, della  legge  n.  219  del
1989 e  quella  riconosciuta  ai  parlamentari  dall'art.  68  Cost.,
d'altronde, non vi sarebbe, sul piano degli obiettivi di  tutela,  la
distinzione ipotizzata dall'Avvocatura dello Stato. Anche la  seconda
sarebbe, infatti, destinata a proteggere il  libero  esercizio  della
funzione (nella specie, quella  parlamentare)  e  non  gia'  la  mera
«privacy» delle singole persone appartenenti all'istituzione. 
    L'impossibilita' di assoggettare le  intercettazioni  occasionali
al  regime  valevole  per  le  intercettazioni  dirette  deriverebbe,
inoltre,  dalla  differenza  «strutturale»,  e  non  gia'   meramente
«giuridica», tra le due ipotesi, imponendosi, di  conseguenza,  anche
in rapporto al Capo  dello  Stato.  Nel  caso  delle  intercettazioni
casuali, infatti, la captazione dei colloqui del soggetto immune  non
consegue a una scelta volontaria  degli  organi  inquirenti,  con  la
conseguenza che «in essa non gioca alcun ruolo lo status, piu' o meno
privilegiato, dell'interlocutore». 
    5.5.-  Un  «surplus  di  garanzia»  per  la  riservatezza   delle
comunicazioni  del  Presidente  della  Repubblica,  che  implichi  il
divieto  delle  intercettazioni  occasionali  e   l'inutilizzabilita'
assoluta dei  risultati  di  quelle  eseguite,  non  potrebbe  essere
desunto  neppure  dalla  qualita'  delle  funzioni  assegnate   dalla
Costituzione al Capo dello Stato. 
    Una volta, infatti, che la garanzia venga collegata all'esercizio
di funzioni costituzionali, non si comprenderebbe  perche'  essa  non
debba caratterizzare anche lo «status» di altri organi, a  cominciare
dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai singoli  ministri,  i
quali sarebbero dotati di poteri addirittura  piu'  importanti,  «dal
punto  di  vista  operativo»,  di  quelli  del  Capo   dello   Stato.
L'eventuale dilatazione dell'immunita' avrebbe,  peraltro,  l'effetto
di amplificare enormemente  le  conseguenze  pregiudizievoli  per  la
giustizia penale  gia'  evidenziate  dalla  resistente  nell'atto  di
costituzione in giudizio. 
    5.6.- La Procura di Palermo, infine, ritiene  di  dover  ribadire
come  la  natura   casuale   delle   intercettazioni   dei   colloqui
presidenziali  che  hanno   originato   il   conflitto   -   peraltro
riconosciuta   dallo   stesso   ricorrente   -   non   possa   essere
oggettivamente messa in discussione. 
    In  aggiunta  a  quanto  gia'  evidenziato   nella   memoria   di
costituzione - in particolare, riguardo  al  numero  «infinitesimale»
delle telefonate intercorse tra l'indagato e il  Presidente  rispetto
al totale di quelle intercettate  -  si  mette  in  rilievo  come  la
Procura  si  sia   astenuta   dal   richiedere   la   proroga   delle
intercettazioni condotte riguardo ad alcune delle utenze  in  uso  al
sen. Mancino, sebbene gia' due  colloqui  con  il  Capo  dello  Stato
fossero stati intercettati. Non ricorrerebbe inoltre,  nella  specie,
alcuno degli "indici rivelatori" che - alla  luce  delle  indicazioni
fornite dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 390  del  2007,
n. 113 e  n.  114  del  2010,  recepite  anche  dalla  giurisprudenza
ordinaria - potrebbero evidenziare un carattere mirato del controllo.
Le informazioni disponibili circa la natura dei rapporti tra il  sen.
Mancino e il Presidente della Repubblica non lasciavano presagire che
i colloqui tra loro sarebbero stati frequenti - come, in effetti, non
sono stati - essendo da tempo il sen.  Mancino  privo  di  «qualsiasi
carica pubblica». Nel contempo, mancava e  manca  qualunque  elemento
idoneo a suggerire il sospetto di un  coinvolgimento  del  Presidente
della Repubblica nei fatti oggetto di investigazione. 
    5.7.- Cio' posto, l'assunto del ricorrente, in base al  quale  le
intercettazioni  in  questione   dovrebbero   essere   immediatamente
distrutte in quanto «assolutamente vietate», si scontrerebbe  con  la
gia'  rimarcata  impossibilita'  logica  che  un  fatto  fortuito   -
derivato,  cioe',  da  una  catena   causale   non   dominabile   dal
destinatario  del  precetto  -  costituisca  oggetto  di  un  divieto
normativo.   L'ordinamento   potrebbe   disciplinare,   semmai,    le
conseguenze di una intercettazione casuale, in particolare sancendone
l'inutilizzabilita': ma, a  tal  fine,  occorrerebbe  una  previsione
espressa, nella specie inesistente. 
    La resistente, dunque, avrebbe agito secondo diritto valutando la
irrilevanza   delle   comunicazioni   captate   ed   omettendone   la
distruzione,  che  spetterebbe  esclusivamente  al  giudice  disporre
secondo quanto previsto dall'art. 269, comma 2, cod. proc.  pen.  Dal
che dovrebbe  conclusivamente  discendere  il  rigetto  del  ricorso,
sempreche' non ne venga previamente riconosciuta l'inammissibilita'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Presidente della  Repubblica  ha  sollevato  conflitto  di
attribuzione tra poteri dello Stato, «per violazione  degli  articoli
90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che
ne costituiscono attuazione» - segnatamente, l'art. 7 della  legge  5
giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali  e  di
reati previsti  dall'articolo  90  della  Costituzione),  «anche  con
riferimento all'art. 271  del  codice  di  procedura  penale»  -  nei
confronti  del  Procuratore  della  Repubblica  presso  il  Tribunale
ordinario di Palermo, in relazione all'attivita'  di  intercettazione
telefonica,  svolta  riguardo  alle   utenze   di   persona   diversa
nell'ambito di un procedimento penale pendente a Palermo,  nel  corso
della quale  sono  state  captate  conversazioni  intrattenute  dallo
stesso Presidente della Repubblica. 
    2.-  Giova  preliminarmente   riepilogare,   nei   suoi   termini
essenziali, la vicenda che ha dato origine al conflitto, quale emerge
dalle deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti. 
    Le  intercettazioni  per  le  quali  si  controverte  sono  state
effettuate su utenze telefoniche in uso al senatore  -  non  piu'  in
carica - Nicola Mancino, sottoposto ad indagini, assieme  a  numerose
altre persone,  nell'ambito  del  procedimento  penale  n.  11609/08,
concernente la cosiddetta "trattativa" tra Stato e mafia  negli  anni
tra il 1992 e il 1994, in rapporto alla quale e' stato ipotizzato  il
reato  di  violenza  o  minaccia  aggravata  ad  un  Corpo  politico,
amministrativo o giudiziario. 
    Nel periodo compreso tra il 7 novembre 2011 e il 9  maggio  2012,
in particolare, sono state intercettate sulle utenze in uso  al  sen.
Mancino, in forza di due distinti decreti  di  autorizzazione  (e  di
successive proroghe per  il  secondo  tra  essi),  9.295  telefonate,
quattro delle quali, della complessiva  durata  di  diciotto  minuti,
hanno avuto come interlocutore il Capo  dello  Stato:  le  prime  due
effettuate ad iniziativa della persona sottoposta alle  indagini,  le
altre su chiamata del Presidente. 
    Alla luce delle risultanze investigative, la Procura  di  Palermo
ha deciso di esercitare l'azione penale solo nei confronti di  alcuni
degli indagati e per alcune delle incolpazioni, e  di  proseguire  le
indagini quanto agli altri indagati ed alle residue ipotesi di reato,
con  riserva  di  ulteriori  valutazioni.  Il  1°  giugno  2012,   di
conseguenza,  e'  stata  disposta  la  separazione  del  procedimento
relativo ai soggetti per  i  quali  si  e'  stabilito  di  esercitare
l'azione penale, tra i quali il sen. Mancino. 
    Nel fascicolo relativo al procedimento separato - che ha preso il
n. 117919/02 e in relazione al quale e' stata formulata richiesta  di
rinvio  a  giudizio  degli  imputati,  con   conseguente   fissazione
dell'udienza  preliminare  -  la  Procura   ha   inserito   le   sole
intercettazioni  ritenute  utili  per  l'instaurando  giudizio,   non
comprendendovi i colloqui cui ha preso parte  il  Capo  dello  Stato.
Pertanto la documentazione concernente  tali  colloqui,  rimasta  nel
fascicolo del procedimento originario  n.  11609/08,  non  ha  sinora
formato oggetto di deposito, idoneo a renderla conoscibile alle parti
processuali. 
    Alla  stregua  di  quanto  dedotto  nell'atto  introduttivo   del
giudizio, la Presidenza della  Repubblica  ha  appreso  dell'avvenuta
registrazione a seguito di un'intervista rilasciata al quotidiano «La
Repubblica» dal  sostituto  Procuratore  dott.  Antonino  Di  Matteo,
pubblicata il 22  giugno  2012.  Nell'occasione,  rispondendo  a  una
domanda che introduceva il tema, l'intervistato aveva  affermato  che
«negli atti depositati non c'e' traccia  di  conversazioni  del  Capo
dello Stato e questo significa che non sono  minimamente  rilevanti»,
aggiungendo  poi  -  in  risposta  all'ulteriore  domanda   se   cio'
preludesse alla loro distruzione - che la Procura palermitana avrebbe
applicato «la legge in vigore»: «quelle che dovranno essere distrutte
con l'instaurazione di un procedimento davanti  al  [Giudice  per  le
indagini preliminari] saranno distrutte, quelle che riguardano  altri
fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti». 
    Con nota del 27 giugno 2012, l'Avvocato generale dello Stato,  su
mandato della Presidenza, ha  quindi  chiesto  al  Procuratore  della
Repubblica di  Palermo  «una  conferma  o  una  smentita»  di  quanto
sembrava emergere da tali dichiarazioni: ossia «che  sarebbero  state
intercettate   conversazioni   telefoniche   del   Presidente   della
Repubblica, allo stato considerate irrilevanti ma che la  Procura  di
Palermo si [sarebbe riservata] di utilizzare». 
    In risposta all'interpello, il Procuratore della Repubblica,  con
nota del 6 luglio 2012 - allegando una missiva del  dott.  Di  Matteo
del giorno precedente - ha comunicato  che  la  Procura  di  Palermo,
«avendo gia' valutato  come  irrilevante  ai  fini  del  procedimento
qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in  atti  diretta  al
Capo  dello  Stato,   non   ne   prevede[va]   alcuna   utilizzazione
investigativa o processuale,  ma  esclusivamente  la  distruzione  da
effettuare con l'osservanza delle formalita' di legge». 
    Con successiva nota, diffusa da agenzie di  stampa  il  9  luglio
2012,   il   dott.   Messineo   ha   ulteriormente   affermato    che
«nell'ordinamento attuale nessuna norma prescrive  o  anche  soltanto
autorizza l'immediata cessazione dell'ascolto e della  registrazione,
quando, nel corso di una  intercettazione  telefonica  legittimamente
autorizzata, venga casualmente ascoltata  una  conversazione  fra  il
soggetto sottoposto ad  intercettazione  ed  altra  persona  nei  cui
confronti  non  poteva  essere  disposta   alcuna   intercettazione»;
aggiungendo che, «in tali casi,  alla  successiva  distruzione  della
conversazione  legittimamente  ascoltata  e  registrata  si   procede
esclusivamente,   previa   valutazione   della   irrilevanza    della
conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione
del Giudice per  le  indagini  preliminari,  sentite  le  parti».  Da
ultimo,  in  una  lettera  diretta  al  quotidiano  «La  Repubblica»,
pubblicata l'11 luglio  2012,  il  Procuratore  della  Repubblica  ha
ribadito che  «la  procedura  di  distruzione  delle  intercettazioni
ritenute non rilevanti»  sarebbe  stata  «attivata  nei  modi  e  nei
termini di legge». 
    3.- Ad avviso del ricorrente,  la  tesi  espressa  dalla  Procura
palermitana  non  sarebbe  condivisibile,  dovendosi   ritenere,   al
contrario, che le intercettazioni,  anche  indirette  o  casuali,  di
conversazioni del Capo dello Stato siano radicalmente  vietate  dalla
legge. 
    Tale    divieto    risulterebbe     insito     nella     garanzia
dell'irresponsabilita' per gli  atti  compiuti  nell'esercizio  delle
funzioni  (salvi  i  casi  di  alto  tradimento  e   attentato   alla
Costituzione), assicurata al Presidente della Repubblica dall'art. 90
Cost. in vista dell'espletamento degli altissimi compiti  di  cui  e'
investito, e  troverebbe  conferma  nell'interpretazione  sistematica
delle norme di legge ordinaria  intese  a  dare  attuazione  a  detta
garanzia. 
    L'art. 7, comma 3, della legge n. 219 del 1989 vieta infatti,  in
modo assoluto, di disporre intercettazioni telefoniche nei  confronti
del  Presidente  della  Repubblica,  se  non  dopo   che   la   Corte
costituzionale ne abbia disposto la  sospensione  dalla  carica  (nel
qual caso, competente a disporle e' solo il Comitato parlamentare per
i giudizi d'accusa). Il divieto e' sancito in rapporto ai reati per i
quali, in base all'art. 90 Cost., il Presidente puo' essere messo  in
stato di accusa, e con riguardo alle intercettazioni «dirette»  delle
sue  comunicazioni.  La  preclusione  dovrebbe  ritenersi,  tuttavia,
logicamente  estesa,  per  un  verso,  anche   alle   intercettazioni
«indirette» o «casuali», egualmente  idonee  a  ledere  la  sfera  di
immunita' del  Capo  dello  Stato,  e,  per  altro  verso,  anche  ai
procedimenti aventi ad oggetto altre ipotesi di reato che coinvolgano
il  Presidente.  A   maggior   ragione,   poi,   dovrebbe   ritenersi
inammissibile l'utilizzazione di conversazioni del Capo  dello  Stato
occasionalmente  intercettate  nell'ambito  di  indagini  concernenti
reati  addebitabili  a  diversi  soggetti,  come  quelle  che   hanno
originato l'odierno conflitto. 
    Alle intercettazioni indicate da ultimo non  sarebbe  applicabile
neppure la disciplina dettata dall'art. 6 della legge 20 giugno 2003,
n.  140  (Disposizioni  per  l'attuazione  dell'articolo   68   della
Costituzione nonche' in materia  di  processi  penali  nei  confronti
delle alte cariche  dello  Stato),  avuto  riguardo  alla  captazione
casuale di conversazioni o comunicazioni di  membri  del  Parlamento,
non essendo la posizione del Capo dello Stato assimilabile  a  quella
del parlamentare. 
    Di conseguenza, le registrazioni di cui si discute non potrebbero
essere in alcun modo valutate,  utilizzate  o  trascritte,  e  se  ne
dovrebbe piuttosto chiedere al  giudice  l'immediata  distruzione  ai
sensi dell'art. 271 cod. proc. pen., in quanto  eseguite  «fuori  dei
casi consentiti dalla legge». 
    Su queste premesse, il ricorrente ritiene che  la  Procura  della
Repubblica di Palermo abbia menomato, sotto piu' profili, le  proprie
prerogative costituzionali, facendo un  uso  non  corretto  dei  suoi
poteri.   Dette   prerogative   risulterebbero   lese,   in   specie,
dall'avvenuta registrazione  dei  colloqui;  dalla  permanenza  della
relativa documentazione tra gli atti del procedimento; dal fatto  che
ne  sia  stata  valutata  la  rilevanza  ai  fini  di  una  eventuale
utilizzazione  investigativa  o  processuale  e,   soprattutto,   dal
manifestato intento della Procura di attivare un'udienza  secondo  le
modalita' indicate dall'art.  268  cod.  proc.  pen.,  per  ottenerne
l'acquisizione o la distruzione: procedura che  -  anche  in  ragione
dell'instaurazione di un contraddittorio sul punto - aggraverebbe gli
effetti lesivi delle precedenti condotte, rendendoli definitivi. 
    Con l'atto introduttivo del giudizio, il ricorrente  ha  chiesto,
pertanto, alla Corte di dichiarare che non spetta alla Procura  della
Repubblica  presso  il  Tribunale  ordinario  di  Palermo   «omettere
l'immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali  di
conversazioni  del  Presidente  della  Repubblica»,  delle  quali  si
discute, ne' valutarne la  «(ir)rilevanza»,  offrendole  all'«udienza
stralcio» disciplinata dall'art. 268 cod. proc. pen. 
    4.- Va confermata, anzitutto, l'ammissibilita'  del  conflitto  -
gia' dichiarata  da  questa  Corte,  in  sede  di  prima  e  sommaria
delibazione, con l'ordinanza  n.  218  del  2012  -  sussistendone  i
presupposti soggettivi e oggettivi. 
    Con riguardo all'aspetto soggettivo, la natura  di  potere  dello
Stato e la conseguente legittimazione del Presidente della Repubblica
ad avvalersi dello strumento del conflitto  a  tutela  delle  proprie
attribuzioni costituzionali sono pacifiche  nella  giurisprudenza  di
questa Corte (sentenze n. 200 del 2006 e n. 129 del  1981,  ordinanza
n. 354 del 2005). Si  tratta,  infatti,  di  organo  titolare  di  un
complesso  di  attribuzioni,  non  inquadrabili  nella   tradizionale
tripartizione dei poteri dello Stato ed esercitabili in posizione  di
piena  indipendenza   e   autonomia,   costituzionalmente   garantita
(ordinanza n. 150 del 1980). 
    Egualmente  costante  e'  la  giurisprudenza  della   Corte   nel
riconoscere la natura di potere dello Stato  al  pubblico  ministero.
Gli organi inquirenti sono infatti investiti dell'attribuzione,  essa
pure    costituzionalmente    garantita,    inerente    all'esercizio
obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette  la
titolarita' diretta ed esclusiva delle indagini ad  esso  finalizzate
(tra le molte, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, ordinanze n. 241 e n.
104 del 2011). A fronte del  riparto  di  detta  attribuzione  fra  i
diversi   uffici   giudiziari   territorialmente   e   funzionalmente
competenti, ma, al  tempo  stesso,  della  organizzazione  gerarchica
interna ai singoli uffici, quello  requirente  si  presenta  come  un
potere "parzialmente diffuso": legittimato ad agire e a resistere nei
giudizi  per  conflitto  di  attribuzione  e'  il  capo  dell'ufficio
interessato - in particolare, il Procuratore della Repubblica  presso
il Tribunale - in quanto  competente  a  dichiarare  definitivamente,
nell'assolvimento della ricordata funzione, la  volonta'  del  potere
cui appartiene (ordinanza n. 60 del 1999). 
    Riguardo, poi, al profilo oggettivo, il  ricorso  e'  proposto  a
salvaguardia di prerogative del Presidente della  Repubblica  che  si
deducono insite nella garanzia dell'immunita' prevista  dall'art.  90
Cost.,  in  correlazione  alle   altre   norme   costituzionali   che
definiscono il ruolo e le funzioni del Capo dello Stato (il  richiamo
all'art.  3  Cost.   e'   puramente   collaterale),   nonche'   nelle
disposizioni di legge ordinaria collegate a detta garanzia, a  fronte
di lesioni in assunto  realizzate  o  prefigurate  dalla  Procura  di
Palermo nello svolgimento dei propri compiti. 
    5.-   Risulta   d'altra   parte    infondata    l'eccezione    di
inammissibilita', formulata dalla  difesa  della  Procura  resistente
nella propria memoria illustrativa, riguardo ad un preteso  carattere
"prematuro" del conflitto,  che  si  assume  volto  a  censurare  una
semplice  "manifestazione  d'intenti",  in  carenza  di  una  lesione
attuale e concreta. Il riferimento concerne segnatamente l'intenzione
della Procura palermitana - espressa nella nota del 6 luglio 2012, in
risposta all'interpello  dell'Avvocato  generale  dello  Stato  -  di
procedere alla distruzione delle intercettazioni di  cui  si  discute
«con  l'osservanza  delle  formalita'  di  legge»:  formula  che   il
ricorrente - anche alla luce di  quanto  affermato  nella  successiva
nota del Procuratore della Repubblica del 9 luglio  2012,  diffusa  a
mezzo di agenzie di stampa  -  considera  evocativa  della  procedura
disciplinata dall'art. 268, commi 4 e seguenti, cod. proc. pen. 
    Va rilevato, in via preliminare, che l'eccezione non copre  nella
loro interezza i  contenuti  del  ricorso,  il  quale  investe  anche
comportamenti gia' tenuti dalla Procura palermitana, come ad  esempio
la   compiuta   valutazione   di   rilevanza   delle    comunicazioni
intercettate. 
    Quanto agli adempimenti non ancora posti in  essere,  costituisce
in    effetti    affermazione    ripetuta,    nella    giurisprudenza
costituzionale, che la Corte, «come  regolatrice  dei  conflitti,  e'
chiamata a giudicare  su  conflitti  non  astratti  e  ipotetici,  ma
attuali e concreti» (sentenza n. 106 del 2009, ordinanza n.  404  del
2005). Cio' in applicazione del generale principio  per  cui  non  e'
consentito chiedere al giudice che sia accertato un  proprio  diritto
(in questo caso: una attribuzione) se non quando quel diritto (quella
attribuzione) e' leso o  minacciato.  Proprio  in  tale  prospettiva,
peraltro,  questa  Corte  ha  ritenuto  sufficiente,  ai  fini  della
configurabilita' dell'interesse a ricorrere, anche la  sola  minaccia
di lesione, purche' attuale e concreta, e non meramente congetturale.
Il conflitto di attribuzione e' inammissibile quando si verta in  una
situazione di contrasto solo ipotetica,  ossia  quando  il  conflitto
venga proposto «senza  che  siano  sorte  in  concreto  contestazioni
relative alla "delimitazione della sfera di attribuzioni  determinata
per i vari poteri da norme  costituzionali"»  (ordinanza  n.  84  del
1978),  non  potendo  la  Corte  essere  adita  «a  scopo   meramente
consultivo»; tuttavia, ai fini dell'ammissibilita' dei  conflitti  di
attribuzione,  e'  richiesto  solo  «l'interesse  ad  agire,  la  cui
sussistenza e' necessaria e sufficiente a conferire al conflitto  gli
indispensabili  caratteri  della   concretezza   e   dell'attualita'»
(sentenze n. 379 del 1996 e n. 420 del 1995). 
    In quest'ordine d'idee, si e' quindi ritenuto -  avendo  riguardo
ai conflitti di attribuzione tra enti, ma con affermazione senz'altro
estensibile ai conflitti interorganici - che costituisce atto  idoneo
ad innescare un  conflitto  «qualsiasi  comportamento  significante»,
dotato di rilevanza esterna, anche se preparatorio o non  definitivo,
che  appaia  comunque  diretto  «ad  esprimere  in  modo  chiaro   ed
inequivoco la pretesa di  esercitare  una  data  competenza,  il  cui
svolgimento possa determinare una invasione  nella  altrui  sfera  di
attribuzioni o, comunque, una menomazione altrettanto  attuale  della
possibilita' di esercizio della medesima» (tra le molte, sentenze  n.
332 del 2011, n. 235 del 2007 e n. 382 del 2006). 
    Nel caso in esame, benche' negli atti  a  firma  del  Procuratore
della  Repubblica  di  Palermo  allegati  al  ricorso   non   vengano
richiamate in modo espresso ne' la procedura  di  cui  all'art.  268,
commi 4 e seguenti, ne' quella di cui all'art.  269,  comma  2,  cod.
proc. pen.,  risulta  incontestabile  -  e  le  difese  svolte  dalla
resistente nell'odierno giudizio ne costituiscono eloquente riprova -
che,  alla  luce  del  modus  operandi  seguito  dalla  Procura,   la
distruzione delle  intercettazioni  dovrebbe  passare  attraverso  le
procedure suindicate, e non gia' tramite quella  delineata  dall'art.
271 cod. proc. pen.,  la  cui  applicazione  e'  invece  pretesa  dal
ricorrente  (sul  presupposto  che  si  tratti  di   procedura   "non
partecipata"). La Procura fa conseguire, infatti,  la  "prognosi"  di
distruzione  del  materiale  dall'avvenuta  valutazione   della   sua
irrilevanza ai fini del procedimento  -  valutazione  destinata,  per
affermazione della Procura stessa, ad essere sottoposta alla verifica
del giudice nel contraddittorio fra le  parti,  le  quali  potrebbero
essere latrici  di  differenti  apprezzamenti  -  e  non  gia'  dalla
inutilizzabilita' dei  colloqui  intercettati,  in  quanto  acquisiti
contra legem. 
    Il  comportamento  della   Procura,   in   conclusione,   risulta
inequivocamente espressivo della rivendicazione del potere-dovere  di
attivare la procedura di selezione prevista dall'art. 268,  all'esito
della quale soltanto potrebbe essere  disposta,  ai  sensi  dell'art.
269, comma 2, cod. proc. pen. - ma esclusivamente  su  istanza  degli
«interessati» (ossia, nella specie,  dello  stesso  Presidente  della
Repubblica) e passando attraverso una ulteriore udienza camerale - la
distruzione del materiale in questione «a tutela della riservatezza». 
    In tale contesto, appare evidente come non possa essere condiviso
l'assunto della resistente, secondo  il  quale  il  Presidente  della
Repubblica dovrebbe attendere, prima di sollevare  il  conflitto,  la
decisione del giudice che  eventualmente  neghi  la  distruzione  del
materiale (e, di conseguenza, proporre  il  conflitto  stesso  contro
l'autorita' giudicante, anziche' contro quella inquirente). Il vulnus
paventato   dal   ricorrente   non   si   connette,   infatti,   solo
all'eventualita'  che,  a  seguito  delle  indicazioni  delle   parti
private, il giudice vada in contrario avviso  rispetto  alla  Procura
sul punto  della  irrilevanza  delle  conversazioni  e  ne  disponga,
quindi,  l'acquisizione  in   vista   di   una   loro   utilizzazione
processuale. La lesione temuta - e che  l'odierno  conflitto  mira  a
scongiurare - si connette anche, e prima di tutto,  alla  rivelazione
del contenuto dei colloqui presidenziali ad ulteriori soggetti (e, in
particolare, a soggetti privati, quali i difensori delle  parti)  che
inevitabilmente deriverebbe dal ricorso alle procedure  di  cui  agli
artt. 268 e 269 cod. proc. pen., con il conseguente  rischio  di  una
loro  generale  propalazione.  Per  questo   aspetto,   la   reazione
successiva  al  provvedimento   del   giudice   risulterebbe,   nella
prospettiva del ricorrente, chiaramente tardiva, essendosi la lesione
ormai irreparabilmente prodotta. 
    6.- Parimenti infondata e' l'altra eccezione di inammissibilita',
essa pure formulata dalla resistente nella memoria  illustrativa,  in
base alla quale il ricorrente si sarebbe impropriamente avvalso dello
strumento del conflitto di attribuzione per censurare un mero  errore
in procedendo da parte dell'autorita' giudiziaria - quello in ipotesi
derivante dal (preconizzato) ricorso ad una certa procedura  anziche'
ad un'altra, al fine di pervenire alla distruzione  del  materiale  -
ponendo, di conseguenza, una  questione  che  attiene  esclusivamente
all'interpretazione e all'applicazione delle norme processuali. 
    A  suffragio  di  tale  eccezione,  la   difesa   della   Procura
palermitana evoca la giurisprudenza di  questa  Corte  in  ordine  ai
limiti di ammissibilita' dei conflitti di attribuzione nei  confronti
di atti giurisdizionali: giurisprudenza secondo la quale il conflitto
non puo'  essere  utilizzato  per  sindacare  semplicemente  presunti
errores in iudicando o in procedendo  nell'esercizio  della  funzione
giudiziaria, col risultato di trasformarlo in un improprio  mezzo  di
impugnazione. 
    Al riguardo, va anzitutto osservato che nel presente caso non  si
discute di atti giurisdizionali, non venendo in considerazione  alcun
provvedimento del giudice, ma solo  attivita'  giudiziarie  poste  in
essere dall'organo inquirente. 
    Ad ogni modo, l'orientamento della giurisprudenza  costituzionale
richiamato dalla stessa Procura palermitana e' nel senso che gli atti
giurisdizionali sono suscettibili  di  essere  posti  a  base  di  un
conflitto di attribuzione, tanto interorganico  che  intersoggettivo,
quando sia contestata radicalmente la riconducibilita' dell'atto  che
determina il conflitto alla funzione giurisdizionale,  ovvero  quando
sia   messa   in   discussione   l'esistenza   stessa   del    potere
giurisdizionale nei confronti del soggetto  ricorrente,  o,  piu'  in
generale, si lamenti il superamento dei limiti, diversi dal  generale
vincolo (anche costituzionale) di soggezione del giudice alla  legge,
che detta funzione incontra  nell'ordinamento  a  garanzia  di  altre
attribuzioni costituzionali (in  materia  di  conflitto  tra  poteri,
sentenza n. 359 del 1999, ordinanze n. 285 del 2011, n. 334 e n.  284
del 2008; in materia di conflitto tra enti, sentenze n. 195 e  n.  39
del 2007, n. 326 e n. 276 del 2003). 
    Nella specie, il ricorso del Presidente della Repubblica e' volto
propriamente a contestare  la  stessa  esistenza  nei  confronti  del
ricorrente, in ragione  delle  sue  prerogative  costituzionali,  del
potere che la Procura riterrebbe invece competerle: quello, cioe', di
intercettare i colloqui del Capo del Stato, almeno quando  si  tratti
di  captazioni  «occasionali»,  e  di  utilizzare  le   conversazioni
presidenziali cosi' intercettate ai fini  del  procedimento  (potere,
quest'ultimo, la cui esistenza rappresenta, come gia'  accennato,  il
presupposto  logico  della   valutazione   di   «irrilevanza»   delle
conversazioni, operata dalla Procura, e della manifestata convinzione
che la loro distruzione debba  transitare  attraverso  la  cosiddetta
udienza stralcio, di cui all'art. 268 cod. proc. pen.). 
    Questa Corte, del  resto,  ha  piu'  volte  ritenuto  ammissibili
conflitti di attribuzione promossi in relazione ad atti od  omissioni
del pubblico ministero strutturalmente analoghi, sotto il profilo  in
esame, a  quelli  che  formano  oggetto  delle  odierne  censure  (ad
esempio, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012, n. 106 del 2009;  ordinanze
n. 241 e n. 104 del 2011). 
    7.- Neppure ha fondamento  l'ulteriore  eccezione  -  prospettata
dalla difesa della resistente nell'atto di costituzione in giudizio -
di inammissibilita' del ricorso  «per  impossibilita'  giuridica  del
petitum». 
    Deve, infatti, escludersi  che  la  Presidenza  della  Repubblica
abbia postulato un dovere della Procura di distruggere  essa  stessa,
omisso medio, la  documentazione  delle  intercettazioni  di  cui  si
discute: comportamento - secondo la resistente - «non  esigibile»  in
base  alla  disciplina  processuale   vigente,   posto   che,   tanto
nell'ipotesi prevista dagli artt. 268,  comma  6,  e  269,  comma  2,
quanto in quella regolata dall'art. 271, comma 3, cod. proc. pen., la
distruzione puo' essere disposta esclusivamente dal giudice. 
    In senso contrario va osservato che, per costante  giurisprudenza
di questa Corte, l'oggetto del conflitto di attribuzione deve  essere
individuato sulla  base  di  una  lettura  complessiva  dell'atto  di
promovimento, la quale puo' bene valere a precisare o ad integrare la
formale enunciazione del petitum (tra le molte, sentenze n.  334  del
2011, n. 223 del 2009, n. 286 del 2006 e n. 137 del 2001). 
    Nella  specie   -   anche   a   prescindere   dalle   inequivoche
puntualizzazioni successivamente fornite dall'Avvocatura dello  Stato
nella memoria illustrativa - appare in effetti  evidente,  alla  luce
del tenore complessivo del ricorso introduttivo,  come  la  locuzione
che figura nelle relative conclusioni  («chiede  che  l'Ecc.ma  Corte
adita dichiari che non spetta alla Procura della Repubblica presso il
Tribunale Ordinario di Palermo omettere l'immediata distruzione delle
intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica»)
assuma un carattere ellittico, non disconoscendo  il  ricorrente,  in
realta', che la distruzione del materiale  probatorio  debba  passare
attraverso il vaglio del  giudice.  Depone  in  tal  senso  non  solo
l'esplicito richiamo, quale  "parametro  integrativo",  all'art.  271
cod. proc. pen. - il cui  comma  3  prevede  che  la  distruzione  e'
disposta per ordine del giudice - ma anche la specifica affermazione,
fatta a pagina 3 del  ricorso,  secondo  cui  il  pubblico  ministero
dovrebbe immediatamente «chiedere al giudice»  la  distruzione  delle
intercettazioni   delle   conversazioni   presidenziali,    ancorche'
«indirette od occasionali» (affermazione che figura, peraltro,  anche
nel decreto del Presidente  della  Repubblica  del  16  luglio  2012,
recante la determinazione di proporre il  conflitto  e  l'affidamento
della difesa  all'Avvocatura  dello  Stato:  decreto  richiamato  nel
ricorso e allo stesso allegato). 
    Riguardo poi alla richiesta che sia riconosciuto l'obbligo  della
Procura palermitana di procedere  «immediatamente»  alla  distruzione
del  materiale  acquisito,  risulta  chiaro,  alla  luce  del  tenore
complessivo dell'atto di promovimento, come la  scelta  dell'avverbio
non evochi  affatto  un  ruolo  diretto  ed  esclusivo  del  pubblico
ministero nella procedura. Il termine vale piuttosto  a  significare,
al  fianco  di  una  connotazione  di  urgenza  dell'atto,  come   il
ricorrente ritenga che la distruzione non debba essere  preceduta  da
quegli adempimenti "intermedi" che  la  Procura  palermitana  intende
compiere, cioe' la  cosiddetta  «udienza  stralcio»  e,  inoltre,  la
procedura camerale partecipata di cui all'art. 269 cod. proc. pen. 
    In definitiva il ricorrente  -  come  confermato  dall'Avvocatura
dello Stato nella propria memoria - ha inteso dolersi del  fatto  che
la resistente non  abbia  prontamente  promosso  la  distruzione  del
materiale, facendone istanza al giudice. 
    Cade automaticamente, con cio', anche la correlata  e  conclusiva
eccezione di inammissibilita' sollevata dalla Procura, inerente  alla
pretesa contraddizione tra il petitum e le  ragioni  addotte  in  suo
sostegno, dovendo il primo  essere  identificato  proprio  alla  luce
delle seconde. 
    8.- Nel merito, il ricorso e' fondato. 
    8.1.- Al fine di decidere il presente conflitto di  attribuzione,
non  e'  sufficiente  una  mera  esegesi  testuale  di   disposizioni
normative,  costituzionali  od  ordinarie,  ma  e'   necessario   far
riferimento all'insieme dei principi costituzionali, da cui  emergono
la figura ed il ruolo del Presidente  della  Repubblica  nel  sistema
costituzionale italiano. 
    E' appena il caso di osservare, inoltre, che  in  tutte  le  sedi
giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale)  occorre
interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione,  e  non
viceversa. La Carta fondamentale contiene in se' principi  e  regole,
che non soltanto  si  impongono  sulle  altre  fonti  e  condizionano
pertanto la legislazione ordinaria - determinandone la illegittimita'
in  caso  di  contrasto  -  ma  contribuiscono  a   conformare   tale
legislazione, mediante il dovere del giudice di  attribuire  ad  ogni
singola disposizione normativa  il  significato  piu'  aderente  alle
norme costituzionali, sollevando la questione di legittimita' davanti
a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere
testuali, individuare una interpretazione conforme (sentenza  n.  356
del 1996). Naturalmente  allo  stesso  principio  deve  ispirarsi  il
giudice delle leggi. 
    La conformita' a Costituzione dell'interpretazione giudiziale non
puo' peraltro limitarsi ad  una  comparazione  testuale  e  meramente
letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la  norma
costituzionale di riferimento. La Costituzione e'  fatta  soprattutto
di principi e questi ultimi sono in stretto  collegamento  tra  loro,
bilanciandosi  vicendevolmente,  di  modo  che  la   valutazione   di
conformita'  alla  Costituzione  stessa  deve  essere   operata   con
riferimento  al  sistema,  e  non  a  singole   norme,   isolatamente
considerate.  Un'interpretazione  frammentaria   delle   disposizioni
normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre,  in
molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire  le
stesse loro finalita' di tutela. 
    8.2.-  Poste  le  premesse  metodologiche  di   cui   sopra,   la
ricostruzione del complesso delle attribuzioni del  Presidente  della
Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in  rilievo  che
lo stesso e' stato collocato  dalla  Costituzione  al  di  fuori  dei
tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte
le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che  incidono
su ognuno dei citati poteri,  allo  scopo  di  salvaguardare,  ad  un
tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare
caratteristica della  posizione  del  Presidente  si  riflette  sulla
natura delle  sue  attribuzioni,  che  non  implicano  il  potere  di
adottare decisioni nel merito di specifiche materie,  ma  danno  allo
stesso gli strumenti per indurre gli altri  poteri  costituzionali  a
svolgere correttamente le proprie funzioni, da cui  devono  scaturire
le relative decisioni di merito. La specificita' della posizione  del
Capo  dello  Stato  si  fonda  sulla  descritta  natura   delle   sue
attribuzioni, che lo differenziano dagli altri organi costituzionali,
senza incidere, tuttavia, sul principio di parita' tra gli stessi. 
    Alla  luce  di  quanto  detto,  il  Presidente  della  Repubblica
«rappresenta l'unita' nazionale» (art. 87, primo  comma,  Cost.)  non
soltanto nel senso dell'unita' territoriale dello Stato, ma anche,  e
soprattutto, nel senso della coesione e  dell'armonico  funzionamento
dei  poteri,  politici  e  di  garanzia,  che  compongono   l'assetto
costituzionale della Repubblica. Si tratta di organo di moderazione e
di stimolo nei confronti di altri  poteri,  in  ipotesi  tendenti  ad
esorbitanze o ad inerzia. 
    Tutti i poteri del Presidente della Repubblica  hanno  dunque  lo
scopo di  consentire  allo  stesso  di  indirizzare  gli  appropriati
impulsi ai titolari degli organi che  devono  assumere  decisioni  di
merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il
loro  funzionamento,  oppure,  in  ipotesi  di  stasi  o  di  blocco,
adottando provvedimenti  intesi  a  riavviare  il  normale  ciclo  di
svolgimento delle funzioni costituzionali. Tali sono, ad esempio,  il
potere di sciogliere le Camere, per consentire al corpo elettorale di
indicare la soluzione  politica  di  uno  stato  di  crisi,  che  non
permette la formazione di un Governo o incide  in  modo  grave  sulla
rappresentativita' del  Parlamento;  la  nomina  del  Presidente  del
Consiglio e, su proposta di  questi,  dei  ministri,  per  consentire
l'operativita' del vertice del potere esecutivo; l'assunzione,  nella
sua  qualita'   di   Presidente   del   Consiglio   superiore   della
magistratura, di iniziative volte a garantire le  condizioni  esterne
per   un   indipendente   e   coerente   esercizio   della   funzione
giurisdizionale. 
    8.3.- Per svolgere efficacemente  il  proprio  ruolo  di  garante
dell'equilibrio costituzionale e di "magistratura di  influenza",  il
Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo
di  armonizzare  eventuali  posizioni  in   conflitto   ed   asprezze
polemiche, indicare ai  vari  titolari  di  organi  costituzionali  i
principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni
il piu' possibile condivise dei  diversi  problemi  che  via  via  si
pongono. 
    E' indispensabile, in questo quadro, che il Presidente  affianchi
continuamente  ai  propri  poteri  formali,   che   si   estrinsecano
nell'emanazione  di  atti  determinati  e   puntuali,   espressamente
previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che  e'  stato
definito il  "potere  di  persuasione",  essenzialmente  composto  di
attivita' informali, che possono precedere o seguire  l'adozione,  da
parte  propria  o  di  altri  organi  costituzionali,  di   specifici
provvedimenti,  sia  per  valutare,  in  via  preventiva,   la   loro
opportunita' istituzionale, sia per  saggiarne,  in  via  successiva,
l'impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri  dello  Stato.  Le
attivita' informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle
formali. 
    Le suddette attivita' informali, fatte di incontri, comunicazioni
e raffronti dialettici, implicano  necessariamente  considerazioni  e
giudizi parziali e provvisori da parte  del  Presidente  e  dei  suoi
interlocutori. Le attivita' di raccordo  e  di  influenza  possono  e
devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in
base ai loro risultati, non gia' in modo frammentario ed episodico, a
seguito di estrapolazioni parziali ed  indebite.  L'efficacia,  e  la
stessa praticabilita', delle funzioni di raccordo e  di  persuasione,
sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e  casuale
pubblicizzazione dei contenuti dei  singoli  atti  comunicativi.  Non
occorrono molte parole per dimostrare che un'attivita'  informale  di
stimolo, moderazione e persuasione - che  costituisce  il  cuore  del
ruolo  presidenziale  nella  forma  di  governo  italiana  -  sarebbe
destinata a sicuro fallimento,  se  si  dovesse  esercitare  mediante
dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e  quindi  la  riservatezza,
delle comunicazioni del Presidente  della  Repubblica  sono  pertanto
coessenziali al suo ruolo nell'ordinamento costituzionale.  Non  solo
le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei
cittadini  di  fronte  alla   legge,   ma   costituiscono   modalita'
imprescindibili   di   esercizio   della   funzione   di   equilibrio
costituzionale - derivanti direttamente dalla Costituzione e  non  da
altre fonti normative - dal  cui  mantenimento  dipende  la  concreta
possibilita' di tutelare gli  stessi  diritti  fondamentali,  che  in
quell'equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare. 
    9.- Dalle considerazioni svolte consegue che il Presidente  della
Repubblica deve  poter  contare  sulla  riservatezza  assoluta  delle
proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione,  ma
per l'efficace esercizio di tutte. Anche le  funzioni  che  implicano
decisioni molto  incisive,  che  si  concretizzano  in  solenni  atti
formali, come lo scioglimento anticipato delle assemblee  legislative
(art. 88 Cost.), presuppongono che  il  Presidente  intrattenga,  nel
periodo che precede l'assunzione della  decisione,  intensi  contatti
con le forze  politiche  rappresentate  in  Parlamento  e  con  altri
soggetti, esponenti della societa' civile e delle  istituzioni,  allo
scopo di valutare tutte le alternative costituzionalmente  possibili,
sia per consentire alla legislatura di  giungere  alla  sua  naturale
scadenza, sia per troncare, con l'appello agli  elettori,  situazioni
di stallo e di ingovernabilita'. La  propalazione  del  contenuto  di
tali colloqui, nel corso dei quali ciascuno degli interlocutori  puo'
esprimere apprezzamenti non definitivi  e  valutazioni  di  parte  su
persone e formazioni politiche, sarebbe estremamente dannosa non solo
per la figura e per le funzioni del Capo dello  Stato,  ma  anche,  e
soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo, che  dovrebbe
sopportare le conseguenze dell'acuirsi delle contrapposizioni e degli
scontri. 
    Le stesse  considerazioni  e'  possibile  fare  a  proposito  dei
contatti  necessari  per  un  efficace  svolgimento  del   ruolo   di
Presidente del Consiglio superiore della  magistratura,  che  non  si
riduce ai discorsi ufficiali in occasione  delle  sedute  solenni  di
quest'organo o alla firma dei provvedimenti dallo stesso  deliberati,
ma implica la  conoscenza  di  specifiche  situazioni  e  particolari
problemi, che attengono all'esercizio della giurisdizione a  tutti  i
livelli, senza ovviamente alcuna interferenza  con  il  merito  degli
orientamenti, processuali e sostanziali, dei  giudici  nell'esercizio
delle loro funzioni. 
    Ancora  va  ricordato  come  il  Capo  dello  Stato  presieda  il
Consiglio supremo di difesa ed abbia il comando delle Forze armate, e
come sia  chiamato  ad  intrattenere,  anche  nelle  vesti  indicate,
rapporti e comunicazioni del cui carattere riservato non occorre dare
particolare dimostrazione. 
    Dagli esempi teste' prospettati si puo' dedurre in quale  misura,
nel campo delle prerogative costituzionali,  vengano  in  rilievo  le
esigenze intrinseche del sistema, che non sempre sono enunciate dalla
Costituzione in norme esplicite, e che risultano peraltro  del  tutto
evidenti, se si adotta  un  punto  di  vista  sensibile  alla  tenuta
dell'equilibrio  tra  i  poteri.  Questa  Corte   ha   reiteratamente
affermato che le prerogative degli organi costituzionali - in  quanto
derogatorie del principio della parita' di trattamento  davanti  alla
giurisdizione, posto alle origini della  formazione  dello  Stato  di
diritto (sentenza n. 24 del 2004) - trovano  fondamento  nel  dettato
costituzionale, al quale il  legislatore  ordinario  puo'  dare  solo
stretta attuazione (sentenza  n.  262  del  2009),  senza  aggiungere
alcuna nuova deroga al diritto comune. Tale  esigenza,  peraltro,  e'
soddisfatta anche quando quel fondamento,  pur  nell'assenza  di  una
enunciazione formale ed espressa, emerga in modo univoco dal  sistema
costituzionale (sentenza n. 148 del 1983). 
    E' evidente altresi' che tutti gli  organi  costituzionali  hanno
necessita'   di   disporre   di   una   garanzia   di    riservatezza
particolarmente intensa, in relazione alle  rispettive  comunicazioni
inerenti ad attivita' informali, sul presupposto che tale garanzia  -
principio generale valevole per tutti i cittadini, ai sensi dell'art.
15 Cost. - assume contorni e  finalita'  specifiche,  se  vengono  in
rilievo  ulteriori   interessi   costituzionalmente   meritevoli   di
protezione,  quale  l'efficace  e  libero  svolgimento,  ad  esempio,
dell'attivita' parlamentare e di governo. 
    Si inquadra in questa prospettiva la disposizione di cui all'art.
68, terzo comma, Cost., riguardante i membri  delle  due  Camere,  la
quale stabilisce che non si possa ricorrere, nei  confronti  di  tali
soggetti, ad intercettazioni telefoniche o ad altri mezzi invasivi di
ricerca della prova, se non  a  seguito  di  autorizzazione  concessa
dalla Camera  competente.  Specifiche  limitazioni  all'esercizio  di
poteri di indagine mediante atti invasivi, quali  le  intercettazioni
telefoniche, sono previste da norme di rango costituzionale anche per
i componenti del Governo (art. 10 della legge cost. 16 gennaio  1989,
n. 1, recante  «  Modifiche  degli  articoli  96,  134  e  135  della
Costituzione e della legge costituzionale 11  marzo  1953,  n.  1,  e
norme in materia di procedimenti per i reati di cui  all'articolo  96
della Costituzione»). 
    La posizione dei soggetti appena indicati e quella del Presidente
della Repubblica divergono tuttavia  per  due  distinti  profili.  In
primo luogo, il Presidente possiede soltanto funzioni di  raccordo  e
di equilibrio, che non implicano l'assunzione, nella  sua  quotidiana
attivita', di decisioni politiche - delle quali debba  rispondere  ai
suoi elettori o a chi abbia accordato la fiducia - ma richiedono  che
ponga in collegamento tutti i titolari delle istituzioni di  vertice,
esercitando quei poteri di impulso, di persuasione e di  moderazione,
di cui si diceva prima,  richiedenti  necessariamente  discrezione  e
riservatezza. Per altro verso, e non  a  caso,  la  Costituzione  non
prevede   alcuno   strumento    per    rimuovere    la    preclusione
all'utilizzazione, nei confronti del Presidente, di mezzi di  ricerca
della  prova  invasivi,  a  differenza  di  quel   che   concerne   i
parlamentari ed i componenti del Governo, per i  quali  e'  possibile
procedere a tali forme di controllo se la Camera competente,  secondo
le  diverse  discipline  della   materia,   concede   la   prescritta
autorizzazione. 
    Nel quadro normativo fa difetto, del resto, ogni  riferimento  ai
soggetti istituzionali  cui  sarebbe  possibile  chiedere,  da  parte
dell'autorita'  giudiziaria,  una   autorizzazione   concernente   il
Presidente della Repubblica. L'assenza di una previsione non potrebbe
essere superata in via interpretativa, neanche  da  parte  di  questa
Corte,   poiche'   manca   in    modo    evidente    una    soluzione
costituzionalmente  obbligata.  L'individuazione   di   un   soggetto
competente a rilasciare un'autorizzazione del genere potrebbe  essere
operata  soltanto  da  una  norma  di   rango   costituzionale,   non
surrogabile da alcun altro tipo di fonte  ne',  tanto  meno,  da  una
pronuncia del giudice costituzionale. 
    La mancata previsione  di  atti  autorizzatori  simili  a  quelli
contemplati per i parlamentari ed i ministri, e la carenza inoltre di
limitazioni esplicite per  categorie  di  reati  stabilite  da  norme
costituzionali, non possono portare alla paradossale conseguenza  che
le comunicazioni del Presidente della Repubblica godano di una tutela
inferiore a quella degli altri soggetti istituzionali menzionati,  ma
alla piu' coerente conclusione che il silenzio della Costituzione sul
punto sia espressivo della inderogabilita' - in linea di principio  e
con l'eccezione costituzionalmente necessaria di cui  si  dira'  poco
oltre  -  della  riservatezza   della   sfera   delle   comunicazioni
presidenziali. 
    Tale inderogabilita' discende dalla posizione  e  dal  ruolo  del
Capo dello Stato nel  sistema  costituzionale  italiano  e  non  puo'
essere riferita ad una norma  specifica  ed  esplicita,  poiche'  non
esiste una  disposizione  che  individui  un  soggetto  istituzionale
competente ad autorizzare il superamento della  prerogativa.  Non  si
tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della  presupposizione
logica, di natura giuridico-costituzionale, dell'intangibilita' della
sfera di comunicazioni del  supremo  garante  dell'equilibrio  tra  i
poteri dello Stato. 
    Da quanto sinora detto si deduce l'improponibilita' di  qualunque
analogia, nella disciplina della prerogativa  di  riservatezza  delle
comunicazioni del Capo dello Stato, sia  in  funzione  estensiva  che
restrittiva, con le norme contenute nella legge 20  giugno  2003,  n.
140   (Disposizioni   per   l'attuazione   dell'articolo   68   della
Costituzione nonche' in materia  di  processi  penali  nei  confronti
delle alte cariche dello Stato), da considerare  attuative  -  specie
dopo la sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 - di  una  previsione
costituzionale riguardante  soltanto  i  membri  del  Parlamento.  E'
proprio dallo stesso art. 68  Cost.,  e  non  dalle  norme  di  legge
ordinaria che vi hanno dato attuazione, che si puo'  invece  muovere,
sulla base di una logica  argomentazione  a  fortiori,  per  dare  un
significato, nella direzione indicata, al silenzio della Costituzione
in tema di intercettazione delle comunicazioni del  Presidente  della
Repubblica. 
    10.- Non sarebbe, in effetti, rispondente ad un  corretto  metodo
interpretativo  della  Costituzione   trarre   conclusioni   negative
sull'esistenza  di  una  tutela  generale  della  riservatezza  delle
comunicazioni del Presidente della  Repubblica  dall'assenza  di  una
esplicita disposizione costituzionale in proposito. 
    Nessuno, ad esempio, potrebbe dubitare  della  sussistenza  delle
immunita' riconosciute alle sedi  degli  organi  costituzionali,  sol
perche'  non  e'  prevista  in   Costituzione   e   rimane   affidata
esclusivamente all'efficacia dei  regolamenti  di  tali  organi,  ove
invece e' sancita in modo esplicito. Questa Corte  ha  gia'  chiarito
che  alle  disposizioni  contenute  nella   Costituzione,   volte   a
salvaguardare l'assoluta indipendenza del Parlamento, «si  aggiungono
poi, svolgendone ed applicandone i principi, quelle  dei  regolamenti
parlamentari», da cui «si suole trarre la regola  della  cosi'  detta
"immunita' della sede" (valevole anche per gli altri  supremi  organi
dello Stato) in forza della quale nessuna estranea autorita' potrebbe
far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento
ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari  non  vi
ottemperassero, sarebbe unicamente possibile  provocare  l'intervento
di  questa  Corte,  in  sede  di  conflitto  di  attribuzione  [...]»
(sentenza n. 231 del  1975).  In  definitiva,  e  per  giurisprudenza
risalente, la legge e i regolamenti degli organi  costituzionali  non
possono creare  nuove  prerogative,  ma  possono  tuttavia  esprimere
prerogative implicite alla particolare struttura ed  alle  specifiche
funzioni dei medesimi organi. 
    La immunita' delle sedi  e'  legata  all'esistenza  stessa  dello
Stato di  diritto  democratico,  che  verrebbe  posta  certamente  in
pericolo dall'esercizio  non  contrastabile  dei  poteri  repressivi,
anche  nei  luoghi  ove  si  esercitano  le   massime   funzioni   di
rappresentanza e di garanzia. La violazione delle sedi  degli  organi
costituzionali potrebbe avvenire solo in  uno  Stato  autoritario  di
polizia,   che   ovviamente   costituisce   l'opposto   dello   Stato
costituzionale delineato dalla Carta del 1948. 
    L'interpretazione   meramente   letterale   delle    disposizioni
normative, metodo primitivo sempre, lo e' ancor piu' se oggetto della
ricostruzione ermeneutica sono le  disposizioni  costituzionali,  che
contengono norme basate su principi fondamentali  indispensabili  per
il  regolare  funzionamento  delle   istituzioni   della   Repubblica
democratica. La natura  derogatoria  del  principio  di  uguaglianza,
propria delle  norme  che  sanciscono  le  prerogative  degli  organi
costituzionali, impone - come questa Corte ha costantemente affermato
- una  stretta  interpretazione  delle  relative  disposizioni.  Sono
pertanto  escluse  sia   l'interpretazione   estensiva   che   quella
analogica, ma resta possibile ed  anzi  necessaria  l'interpretazione
sistematica, che consente una ricostruzione coerente dell'ordinamento
costituzionale. 
    Non sarebbe ragionevole  dire,  d'altra  parte,  che  l'immunita'
delle sedi  costituisca  un  inaccettabile  privilegio  degli  organi
costituzionali, contrario all'art. 3 Cost., perche' uguale  immunita'
non  e'  prevista  per  le  abitazioni  dei   cittadini.   Le   norme
regolamentari  in  discorso  esplicitano  una   garanzia   funzionale
presente nella Costituzione, e  per  questa  ragione  sono  con  essa
perfettamente compatibili. 
    Si consideri ancora che,  una  volta  stabilita  l'inviolabilita'
della sede degli  organi  costituzionali  rispetto  all'esercizio  di
poteri coercitivi dell'autorita' giudiziaria o  di  polizia,  sarebbe
davvero irragionevole ammettere la  possibilita'  di  una  intrusione
sulle linee telefoniche in uso ai titolari degli organi  stessi,  per
di piu' installate proprio nelle sedi protette da  immunita'.  Se  si
rileva  poi  che,  oltre  alle  intercettazioni   telefoniche,   sono
possibili  -  in  relazione  a  determinate   fattispecie   -   anche
intercettazioni ambientali, si dovrebbe assurdamente  concludere  che
sia  consentito  collocare,  previa   autorizzazione   del   giudice,
apparecchi trasmittenti nelle sedi delle Camere, del  Governo,  della
Corte costituzionale, sol perche' non  esiste  un  esplicito  divieto
costituzionale di compiere tali atti investigativi. 
    Il  paradosso  legato  ad  una  ricerca   solo   testuale   delle
prerogative potrebbe spingersi fino a conseguenze ancor piu' estreme.
Norme  di  rango  costituzionale   pongono   limiti   espressi   alla
possibilita' che i  componenti  delle  Camere  o  del  Governo  siano
assoggettati a provvedimenti  coercitivi  della  liberta'  personale,
oltre che  a  mezzi  di  indagine  lesivi  dell'inviolabilita'  delle
comunicazioni e del domicilio (rispettivamente, art. 68 Cost. e  art.
10 della legge  cost.  n.  1  del  1989).  Nell'assenza  di  analoghe
previsioni che lo riguardano, dovrebbe ritenersi, secondo  il  metodo
qui disatteso,  che  il  Presidente  della  Repubblica  possa  essere
indiscriminatamente assoggettato a provvedimenti coercitivi - perfino
eseguibili attraverso la restrizione in carcere - anche ad iniziativa
della polizia giudiziaria. E cio' qualunque sia la natura  del  reato
in ipotesi perseguito. L'inaccettabilita' della  conseguenza,  com'e'
ovvio, invalida il metodo. Ed infatti non mancano,  nell'ordinamento,
norme sintomatiche dell'incoercibilita' della liberta' personale  del
Capo dello Stato. Si pensi ad esempio all'esclusione per quest'ultimo
della possibilita' di procedere nelle forme ordinarie (e dunque anche
mediante l'eventuale accompagnamento coattivo)  all'assunzione  della
testimonianza (art. 205, comma 3, cod. proc. pen.,  in  relazione  al
comma 1 della stessa norma): lungi dal costituire una  eccezione  (in
questo  senso  irragionevole)  nell'ambito   di   una   generalizzata
possibilita' di coercizione, la disposizione rappresenta piuttosto la
regola applicativa, sul piano particolare, del piu'  generale  regime
di tutela della funzione presidenziale. 
    11.- L'art. 90 Cost. prevede che il Presidente  della  Repubblica
non e' responsabile degli  atti  compiuti  nell'esercizio  delle  sue
funzioni,  tranne  che  per  alto   tradimento   o   attentato   alla
Costituzione. E' opinione pacifica che l'immunita' di cui alla citata
norma costituzionale  sia  onnicomprensiva,  copra  cioe'  i  settori
penale,   civile,   amministrativo   e    politico.    Tuttavia    la
perseguibilita' del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento
e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo  di
accertare  cosi'  gravi  illeciti  penali,  di  rilevanza  non   solo
personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di
ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni
telefoniche. Si tratta di una limitazione logica  ed  implicita  alla
statuizione  costituzionale  che  assoggetta  il   Presidente   della
Repubblica  alla  giurisdizione  penale  -  sia  pure  con  forme   e
procedimenti  peculiari  -  in  vista  dell'accertamento  della   sua
responsabilita'  per  il  compimento  di  uno  dei   suddetti   reati
funzionali. 
    La  ritenuta  necessita'  di  consentire  l'esercizio  di  poteri
investigativi  particolarmente  penetranti,  come  (per  quanto   qui
interessa) le intercettazioni telefoniche, ha indotto il  legislatore
ordinario a  dare  stretta  attuazione  al  disposto  costituzionale,
mediante l'art. 7, commi 2 e 3, della legge n.  219  del  1989.  Tale
disciplina attribuisce al Comitato parlamentare, di cui  all'art.  12
della legge costituzionale 11 marzo 1953,  n.  1  (Norme  integrative
della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), il potere di
deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche
nei confronti del Presidente della Repubblica,  sempre  dopo  che  la
Corte  costituzionale  abbia  sospeso   lo   stesso   dalla   carica:
un'eccezione, stabilita con legge  ordinaria,  al  generale  divieto,
desumibile   dal   sistema   costituzionale,   di   intercettare   le
comunicazioni del Capo dello Stato. La norma eccezionale si  contiene
nei  limiti   strettamente   necessari   all'attuazione   processuale
dell'art. 90 Cost. - che costituisce, a sua volta, norma  derogatoria
- disponendo, per di piu', che,  finanche  nell'ipotesi  di  indagini
volte all'accertamento dei piu' gravi delitti contro  le  istituzioni
della  Repubblica  previsti  dall'ordinamento  costituzionale,  siano
interdette  agli  investigatori   intercettazioni   telefoniche   nei
confronti del Presidente in carica. 
    Lo  stesso  argomento  a  fortiori,  che  consente  di  dare   un
significato coerente con il sistema al  silenzio  della  Costituzione
sulle garanzie di riservatezza delle  comunicazioni  del  Capo  dello
Stato, deve essere utilizzato per dedurre dalla  rigorosa  previsione
dell'art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989, la conclusione
che la garanzia  prevista  perfino  per  le  indagini  concernenti  i
delitti piu' gravi sul piano istituzionale implica che, per tutte  le
altre fattispecie, non si  possa  ipotizzare  un  livello  di  tutela
inferiore. Cio', del resto, e' esplicitamente riconosciuto  anche  da
quella parte della dottrina che circoscrive nel modo piu' restrittivo
le prerogative presidenziali. La stessa Procura della  Repubblica  di
Palermo, odierna resistente, non contesta che sia  inibita  qualunque
forma di intercettazione  telefonica  nei  confronti  del  Presidente
della Repubblica ed ha piuttosto incentrato le sue difese -  come  si
vedra' poco piu' avanti - sull'asserita  impossibilita'  di  riferire
tale divieto alle intercettazioni «casuali». 
    12.- Sulla base delle  considerazioni  sinora  esposte,  si  deve
affermare altresi' che,  al  fine  di  determinare  l'ampiezza  della
tutela della riservatezza delle comunicazioni  del  Presidente  della
Repubblica, non assume alcuna  rilevanza  la  distinzione  tra  reati
funzionali     ed     extrafunzionali,      giacche'      l'interesse
costituzionalmente protetto non e' la salvaguardia della persona  del
titolare della carica, ma l'efficace svolgimento  delle  funzioni  di
equilibrio  e  raccordo  tipiche  del  ruolo  del  Presidente   della
Repubblica  nel  sistema  costituzionale  italiano,   fondato   sulla
separazione e sull'integrazione dei poteri dello Stato. 
    Si deve inoltre  sottolineare  che  tutta  la  discussione  sulla
distinzione tra i reati ascrivibili al Capo dello  Stato,  sviluppata
anche nell'ambito del  presente  giudizio,  risulta  invece  ad  esso
estranea,  giacche'  nel  procedimento  penale  da  cui  origina   il
conflitto non e' mai emersa alcuna contestazione di natura penale nei
confronti del Presidente. 
    13.-  Ugualmente  fuor  di  luogo  sono  tutte   le   discussioni
sviluppate  in  questo  giudizio  sulla  responsabilita'  penale  del
Presidente  della  Repubblica  per  reati  extrafunzionali.  E'  noto
infatti come questa  Corte  abbia  stabilito  che  «l'art.  90  della
Costituzione sancisce la irresponsabilita' del Presidente - salve  le
ipotesi  estreme   dell'alto   tradimento   e   dell'attentato   alla
Costituzione - solo per gli "atti compiuti nell'esercizio  delle  sue
funzioni"».  La  medesima  pronuncia  ha  concluso  sul   punto   con
chiarezza: «E' dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti
e dichiarazioni inerenti  all'esercizio  delle  funzioni,  e  atti  e
dichiarazioni che, per  non  essere  esplicazione  di  tali  funzioni
restano addebitabili, ove forieri di  responsabilita',  alla  persona
fisica del titolare della carica» (sentenza n. 154 del 2004). 
    Allo scopo di  fugare  ogni  ulteriore  equivoco  sul  punto,  va
riaffermato che il Presidente, per eventuali  reati  commessi  al  di
fuori  dell'esercizio  delle  sue  funzioni,  e'  assoggettato   alla
medesima responsabilita' penale che grava su tutti i cittadini.  Cio'
che  invece  non  e'  ammissibile  e'  l'utilizzazione  di  strumenti
invasivi di  ricerca  della  prova,  quali  sono  le  intercettazioni
telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo  inevitabile  e
indistinto, non solo le  private  conversazioni  del  Presidente,  ma
tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento
delle sue essenziali funzioni  istituzionali,  per  le  quali,  giova
ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e
funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex  ante  da
parte delle autorita' che compiono le indagini. In tali frangenti, la
ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali  deve
avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro),  tali
da  non  arrecare   una   lesione   alla   sfera   di   comunicazione
costituzionalmente protetta del Presidente. 
    In definitiva, nella materia su cui incide il presente  conflitto
si deve procedere tenendo conto del necessario bilanciamento  tra  le
esigenze di giustizia e  gli  interessi  supremi  delle  istituzioni,
senza giungere al sacrificio ne' delle  prime  ne'  dei  secondi.  Va
ribadito peraltro, anche  a  questo  proposito,  che  il  tema  della
responsabilita' penale del Presidente della Repubblica resta estraneo
all'odierno giudizio. 
    Questa Corte deve fornire le precisazioni di cui sopra in ragione
della trattazione di tale argomento negli atti difensivi delle parti,
le quali - anche per giungere ad opposte conclusioni - hanno ritenuto
di collegare il problema  dell'ammissibilita'  delle  intercettazioni
nei confronti del Presidente della  Repubblica  a  quello  della  sua
soggezione  alla  giurisdizione  penale,  della  quale,  come  appena
ricordato, questa Corte ha da tempo affermato la sussistenza,  e  che
oggi deve essere ribadita. 
    14.- Contrariamente a quanto sostiene la resistente,  non  assume
neppure rilevanza - se non per il profilo che appresso si  indichera'
- la distinzione (tuttora oggetto di controversie nei casi  concreti)
tra intercettazioni dirette, indirette e casuali. 
    In via preliminare va ricordato come, secondo  la  giurisprudenza
costituzionale  formatasi  a  proposito  delle  indagini  riguardanti
parlamentari o membri del Governo, occorra distinguere tra  controlli
mirati all'ascolto delle  comunicazioni  del  soggetto  munito  della
prerogativa, e controlli casuali od  occasionali,  cioe'  intervenuti
accidentalmente in forza dell'intercettazione disposta a carico di un
soggetto non immune. Nella prima delle due  categorie  sono  comprese
anche le intercettazioni "indirette", cioe' quelle indagini che,  pur
non riguardando (a differenza  delle  intercettazioni  "dirette")  le
utenze in uso al soggetto immune, siano comunque mirate a captarne le
comunicazioni, a causa del suo rapporto personale o professionale con
la persona assoggettata al controllo (si  vedano,  in  proposito,  le
sentenze n. 114 e n. 113 del  2010,  n.  390  del  2007,  nonche'  le
ordinanze n. 171 del 2011 e n. 263 del 2010). 
    Nel  caso  in  esame,  l'occasionalita'   delle   intercettazioni
effettuate non e'  in  contestazione  fra  le  parti.  Sia  nell'atto
introduttivo del giudizio che nella  successiva  memoria,  lo  stesso
ricorrente  muove,  infatti,  dall'esplicito   presupposto   che   le
captazioni   dei   colloqui   presidenziali   siano   state   operate
accidentalmente, non prospettando, neppure  in  via  di  ipotesi,  un
intento surrettizio degli inquirenti di  accedere  alla  sfera  delle
comunicazioni del Capo dello  Stato  tramite  il  monitoraggio  delle
utenze in uso all'indagato. 
    Tuttavia, anche aderendo  alla  concorde  qualificazione  operata
dalle parti, cio' non comporta che le  intercettazioni  in  questione
debbano  ritenersi  consentite  e   suscettibili   di   utilizzazione
processuale, sulla base dell'argomento che  quanto  e'  fortuito  non
puo' formare oggetto di divieto.  Difatti,  se  il  fondamento  della
tutela della riservatezza delle comunicazioni  presidenziali  non  e'
l'espressione di  una  presunta  -  e  inesistente  -  immunita'  del
Presidente per i reati extrafunzionali, ma  consiste  nell'essenziale
protezione delle attivita' informali di  equilibrio  e  raccordo  tra
poteri  dello  Stato,  ossia  tra  soggetti  che  svolgono  funzioni,
politiche o di garanzia, costituzionalmente rilevanti, allora si deve
riconoscere che il livello di tutela non si abbassa per effetto della
circostanza,  non  prevista  dagli  inquirenti   e   non   conosciuta
ovviamente  dallo  stesso  Presidente,  che   l'intercettazione   non
riguardi una utenza in uso al Capo dello Stato, ma quella di un terzo
destinatario di  indagini  giudiziarie.  Si  verificherebbe,  secondo
l'opposta  opinione,  la   singolare   situazione   di   una   tutela
costituzionale  che  degrada  in  seguito  a   circostanze   casuali,
imprevedibili anche da parte degli stessi inquirenti. 
    Semmai la distinzione di cui sopra  potrebbe  assumere  rilevanza
per valutare la responsabilita' di chi  dispone  le  intercettazioni,
giacche' diversa e' la posizione di chi deliberatamente  interferisce
in  modo  illegittimo  nella  sfera  di  riservatezza  di  un  organo
costituzionale e di chi si trovi occasionalmente  di  fronte  ad  una
conversazione  captata  nel  corso  di  una  attivita'  di  controllo
legittimamente mirata verso un altro soggetto. 
    Se l'intercettazione e' stata casuale, cioe' non prevedibile  ne'
evitabile, il problema non e' quello  di  affermare  il  suo  divieto
preventivo, che, in via generale, esiste, ma non e' applicabile nella
fattispecie  -  anche  per  le  modalita'  tecniche  della   relativa
esecuzione - proprio per la  casualita'  e  l'imprevedibilita'  della
captazione  (considerazione  che  priva,  tra  l'altro,   della   sua
necessaria premessa logica la richiesta del ricorrente di  dichiarare
che non spettava agli inquirenti non  interrompere  la  registrazione
delle  conversazioni).  La  funzione  di  tutela   del   divieto   si
trasferisce dalla fase anteriore all'intercettazione, in  cui  rileva
la direzione impressa all'atto di indagine dall'autorita' procedente,
a quella posteriore, giacche' si  impone  alle  autorita'  che  hanno
disposto ed effettuato le captazioni l'obbligo di  non  aggravare  il
vulnus alla sfera di riservatezza delle comunicazioni  presidenziali,
adottando  tutte  le  misure  necessarie  e  utili  per  impedire  la
diffusione del contenuto delle intercettazioni. 
    Si tratta di conclusioni perfettamente compatibili con la  logica
dei divieti  probatori  nel  processo  penale,  cui  si  connette  la
sanzione dell'inutilizzabilita' della  prova  (art.  191  cod.  proc.
pen.). Tale sanzione  processuale  opera  a  garanzia  dell'interesse
presidiato  dal  divieto,   a   prescindere   dalla   responsabilita'
dell'inquirente   per   la   violazione   di    regole    procedurali
nell'attivita'  di  acquisizione.  Il  carattere   casuale   di   una
captazione non consentita (si pensi all'episodico contatto, da  parte
di una persona legittimamente sottoposta ad intercettazione,  con  un
soggetto tenuto al segreto professionale) non incide sulla necessita'
di tutela della riservatezza del relativo colloquio. 
    E' chiaro dunque come, specie ai livelli di  protezione  assoluta
che si sono riscontrati riguardo alle  comunicazioni  del  Presidente
della  Repubblica,  gia'  la  semplice  rivelazione   ai   mezzi   di
informazione dell'esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus
che deve  essere  evitato.  Se  poi  si  arrivasse  ad  intraprendere
iniziative processuali suscettibili di  sfociare  nella  divulgazione
dei contenuti delle stesse comunicazioni, la  tutela  costituzionale,
di cui sinora si e' trattato, sarebbe irrimediabilmente e  totalmente
compromessa. Dovere dei giudici - soggetti alla legge, e  quindi,  in
primo luogo, alla Costituzione - e' quello di evitare che cio'  possa
accadere e,  quando  cio'  casualmente  accada,  di  non  portare  ad
ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla  sfera
di riservatezza costituzionalmente protetta. 
    15.- La soluzione del presente conflitto non puo' che fondarsi  -
in base a quanto detto sinora -  sull'affermazione  dell'obbligo  per
l'autorita' giudiziaria procedente di  distruggere,  nel  piu'  breve
tempo,  le  registrazioni  casualmente  effettuate  di  conversazioni
telefoniche del Presidente della Repubblica, che nel caso  di  specie
risultano  essere  quattro,  peraltro  intrattenute  mediante   linee
telefoniche del Palazzo del Quirinale. 
    Lo  strumento  processuale  per  giungere   a   tale   risultato,
costituzionalmente imposto, non puo'  essere  quello  previsto  dagli
artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacche' tali  norme  richiedono  la
fissazione di un'udienza camerale, con la partecipazione di tutte  le
parti del giudizio, i cui difensori, secondo quanto prevede il  comma
6 del citato art. 268,  «hanno  facolta'  di  esaminare  gli  atti  e
ascoltare le registrazioni»,  previamente  depositati  a  tale  fine.
Anche la procedura di distruzione regolata dai commi 2 e 3 del citato
art. 269 e' incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con
la sentenza n. 463 del 1994, sull'adozione del rito  camerale  e  dei
connessi strumenti di garanzia del contraddittorio. 
    Un duplice ordine di motivi conduce ad escludere la  legittimita'
del ricorso agli istituti processuali in questione. 
    In primo luogo, la cosiddetta «udienza di stralcio»,  di  cui  al
sesto comma dell'art. 268 cod. proc. pen., e'  inconferente  rispetto
al caso che ha dato origine  al  conflitto,  essendo  strutturalmente
destinata  alla  selezione  dei  colloqui  che  le  parti   giudicano
rilevanti ai fini dell'accertamento dei fatti per  cui  e'  processo.
Nel caso di specie nessuna valutazione  di  rilevanza  e'  possibile,
alla luce del riscontrato divieto di divulgare, ed a maggior  ragione
di utilizzare in chiave probatoria,  riguardo  ai  fatti  oggetto  di
investigazione,  colloqui  casualmente  intercettati  del  Presidente
della Repubblica. Quanto alla procedura partecipata  di  distruzione,
essa riguarda per definizione conversazioni  prive  di  rilevanza  ma
astrattamente utilizzabili, come risulta dalla clausola di esclusione
inserita, riguardo  alle  intercettazioni  delle  quali  sia  vietata
l'utilizzazione, in apertura del secondo  comma  dell'art.  269  cod.
proc. pen. 
    E' evidente d'altra parte, nella dimensione propria e  prevalente
delle tutele costituzionali, che l'adozione delle procedure  indicate
vanificherebbe  totalmente  e  irrimediabilmente  la  garanzia  della
riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica. 
    Esiste piuttosto un'altra norma processuale - cioe'  l'art.  271,
comma 3, cod. proc. pen., invocato dal ricorrente - che  prevede  che
il  giudice  disponga  la  distruzione  della  documentazione   delle
intercettazioni di  cui  e'  vietata  l'utilizzazione  ai  sensi  dei
precedenti commi dello stesso articolo, in  particolare  e  anzitutto
perche' «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge»,  salvo  che
essa costituisca corpo di reato. Per le ragioni fin  qui  illustrate,
le  intercettazioni  delle   conversazioni   del   Presidente   della
Repubblica ricadono in tale ampia previsione, ancorche' effettuate in
modo occasionale. 
    Quanto alla procedura da seguire, nella citata  disposizione  non
sono contenuti rinvii ad altre norme del codice di rito, e  manca  in
particolare il richiamo all'art. 127, che  invece  e'  operato  nella
contigua previsione dell'art. 269 cod. proc. pen.  Dunque,  la  norma
processuale in questione non impone  la  fissazione  di  una  udienza
camerale "partecipata", e neppure la esclude. 
    La soluzione e' coerente con  l'eterogeneita'  delle  fattispecie
regolate dallo stesso art. 271 cod. proc. pen., consentendo di  tener
conto delle diverse ragioni che sono alla base delle singole  ipotesi
di  inutilizzabilita'.  Questa   puo'   derivare,   per   un   verso,
dall'inosservanza  di  regole  procedurali,  che  prescindono   dalla
qualita' dei soggetti coinvolti e dal contenuto  delle  comunicazioni
captate: tali, in particolare, le prescrizioni degli artt. 267 e 268,
commi 1 e 3, specificamente richiamate dal comma 1 dell'art. 271 cod.
proc. pen., in materia di presupposti e modalita' di esecuzione delle
operazioni. Ma l'inutilizzabilita' puo' connettersi anche  a  ragioni
di  ordine  sostanziale,  espressive   di   un'esigenza   di   tutela
"rafforzata" di determinati colloqui in funzione di  salvaguardia  di
valori e diritti di  rilievo  costituzionale  che  si  affiancano  al
generale interesse alla  segretezza  delle  comunicazioni  (quali  la
liberta'  di  religione,  il  diritto  di  difesa,  la  tutela  della
riservatezza  su  dati  sensibili  ed  altro).  E'  questo  il  caso,
specificamente previsto dal successivo comma 2, delle intercettazioni
di comunicazioni o conversazioni dei soggetti indicati dall'art. 200,
comma  1,  cod.  proc.  pen.  (ministri  di  confessioni   religiose,
avvocati, investigatori privati, medici ed altro), allorche'  abbiano
ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o
professione.   Ma   e'    questo    ovviamente    anche    il    caso
dell'intercettazione, benche' casuale, di  colloqui  del  Capo  dello
Stato, riconducibile, come detto, all'ipotesi  delle  intercettazioni
«eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», cui e'  preliminare
e distinto riferimento (come univocamente emerge  dall'impiego  della
particella disgiuntiva «o») nel comma 1 dell'art. 271: previsione che
si  presta  a  svolgere  un  ruolo  "di  chiusura"  della  disciplina
dell'inutilizzabilita', abbracciando fattispecie preclusive diverse e
ulteriori rispetto a quelle dianzi indicate, ricavabili anche,  e  in
primo luogo, dalla Costituzione. 
    A proposito delle regole da seguire ai fini della distruzione del
materiale inutilizzabile,  il  trattamento  delle  due  categorie  di
intercettazioni   deve    essere    diverso.    Le    intercettazioni
inutilizzabili  per  vizi   di   ordine   procedurale   attengono   a
comunicazioni di per se' non inconoscibili, e  che  avrebbero  potuto
essere legittimamente captate se fosse  stata  seguita  la  procedura
corretta. La  loro  distruzione  puo'  pertanto  seguire  l'ordinaria
procedura camerale, nel contraddittorio fra le parti. Nel caso invece
si  tratti  di   intercettazioni   non   utilizzabili   per   ragioni
sostanziali, derivanti dalla violazione di una protezione  "assoluta"
del colloquio per la qualita' degli interlocutori o per la pertinenza
del  suo  oggetto,  la  medesima  soluzione  risulterebbe  antitetica
rispetto alla ratio della tutela. L'accesso  delle  altre  parti  del
giudizio, con rischio concreto  di  divulgazione  dei  contenuti  del
colloquio anche al di fuori del processo, vanificherebbe  l'obiettivo
perseguito,  sacrificando  i  principi  e  i   diritti   di   rilievo
costituzionale che  si  intende  salvaguardare.  Basti  pensare  alla
conoscenza da parte dei terzi - o, peggio, alla diffusione  mediatica
- dei contenuti di una confessione resa ad  un  ministro  del  culto,
ovvero all'ostensione al difensore della parte civile  del  colloquio
riservato tra  l'imputato  e  il  suo  difensore  (possibile  ove  la
procedura di cui all'art. 271, comma 3, cod. proc. pen. fosse avviata
dopo l'esercizio dell'azione penale). 
    Nelle ipotesi ora indicate - e dunque anche,  a  maggior  ragione
(stante   il   rango   degli   interessi   coinvolti),   in    quella
dell'intercettazione di colloqui presidenziali - deve ritenersi che i
principi tutelati dalla Costituzione non possano  essere  sacrificati
in  nome  di  una  astratta  simmetria  processuale,   peraltro   non
espressamente richiesta dall'art. 271, comma 3, cod. proc.  pen.  Ne'
gioverebbe richiamare, in senso  contrario,  la  sentenza  di  questa
Corte n. 173 del 2009, che ha stabilito  la  necessita'  dell'udienza
camerale,  nel  contraddittorio  delle  parti,  per  procedere   alla
distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati  illegalmente
acquisiti inerenti a comunicazioni telefoniche o telematiche,  ovvero
ad informazioni illegalmente raccolte. A prescindere  da  ogni  altro
possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha  dato  origine  alla
questione  decisa  con  la  suddetta  pronuncia,  di  documenti   che
costituivano essi stessi corpo di reato, esplicitamente esclusi dalla
previsione di distruzione di cui al comma 3 dell'art. 271 cod.  proc.
pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie. 
    16.- Le intercettazioni  oggetto  dell'odierno  conflitto  devono
essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del  giudice,  non
essendo ammissibile, ne' richiesto dallo stesso ricorrente, che  alla
distruzione  proceda  unilateralmente  il  pubblico  ministero.  Tale
controllo e'  garanzia  di  legalita'  con  riguardo  anzitutto  alla
effettiva riferibilita'  delle  conversazioni  intercettate  al  Capo
dello  Stato,  e  quindi,  piu'  in  generale,   quanto   alla   loro
inutilizzabilita', in forza delle norme costituzionali  ed  ordinarie
fin qui citate. 
    Ferma restando la assoluta inutilizzabilita', nel procedimento da
cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni  del  Presidente
della Repubblica, e,  in  ogni  caso,  l'esclusione  della  procedura
camerale "partecipata", l'Autorita' giudiziaria dovra'  tenere  conto
della eventuale  esigenza  di  evitare  il  sacrificio  di  interessi
riferibili a principi costituzionali supremi:  tutela  della  vita  e
della   liberta'    personale    e    salvaguardia    dell'integrita'
costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In
tali estreme ipotesi, la stessa  Autorita'  adottera'  le  iniziative
consentite dall'ordinamento.