ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  12  della
legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei  confronti
delle  persone  pericolose  per  la  sicurezza  e  per  la   pubblica
moralita'), trasfuso nell'art. 15 del decreto legislativo 6 settembre
2011, n.  159  (Codice  delle  leggi  antimafia  e  delle  misure  di
prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di  documentazione
antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13  agosto  2010,
n. 136), promosso dal Tribunale  di  Santa  Maria  Capua  Vetere  con
ordinanza del 21  maggio  2012,  iscritta  al  n.  304  del  registro
ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 21 maggio 2012, il  Tribunale  di
Santa Maria Capua Vetere ha sollevato, in riferimento agli artt. 3  e
24  della  Costituzione,  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 12 della  legge  27  dicembre  1956,  n.  1423  (Misure  di
prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e
per la pubblica moralita') - ora trasfuso nell'art.  15  del  decreto
legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia  e
delle misure di prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di
documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13
agosto 2010, n. 136) - nella parte in cui non prevede che,  nel  caso
di sospensione dell'esecuzione di una misura di prevenzione personale
a causa  dello  stato  di  detenzione  per  espiazione  di  pena  del
sottoposto, il giudice dell'esecuzione debba valutare la  persistenza
della sua pericolosita' sociale  nel  momento  dell'esecuzione  della
misura. 
    Il giudice a quo riferisce di dover decidere  sulla  proposta  di
applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza
speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno  nel  comune
di residenza o di dimora abituale, formulata il 3 febbraio 2011 dalla
Procura della Repubblica di Napoli, Direzione distrettuale antimafia,
ai sensi della legge 27 dicembre 1965, n. 575 (Disposizioni contro le
organizzazioni  criminali  di  tipo  mafioso,  anche   straniere)   -
applicabile ratione temporis alla fattispecie in forza dell'art.  117
del d.lgs. n. 159 del 2011 - nei confronti di una  persona  indiziata
di  appartenere  al  sodalizio  camorrista   denominato   «clan   dei
casalesi». 
    Dal certificato del casellario giudiziale emerge che il  proposto
- attualmente detenuto per espiazione di pena - ha riportato  plurime
condanne definitive  a  pene  detentive,  anche  molto  elevate,  per
delitti di stampo camorristico, e che la sua liberazione e'  prevista
per il 21 maggio 2027 (ossia dopo  circa  quindici  anni  dalla  data
dell'ordinanza di rimessione). 
    Nella  specie,  pertanto,  la  misura  di  prevenzione  personale
dovrebbe  essere  applicata  a  un  soggetto   detenuto   per   reati
precedentemente commessi: ipotesi non regolata dalla  legge  n.  1423
del 1956, che si limita  a  prevedere,  all'art.  11,  secondo  comma
(attuale art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 159 del  2011),  il  diverso
caso della commissione di  un  reato  nel  periodo  di  durata  della
sorveglianza speciale. 
    A fronte di cio', la compatibilita' tra detenzione per espiazione
di pena e misure di prevenzione personali ha formato  oggetto  di  un
contrasto giurisprudenziale, risolto dalle Sezioni unite della  Corte
di cassazione con la sentenza 25 marzo 1993-14  luglio  1993,  n.  6,
secondo  la  quale  occorre  in  materia   distinguere   il   momento
deliberativo, nel quale la misura di prevenzione viene applicata,  da
quello esecutivo, nel quale la misura produce concretamente  effetto.
Lo stato di detenzione in forza di titolo definitivo  e'  compatibile
con l'applicazione della misura,  la  quale  presuppone  soltanto  la
pericolosita'  sociale  attuale  del  soggetto,  non  necessariamente
esclusa dall'espiazione della pena  in  corso;  non  e'  compatibile,
invece, con la sua esecuzione, che deve essere,  pertanto,  differita
al momento di cessazione del predetto stato,  salva  la  possibilita'
per l'interessato di  chiedere  la  revoca  della  misura,  ai  sensi
dell'art. 7, secondo  comma,  della  legge  n.  1423  del  1956  (ora
dell'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011), ove nel frattempo
la sua pericolosita' sociale sia venuta meno. 
    La  soluzione  interpretativa  ora  ricordata   -   costantemente
ribadita dalla giurisprudenza di legittimita'  successiva,  cosi'  da
apparire ormai «assolutamente consolidata»  -  implica,  dunque,  una
scissione  tra  il  momento   nel   quale   il   giudice,   decidendo
sull'applicazione della misura, verifica la sussistenza dei  relativi
presupposti e quello in cui le limitazioni della  liberta'  personale
ad essa connesse vengono concretamente imposte all'interessato:  iato
che puo' risultare particolarmente ampio ove si sia in presenza, come
nella specie, di condanne a pene detentive di lunga durata (e,  ancor
piu', di una condanna all'ergastolo). Di conseguenza, i  detenuti  in
espiazione di  pena  subiscono  le  anzidette  limitazioni  in  epoca
successiva e talora anche assai lontana da quella in cui si e'  avuto
il vaglio della loro pericolosita' sociale, la quale potrebbe  essere
medio tempore venuta a cessare. 
    Ad  avviso  del  Tribunale  campano,  il  rilevato  «automatismo»
indurrebbe a dubitare della legittimita' costituzionale dell'art.  12
della legge n. 1423 del 1956 (attuale art. 15 del d.lgs. n.  159  del
2011),  nella  parte  in  cui  non  prevede,  nell'ipotesi   in   cui
l'esecuzione della misura di prevenzione personale  resti  sospesa  a
causa  dello  stato  di  detenzione  per  espiazione  di   pena   del
sottoposto, il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di  valutare
la   persistenza   della   pericolosita'    sociale    nel    momento
dell'esecuzione, analogamente a quanto e' stabilito dall'art. 679 del
codice di procedura penale per le  misure  di  sicurezza,  anche  non
detentive. 
    Le misure di sicurezza e le misure di prevenzione assolverebbero,
infatti,  alla  stessa  funzione,  che  e'  quella  di  impedire   la
commissione di reati da parte del destinatario  e  di  contenerne  la
pericolosita' sociale, tanto da essere esclusa la  loro  applicazione
cumulativa, ai sensi dell'art. 10  della  legge  n.  1423  del  1956.
Apparirebbe  percio'  irragionevole  e  contrario  al  principio   di
eguaglianza (art. 3 Cost.) riservare ai destinatari delle  misure  di
prevenzione un  trattamento  diverso  da  quello  prefigurato  per  i
destinatari delle misure di sicurezza, prevedendo solo  a  favore  di
questi ultimi, e non anche  dei  primi,  un  vaglio  ufficioso  della
persistenza della pericolosita' sociale nel momento  dell'esecuzione:
pericolosita' che costituisce il comune presupposto  di  entrambe  le
misure e che deve necessariamente  risultare  attuale,  giacche',  in
caso contrario, le restrizioni della liberta' personale connesse alle
misure stesse non troverebbero giustificazione. 
    La facolta' dell'interessato di chiedere la revoca  della  misura
di  prevenzione  ove  venga  meno  la  sua  pericolosita',   prevista
dall'art. 7 della legge n. 1423 del 1956, non sarebbe, d'altro canto,
equiparabile - considerati anche gli oneri economici e i tempi  della
relativa procedura - alla garanzia della verifica  ex  officio  della
permanenza dei presupposti applicativi della misura. Il trasferimento
sull'interessato dell'onere di promuovere un procedimento finalizzato
all'accertamento della sopravvenuta cessazione  della  pericolosita',
nei casi di scissione tra momento deliberativo  e  momento  esecutivo
della misura di prevenzione, si porrebbe, dunque, in contrasto  anche
con le garanzie del diritto di difesa sancite dall'art. 24 Cost. 
    Il  rimettente  rileva,  da  ultimo,  come  la  questione   debba
ritenersi ammissibile nonostante l'abrogazione della  legge  n.  1423
del 1956, espressamente disposta dall'art. 120 del d.lgs. n. 159  del
2011,  giacche',  ai  sensi  dell'art.  117  del   medesimo   decreto
legislativo,  le  disposizioni  della  legge  abrogata  continuano  a
trovare applicazione nei procedimenti di  prevenzione  introdotti  da
proposte formulate prima della data di entrata in vigore  del  citato
decreto (13 ottobre 2011), quale il procedimento in esame. 
    La questione sarebbe, inoltre, rilevante nel giudizio a  quo,  in
quanto la prognosi di pericolosita' che,  allo  stato,  il  Tribunale
rimettente   dovrebbe   formulare   nei   confronti   del   proposto,
costituirebbe fonte della  futura  e  automatica  sottoposizione  del
medesimo ad  una  misura  di  prevenzione  incidente  sulla  liberta'
personale,  senza  che   sia   assicurato   un   successivo   momento
giurisdizionale di controllo della perdurante  pericolosita'  sociale
all'esito dell'espiazione della pena. Proprio la mancata  previsione,
nella normativa vigente, di un simile controllo farebbe  si'  che  la
questione   risulti   «di   decisiva   rilevanza»   nell'ambito   del
procedimento a quo, trattandosi dell'unica sede in cui  la  questione
stessa puo' essere utilmente posta. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile  per  difetto
di rilevanza. 
    Ad avviso  della  difesa  dello  Stato,  la  norma  sottoposta  a
scrutinio non verrebbe affatto in rilievo nel giudizio a quo.  L'art.
12 della legge n. 1423 del 1956 disciplina, infatti, i  rapporti  tra
la misura di prevenzione personale dell'obbligo  di  soggiorno  e  la
detenzione cautelare o definitiva, stabilendo che il tempo  trascorso
in  detenzione  non  e'  computato  nella  durata   dell'obbligo   di
soggiorno; regola, inoltre, la sorte della misura di prevenzione  nei
casi in cui venga successivamente applicata al medesimo soggetto  una
misura di sicurezza detentiva o la liberta' vigilata. 
    Entrambi i precetti sarebbero volti, quindi, a  disciplinare  una
fase successiva rispetto al procedimento di applicazione della misura
di prevenzione, nel corso del quale la questione e' stata  sollevata.
Mancherebbe, di conseguenza, il requisito della pregiudizialita', non
dovendo il giudice a quo fare applicazione della norma censurata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il  Tribunale  di  Santa  Maria  Capua  Vetere  dubita  della
legittimita' costituzionale dell'art.  12  della  legge  27  dicembre
1956, n. 1423 (Misure di  prevenzione  nei  confronti  delle  persone
pericolose  per  la  sicurezza  e  per  la  pubblica   moralita')   -
attualmente trasfuso nell'art. 15 del decreto legislativo 6 settembre
2011, n.  159  (Codice  delle  leggi  antimafia  e  delle  misure  di
prevenzione, nonche' nuove disposizioni in materia di  documentazione
antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13  agosto  2010,
n. 136) - nella parte in  cui  non  prevede  che,  nel  caso  in  cui
l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti  sospesa  a
causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della  persona
ad essa sottoposta, il  giudice  dell'esecuzione  debba  valutare  la
persistenza   della   sua   pericolosita'   sociale    nel    momento
dell'esecuzione della misura. 
    Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe l'art.  3
Cost.,  riservando  ai  destinatari  delle  misure   di   prevenzione
personali un trattamento irragionevolmente diverso e meno  favorevole
rispetto a  quello  stabilito  per  i  destinatari  delle  misure  di
sicurezza, cui l'art. 679 del codice di procedura penale assicura  la
verifica ex officio della persistenza della pericolosita' sociale nel
momento  in  cui  la  misura  va  eseguita.  Si  tratterebbe  di  una
disparita' di trattamento ingiustificata, tenuto conto  della  comune
funzione assolta dalle due categorie di  misure,  che  e'  quella  di
impedire la commissione di reati  da  parte  del  destinatario  e  di
contenerne la pericolosita' sociale. 
    La facolta' dell'interessato di chiedere la revoca  della  misura
di prevenzione, ai sensi dell'art. 7, secondo comma, della  legge  n.
1423 del 1956, nel caso in cui la sua pericolosita' sia venuta  meno,
non sarebbe, d'altro canto,  equiparabile  -  considerati  anche  gli
oneri economici e i tempi della relativa procedura - alla garanzia di
un controllo officioso sulla persistenza dei presupposti  applicativi
della misura. Il trasferimento sulla persona  interessata  dell'onere
di  promuovere   un   procedimento   volto   all'accertamento   della
sopravvenuta cessazione della sua pericolosita' sociale, nei casi  di
scissione tra momento deliberativo e momento esecutivo  della  misura
di prevenzione, si  porrebbe,  dunque,  in  contrasto  anche  con  le
garanzie del diritto di difesa sancite dall'art. 24 Cost. 
    2.- La questione sottoposta all'esame della Corte  trova  la  sua
premessa fondante nelle soluzioni offerte da una giurisprudenza ormai
consolidata al problema  interpretativo  della  compatibilita'  delle
misure di prevenzione  personali  con  lo  stato  di  detenzione  per
espiazione di pena del soggetto che dovrebbe esservi sottoposto (tema
che  non  forma  oggetto  di   espressa   ed   esaustiva   disciplina
legislativa). 
    Come ricorda il giudice rimettente, sull'interrogativo  si  erano
in precedenza formati contrastanti indirizzi giurisprudenziali. 
    Secondo l'orientamento tradizionale e prevalente,  le  misure  di
prevenzione personali dovevano ritenersi applicabili anche a soggetti
ristretti in carcere, giacche', per un verso, anche il detenuto  puo'
risultare socialmente pericoloso e, per altro verso, nulla  autorizza
a considerare certa la prognosi di  esito  positivo  del  trattamento
penitenziario. In tal caso, l'esecuzione della misura di  prevenzione
sarebbe rimasta posposta a quella della pena, salva  la  possibilita'
per l'interessato di chiedere la revoca del provvedimento applicativo
della misura, ai sensi dell'art. 7, secondo  comma,  della  legge  n.
1423 del 1956, ove, medio tempore, la pericolosita'  accertata  fosse
venuta meno. 
    Altro indirizzo reputava, al contrario, incompatibili  le  misure
di prevenzione personali con lo stato di detenzione per espiazione di
pena (non anche con la custodia cautelare, che puo' cessare  in  ogni
momento), sul  rilievo  che  non  potrebbe  considerarsi  socialmente
pericoloso un individuo che - in quanto soggetto alla restrizione  in
carcere e, nel contempo, al trattamento rieducativo -  non  solo  non
potrebbe tenere comportamenti pericolosi per l'ordine e la  sicurezza
pubblica, ma e', altresi', destinatario  degli  effetti  riabilitanti
connessi  al  suddetto  trattamento,  idonei  ad   elidere   la   sua
pericolosita'  residua.  Diversamente  opinando,  d'altra  parte,  il
giudizio di pericolosita' finirebbe per essere  rapportato,  anziche'
alla  situazione  presente,  a  quella  futura  e  incerta   che   si
determinera'  quando  l'espiazione  della  pena  avra'  termine,  con
inevitabile frattura  della  correlazione  temporale  tra  attualita'
della pericolosita' ed applicazione effettiva della misura. 
    Il contrasto giurisprudenziale e'  stato  risolto  dalle  Sezioni
unite della Corte di cassazione con  la  sentenza  25  marzo  1993-14
luglio  1993,  n.  6,  nel  senso   della   conferma   dell'indirizzo
maggioritario, con alcune puntualizzazioni. 
    Le Sezioni unite hanno in particolare rilevato che, alla luce del
quadro sistematico delineato dalla  normativa  di  base  in  tema  di
misure di prevenzione, recata dalla legge n. 1423 del 1956, si  rende
necessario distinguere la  fase  di  deliberazione,  nella  quale  la
misura viene disposta (regolata negli articoli da 1 a 6),  da  quella
di esecuzione, nella quale la misura  produce  concretamente  effetto
(di cio' si occupano i successivi articoli da 7 a 12). L'applicazione
delle misure di prevenzione personali  non  puo'  essere  considerata
incompatibile con lo stato di detenzione per  titolo  definitivo  del
soggetto interessato, giacche' la sola  condizione  richiesta  a  tal
fine e' la pericolosita' sociale, da  accertare  con  riferimento  al
momento  in  cui  viene  emessa  la   decisione   che   la   afferma:
pericolosita' che non e' necessariamente elisa dall'espiazione  della
pena in corso, anche perche' la detenzione, di per  se'  stessa,  non
elimina totalmente i contatti con il mondo esterno. 
    L'incompatibilita' tra misura di prevenzione personale e stato di
detenzione si manifesta, per  converso,  esclusivamente  in  rapporto
alla fase esecutiva, che andra', dunque, necessariamente differita al
momento in cui detto stato sia venuto a cessare.  Come  precisato  da
altre pronunce espressive dell'orientamento  avallato  dalle  Sezioni
unite, tale assunto trova conferma nel disposto  dell'art.  12  della
legge n. 1423  del  1956  -  ossia  nella  norma  oggi  sottoposta  a
scrutinio, da ritenere percio' conferente rispetto all'oggetto  della
questione - ove si stabilisce, tra l'altro, che il tempo trascorso in
custodia cautelare seguita  da  condanna  o  in  espiazione  di  pena
detentiva non e' computabile nella durata dell'obbligo di soggiorno. 
    L'impossibilita' di una esecuzione  attuale  -  ha  ulteriormente
osservato  il  supremo  organo  della  nomofilachia  -  non   esclude
l'interesse ad adottare la misura,  essendo  concreta  l'esigenza  di
predisporre   le   condizioni   affinche'   questa    possa    essere
immediatamente eseguita, «senza il rischio di pericolose  dilazioni»,
nel momento stesso in cui il detenuto riacquista la  liberta':  tanto
piu' ove si consideri che tale evento puo' intervenire  prima  ancora
della completa espiazione della pena, in forza di istituti  quali  la
liberazione anticipata o il rinvio dell'esecuzione della pena stessa.
Di conseguenza, una volta che  la  pericolosita'  sociale  sia  stata
riconosciuta esistente al momento della  decisione,  la  misura  deve
essere disposta, senza che possa venire in considerazione,  in  senso
contrario, l'eventualita' di futuri mutamenti della personalita'  del
soggetto, in particolare come conseguenza del trattamento rieducativo
cui e' sottoposto durante la detenzione. 
    Nel  caso  in  cui,  a  seguito  di  detto  trattamento  o  della
sottrazione della persona all'ambiente  in  cui  manifestava  la  sua
inclinazione  a  delinquere,   la   pericolosita'   sociale   venisse
effettivamente meno in un momento  successivo  all'irrogazione  della
misura, resterebbe peraltro salva  la  possibilita'  di  attivare  la
procedura prevista dall'art. 7, secondo comma, della  legge  n.  1423
del 1956, ove  si  stabilisce  che,  su  istanza  dell'interessato  e
sentita   l'autorita'   di   pubblica   sicurezza   proponente,    il
provvedimento di prevenzione puo' essere revocato quando sia  cessata
la causa che lo ha determinato. 
    L'indirizzo interpretativo ora ricordato e' stato seguito in modo
costante dalla giurisprudenza di legittimita' successiva e  ribadito,
piu' di recente, dalle stesse Sezioni  unite  (Cass.,  sez.  un.,  25
ottobre  2007-6  marzo  2008,  n.  10281),  cosi'  da   assumere   le
connotazioni del "diritto vivente". 
    3.-   Cio'   premesso,    va    osservato    che    non    incide
sull'ammissibilita'   della    questione    l'avvenuta    abrogazione
dell'intera legge n. 1423 del 1956 ad opera dell'art. 120,  comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 159 del 2011  (il  cui  art.  15  riproduce
peraltro,  senza  significative  variazioni,  il  testo  della  norma
censurata). 
    Come  rimarcato  dal  Tribunale  rimettente,  infatti,  le  norme
previgenti continuano a trovare applicazione nel procedimento  a  quo
in forza della disciplina transitoria dettata dall'art. 117, comma 1,
del citato decreto legislativo, giacche' la proposta di  applicazione
della misura e' stata formulata, nella specie, in  data  anteriore  a
quella di entrata in vigore del medesimo decreto. 
    4.- Non e' fondata,  altresi',  l'eccezione  di  inammissibilita'
della questione per difetto di rilevanza,  formulata  dall'Avvocatura
dello  Stato  sul  rilievo  che  la  norma  denunciata  -   o,   piu'
propriamente, la previsione che il rimettente vorrebbe introdurvi  in
via additiva - sarebbe destinata a divenire operante solo in una fase
successiva a quella di applicazione della misura, di cui il giudice a
quo  e'  investito,  con  conseguente  carenza  del  requisito  della
pregiudizialita'. 
    Questa Corte si e' gia'  occupata  di  questioni  strutturalmente
analoghe in rapporto alle misure di sicurezza, in particolare con  le
sentenze n. 1102 del 1988 e n. 249 del  1983,  che,  come  meglio  si
esporra' poco oltre, hanno vagliato  la  legittimita'  costituzionale
dell'originaria disciplina del codice  penale,  nella  parte  in  cui
subordinava il ricovero in  una  casa  di  cura  e  di  custodia  del
condannato a pena diminuita per vizio parziale  di  mente  al  previo
accertamento della sua pericolosita' sociale solo nel momento in  cui
la misura era disposta, e non anche in quello  della  sua  esecuzione
(che ha luogo, di regola, solo dopo l'espiazione della pena). 
    In entrambi  i  casi,  la  Corte  ha  scrutinato  nel  merito  le
questioni, accogliendole, ancorche' le stesse fossero state sollevate
nell'ambito di processi penali di cognizione. Nella sentenza n.  1102
del 1988, la Corte ha espressamente affermato che  la  questione  era
rilevante, giacche', «una volta chiarito  che  la  norma  di  cui  si
[doveva] fare applicazione nel caso di specie porta[va] a considerare
esaurito l'accertamento della pericolosita' sociale  "al  momento  in
cui la misura di sicurezza della casa di cura  e  di  custodia  viene
disposta  dal   giudice   di   cognizione"»,   la   declaratoria   di
illegittimita'  costituzionale  avrebbe  privato  del  carattere   di
definitivita'   l'accertamento    compiuto    da    detto    giudice,
«condizionandone il concreto operare ad un ulteriore accertamento  da
compiere "al momento dell'esecuzione"». 
    La  considerazione  e'  riproponibile  -   mutatis   mutandis   -
nell'odierno   frangente.   Alla    stregua    della    ricostruzione
giurisprudenziale  sopra  ricordata,  infatti,  l'accertamento  della
pericolosita' sociale del detenuto, compiuto in sede di  applicazione
della  misura  di  prevenzione,  risulterebbe  idoneo  a  legittimare
l'imposizione delle limitazioni connesse alla misura  anche  in  fase
esecutiva,  salvo  che  venga  esperito  con  successo   il   rimedio
dell'istanza  di  revoca,  rimesso  peraltro   all'iniziativa,   solo
eventuale, dell'interessato (e che, proprio per questo, il rimettente
reputa costituzionalmente inadeguato). Per  converso,  l'accoglimento
della questione priverebbe la decisione adottata in sede  applicativa
della  suddetta   idoneita',   rendendo   necessario   un   ulteriore
accertamento, da compiere indefettibilmente e d'ufficio allorche'  la
misura debba essere concretamente posta in esecuzione. 
    5.- Quanto al merito, la  questione  e'  fondata  in  riferimento
all'art. 3 Cost., nei termini di seguito specificati. 
    Il problema della legittimita' costituzionale di norme basate  su
presunzioni di persistenza nel tempo della pericolosita'  sociale  di
un determinato soggetto, accertata giudizialmente con riferimento  ad
un momento anteriore, si e' posto specificamente all'attenzione della
Corte - come gia' accennato -  in  rapporto  alla  materia  parallela
delle misure di sicurezza. 
    E' noto come, nell'impostazione  originaria  del  codice  penale,
l'applicazione delle misure di sicurezza, che in linea  di  principio
presupponeva l'accertamento giudiziale  della  pericolosita'  sociale
(art. 204, primo comma, del codice penale), poggiasse, in una nutrita
serie di ipotesi, su presunzioni legali di  pericolosita',  collegate
alla sussistenza di determinati presupposti, in presenza dei quali il
predetto accertamento giudiziale veniva  omesso  (art.  204,  secondo
comma, cod. pen.). 
    Investita a piu' riprese di  questioni  intese  a  contestare  la
conformita'  a  Costituzione  di  tale  regime,  la  Corte  dichiaro'
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 224,  secondo  comma,  cod.
pen., che  prevedeva  l'obbligatorio  e  automatico  ricovero  in  un
riformatorio giudiziario del  minore  infraquattordicenne  autore  di
determinati reati, ritenendo la relativa presunzione di pericolosita'
priva di fondamento empirico e lesiva del  principio  di  eguaglianza
(sentenza n. 1 del 1971). 
    Con riguardo, invece, alla pericolosita' degli infermi di  mente,
la  Corte  reputo'  censurabile,   sul   piano   della   legittimita'
costituzionale,  non  la  presunzione  di  pericolosita'  in  se'   -
collegata dalla legge all'infermita' psichica, in presenza di  talune
condizioni - ma solo la presunzione di persistenza dell'infermita', e
quindi della pericolosita',  dal  momento  del  fatto  a  quello  del
giudizio e dell'esecuzione della misura. 
    La Corte si espresse in  tal  senso  anzitutto  con  riguardo  al
ricovero   obbligatorio   in   ospedale   psichiatrico    giudiziario
dell'imputato  prosciolto  per  vizio  totale  di   mente,   previsto
dall'art. 222, primo comma, cod. pen. (sentenza  n.  139  del  1982).
Nell'occasione, rilevo' che la disciplina censurata, in tanto avrebbe
potuto  dirsi  indenne  da  vizi  di  costituzionalita',  in   quanto
l'infermita' psichica esistente al momento del fatto - cui  la  legge
ricollegava  una  presunzione  di  pericolosita'  compatibile  con  i
criteri di comune esperienza - fosse rimasta inalterata al momento di
applicazione ed esecuzione della misura di  sicurezza  (la  vicinanza
temporale  tra  le  quali  era  di  regola  garantita  dall'immediata
esecutivita'  delle  sentenze  di  proscioglimento  per  difetto   di
imputabilita'). Ma  la  presunzione  di  persistenza  dell'infermita'
psichica  (e,  con  essa,  della  pericolosita'),   senza   mutamenti
significativi, dal momento del delitto a quello del  giudizio  doveva
ritenersi priva di base razionale, non potendo predicarsi come regola
generale d'esperienza, valida per ogni caso di infermita'  totale  di
mente, quella del perdurare in modo costante dello stato di malattia. 
    Con la successiva e gia' citata sentenza  n.  249  del  1983,  la
Corte si occupo' del ricovero obbligatorio e automatico in  una  casa
di cura e di custodia dell'imputato condannato a pena  diminuita  per
vizio parziale di mente in rapporto a determinati delitti (art.  219,
primo  e  secondo  comma,  cod.   pen.).   La   Corte   rilevo'   che
l'irrazionalita' della presunzione di persistenza  dell'infermita'  -
gia' riscontrata dalla citata sentenza n. 139 del 1982  con  riguardo
al prosciolto per totale  infermita'  mentale  -  a  maggior  ragione
doveva ravvisarsi nell'ipotesi di vizio parziale: da un lato, perche'
in  tal  caso  la  possibilita'  di  una  evoluzione  positiva  della
patologia e' generalmente maggiore; dall'altro,  perche'  «mentre  in
caso di totale infermita' psichica  la  vicinanza  temporale  tra  il
giudizio  e  l'esecuzione  della  misura  e',  nell'ipotesi  normale,
assicurata   dalla   immediata   esecutivita'   della   sentenza   di
proscioglimento   per   inimputabilita',   nel   caso    di    specie
l'applicazione della misura consegue ad una condanna  (definitiva)  a
pena diminuita; dopo l'eventuale espletamento, quindi, dei vari gradi
di giurisdizione, e,  normalmente,  dopo,  e  non  prima,  la  stessa
espiazione  della  pena  (art.  220  codice   penale).   Tutto   cio'
evidentemente comporta, o puo' comportare,  un'ulteriore  dilatazione
dell'intervallo  temporale   tra   il   momento   cui   e'   riferito
l'accertamento della seminfermita' psichica e  quello  in  cui  viene
applicata la misura di  sicurezza,  la  quale  e',  per  definizione,
finalizzata (anche) alla cura». 
    Sulla base di tali considerazioni, la  Corte  dichiaro',  quindi,
costituzionalmente illegittime le norme censurate nella parte in  cui
non subordinavano il provvedimento di ricovero in una casa di cura  e
di custodia, nei casi ivi previsti, «al previo accertamento da  parte
del giudice della persistente pericolosita' sociale  derivante  dalla
infermita' [psichica], al tempo  dell'applicazione  della  misura  di
sicurezza»: laddove, alla  luce  dei  passaggi  motivazionali  dianzi
riprodotti,  per  tempo  di  «applicazione»   della   misura   doveva
chiaramente intendersi quello  di  applicazione  concreta,  ossia  il
momento di esecuzione. 
    La stessa soluzione - e  con  espresso  riferimento  stavolta  al
momento esecutivo - e' stata poi adottata dalla sentenza n. 1102  del
1988, parimenti gia' citata, con riguardo al ricovero del  seminfermo
di mente in una casa di cura e di  custodia  nei  casi  previsti  dal
terzo comma dello stesso art. 219 cod. pen. Nell'occasione, la  Corte
ritenne di dover aderire all'interpretazione del giudice  a  quo  (la
Corte di cassazione), secondo la quale il sopravvenuto art. 31  della
legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge  sull'ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
della liberta'), nell'abolire il sistema delle presunzioni legali  di
pericolosita' in materia di misure di sicurezza,  non  aveva  risolto
anche il problema della sfasatura  temporale  che  puo'  esistere  (e
normalmente esiste) tra il momento in cui la misura e'  ordinata  dal
giudice della  cognizione  e  quello  in  cui  la  misura  stessa  va
eseguita, mancando una previsione esplicita che imponesse al  giudice
di riesaminare la persistenza della pericolosita' sociale nel momento
esecutivo. Su tale premessa, la Corte  rilevo'  come  l'«esigenza  di
verificare  l'effettivo  persistere   della   pericolosita'   sociale
derivante   dalla   seminfermita'   psichica   anche   nel    momento
dell'applicazione e, quindi, della concreta esecuzione  della  misura
di sicurezza» - esigenza gia' affermata dalla  sentenza  n.  249  del
1983 con  riguardo  alle  ipotesi  del  primo  e  del  secondo  comma
dell'art. 219 cod. pen., nelle quali era originariamente prevista una
presunzione di  pericolosita'  sociale  del  seminfermo  di  mente  -
sussistesse a piu' forte  ragione  nelle  ipotesi  del  terzo  comma,
relativamente alle quali, per la minore gravita' dei delitti presi in
considerazione, fin dall'inizio il codice penale imponeva il concreto
accertamento della qualita' di  persona  socialmente  pericolosa  del
condannato. 
    In relazione alle misure di sicurezza, il problema della verifica
della persistenza della pericolosita' sociale e' stato quindi risolto
in via definitiva dal legislatore con l'art. 679 del nuovo codice  di
procedura  penale,  evocato  dall'odierno  rimettente  quale  tertium
comparationis. Ivi si stabilisce - per quanto  qui  interessa  -  che
«quando una misura di sicurezza  diversa  dalla  confisca  e'  stata,
fuori dei casi previsti nell'articolo 312, ordinata con  sentenza,  o
deve essere ordinata successivamente, il magistrato di  sorveglianza,
su  richiesta  del  pubblico  ministero  o  di  ufficio,  accerta  se
l'interessato  e'  persona  socialmente   pericolosa   e   adotta   i
provvedimenti conseguenti». In tal modo - salvi  i  casi  in  cui  la
misura di sicurezza sia  applicata  direttamente  dal  magistrato  di
sorveglianza - la valutazione di pericolosita' sociale dovra'  essere
effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine  di
verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza;
poi dal magistrato di sorveglianza, quando la  misura  gia'  disposta
deve  avere  concretamente  inizio,  in  modo   tale   da   garantire
l'attualita'  della  pericolosita'   del   soggetto   colpito   dalle
restrizioni della liberta' personale connesse alla misura stessa. 
    6.- Alla luce del consolidato orientamento  della  giurisprudenza
di legittimita'  in  precedenza  ricordato,  il  regime  operante  in
rapporto alle misure di  prevenzione  personali  e'  diverso  e  meno
favorevole. 
    Infatti, nell'ipotesi in cui, per essere  l'interessato  detenuto
in espiazione di pena, si determini uno iato temporale tra il momento
di  deliberazione  e  quello  di  esecuzione  della  misura  -   iato
normalmente  inesistente  negli  altri  casi,  anche  a  fronte   del
carattere non sospensivo  dei  gravami  contro  il  provvedimento  di
applicazione (art. 4, decimo e undicesimo comma, della legge n.  1423
del 1956), - l'accertamento della  pericolosita'  sociale  ha  luogo,
obbligatoriamente, solo  nel  primo  momento.  In  altre  parole,  la
verifica  della  pericolosita'  sociale,  operata   nell'ambito   del
procedimento  di  applicazione  della   misura,   viene   considerata
sufficiente  a  fondare  le  limitazioni  della  liberta'   personale
implicate dalla stessa  anche  nel  momento  in  cui  -  a  qualunque
distanza di tempo - ne  divenga  possibile  l'esecuzione  in  ragione
dell'avvenuta cessazione dello stato detentivo. Cio',  sebbene  nelle
more la persona interessata sia soggetta a restrizione in carcere  e,
conseguentemente,  al   trattamento   penitenziario,   specificamente
finalizzato al suo  recupero  sociale,  in  attuazione  del  precetto
costituzionale che assegna alla pena una funzione  rieducativa  (art.
27, terzo comma, Cost.). 
    E' ben vero che - diversamente da quanto avveniva per  le  misure
di sicurezza, in base all'originaria disciplina del codice  penale  -
non puo'  nella  specie  parlarsi  di  una  presunzione  assoluta  di
persistenza della pericolosita', stante la facolta', che  l'indirizzo
giurisprudenziale in questione riconosce alla persona cui  la  misura
di prevenzione sia stata applicata, di contestare  detta  persistenza
proponendo istanza di revoca della  misura.  Ma  la  possibilita'  in
questione  -  che  presuppone   il   trasferimento   sull'interessato
dell'onere di  attivare  un  procedimento  inteso  a  verificare,  in
negativo, l'attuale inesistenza della pericolosita', quale condizione
per sfuggire al delineato "automatismo" -  non  vale  ad  evitare  il
denunciato vulnus dell'art. 3 Cost. 
    Questa Corte ha avuto modo di affermare, in piu'  occasioni,  che
la comune finalita' delle misure  di  sicurezza  e  delle  misure  di
prevenzione - volte entrambe a prevenire la commissione di  reati  da
parte di soggetti socialmente pericolosi e a  favorirne  il  recupero
all'ordinato vivere civile (sentenza n. 69 del 1975, ordinanza n. 124
del 2004), al punto da poter essere considerate come «due species  di
un unico genus» (sentenze n. 419 del 1994 e n. 177 del  1980)  -  non
implica, di per se' sola, un'indiscriminata  esigenza  costituzionale
di  omologazione  delle  rispettive  discipline,  posto  che  le  due
categorie di misure  restano  comunque  distinte  per  diversita'  di
struttura, settore di competenza, campo e modalita'  di  applicazione
(sentenze n. 321 del 2004, n. 126 del 1983 e n. 68 del 1964). 
    Nella specie, risulta tuttavia dirimente  la  considerazione  che
tra i due modelli che il giudice a quo  pone  a  raffronto  -  quello
delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione  della  verifica
della pericolosita'  sociale  anche  al  momento  dell'esecuzione,  e
quello delle misure di  prevenzione,  che  considera  sufficiente  la
verifica operata in fase applicativa,  salva  l'eventuale  iniziativa
dell'interessato intesa  a  contrastarla  -  l'unico  rispondente  ai
canoni dell'eguaglianza e della ragionevolezza e' il primo. 
    Ne  costituisce  dimostrazione  eloquente  il  caso  oggetto  del
giudizio a quo, nel quale il Tribunale rimettente si trova chiamato a
disporre  una  misura  di  prevenzione  personale  che  potra'  avere
esecuzione, in base alle attuali previsioni, solo dopo circa quindici
anni di espiazione di pena  detentiva  da  parte  del  proposto  (ma,
naturalmente, sono prospettabili casi  ancora  piu'  eclatanti,  come
quello del condannato all'ergastolo, al quale  la  giurisprudenza  di
legittimita' ritiene egualmente applicabili le misure di  prevenzione
personali,   nella   prospettiva   di   una   possibile   liberazione
condizionale). Gia' in linea generale, il decorso di un  lungo  lasso
di  tempo  incrementa  la  possibilita'  che  intervengano  modifiche
nell'atteggiamento  del  soggetto  nei  confronti  dei  valori  della
convivenza civile: ma a maggior ragione cio' vale quando  si  discuta
di persona che, durante tale lasso temporale,  e'  sottoposta  ad  un
trattamento specificamente volto alla sua  risocializzazione.  Se  e'
vero, in effetti, che non puo' darsi per scontato  a  priori  l'esito
positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora
puo' giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione  -  sia  pure
solo iuris tantum - di persistenza della  pericolosita'  malgrado  il
trattamento, che equivale alla negazione della sua  stessa  funzione:
presunzione che risulta, per converso, sostanzialmente insita  in  un
assetto che attribuisca alla verifica della pericolosita' operata  in
fase applicativa una efficacia sine die, salvo che non intervenga una
sua  vittoriosa  contestazione  da  parte   dell'interessato.   Cio',
quantunque la  pericolosita'  sociale  debba  risultare  attuale  nel
momento in cui la misura viene eseguita, giacche', in caso contrario,
le limitazioni della liberta' personale nelle quali la misura  stessa
si sostanzia rimarrebbero carenti di ogni giustificazione. 
    7.- L'art. 12  della  legge  n.  1423  del  1956  va  dichiarato,
pertanto, costituzionalmente  illegittimo  nella  parte  in  cui  non
prevede  che,  nel  caso  in  cui  l'esecuzione  di  una  misura   di
prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione
per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l'organo che
aveva adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche
d'ufficio,    la    persistenza    della    pericolosita'     sociale
dell'interessato  nel  momento  dell'esecuzione  della   misura.   Il
riferimento del Tribunale rimettente  al  «giudice  dell'esecuzione»,
come  organo   competente   a   verificare   la   persistenza   della
pericolosita',  non  appare,   in   effetti,   corretto   sul   piano
sistematico, giacche' in materia di misure di  prevenzione  personali
non e' prevista una fase giudiziaria di  esecuzione,  essendo  questa
demandata, in via esclusiva, all'autorita' di pubblica sicurezza.  Di
qui, dunque, l'esigenza di fare riferimento all'organo che ha emanato
il provvedimento di applicazione della  misura,  sulla  falsariga  di
quanto previsto dall'art. 7, secondo comma, della legge n.  1423  del
1956, in rapporto alla  revoca  o  alla  modifica  del  provvedimento
stesso: il che non muta, peraltro, la sostanza, dovendo detta formula
essere  interpretata  -   alla   luce   dei   correnti   orientamenti
giurisprudenziali - in senso sintonico  al  disposto  dell'art.  665,
commi 1 e 2, cod. proc. pen., in tema di individuazione  del  giudice
competente a decidere gli incidenti di esecuzione. 
    Ai sensi dell'art. 27 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  la
dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  va   estesa,   nei
medesimi termini, all'art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011, nel  quale,
come  detto,  la  disposizione  censurata  e'  stata  trasfusa  senza
significative variazioni. 
    E'  appena  il  caso   di   aggiungere   che   restera'   rimessa
all'applicazione  giudiziale  l'individuazione  delle  ipotesi  nelle
quali la reiterazione  della  verifica  della  pericolosita'  sociale
potra' essere ragionevolmente omessa, a  fronte  della  brevita'  del
periodo di differimento dell'esecuzione della misura  di  prevenzione
(si pensi al caso limite in cui la persona alla quale  la  misura  e'
stata applicata si trovi a dover scontare solo pochi giorni  di  pena
detentiva). 
    8.- La censura relativa all'art. 24 Cost. resta assorbita.